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La ricostituzione immunologica post trapianto allogenico di cellule staminali ematopoietiche: un modello di studio integrato clinico-laboratoristico su popolazioni linfocitarie T circolanti

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INDICE

INDICE ... 3

1. INTRODUZIONE ... 5

IL TRAPIANTO DI CELLULE STAMINALI ... 5

Le cellule staminali ematopoietiche ... 5

Pratica clinica ... 6

LE POPOLAZIONI LINFOCITARIE ... 16

LA RICOSTITUZIONE IMMUNOLOGICA ... 20

La ricostituzione dell’immunità innata ... 21

La ricostituzione dell’immunità adattativa ... 22

LA TIMOPOIESI ... 24

Il Timo ... 24

Maturazione dei linfociti T ... 24

2. MATERIALI E METODI ... 28

Caratteristiche dei pazienti ... 28

Citofluorimetria di flusso. ... 30

Isolamento delle cellule mononucleate con Lymphoprep ... 32

Isolamento e concentrazione del DNA ... 33

Analisi dei TREC (T-cell receptor excision circles) mediante Droplet Digital PCR ... 33

Analisi del chimerismo – analisi dei microsatelliti con PCR multiplex ... 34

T deplezione in vitro ... 37

Analisi statistiche ... 37

3. SCOPO DELLA TESI ... 38

4. RISULTATI ... 40

OUTCOME ... 40

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ANALISI DELLA RICOSTITUZIONE PER PAZIENTE ... 40 PAZIENTE 1 ... 40 PAZIENTE 2 ... 42 PAZIENTE 3 ... 43 PAZIENTE 4 ... 44 PAZIENTE 5 ... 46 PAZIENTE 6 ... 47 GRAFICI ... 49 PAZIENTE N.1 ... 49 PAZIENTE N.2 ... 51 PAZIENTE N.3 ... 53 PAZIENTE N.4 ... 55 PAZIENTE N.5 ... 57 PAZIENTE N.6 ... 59

ANALISI DELLA RICOSTITUZIONE PER POPOLAZIONE ... 61

ANALISI DESCRITTIVA ... 61 ANALISI STATISTICA ... 61 GRAFICI ... 63 5. DISCUSSIONE ... 72 6. CONCLUSIONI ... 77 BIBLIOGRAFIA ... 78

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1. INTRODUZIONE

IL TRAPIANTO DI CELLULE STAMINALI

Il trapianto di cellule staminali ematopoietiche è un’opzione terapeutica indicata per il trattamento di numerose patologie ematologiche, neoplastiche e non. Sviluppatosi a partire dal secolo scorso, ha registrato una progressiva estensione delle indicazioni, grazie anche alle numerose scoperte in campo immunologico, prima fra tutte il sistema HLA, fino a divenire, per alcuni disordini neoplastici, un trattamento di prima linea. Viene definito come l’infusione di un prodotto che contiene cellule progenitrici ematopoietiche, da midollo osseo, da sangue periferico o da sangue cordonale, volto a ripristinare l’ematopoiesi o l’immunità 1,2.

Lo scopo del trapianto è quello di sostituire il compartimento ematopoietico deficitario del ricevente con un patrimonio di cellule staminali funzionanti, in grado di ricostituire e sostenere la normale attività ematopoietica e immunitaria a lungo termine.

Le cellule staminali ematopoietiche

Si definisce cellula staminale una cellula indifferenziata in grado di dividersi per periodi di tempo indefiniti, di auto-rinnovarsi e di generare una progenie funzionale di cellule altamente specializzate. Questa definizione include cellule con funzioni e capacità proliferative diverse, che vanno dalle cellule staminali totipotenti, rappresentate esclusivamente dallo zigote, fino alle cellule multipotenti dell’adulto, in grado di mantenere l’omeostasi di uno specifico tessuto, generando, mediante divisione e differenziazione, i precursori delle singole linee cellulari. Esse garantiscono che sia mantenuto un corretto ricambio cellulare e che il tessuto sia in grado di rispondere a situazioni di stress, aumentando o ricostituendo il pool di cellule mature di quello specifico distretto.

Le cellule staminali ematopoietiche sono cellule multipotenti che si collocano alla base del processo di ematopoiesi, dando origine, mediante successivi step di differenziazione, prima alle cellule progenitrici e poi alle singole cellule effettrici 3. Le cellule staminali ematopoietiche, all’interno del midollo osseo, si localizzano in specifiche nicchie, dette nicchie ematopoietiche. Qui permangono in uno stato di quiescenza G0 ed entrano nel ciclo cellulare in piccole quantità, in modo da garantire l’ematopoiesi da un lato e l’automantenimento da un altro, proteggendosi contemporaneamente da eventuali stimoli mielotossici 4. Qualora ci fosse bisogno di

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rigenerare rapidamente una o più popolazioni differenziate, sono in grado di abbandonare lo stato di quiescenza in massa, come accade in caso di infezione, sanguinamento massivo o pancitopenia indotta da chemioterapia. Le cellule staminali ematopoietiche vengono isolate e identificate sulla base dell’espressione del marcatore cellulare CD34+.

