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Persona, immagine e libertà. Cusano e il processo di autoformazione speculare dello spirito

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Academic year: 2021

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Il Pensiero

rivista di filosofia

Anno 2020 | Volume LIX | Fascicolo 1

Pensare con Cusano

Marco Moschini

Harald Schwaetzer

Enrico Peroli

Isabelle Mandrella

Gianluca Cuozzo

Martin Thurner

Tilman Borsche

Claudia D’Amico

Marie-Anne Vannier

Elena Filippi

Federica De Felice

Andrea Di Giampaolo

Francesco Panizzoli

Vincenzo Vitiello

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diretta da Vincenzo Vitiello e Massimo Adinolfi.

Comitato scientifico internazionale: Massimo Cacciari, Félix Duque, Jean-François Kervégan, Thomas Rentsch, Volker Rühle, Carlo Sini, Hans Vorländer. Direzione scientifica: Piero Coda, Florinda Cambria, Giannino Di Tommaso, Mas-simo Donà, Luca Illetterati, Valerio Rocco Lozano, Rocco Ronchi, Luigi Vero Tarca.

Redazione: Alessandro Apruzzese, Michele Capasso, Ernesto Forcellino, Giulio Goria, Davide Grossi, Lucilla Guidi, Chiara Maggese, Anna Parente, Giacomo Petrarca, Filippo Silva.

Anno 2020 | Volume LIX | Fascicolo 1 © 2020, Vincenzo Vitiello

Edizioni Inschibboleth - Roma Periodico semestrale

ISSN cartaceo 1824-4971

ISBN cartaceo 978-88-5529-097-5

ISBN ebook 978-88-5529-098-2

Registrazione: Tribunale di Rieti, n. 3/2015; precedente registrazione: Tribunale di Rieti, n. 2/1978. Deposito legale: febbraio 2017. Proprietario della testata: Vincen-zo Vitiello. Editore: Inschibboleth società cooperativa - Roma. Direttore responsa-bile: Francesco Cundari. Impaginazione: Inschibboleth società cooperativa. Stam-pato in Italia presso Mediagraf SpA – Noventa Padovana. Sede della pubblicazio-ne: Rieti. Indirizzo per la corrispondenza: Inschibboleth società cooperativa, Via G. Macchi 94, 00133, Roma - Italia, e-mail: redazione@inschibbolethedizio-ni.com, web: www.inschibbolethedizioni.com.

La rivista Il Pensiero ha adottato un sistema di referaggio conforme agli standard internazionali. La proposta di articoli per la pubblicazione dev’essere inviata alla redazione della casa editrice in forma-to elettronico all’indirizzo redazione@inschibbolethedizioni.com, specificando il nome e il numero della rivista per cui si propone la pubblicazione. Gli autori dovranno certificare che il loro testo non è mai stato pubblicato, né simultaneamente sottoposto o già accettato per altre pubblicazioni. Tutti saggi e le recensioni dovranno essere di massimo 45000 battute, spazi e note incluse. Dovranno, inoltre, essere accompagnati da un abstract di massimo 1500 battute (l’abstract non è richiesto per le recensioni). Dopo una prima lettura la segreteria di redazione invia la proposta di articolo per un esame critico a due lettori anonimi (peer review) per la valutazione dei contributi proposti per la pubblicazione. Gli esiti della valutazione (accettato, rifiutato, proposta di modifica) vengono comuni-cati in seguito all’autore. Le recensioni saranno valutate dalla redazione senza referaggio.

I temi dei prossimi numeri e le scadenze entro cui inviare gli articoli da proporre per la pubblicazione sono disponibili all’indirizzo: http://www.inschibbolethedizioni.com/riviste/il-pensiero.

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Il Pensiero

rivista di filosofia

LIX - 2020/1

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Al Lettore

Saggi

Marco Moschini, La verità, il mondo e i livelli qualificati della

mente. Una proposta speculativa nel pensare con Cusano

Harald Schwaetzer, Manuductio. Una breve introduzione ai

concetti fondamentali del pensiero di Cusano

Enrico Peroli, Cusano e i nomi di Dio

Isabelle Mandrella, Viva imago. L’antropologia di Niccolò

Cu-sano

Gianluca Cuozzo, Persona, immagine e libertà. Cusano e il

pro-cesso di autoformazione speculare dello spirito

Martin Thurner, Pensare per immagini. La filosofia simbolica

di Cusano

Tilman Borsche, Parlare tra fratelli. Il significato filosofico del

dialogo in Cusano

Claudia D’Amico, Cusano e la tradizione platonica Marie-Anne Vannier, Cusano e Meister Eckhart

Elena Filippi, Il pensiero di Dio e dell’uomo attraverso

l’espe-rienza dell’arte: viatico cusaniano

Federica De Felice, Cusano e la scienza

Andrea Di Giampaolo, Niccolò Cusano e l’Islam

Francesco Panizzoli, Niccolò Cusano: un pensiero

“intuizioni-sta” ante litteram?

p. 9 » 11 » 27 » 51 » 71 » 91 » 113 » 131 » 147 » 167 » 177 » 197 » 211 » 231

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Vincenzo Vitiello, Emanuele Severino, un grande Maestro

Fascicolo a cura di Marco Moschini e Enrico Peroli

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Cusano e il processo di autoformazione speculare dello spirito

Gianluca Cuozzo

1. Introduzione

Persona e libertà. Si tratta di un nesso apparentemente moderno, almeno nella sua esplicita formulazione. Esso, tuttavia, nell’opera di Cusano trova un importante luogo teorico di rielaborazione filosofica; in senso onto- teologico, certamente, ma anche esistenziale. Esso, a sua volta, rimanda al concetto d’immagine, che è uno dei momenti più innovativi della filosofia cusaniana. È nell’imago, infatti, che la persona si realizza; è nel diastema tra archetipo e copia (nello zwischen tra Urbild-Ebenbild), per così dire, che si colloca il farsi libero della persona. Di una persona, come si vedrà, intesa come essere in cammino, in divenire – sebbene il télos sia sempre pensabile solo come asin-totico, inarrivabile; o, ancora, come Sein-sollen, quale oggetto del desiderium

intellectuale1, della Sehnsucht, di una tensione (nostalgica, fondata nella radice

più profonda dello spirito creato) al proprio ideale, sulla base di una traccia di trascendenza colta incoativamente – nella forma di una praegustatio

ingu-stabilis2, simile alla virtù del ferro in cui è contenuta «quaedam praegustatio

naturalis ipsius magnetis»3 – nel profondo della nostra costituzione creaturale

ad Dei imaginem.

In Marsilio Ficino, quale originale esegeta di «quaedam speculationes Nicolai Cusani Cardinali»4, questa concezione dello spirito creato in fieri si

collegherà non a caso alla questione dell’immortalità dell’anima: il divenire etico della persona (per cui si potrebbe parlare, parafrasando una celebre opera di Xavier Tilliette5, di un personnalisme en devenir) riguarda anche la

1 De docta ign., III, 12: h I, p. 160, lin. 9. Per le opere di Cusano, si fa riferimento all’edizione

critica: Nicolai de Cusa Opera omnia iussu et auctoritate Academiae Litterarum Heidelbergensis ad codicum fidem edita (= h), 20 voll., Meiner, Leipzig (poi Hamburg) 1932 ss.

2 De sap., II: h 2V, n. 10, lin. 15.

3 De sap., II: h 2V, n. 10, lin. 15-16.

4 E. Garin, Storia della filosofia italiana, Einaudi, Torino 1966, vol. I, p. 381.

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sua condizione post mortem, l’immortalità giustificandosi – in un senso quasi proto-kantiano – come un postulato di ordine etico. Di fatto, è un’esigenza razionale pensare che il percorso di perfezionamento etico della persona si distenda, oltre la morte, in quel tempo impensabile – caratterizzato dalla coin-cidenza meta-razionale di moto e di quiete – della vita immortale dell’anima, lungo tutta la sua durata sine misura nell’eternità.