Pratica clinica

La procedura di trapianto si articola in alcuni tempi fondamentali:

1. La fase di valutazione. Va dalla decisione di effettuare al trapianto alla scelta del donatore, qualora si procedesse con trapianto allogenico.

2. La fase pretrapianto, che va dal momento in cui il paziente viene individuato come candidato al trapianto fino all’inizio del regime di condizionamento.

3. Il trapianto vero e proprio, che include il condizionamento, l’infusione del preparato e la gestione del paziente fino al momento dell’attecchimento.

4. La fase di follow-up 2.

Nel momento in cui si decide di procedere al trapianto è importante prendere in considerazione diversi fattori, quali il tipo di trapianto, la sorgente delle cellule staminali, la compatibilità con il donatore, il regime di condizionamento.

Sorgenti di cellule staminali ematopoietiche

Le cellule CD34+ possono essere isolate da tre diverse fonti: da sangue del cordone ombelicale, da sangue midollare, da sangue periferico in seguito a mobilizzazione con chemioterapia o citochine.

Le tre fonti hanno caratteristiche differenti che incidono sui risultati del trapianto.

Il sangue ombelicale, grazie alla relativa immaturità delle cellule, permette di superare più facilmente a barriera immunologica nelle fasi di attecchimento. Aumenta infatti la tolleranza al mismatch e si riduce l’incidenza di effetti avversi e di reazioni del trapianto verso l’ospite (Graft versus Host disease, GvHD), oltre che il rischio di trasmettere infezioni con il trapianto. D’altro canto, l’immaturità delle cellule trapiantate allunga i tempi di attecchimento, esponendo il paziente ad una neutropenia prolungata, responsabile di una maggiore incidenza di infezioni opportunistiche 5. Inoltre il numero ridotto di cellule raccolte, rispetto agli altri metodi, lo rende idoneo soprattutto al trapianto in pazienti pediatrici, rendendo necessaria l‘espansione cellulare in vitro per rendere la procedura applicabile anche a pazienti adulti.

Una delle possibilità per ovviare alle problematiche legate al trapianto da cordone ombelicale è la metodica aplo-cord, che prevede l’associazione di trapianto da unità cordonale all’infusione di cellule staminali da donatore aploidentico. Questo permette da una parte di sfruttare i vantaggi del trapianto da sangue cordonale (maggiore tolleranza al mismatching, ridotta incidenza di GvHD) e dall’altra ovviare alle sue limitazioni

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(minor numero di cellule, aplasia prolungata), garantendo così l’accesso al trapianto anche a soggetti per cui non è stato trovato altrimenti un donatore soddisfacente 6,7.

Le altre due fonti cellulari sembrano essere paragonabili in quanto a efficienza di isolamento e proprietà cellulari (efficacia di attecchimento duraturo, vitalità cellulare). L’isolamento di cellule staminali ematopoietiche da sangue periferico, dopo mobilizzazione, risulta tuttavia tecnicamente più semplice, ed è generalmente tollerato molto meglio da parte del donatore, consentendo contestualmente di isolare un numero maggiore di cellule. Ne consegue una migliore efficacia nelle strategie di “purging”, ovvero nelle metodiche atte a “ripulire” il trapianto dalle frazioni cellulari indesiderate, nonchè un aumento nella velocita di attecchimento 8.

Modalità di raccolta delle cellule staminali

Le modalità di raccolta delle cellule staminali variano in relazione alla sorgente. Le cellule staminali ematopoietiche, infatti, sono normalmente presenti nel midollo osseo e nel sangue cordonale, permettendo una raccolta diretta, che avviene, rispettivamente, con aspirazione dalla cresta iliaca con ago dotato di fori laterali in corso di anestesia generale, o mediante aspirazione dalla vena ombelicale. Non sono invece, in condizioni fisiologiche, rilevabili nel sangue periferico. Questo comporta che, al fine di assicurare l’adeguatezza e il successo della raccolta, le cellule debbano prima essere “mobilizzate”, ovvero sottoposte ad un trattamento che le spinga ad abbandonare le nicchie e riversarsi nel circolo periferico.

Tra gli agenti utilizzati per mobilizzare le cellule staminali sono comprese le citochine, somministrate con o senza chemioterapia prima dei periodi di raccolta programmati. Vengono utilizzati regimi diversi se la raccolta viene effettuata da donatore sano o dal paziente stesso.