Grazie a questa forza dello spirito, capace di plasmare se stesso e il mondo attraverso i secoli e le generazioni, l’uomo infine, scrive Ficino,

misura la terra e il cielo e scruta le profonde oscurità del Tartaro. Il cielo non gli sembra altissimo, per usare le parole di Mercurio, né il centro della terra profon-do. Le distanze temporali o spaziali non gli impediscono di percorrere tutte le cose che esistono in qualunque tempo o luogo. Nessuna parete frena o ottunde il suo intuito. Nessun limite gli è sufficiente. Ovunque cerca di dominare, ovunque di essere lodato. E proprio così si sforza di essere, come Dio, ovunque [atque ita

conatur esse, ut Deus, ubique].6

2. Formatività artistica, scarto immaginale e deificazione “en devenir”: Cusano

e Michelangelo

Questa dottrina dinamica (o dialettica) della persona si radica in una con-cezione qualitativa della temporalità: la persona come processo di auto-per-fezionamento continuo, che diviene nel tempo. Lo si evince dall’enigma degli specchi del De filiatione Dei (1445), in cui le singole menti – come specchi variamente contratti, più o meno puri e perfetti – sono in grado di correggere la loro curvatura, mondare la propria superficie (sempre alterata da un fattore irriducibile di contingenza) e orientarsi frontalmente rispetto allo speculum centrale, infinito e sine macula dell’absoluta veritas7. Ora, lo spazio di questo

divenire qualitativo è offerto dall’immagine – concetto cardine della metafisica cusaniana, come aveva ben inteso Giovanni Santinello nel coniare la formula dell’«immaginismo del Cusano»8. L’imago è il luogo di questa conversione

del-lo spirito, in cui le menti possono approssimarsi al modeldel-lo di ogni perfezione. Va da sé, quindi, che Cusano ha dovuto pensare a un concetto d’immagine che non fosse, sul modello platonico, statico e inerte (come avviene nel fenomeno fisico della riflessione speculare o nelle creazioni dell’arte, «due volte morte» in quanto esprimono «cose vive senza vita»9), bensì a un’immagine dinamica,

6 Marsilio Ficino, Theologia platonica, XIV, 5; tr. it. di E. Vitale, Teologia platonica, testo

lat. a fronte, Bompiani, Milano 2011, p. 1311.

7 De fil., 6: h IV, n. 65, lin. 7-8.

8 G. Santinello, Introduzione a Niccolò Cusano, Scritti filosofici, 2 voll., Zanichelli, Bologna

1965-1982, vol. I, p. 20.

9 Leonardo da Vinci, Libro di pittura, a cura di M.T. Fiorio, Abscondita, Milano 2019,

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vivente, capace di correggere se stessa continuamente, come se si trattasse di un vivum speculum del modello eterno (altre volte Cusano parla di un cri-stallo vivo riflettente, come quello dell’angolo acuto e semplicissimo del lapis

diamantis, la cui sottigliezza complicativa è simbolo dell’intuitus intellectua-lis10). Un’immagine di questo tipo, in quanto viva, possiede tutta la creatività

dell’artista, facendo pensare a una convergenza tra pittore e rappresentazione pittorica, soggetto e oggetto della creazione artistica. Come avviene in certe pitture fiamminghe che, al loro interno, contengono l’autoritratto defilato del pittore. Si pensi ai Coniugi Arnolfini di Jan van Eyck, opera pittorica del 1434: il fulcro dell’intera rappresentazione, non a caso, è uno specchio con-vesso, posto alle spalle del «doppio ritratto» (che vale anche come «certificato di matrimonio»11) del mercante lucchese Giovanni Arnolfini e di Giovanna

Cenami – celebrazione del vincolo nuziale cui farebbe pensare il gesto della mano dell’uomo, esprimente la cosiddetta fides levata: atto formalizzato nelle procedure giuridiche del tempo. Questo dettaglio, posto in secondo piano, è simbolo dello specchio/occhio del pittore, in cui tutta la scena in primo piano risulta ribaltata, ampliata al di là dei limiti della cornice, offrendo una porzione di realtà altrimenti condannata all’invisibile – compresa l’immagine del pitto-re, testimoniata dall’iscrizione sotto lo specchio «Johannes de Eyck fuit hic». Lo strumento speculare è qui capace di ribaltare e dilatare infinitamente lo spazio pittorico, consentendo in pittura di inserire – come già aveva notato Ernst Bloch – «la prospettiva di un infinito nell’al di qua»12. Questo dispositivo,

allora, «permette di mostrare nell’immagine ciò che si trova al di fuori della realtà raffigurata: l’immagine speculare è quindi un modo di rappresentare lo spazio tridimensionale entro la superficie bidimensionale del quadro»13,

spazio in cui anche l’artista – sebbene colto solo di scorcio – partecipa quale elemento figurativo coessenziale all’intera raffigurazione.

Ma lo specchio è pure circondato – pittura nella pittura – da dieci minu-scoli tondi in cui sono rappresentati gli episodi salienti della Passione, in cui si narra del Calvario, della morte e della resurrezione di Cristo: lo specchio, quindi, rappresenta anche l’occhio divino, superiore a ogni prospettiva ango-lare, sempre affetta da una certa ampiezza e profondità dello sguardo (tale per cui, scrive Cusano, il nostro occhio sempre «per angulum quantum videt»14).

10 «Ac si acuties simplicissima et indivisibilis anguli lapidis diamantis politissimi, in qua

omnium rerum formae resplenderent, viva foret, illa se intuendo omnium rerum similitudines

reperiret, per quas de omnibus notiones facere posset» (De mente, 15: h 2V, n. 85, lin. 13-16).

11 E. Panofsky, Early Netherlandish Painting, 2 voll., Harvard University Press, Cambridge

(Mass.) 1953, vol. I, p. 369.

12 E. Bloch, Il principio speranza (1947), tr. it. di E. De Angelis e T. Cavallo, Garzanti,

Milano 2005, p. 981.

13 B. Uspenskij, La pala d’altare di Jan van Eyck a Gand: la composizione dell’opera. La

prospettiva divina e la prospettiva umana (1994), tr. it. di R. Salvatore, Lupetti, Milano 2001, pp. 73-74.

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In tal senso, lo specchio di van Eyck, «incorniciato in una corona di cerchi con gli episodi della vita e della morte di Cristo che si svolgono come in un planisfero, costituisce un microcosmo»15 della visione – una sorta di

panopti-con ante litteram16, sebbene di ordine teologico, in cui, al contrario di quanto

avviene nell’edificio carcerario, è ancora possibile una simmetria o reciprocità degli sguardi. In Cusano, come in Rogier van der Weyden17 e nello stesso Jan

van Eyck (in cui «lo specchio è un luogo posto all’interno del quadro, sovente decorato come un ostensorio o un reliquiario, che circoscrive la manifestazio-ne di un mondo altro: al suo interno esso permette di vedere un al di là»), lo specchio è dunque un oggetto rivelatore «che permette di vedere ciò che lo anima di già, al di là o al di qua delle apparenze»18: la realtà vera e incontratta

dell’assoluto, che pur non appare direttamente sulla scena pittorica.

Per spiegare questa convergenza di sguardi – in cui l’osservatore si riflette, tramite lo specchio, nello sguardo del pittore nonché nell’absolutus vultus di Dio, «esemplare e verità di tutti i volti»19 – può essere richiamata la Figura P

al centro del De coniecturis (1445): figura euristica utile per studiare «tutti i modi della visione e di ciascuno»20, capace di evocare quella intersezione tra

due piramidi visive che si riflettono l’una nell’altra, ingenerando – come in un gioco di specchi – una visione meta-prospettica, la quale apre lo spazio umano oltre ogni visione angolare. La piramide visiva albertiana21, per una

sorta di rimbalzo ottico, nello specchio si sdoppia in due prospettive

contra-15 J. Baltrušaitis, Lo specchio: rivelazioni, inganni e science-fiction (1978), tr. it. di C.

Pizzo-russo, Adelphi, Milano 2007, p. 252.

16 La concezione architettonico-politica del Panopticon di Bentham, scrive Michel Foucault,

è cosa nota: «alla periferia una costruzione ad anello; al centro una torre tagliata da larghe fine-stre che si aprono verso la faccia interna dell’anello; la costruzione periferica è divisa in celle, che occupano ciascuna tutto lo spessore della costruzione; esse hanno due finestre, una verso l’interno, corrispondente alla finestra della torre; l’altra, verso l’esterno, permette alla luce di attraversare la cella da parte a parte. Basta allora mettere un sorvegliante nella torre centrale, e in ogni cella rinchiudere un pazzo, un ammalato, un condannato, un operaio o uno scolaro. Per effetto del contro luce, si possono cogliere dalla torre, stagliantisi esattamente, le piccole silhouettes prigioniere nelle celle della periferia. Tante gabbie in cui ogni attore è solo, perfet-tamente individualizzato e costantemente visibile» (M. Foucault, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione [1975], tr. it. di A. Tarchetti, Torino, Einaudi 2014, p. 218).

17 Si tratta dello stesso Rogerius (Tournai 1400 ca.-Bruxelles 1464) di cui parla Cusano

nella Prefatio al De visione Dei, autore di un’immagine cuncta videns, tale che quasi omnia cir cumspiciat; dettaglio di un dipinto che ai tempi di Cusano, come egli stesso attesta, era affisso nel tribunale di Bruxelles. Si tratta di un dipinto oggi perduto, ma la cui copia è stata riprodotta nel lato destro di un arazzo conservato al Museo di Berna raffigurante uno degli Esempi di Giustizia (Giustizia di Traiano).

18 M. de Certeau, Nicolas de Cues, le secret d’un regard, in «Traverses», n. 30-31, marzo

1984, pp. 70-85: p. 71.

19 De vis., 25: h VI, n. 119, lin. 21.

20 De coni., II, 17: h II, n. 73, lin. 5.

21 Per un’analisi approfondita delle applicazioni concrete, dal punto di vista della

misura-zione, della piramide visiva di Leon Battista Alberti, cfr. T. Müller, Perspektivität und Unend-lichkeit. Mathematik und ihre Anwendung in der Frührenaissance am Beispiel von Alberti und Cusanus, Roderer, Regensburg 2010, pp. 168-170.

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rie e complementari: una esterna, che ha per oggetto il quadro (quella del pittore, il quale, come noi osservatori, vede la tavola dal di fuori della stanza raffigurata), e una interna, complicata visivamente all’interno del ritratto, che ha noi riguardanti (quelli che dovrebbero essere i fruitori della scena rappresentata) come oggetto di una visione altra, contraria e superiore alla nostra. Si tratta dello sguardo divino, posto al di là di ogni visione prospettica e angolare: sguardo onniavvolgente e sine perspectiva tale da compendiare in sé sia la prospettiva esterna («lo spazio terrestre»), sia quella intrinseca al dipinto («lo spazio celeste»22), dando luogo a una meravigliosa coincidenza di

videre e videri – «videndo me das te a me videri, qui es Deus absconditus»23.

Immagini di tal fatta, grazie a questo rapporto di implicazione vicendevole parte-tutto, immanenza-trascendenza (non a caso alla base della concezione della sostanza monadica di Leibniz, per cui ogni porzione contiene prospet-ticamente il tutto24), hanno lo statuto della sineddoche (συνεκδοχή): esse,

dicendo la realtà rappresentata, letteralmente, “comprendono più cose in-sieme”, additando pure al potere creativo dell’artista – massima espressione, sul piano esperienziale, della dinamicità dello spirito creato, quale immagine depotenziata del posse omnis posse del divino: la mente, in tal senso, è ipsius

posse imago, vale a dire un modus apparitionis ipsius posse25.

L’artigiano e, dunque, l’artista in Cusano sono sempre emblema dell’appli-cazione concreta del sapere razionale all’esperienza, in cui si manifesta quella forza creativa26 che è la radice ontologica di ogni ente – oltreché, sul piano

della transumptio in infinitum, spunto di ricche metafore di ordine teologico (secondo la massima symbolice investigare27).

La mente è stata creata dall’arte creatrice come se questa avesse voluto creare se stessa; ma poiché essa è immoltiplicabile, ne sorge una sua immagine, come se un pittore volesse dipingere se stesso ma, essendo immoltiplicabile, dipingendo se stesso ne sorgesse la sua immagine.28

Ma l’immagine, quale disposizione sincrona di dati rappresentativi – una sorta di «objektive virtuelle Anordnung» di elementi, direbbe Walter

Benja-22 B. Uspenskij, La pala d’altare di Jan van Eyck a Gand, cit., p. 30.

23 De vis., 25: h V, n. 13, lin. 12.

24 S. Mancini, Congetture su Dio. Singolarità, finalismo, potenza nella teologia razionale di

Nicola Cusano, Mimesis, Milano-Udine 2014, in particolare il cap. VI, pp. 221-251.

25 De ap. theor.: h XII, n. 24, lin. 6.

26 J.M. André, Nicolau de Cusa e a força da palavra, in «Revista Filosófica de Coimbra»,

n. 29, 2006, pp. 3-32: p. 6.

27 De docta ign., III, 12: h I, n. 33, lin. 15.

28 De mente, 15: h 2V, n. 148, lin. 8-11: «Unde mens est creata ab arte creatrice, quasi ars

illa se ipsam creare vellet et, quia immultiplicabilis est infinita ars, quod tunc eius surgat imago, sicut si pictor se ipsum depingere vellet et, quia ipse non multiplicabilis, tunc se depingendo oriretur eius imago».

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min29 –, è inoltre anche il punto d’indistinzione (coincidenziale) di spazio e

tempo: è certamente un luogo, un orizzonte di senso in cui gli elementi figurali si dispongono in costellazione; ma questo spazio, come si diceva, è un luogo di transizione, attraversato dalla corrente della temporalità qualificata, funziona-le al farsi sempre più simifunziona-le, da parte della copia/ectipo, al proprio archetipo trascendente. L’intelletto, cioè quel vivo riflesso della Sapienza capace a sua volta (come mero speculum contractum) di riflettere immagini, emergendo

de umbra imaginis, «mediante una profonda conversione dello spirito,

s’avvi-cina sempre più alla verità, fino a diventare esso stesso sempre più vero e più conforme alla vera Sapienza, quantunque questa Sapienza assoluta, così com’è in se stessa, non sia mai raggiungibile da un altro essere»30.

Cusano, per la definizione dinamica dell’immagine, può aver tratto spunto proprio dalla pittura dell’epoca. Sebbene, nella Praefatio del De visione Dei (1453), egli citi espressamente soltanto «Rogerius maximus pictor»31, alias

Rogier van der Weyden, penso anzitutto a Jan van Eyck, il quale firmava i propri ritratti scrivendo il motto (molto spesso su finte cornici di pietra di-pinta) als ich kann: “come posso, più di tanto non posso fare, meglio di così non potrei dipingere” – massima siglata in caratteri greci maiuscoli in cui, come scrive Erwin Panofsky, «un giusto orgoglio si mescola in maniera ini-mitabile con una giusta umiltà»32. In questa massima, in fondo, vi è tutto il

distillato del nuovo sapere umanistico intorno ai poteri e ai limiti dell’uma-no: lo spirito, in quanto creato, è finito senz’altro, ma sonda costantemente i propri limiti spingendosi oltre il dato naturale, in un moto di progressione che non ha requie.

Tale spirito, pascaliano in nuce (in cui si evidenzia, allo stesso tempo, la grandezza e la miseria dell’essere umano), è presente in modo drammatico nelle Rime di Michelangelo, uno degli apici del Rinascimento italiano. In questi componimenti Michelangelo presenta se stesso come un «gran marti-re»33, in sospeso tra enormi proponimenti (come quello, formulato nel 1518,

di scolpire direttamente la cima del Monte dell’Altissimo, che si estende sulle Alpi Apuane da Viareggio a Massa) e la resistenza offertagli, «per la sua du-rezza» invincibile, dalla materia riottosa, recalcitrante a ogni forma. Il celebre episodio della Pietà Bandini (1547-1555) s’inscrive forse in questo processo tormentato: la scultura mutila – presa a colpi di martello dall’artista adira-to, insoddisfatto del proprio operato – è una drammatica testimonianza del

29 W. Benjamin, Ursprung des Deutschen Trauerspiel, in Id., Gesammelte Schriften, a cura di

R. Tiedemann e H. Schweppenhäuser (e con la collaborazione di T.W. Adorno e G. Scholem), 7 voll., Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1972-1989, vol. I/1, pp. 203-430: p. 214.

30 De pace, 19: h VII, n. 12, p. 13, lin. 2-6.

31 De vis., 25: h VI, n. 2, lin. 8.

32 E. Panofsky, Early Netherlandish Painting, cit., vol. I, p. 326.

33 Michelangelo Buonarroti, Le rime cavate dagli autografi, a cura di C. Guasti, Le Monnier,

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ripensamento artistico in quanto tale. Lo scalpello di ferro, che in mano a Michelangelo spesso diventava lieve pennello, appena intravista nella figura realizzata «un minimo che d’errore»34, diventa improvvisamente strumento

dell’impulso iconoclasta rivolto contro la sua stessa produzione, occasione di pentimento e improvvisa ispirazione per un nuovo progetto – spesso ritornan-do, con rinnovato entusiasmo e nuovi propositi, al progetto momentaneamen-te tralasciato a causa dei limiti oggettivi della mamomentaneamen-teria. Gli estremi di questa dialettica michelangiolesca sono offerti dal «concetto d’un’immagine viva» (scopo della realizzazione artistica, in cui lo scultore si riflette, come nella figura di Nicodemo che sorregge il Cristo della citata Pietà) e da quello della «pietra alpestra e dura»35, resistenza in grado di trasformare l’artista da

semi-dio (quale intelligenza demiurgica, a immagine di Dio) in un essere frustrato e impotente, oppresso da alcuna colpa a lui occulta36 – al punto da risultare

incapace di realizzare il suo ideale estetico, la forma inizialmente presagita, penetrando a fondo nelle virtualità della materia. Tra questi due estremi, dati rispettivamente da slancio creativo e limite ontologico, si colloca quella che potrebbe essere definita la “filosofia del tentativo”, fatta di scommesse ripe-tute, fallimenti e continue correzioni delle proprie intenzioni pragmatico-co-noscitive e delle proprie strategie di adeguamento al vero esemplare: dove il risultato, l’exitus dell’azione, non è mai dato per scontato.

In tal senso, osserva Michelangelo, se accade che lo scultore, nel voler fare un’immagine di qualcuno, giunga anche a ritrarre se stesso (il che avviene necessariamente, come aveva ben compreso Leonardo da Vinci37, a causa di

una tendenza innata all’automimesi38, massimo difetto dei pittori), nel caso si

veda raffigurato «squallido e smorto spesso», la ragione di ciò è da individuarsi nel fatto che è la natura stessa – nella sfida con la pietra dura e riottosa – ad averlo ridotto tale (in fondo, la pietra, con «l’aspra sua durezza», scolpisce l’immagine di Michelangelo a suo modo, riducendolo, nel suo immane lavo-ro, a creatura sfinita e impotente): «il fo, com’ i’ sono fatto da costei; / e pare ch’ esempro pigli / ogni or da me, ch’ i’ penso di far lei»39. Vi è quindi uno

scambio incessante di prospettive e intenzioni tra l’eidos (la forma presagita, che guida il processo di formazione) e la materia, quale limite oggettivo del-la realizzazione artistica: quando lo scultore pensa di dare un’immagine aldel-la pietra, è questa che, in realtà, sta scolpendo lui, costringendolo a continue revisioni dei propri progetti. Sicché, quando quest’ultimo pensa di poter dare un determinato volto-figura alla materia, è questa che «mi strugge e spezza»,

34 G. Vasari, Le Vite de’ più eccellenti architetti, pittori, et scultori italiani, da Cimabue insino

a’ nostri tempi. Nell’edizione per i tipi di Lorenzo Torrentino, Firenze 1550, a cura di L. Bellosi e A. Rossi, 2 voll., Einaudi, Torino 2010, vol. I, p. 1054.

35 Michelangelo Buonarroti, Le rime, cit., Madrigali, XI, p. 36.

36 Ivi, Sonetti imperfetti, CI, p. 270.

37 Leonardo da Vinci, Libro di pittura, cit., cap. 108, p. 105.

38 F. Zöllner, Leonardo da Vinci. Tutti i dipinti e disegni, Taschen, Köln 2010, p. 135.

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per cui a essere scolpite sono «le afflitte membra»40 dello scultore – membra

rese a immagine e somiglianza della nemica pietra.

Questo limite oggettivo del mondo, tale da offrire un feedback negativo ai nostri propositi sotto forma di anelli di retroazione di carattere pragmatico-co-noscitivo – propositi che infine subiscono, sotto forma d’immagine di risulta, la resistenza della necessità esterna del mondo –, in Cusano è tematizzato esplicitamente nel De ludo globi (1463)41: asperità del terreno, condizioni

atmosferiche e imprevedibilità del movimento della sfera sul piano irrego-lare (poiché ogni volta che la palla concavo-convessa tocca il terreno offre una parte diversa della propria superficie gibbosa) fanno di ogni lancio verso il centro dei nove cerchi concentrici un unicum irripetibile. Fortuna, scrive a tal proposito Cusano, «si può chiamare ciò che accade al di fuori dell’in-tenzione», non potendo rientrare che alla stregua di mera variabile assolu-tamente imprevedibile nella strategia di gioco del giocatore. La palla, in tal senso, «non si muove secondo l’intenzione di chi la lancia, ma anche secondo la fortuna»42. Questo elemento di contingenza, che distingue profondamente

ogni tiro dall’altro a prescindere dall’intenzione del giocatore, è esemplificato da Cusano mediante il lancio di una manciata di piselli su un pavimento pia-no: «essi si comportano in modo tale che nessun pisello si muove o si ferma allo stesso modo di un altro, e il luogo e il movimento di ognuno è diverso»43.

Questo elemento di accidentalità dipende appunto dalla contingenza, che ha a che vedere con il caso, ciò che non può essere ascritto alla responsabilità di colui che lancia i piselli contemporaneamente in un sol gesto e, dunque, apparentemente allo stesso modo.

Nell’esperienza ludica del lancio ripetuto della sfera emerge una riflessio-ne embrionale sulla funzioriflessio-ne euristica dell’errore, sul pentimento strategico dell’azione, sulla dimensione congetturale del sapere, tale per cui il proces-so di autoformazione dell’anima in immagine (là dove, nel principium, «sic imago quod veritas»44) si apre a uno spettro di possibilità spesso

contraddit-torie, o per lo meno non definitive e indefinitamente rivedibili. Per quanto ogni giocatore non possa sapere prima, «mentre la palla è in movimento, in quale punto essa si arresterà […], tuttavia, sulla base della consuetudine e dell’esercizio» – e dunque migliorandosi costantemente nella traiettoria fatta assumere alla propria sfera, lancio dopo lancio –, «si potrà prevedere con una congettura verisimile se la palla si arresterà nel circolo». Ogni sfera, dunque, conclude Cusano, «può terminare il suo giro nel circolo, con l’esercizio della virtù»45: lancio dopo lancio, tentativo dopo tentativo, errore dopo errore.

40 Ibidem.

41 Per questi aspetti cfr. il mio Raffigurare l’invisibile. Cusano e l’arte del tempo, Mimesis,

Milano-Udine 2012, pp. 51-54.

42 De ludo, II: h IX, n. 55, lin. 9-10.

43 De ludo, II: h IX, n. 84, lin. 15-17.

44 De vis., 25: h VI, n. 65, lin. 4.

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È il mistero più alto di questo gioco, per cui apprendiamo che le inclinazioni e i modi naturali di procedere in linea curva si modificano con l’esercizio della virtù in modo che, dopo molti cambiamenti, mutevoli giri in tondo e deviazioni, possiamo riposare nel regno della vita. Vedi che uno lancia la palla in un modo e l’altro in un altro, pur rimanendo nella palla la medesima curvità. Essa si muove e si arresta in modo diverso a seconda della diversità dell’impulso e non sappiamo mai con sicurezza, prima che si arresti, dove infine si fermerà. Chi vede che la palla, lanciata da uno ha raggiunto il centro, e pensa di volerlo imitare, effettua parecchi [lanci] e [così] progredisce.46

Questo carattere provvisorio e rivedibile di ogni congettura e operazione del pensiero, tanto sul piano gnoseologico, quanto su quello etico e artistico, anticipa in fondo le procedure di falsificazione di Karl Popper: la consape-volezza della fallibilità umana, già colta da Cusano nella formula paradossale della docta ignorantia (secondo cui «nihil scire, nisi quod ignoraret»47), è il

cuore di ogni teoria scientifica che fa proprio il carattere dell’umiltà e dell’in-certezza costitutiva del sapere razionale; il suo criterio, scrive Popper, è dato quindi dalla falsificabilità, congetturalità e controllabilità di ogni ipotesi co-noscitiva. Questo metodo, com’è stato rilevato, assume in Cusano la forma di un principio critico che «implica la consapevolezza della dissimilitudo in-trinseca in ogni similitudo, risultando così questa sottoposta al metodo della dotta ignoranza, senza la cui presupposizione l’attenzione rivolta alla realtà mondana di carattere sensibile scadrebbe di fatto a idolatria»48.

Quanto più impariamo sul mondo, e quanto più profondo è il nostro apprendi-mento, tanto più consapevole, specifica e articolata sarà la conoscenza di ciò che non sappiamo, la conoscenza della nostra ignoranza. Questa, infatti, è la fonte principale dell’ignoranza: il fatto che la nostra conoscenza può essere solo finita, mentre la nostra ignoranza non può che essere, di necessità, infinita.49

Il modello ricercato da ogni atto dello spirito umano (quale sua vera imago), a causa di questa inemendabile fallibilità, è irraggiungibile, ma agisce – come

46 De ludo, II: h IX, n. 54, lin. 1-10: «Haec est summa mysteriorum huius ludi, ut discamus

has inclinationes et naturales incurvationes taliter rectificare virtuoso exercitio, ut tandem post multas variationes et instabiles circulationes et incurvationes quiescamus in regno vitae. Vides enim quod unus impellit globum uno modo, alius alio, manente eadem curvitate in globo. Se-cundum varium impulsum varie movetur et quiescit, et numquam certum est ante quietem, ubi demum quiescat. Videns igitur unus globum impulsum per aliquem attigisse prope centrum, cogitat sequi velle illius modum et pluries attentat et proficit».

47 De docta ign., III, 12: h I, p. 6, lin. 11.

48 M. Thurner, Theologische Unendlichkeitsspekulation als endlicher Weltentwurf. Der

menschliche Selbstvollzug im Aenigma des Globusspiels bei Nikolaus von Kues, in «Mitteilungen und Forschungsbeiträge der Cusanus-Gesellschaft», vol. 27, 2001, pp. 81-128: p. 86.

49 K.R. Popper, Congetture e confutazioni. Lo sviluppo della conoscenza scientifica (1969),

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fattore destabilizzante ogni certezza raggiunta, tale da spingere sempre oltre il potere della mente – in ogni acquisizione etico-scientifica al modo di uno scarto incolmabile rispetto a qualunque proposito: l’affermazione cusaniana già citata «sic imago quod veritas» vale solo per il principio50, «cuius videre

est esse»51, come tale capace di generare eternamente la propria perfetta

im-magine (detta quindi aequalitas, la consubstantialis imago52). Questo scarto

ontologico tra modello e copia, ideale e reale, centrale nella definizione dello spirito creato, è costitutivo di ogni immagine creaturale: l’imago, in quanto

im-magine-di, è esattamente questo interstizio tra due polarità, connesse e divise

nello spazio e nel tempo (da uno spazio che può essere solo colmato dal dive-nire temporale del farsi sempre più perfetta, ad Dei imaginem, della persona). L’imago, quindi, data la processualità che l’attraversa, è il punto d’indistinzione di spazio e tempo; è quello spazio ontologico attraversato dal tempo qualitativo in cui la persona cerca la propria adeguatezza nei confronti dell’archetipo, in un processo di continuo perfezionamento ontologico, conoscitivo e morale. Gli estremi di questo processo sono l’estrema distanza immaginale dello spirito (perso nella regio dissimilitudinis) dal vero, per cui l’uomo risulta irricono-scibile a se stesso (non conforme al proprio ideale, custodito nel Verbum), da un lato; e la perfetta, superabsoluta filiatio Dei53, in cui l’immagine creaturale

si conforma al principio divino (absolutus visus, vultus sine figura), dall’altro, «quasi filiatio dicat consubstantialitatem»54 – ma anche questa è una situazione

tale da non darsi nelle condizioni terrene, ove vi è sempre un più o un meno di precisione (la praecisio assoluta non dandosi in alcun modo, «cum finiti ad infinitum nulla sit proportio»55).

Alcune delle pagine più suggestive di Cusano, pervase da un senso tragico della realtà (con interessanti risvolti a livello esistenziale), si collocano giusto a questo livello: l’essere umano, a causa della sua natura immaginale diaste-matica, si trova come sospeso giusto tra l’essere e il nulla – estremi assoluta-mente incomparabili.

Sembra che la creatura, la quale non è né Dio né il nulla, sia un qualcosa che viene dopo Dio e prima del nulla, fra Dio e il nulla […]. Sembra che essa non sia né un essere per il fatto che discende allontanandosi dall’essere, né un non essere, perché è prima del nulla, e nemmeno un composto di essere e non essere.56

50 De vis., 25: h VI, n. 65, lin. 4.

51 De poss.: h XII/2, n. 58, lin. 14.

52 Apol.: h 2II, n. 45, p. 31, lin. 2.

53 De vis., 25; h VI, n. 54, lin. 25.

54 Crib. Alk., III, 21: h IX, n. 51, lin. 13-14.

55 De pace, 19: h VIII, n. 6, p. 7, lin. 19.

56 De docta ign., III 12: h I, p. 66, lin. 9-14: «Nam videtur, quod ipsa creatura, quae nec est

Deus nec nihil, sit quasi post Deum et ante nihil, intra Deum et nihil […]. Nec tamen potest esse ab esse et non-esse composita. Videtur igitur neque esse, per hoc quod descendit de esse; neque non esse, quia est ante nihil; neque compositum ex illis».

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Che questa definizione dialettico-transuntiva possa essere impiegata per definire anche l’immagine, in quanto scarto, spazio diastematico e “ponte on-tologico”, è lecito facendo ricorso alla nozione di congettura: quest’ultima è la categoria razionale che permette di conoscere l’unità, unica e inattingibile, nell’alterità delle nostre condizioni contingenti di pensiero – il che significa che l’essere non può venire da noi conosciuto se non in quanto affetto da una certa nullità (ossia da una qualche differenza sostanziale rispetto all’arche-tipo): «coniectura igitur est positiva assertio, in alteritate veritatem, uti est, participans»57. Del resto, lo stesso Cusano avvicina i concetti di imago

specu-lare e coniectura in un passaggio centrale nel Sermo CCXX, facendo ricorso al concetto paolino di enigma; per di più, nel Sermo CCLXXXI, egli conia l’espressione, molto significativa e originale, «in speculo et in coniectura»58 per

definire la condizione meramente rappresentativa, immaginale – vale a dire

sine certitudine – del nostro pensiero in hoc saeculo.

Videre rem per speculum et in aenigmate est potius rem non videre seu cogno-scere nisi in coniectura, per quam fingo aenigmatice figuram rei non visae. Ubi autem est perfecta cognitio ibi est visio facialis. Nam hoc est videre modo quo cognoscitur res, sicut homo facie cognoscitur. Nunc ‹ex parte cognoscimus› et imperfecte, quia cognitio coniecturalis est sine certitudine. ‹Ibi autem cognosco›, ait, ‹ut cognitus sum›.59

3. Il concetto d’immagine nello specchio mistico della pittura: Jan van Eyck Come esempio pittorico di questa dottrina dell’immagine sarebbe piutto-sto scontato rimandare al celebre autoritratto mit Pelzrock di Albrecht Dürer del 1500, in cui, com’è stato scritto, l’autore ha raffigurato il proprio volto come se l’avesse catturato sul fondo dello specchio di Dio, essendo guidato nella sua realizzazione artistica dalla «ricerca di un’immagine originaria»60.

Dal punto di vista pittorico, anche secondo Andrea De Santis, questa dottri-na cusaniadottri-na può essere esemplificata con il citato autoritratto di Dürer (oggi esposto all’Alte Pinakothek di München), opera che potrebbe difatti «quasi valere come immagine dell’opera De visione Dei: il Dio che guarda all’uomo è immagine dell’uomo che guarda a se stesso come (a) Dio»61. Farò invece

riferimento a un’opera più articolata e più vicina cronologicamente a Cusano:

La Madonna del Cancelliere Rolin (del 1435) del già richiamato Jan van Eyck.

57 De coni., II, 17: h III, n. 57, lin. 10-11.

58 Sermo CCLXXXI (Ego dixi: Dii estis, 1455): h XVII, n. 15, lin. 5.

59 Sermo CCXX A (Nomen eius Jesus, 1455): h XVII, n. 9, lin. 19-28.

60 H. Belting, La vera immagine di Cristo, tr. it. di A. Cinato, Bollati Boringhieri, Torino

2007, p. 128.

61 A. De Santis, Metamorfosi dello sguardo. Il vedere fra mistica, filosofia ed arte, Pontificio

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Questa tavola, per certi versi, può essere vista come una meta-raffigurazione in cui il pittore esprime il dilemma intrinseco alla stessa rappresentazione artistica: si tratta del tentativo di cogliere/raffigurare il processo di assimilatio (mistica) della copia al modello, movimento di approssimazione che è tipi-co di ogni immagine creaturale. Sullo sfondo di questo processo indefinito d’identificazione dell’imago collocherei la rielaborazione del celebre passo aristotelico ars imitatur naturam (Fisica, II, 2), così com’è stata restituita da San Tommaso: «ars imitatur naturam in quantum potest»62.

Questa insistenza sulla misura del possibile (che è anche un richiamo all’im-precisione e alla congetturalità inemendabile di ogni umana conoscenza), sul piano della rappresentazione artistica testimonia quello iato che è proprio dell’immagine dal punto di vista ontologico: spazio intermedio come luogo della trasformazione del soggetto, assecondando quel tempo qualitativo che è il medium del processo di perfezionamento etico della persona. Lo spazio dell’immagine è quindi il teatro dell’addivenire temporale della copia, per gradi successivi, alla perfezione dell’esemplare. D’altro canto, il tempo qua-litativo del divenire etico dello spirito creato si realizza tutto sul piano della somiglianza, rimandando ai concetti di speculum e di aenigma – come dispo-sitivo dell’inveramento del processo di assimilazione della copia al modello. Spazio e tempo, ancora una volta, si rimandano l’un l’altro come in un gioco di specchi; il luogo di questo scambio vicendevole è l’immagine intesa come

viva imago, come tensione – tentativo dopo tentativo – verso l’esemplare in

vista della «transfusio unius in omnia»63.

Tempo ed eternità, copia e modello, sulla tavola di Jan van Eyck, sono as-sisi gli uni di fronte agli altri; a sinistra del loggiato il Cancelliere, nell’atto di pregare, distogliendo lo sguardo dal libro d’ore adagiato sulla sponda dell’in-ginocchiatoio; a destra la Vergine con la testa reclinata, le cui mani sostengono Gesù bambino benedicente. Il piccolo ponte al centro della scena, nel paesag-gio fluviale alle spalle delle figure in primo piano, sembra prolungare l’indice arcuato del bambino verso la figura del committente (Nicolas Rolin): quasi

medium, transitus coincidenziale – nel senso del cusaniano transcensus, come

passaggio conoscitivo dalla ragione discernente alla coincidenza intellettuale degli opposti – che avvicina e separa le due sponde della raffigurazione: l’una terrestre (dal lato dell’uomo in preghiera), l’altra celeste (dal lato dell’infante divino e della Vergine, dietro cui si staglia in effetti una città sontuosa che può rievocare la Gerusalemme Celeste). Questo ponte, apparentemente un det-taglio marginale nel complesso della raffigurazione, rappresenta sulla tavola pittorica l’esile punto d’incontro tra il mondo creaturale e la divinità, simbolo della deificazione dell’umano; in esso, in qualche modo, è simboleggiato – a mo’ di una sontuosa meta-raffigurazione – il cuore diastematico dell’immagine in quanto tale: si tratta di quell’imprecisione significante, o interstizio

con-62 S. Tommaso, Comm. in librum I Post. Anal., lectio 1, n. 5.

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getturale, che addita l’assoluto nelle condizioni nullificanti della differenza, mettendo lo spirito in cammino nello spazio-tempo verso il proprio modello (in questo caso trascendente).

In tale situazione dialettica, fatta di prossimità e distanza, in cui l’enigma sensibile tenta di evocare, ma non può trattenere in figura la trascendenza, sono i dettagli più marginali a rivelare la presenza enigmatica di ciò che non ha né nome né volto – il Deus absconditus. Cercare di intendere queste trac-ce è un lavoro da detective delle immagini: questi, fedele a una micrologia

dell’apparenza, con l’ausilio di una lente d’ingrandimento deve mettersi alla

caccia degli indizi sparsi e dissimulati sulla tavola dipinta – quasi fossero le tessere di un mosaico nel quale, per quanto si ravvicinino i lacerti, non tutto sembra andare a beneficio della bella apparenza. La compenetrazione tra sensibile e intelligibile, forma e contenuto, immagine e idea, lascia sempre dietro di sé un residuo, qualcosa d’irrisolto, il quale rende inquieta, concitata e dinamica l’intera rappresentazione. Occorrerebbe un beryllus intellettuale per venirne a capo, con il quale sarebbe dato costruire una lente la cui «forma concava pariter et convexa»64 avrebbe la facoltà di far vedere ciò che altrimenti

risulterebbe impercettibile all’occhio umano («per eius medium attingitur in-divisibile omnium principium»)65: grazie alla lente, cioè, quel che è marginale

e troppo piccolo per essere notato a occhio nudo, debitamente ingrandito, si trasforma in totalità di senso in sé conchiusa, dando una torsione particolare all’intera raffigurazione pittorica. Quest’ultima, rinunciando a qualcosa nei termini di riuscita estetica e di plasticità della forma, quasi per contrappeso, si carica di dottrina – una sorta «di linguaggio […] per il pensiero, un dialogo silenzioso che fa intendere, dietro il brusio delle cose, il sussurrare di Dio»66.

Mi soffermo rapidamente su tre sapidi dettagli dell’opera, i quali posso-no essere assunti come enigmi capaci di accennare al rapporto – a un tempo spaziale e temporale – tra umano e divino che si svolge sul piano della rap-presentazione artistica.

a) Il viso del bambino, ritratto con estrema precisione anatomica, sembra

l’immagine pura, ante peccatum, del volto di Nicolas Rolin: adulto e bambino sono l’uno il riflesso dell’altro, come in un gioco di specchi; l’uomo è a imma-gine di Dio, ma Cristo, a sua volta, è Dio Padre fatto a immaimma-gine dell’uomo.

b) Nella sontuosa corona della Vergine recata dall’angelo si riflette, appena

percettibile, l’immagine del pittore (sicché la figura dell’artista risulta allo stes-so tempo immanente e trascendente la realtà pittorica, come il Dio di Cusano rispetto al mondo esplicato: presente nel tutto e, nondimeno, non coincidente con nessuna cosa particolare: «in ipso ubique et nullibi complicantur et non

64 De beryl.: h 2XII, n. 3, lin. 3-4.

65 De beryl.: h 2XII, n. 3, lin. 4-5.

66 A. Moulonguet - P. Bouche, Maître Eckhart peint par van Eyck, Éditions du Regard,

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opponitur»67). Questo gioco di rispecchiamenti non è casuale; la verginità di

Maria, in effetti, è tradizionalmente rappresentata da uno specchio senza macchia («speculum sine macula rectissimum atque interminum perfectissi-mumque»68): il sole che penetra nel vetro senza violarlo è simbolo di colei che

è diventata madre senza perdere la propria castità; mentre il piombo raffigura «la sua duttilità, e il colore cinereo dello specchio la sua umiltà»69. Nel polittico

di Gand, l’Adorazione dell’Agnello mistico (1432) di Hubert e Jan van Eyck, in particolare, una caraffa d’acqua in basso a sinistra della Vergine diviene «il simbolo del concepimento irraggiante e casto del Figlio divino nel corpo di Maria per opera dello Spirito Santo, esattamente come il fragile vetro della caraffa non si rompe a contatto con la luce»70.

c) I due osservatori sul limitare della terrazza che definisce il bordo

del-l’hortus conclusus sono figure avulse dalla scena, le quali – rivolte al ponte e poste di spalle rispetto all’osservatore – sembrano non accorgersi dei per-sonaggi in primo piano. Mediante questi due perper-sonaggi, come ha osservato Otto Pächt, si ha anzitutto un balzo della visione in una zona profonda del quadro, «un salto o una frattura in un’immagine del mondo», tramite cui il nostro sguardo giunge a contemplare lo spazio esterno71: uno di essi si sporge

giù dal parapetto, l’altro, appoggiato a un baculus da passeggio, reca sul capo un turbante rosso (chaperon), tipico attributo del pittore nelle Fiandre del Quattrocento. Il pittore, forse accompagnato da un suo pingue assistente, vive dunque prima e dopo l’incontro con il sacro che si svolge, im Vordergrund, sul loggiato: una volta dal lato dell’osservatore, quasi fuori dalla raffigurazione (se non fosse per il riflesso sfuggente sulla corona della Vergine), un’altra volta sullo sfondo della scena, egli sembra – grazie alla sua opera strutturata a più livelli – dar luogo a un evento che eccede la stessa tecnica pittorica, sfuggen-do esso in qualche mosfuggen-do alla rappresentazione e alla possibilità di controllo prospettico dell’artista. Tutto ciò che il pittore può fare è solo accennare a quell’evento sovrannaturale, sottraendo – quasi per pudore – il più possibile se stesso dall’incontro tra divino e umano, ma senza abbandonare del tutto la scena. Nell’atto di rappresentare la vicenda egli si trova al di fuori del quadro (e se vi compare di riverbero, come nei Coniugi Arnolfini, è giusto come il creatore dello spazio illusionistico dell’opera, secondo una prospettiva ester-na a essa che lo disloca margiester-nalmente a fianco del fruitore); mentre come personaggio marginale all’interno del quadro, questi, dando le spalle all’in-contro tra Dio e mondo, vede il ponte – centro metaforico e diastematico della rappresentazione – non come evento miracoloso, bensì come elemento

67 Sermo XXII (Dies sanctificatus, 1440): h XVII, n. 15, lin. 4-5.

68 De fil., 6: h IV, n. 65, lin. 4-5.

69 B. Goldberg, Lo specchio e l’uomo (1988), tr. it. di N. Polo, Marsilio, Venezia 1989, p. 130.

70 D. De Vos, Capolavori fiamminghi. XV secolo, tr. it. di F. Paris, Jaca Book, Milano 2002,

p. 45.

71 O. Pächt, Van Eyck. Die Begründer der altniederländischen Malerei, a cura di M.

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architettonico profano che unisce, anziché tempo ed eternità, le due sponde della città (forse di Autun).

Uno stesso dipinto, per così dire, può essere visto come scena profana o come evento teandrico; e laddove la tavola ci suggerisce, mediante il ponte della deificazione (per il cui tramite «acceditur ad profundissima et abdita»72),

la presenza del sacro, il pittore se ne ritrae insensibilmente – quasi a giustifica-re l’eccedenza, l’irriducibilità del contenuto giustifica-religioso dell’evento alla sua arte, decisamente troppo umana per poter dare un volto a ciò che non ha figura al-cuna. Eppure, in questo incrocio di sguardi senza fine (tra il Cancelliere Rolin, il bambino divino e Maria; tra noi, osservatori davanti alla tavola, e il pittore che compare ben due volte: come artista, il quale custodisce il segreto dell’in-tera raffigurazione e che ci guarda da un riflesso nel quadro, e come ignaro e decentrato contemplatore di un dettaglio architettonico profano, prolungando il nostro sguardo là dove esso non può arrivare, giù dal parapetto), si potrebbe dire, «l’invisibile deve balzarci agli occhi»73; ed è questo il segreto di un’arte

che giunge a far di se stessa raffigurazione di un simbolo invisibile, rappre-sentazione di quell’unione miracolosa tra uomo e Dio che si dà sulla scena pittorica solo come la presenza di un’assenza, come l’impossibile memoria di ciò che non può essere ricordato.

Nella Madonna del Cancelliere Rolin, dunque, tutto si gioca nello spazio intermedio del dipinto, medius locus dove la rappresentazione – quasi

am-mutolendo – si fa enigmatica, indiretta e indiziaria (vale a dire congetturale),

sollecitando il riguardante attraverso messaggi simbolici «dissimulati sotto l’ap-parenza della vita quotidiana e delle cose ordinarie»74. Lo stesso, a maggior

ragione, può dirsi dei due piccoli pannelli centrali della maestosa pala chiusa di Gand, in cui irrompono i «surrogati domestici dei grandi simboli della pu-rezza della Vergine»75: anche qui, tra l’angelo e Maria, si dischiude uno spazio

vuoto, “di transizione”, in cui avviene il miracolo dell’Annunciazione. Questa

regio aenigmatica, «vuoto centrale fra le due figure occupato da un placido

interno borghese»76, è quel luogo metafisico della sottrazione in cui il sacro –

ritraendosi dal piano fenomenico – si annuncia timidamente attraverso oggetti quotidiani che divengono simboli impalpabili e quasi inappariscenti, di una tale evanescenza, delicatezza e discrezione da poter essere soltanto allusivi di ciò che non ha figura alcuna: essi sollecitano lo spirito del riguardante a un processo di purificazione in cui tempo salvifico e spazio profano si saldano indissolubilmente. In particolare, accanto a un bacile, il panno di lino appeso,

72 Sermo VIII (Signum magnum, 1431): h XVI, n. 41, lin. 13-14.

73 J.-L. Nancy, Visitazione (della pittura cristiana) (2001), a cura di A. Cariolato e F. Ferrari,

Abscondita, Milano 2002, pp. 14 ss.

74 J. Białostocki, L’arte del Quattrocento nell’Europa settentrionale (1966), tr. it. di D.

Fri-gessi, TEA, Milano 1995, p. 132.

75 E. Panofsky, Early Netherlandish Painting, cit., vol. I, p. 259.

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candido e puro, nella nicchia a destra (che risalta nel suo contrasto con la co-lonna scura sul pannello centrale di sinistra), rimanda al «candor lucis aeterne» e allo «speculum sine macula Dei maiestatis» (Sap 7,29) – gli attributi cristiani della Sapienza, ora incarnata e complicata nel ventre gravido di redenzione di Maria, in cui si annuncia il futuro Re del mondo: il Verbo di Dio, in cui, scrive Cusano, «si contiene, in modo pieno e perfetto, ogni sapienza, pensiero, in-tenzione, verità, concetto»77 che riguardino il principio divino. Questa macchia

di colore bianco, si potrebbe dire, dicendo ciò che non ha nome, diviene «il punto magico del polittico chiuso»78, baricentro intorno a cui ruota e risulta

sospesa – in un istante di esitazione della visione – l’intera rappresentazione disposta sulla parte feriale del polittico.

Riassumendo, nell’opera di van Eyck compaiono tutti i caratteri ontologici dell’immagine precedentemente rilevati:

a) l’immagine, come spazio intermedio (medius locus) del farsi a immagine

del Sacro, è caratterizzata da identità e differenza, il che vale di ogni congettura (data la sua struttura aperta, diastematica, di interstizio temporale);

b) è il luogo della transizione indefinita tra copia (Rolin) e modello (Cristo),

ma anche della convergenza fra spazio e tempo (dove lo spazio, come puro

intra, può essere colmato solo dalla temporalità del farsi imago perfectionis

da parte dello spirito creato);

c) la raffigurazione, come sineddoche, viva imago (sintesi di opera e

arti-sta), è un’immagine che reca al suo interno l’effige del pittore (qui per ben due volte), portando a una coincidenza metarazionale di fare ed esser-fatto,

creare e creari. Si tratta, in fondo, di un concetto paradossale, situato oltre il

muro della coincidenza, il cui dispositivo è stato annunciato da Cusano con alcuni esempi: si pensi a quello della punta semplicissima e indivisibile di un diamante levigatissimo, la quale, essendo viva, intuendo se stessa, «troverebbe in sé le similitudini di tutte le cose, per mezzo delle quali potrebbe formarsi le nozioni di tutto»79; a quello del compasso vivente (circinus vivus) dell’Idiota

De mente, che misura sé e tutte le cose; o, ancora, all’esempio dello speculum vivum, capace di trasfondersi in quello infinito della verità, «in quo omnia

relucet»80; non in ultimo a quello del numerus vivus, ovvero numerante, tale

da contenere in sé, in modo incorruttibile, ogni altro numero81. Non siamo

di molto lontani dalla dottrina di un’immagine viva che raffiguri se stessa82.

Un’immagine di questo tipo (vale a dire, la mente), essendo viva, può af-finarsi/rifinirsi da sé, proseguendo il lavoro del Maestro di ogni arte; un po’

77 Sermo CCLVIII (Multivarie multisque modis, 1456): h IX, n. 4, lin. 8-10.

78 H. Van de Perre, Van Eyck. L’Agnello Mistico. Il mistero della bellezza (1996), tr. it. di

E. Romano, Leonardo Arte, Venezia 1996, p. 25.

79 De mente, 15: h 2V, n. 124, lin. 7.

80 De vis., 25: h VI, n. 48, lin. 6.

81 De mente, 15: h 2V, n. 157, lin. 158-169.

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come l’assistente, in una bottega ben avviata, porta a termine i dipinti impo-stati dal maestro.

Cusano spiega in modo ineccepibile questo processo di autoperfeziona-mento immaginale della mente nella Epistula ad Nicolaum Bononiensem (Albergati, novizio di Monte Oliveto, dell’11 giugno 1463):

Nostra autem intellectualis natura, cum se dei vivam imaginem intelligat, potesta-tem habet continue clarior et deo conformatior fieri, licet, cum sit imago, nunquam fiat exemplar aut creator. Sicut si pictor sui ipsius visibilem imaginem dipingit, illa manet ut facta est, sed si foret talis pictor, qui artis suae intellectualis pingendi intellectualem et invisibilem imaginem facere posset, utique illa imago artis, si perfecta foret imago intellectualis et vivae artis, se ipsam clariorem et similiorem facere posset, quando se suo factori conformaret.83

Questo transitus, come vedremo a breve, si realizza in un enigma filosofico- letterario che restituisce il carattere dinamico – inconcluso e perfettibile – dello spirito creato, conformemente alla definizione di imago proposta. In esso si definisce quel processo di soggettivazione che introduce un momento di riflessività nella realtà ontologica dell’ectipo, rendendo quest’ultimo di-namico, dotato di vita propria – come se avesse riassorbito in sé l’iniziativa libera e la spontaneità del principio creatore. Suggerirei quindi di parlare di soggettivazione dell’immagine nel senso proposto da Niklas Luhmann, non a caso facendo riferimento proprio a Cusano: si tratta dell’inserimento, nel finito, di un momento di osservazione di second’ordine (o second order

cy-bernetics), sintesi paradossale di vedere e videri, di rappresentare ed essere

rappresentato.

Dal momento che l’uomo si sa osservato da Dio, dipende da lui l’osservare da par-te sua l’osservatore che lo osserva, e precisamenpar-te, come gli raccomanda Cusano,

attentissime84. Ma al contempo ciò gli è assolutamente impossibile, a causa della

condizione terrena della “contractio”. Per quanto riguarda Dio, l’uomo può, al di là del proprio sapere, solo andare verso l’oscurità. […] Egli può dunque solo vedere la paradossia, che viene percepita come soddisfazione massima, allorché si capisce che non è possibile capire.85

4. Conclusioni: persona e libertà dell’imago Dei

L’enigma proposto è il seguente, tra i più ricchi e suggestivi di Cusano; a metà strada tra la dottrina della persona e la filosofia dell’arte:

83 Epistula ad Nicolaum Bononiensem, n. 7-8, lin. 14-23.

84 De vis., 25: h VI, n. 11, lin. 10.

85 N. Luhmann, Osservazioni sul moderno (1991), tr. it. di F. Pistolato, Armando, Roma

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Un’immagine, per quanto perfetta, se non ha la possibilità di essere più perfetta e più conforme all’esemplare, non è mai tanto perfetta come sarebbe una qualsiasi immagine imperfetta che avesse invece la potenza di conformarsi sempre più e senza limiti all’inaccessibile esemplare. In questo, infatti, come può [quo potest], a modo di immagine, imita l’infinità; se un pittore facesse due immagini, delle quali una, morta, apparisse più simile a lui in atto, l’altra invece meno simile, ma viva, cioè tale che, incitata a muoversi dal suo esemplare, potesse farsi sempre più simile ad esso, nessuno esiterebbe a dire che questa seconda è più perfetta, in quanto imita di più l’arte del pittore. Così ogni mente, anche la nostra, sebbene inferiore a tutte quelle create, ha da Dio la capacità di essere, nel modo in cui può, immagine perfetta e viva dell’arte infinita.86

Ma di che tipo di immagine Cusano sta parlando? Non si tratta di un’im-magine statica, fissata una volta per tutte in uno stato di rigidità cadaverica, a una certa distanza/prossimità dal modello; bensì – come si diceva a proposito di Jan van Eyck – di una viva imago, che ha la «capacità di rendere se stessa senza fine sempre più conforme» all’esemplare, superando così se stessa in quanto «causatum et imaginem»87 – anche se la «praecisione infinitae artis

inaccessibili semper remanente»88.

Sorprendentemente, al centro del passo, ricompare – in latino ed espressa in terza persona – la formula di Jan van Eyck als ich kann: quo potest. Il massi-mo del poter-fare di un pittore che voglia ritrarre se stesso consiste nel creare un’immagine di sé che sia in grado di tendere indefinitamente alla perfezione, comunque irraggiungibile, del proprio esemplare (nel caso del pittore, il suo stesso volto che si riflette nell’opera come in uno specchio). Solo Dio, quale puro possest – potere sommamente in atto – è attualmente tutto ciò che può essere, perfetta misura di se stesso e di ogni altro ente esplicato; ogni umana arte e facoltà, al suo cospetto, traduce in atto solo una certa quantità del divi-no posse facere, un quantum determinato dell’infinito e assoluto poter-essere (posse esse, come sintesi perfetta del posse fieri factibilis e del posse facere

facientis89); essa, date le condizioni della contrazione, più di tanto non può fare.

In questo potere contratto, in bilico tra esemplare e copia, essere e nulla, sta la libertà creaturale della persona: essa deve essere intesa come capacità

86 De mente, 15: h 2V, n. 148, lin. 1-22: «Et quia imago numquam quantumcumque

per-fecta, si perfectior et conformior esse nequit exemplari, adeo perfecta est sicut quaecumque imperfecta imago, quae potentiam habet se semper plus et plus sine limitatione inaccessibili exemplari conformandi – in hoc enim infinitatem imaginis modo quo potest imitatur, quasi si pictor duas imagines faceret, quarum una mortua videretur actu sibi similior, alia autem minus similis viva, scilicet talis, quae se ipsam ex obiecto eius ad motum incitata conformiorem semper facere posset, nemo haesitat secundam perfectiorem quasi artem pictoris magis imitantem – sic omnis mens, etiam et nostra, quamvis infra omnes sit creata, a deo habet, ut modo quo potest sit artis infinitae perfecta et viva imago».

87 De aequal.: h X/1, n. 14, lin. 18.

88 De mente, 15: h 2V, n. 148, lin. 22.

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di assimilarsi, tentativo dopo tentativo, congettura dopo congettura, all’arche-tipo trascendente. La nostra costituzione difettiva, da questo punto di vista, non è semplicemente un ostacolo, bensì essa è la sola condizione di possibilità di auto-perfezionamento spirituale. Più che sfuggire alla nostra condizione di Ebenbildlichkeit, occorre quindi sfruttare al massimo il dinamismo tem-porale incluso nel suo intra. «Sis tu tuus et ego ero tuus», scrive Cusano nel

De visione Dei90. L’imago hominis, per quanto entità intermedia (anthropos

methorios, avrebbe detto Nemesius di Emesa91) – ciò che non può mai essere

soddisfatto di sé –, restituisce in pieno la costituzione creaturale dello spirito: quella di essere transitus, motus e desiderium verso l’archetipo. Questa insuf-ficienza, ben lungi dall’essere colpevole, è l’unica condizione per raggiungere la perfezione concessa all’essere umano: quella di potersi migliorare, andando costantemente oltre i propri limiti, limiti cui sarebbe condannata un’immagine statica, appagata del proprio grado di perfezione (e qui, dunque, i limiti, in quanto voluti e confermati, diventerebbero realmente peccaminosi92). Essere

se stessi, allora, vuol dire approfondire le ragioni costitutive dell’immagine: abitare religiosamente quell’interstizio, dinamico e vivificato dal desiderio, in cui il tempo e lo spazio, da pura espressione della contingenza – come avrebbe detto Luigi Pareyson93 –, si fanno apertura estatica alla trascendenza.

Quest’ultima, d’altronde, attira a sé come la fonte il cervo94, il miele l’orso95,

il magnete il ferro96. Colta in questo dinamismo, l’immagine si rivela nel suo

valore di manifestazione teofanica, come quando si dice che quella dell’uomo “est animi vultus”; o, quand’essa sia intesa quale similitudo, tale cioè da riman-dare al principio di ogni somiglianza. Se quindi tu, creatura, ti comprenderai in quanto immagine, immergendoti nel diastema-transitus a partire da cui il tuo spirito volge, con sforzo e attraverso tentativi ripetuti, al compimento della persona (quale imago Dei); allora io, quale tuo esemplare infinito, sarò tuo, offrendomi alla tua visione amorosa come suo terminus interminus97. Vale a

dire, mi rivelerò nel tempo del tuo divenire personale quale praesuppositum della tua vita stessa98.

Se, come dice Cusano, alla domanda sul perché l’essere piuttosto che il nulla occorre rispondere non tanto con una determinata ragione, quanto evo-cando la sola libertà di Dio (che ha voluto creare il mondo, anche se avrebbe

90 De vis., 25: h VI, n. 25, lin. 13-14.

91 J.H. Ellens (a cura di), Heaven, Hell, and the Afterlife. Eternity in Judaism, Christianity,

and Islam, 3 voll., Praeger, Santa Barbara-Denver-Oxford 2013, vol. I, p. 103.

92 Cfr. il mio Nicola Cusano (1401-1464), in G. Riconda - M. Ravera - C. Ciancio - G. Cuozzo

(a cura di), Il peccato originale nel pensiero moderno, Morcelliana, Brescia 2009, pp. 129-152.

93 Per il nesso «pensiero espressivo»-«pensiero rivelativo», cfr. L. Pareyson, Verità e

inter-pretazione, Mursia, Milano 1971.

94 De quaer., 5: h VI, n. 42, lin. 15-15.

95 De vis., 25: h VI, n. 108, lin. 1-2.

96 De pace, 19: h VII, n. 40, lin. 9-10; De sap., II: h 2V, n. 16, lin. 11-12.

97 De ven. sap., 39: h. XII, n. 79, lin. 19.

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potuto decidere e fare diversamente): «pro ratione respondet libertas»99; al

quesito perché l’uomo sia soltanto immagine (di Dio) potremmo rispondere così: perché la condizione dell’imago viva è quella di poter corrispondere, in modo sempre più perfetto, al modello di tutto ciò che è, conformemente alla libertà inalienabile dello spirito creato. Questa libertà altro non è che il divenire temporale della persona in quanto immagine. Ma questo divenire, in fondo, è la stessa sostanza dell’immagine: transitus, ponte della deificazio-ne, diastema della trasfigurazione alla luce del modello. In questo diastema ontologico vive l’antropologia, a un tempo filosofica e mistica, di Cusano; grazie a questa speculazione radicale è forse possibile fondare una nuova

etica dell’immagine.

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Abstract

In Nicholas of Cusa the theme of the person, as the end of a process of spiritual self-formation, is deeply connected with the rich repertoire of artis-tic metaphors of his philosophical and theological production. In the process of recovering one’s authentic image, the themes of the self-portrait and the mirror turned out to be important speculative symbols. From the combination of these philosophical and artistic motivations a powerful image emerged of the human being as «quasi Deus», which would go on to become very pop-ular during the whole Italian Humanism. It is the image of a free being, i.e., someone who is capable of self-determination, correction, and purification, by reaching out to that principle of reality in which the true facies of every crea-tural entity are preserved. The center of gravity of this itinerarium is Cusa’s extraordinary formula «sis tu tuus et ego ero tuus», in which the relationship between human beings and God is inspired by a principle of free participation in the divine principle.

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