L’utilizzo di filgrastim e lenograstim come mobilizzatori ad agente singolo è ormai ben radicato, poiché entrambi gli agenti hanno fatto riscontrare un aumento nelle concentrazioni di cellule staminali ematopoietiche in circolo 9. Si ritiene che il G-CSF favorisca la mobilizzazione attraverso la diminuzione dell’espressione dei geni del SDF-1α e dei livelli proteici, con conseguente aumento delle proteasi, che possono spezzare i legami tra le cellule e l’ambiente del midollo osseo 10,11. Il farmaco viene somministrato mediante iniezione sottocutanea per più giorni precedenti l’aferesi.

Dal momento che non è raro assistere ad un aumento di cellule staminali ematopoietiche dopo il recupero da una chemioterapia mielosoppressiva, un altro metodo per la mobilizzazione prevede la somministrazione di chemioterapia, generalmente associata alle citochine 12,13. Questo metodo viene comunemente denominato “chemiomobilizzazione.” La chemioterapia e le citochine operano in maniera sinergica per mobilitare le cellule staminali, sebbene non sia stato ancora completamente spiegato l’esatto meccanismo di mobilizzazione della chemioterapia. I possibili meccanismi comprendono gli effetti della stessa sull’espressione delle molecole di adesione delle cellule nel midollo osseo e il danneggiamento indotto dalla chemioterapia sulle cellule stromali. Questi due elementi generano l’aumento delle concentrazioni di cellule staminali in circolo in seguito all’alterazione del microambiente midollare 14.

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Tra i chemioterapici maggiormente utilizzati sono compresi l’etoposide e la ciclofosfamide ad alte dosi. Filgrastim (5 mcg/kg/giorno) può essere utilizzato in associazione alla chemioterapia nel processo di chemiomobilizzazione. Poiché nessun regime di mobilizzazione chemioterapica si è dimostrato migliore rispetto agli altri, si può scegliere di mobilizzare i pazienti durante un ciclo di chemioterapia mirata alla malattia. Alcuni esempi di regimi utilizzati sono ciclofosfamide, doxorubicina, vincristina e prednisone (CHOP), oltre a ifosfamide, carboplatino e etoposide (ICE).

Sono numerosi i fattori che sono stati studiati che influiscono sulla mobilizzazione efficace. Tra questi ritroviamo l’età, il sesso, l’eventuale patologia sottostante, l’intervallo tra a diagnosi e la raccolta delle cellule, l’esposizione ad agenti alchilanti, una precedente irradiazione, il coinvolgimento midollare, le concentrazioni piastriniche 15. La linea megacariocitica è particolarmente sensibile al danno a carico dell’ambiente midollare, di conseguenza può rappresentare un buon marcatore predittivo di mobilizzazione per il trapianto autologo. Tutti questi fattori ci permettono di stimare chi, tra i pazienti, sarà un “poor mobilizer”. Non c’è attualmente un consenso sulla definizione di poor mobilizer, ma come criteri sono stati utilizzati la bassa conta di CD34+ circolanti dopo mobilizzazione, l’impossibilità a raccogliere un numero sufficiente di cellule al terzo giorno di aferesi, un precedente fallimento nella raccolta di cellule staminali.

L’approccio ai poor mobilizer deve tenere conto di queste difficoltà, per cui sono state studiate alcune strategie per ottenere una mobilizzazione e quindi una raccolta soddisfacenti. Tra queste sono incluse la somministrazione di alte dosi di fattori di crescita, puntando sulla risposta dose-dipendente, la combinazione di questi con alte dosi di chemioterapia, o con lo “stem cell factor”, ligando di c-kit, recettore di membrana tirosin-chinasico presente sulle cellule di numerosi tessuti, tra cui il sistema ematopoietico 16. Più recentemente sono stati ottenuti risultati incoraggianti con l’uso di plerixafor. Esso è un inibitore reversibile dell’adesione delle cellule staminali allo stroma, mediata dal legame tra la proteina CXCR4 e lo stromal-dericved factor-1 17. Il suo utilizzo sembra garantire una raccolta efficace di cellule CD34+ nel 70% dei pazienti poor mobilizer, da solo o in combinazione con fattori di crescita 18.

Una volta iniziato il regime di mobilizzazione, i pazienti possono prevedere di essere sottoposti alla loro prima seduta di aferesi nell’arco di 4 - 5 giorni o, in alcuni casi, dopo 2 - 3 settimane. L’entità della mobilizzazione è accertata mediante valutazione della conta leucocitaria del paziente. Le misurazioni in serie della conta leucocitaria del paziente serviranno al clinico per determinare il momento appropriato per iniziare le procedure di raccolta. I centri, inoltre, potranno usare i livelli cellulari CD34+ nel sangue periferico come surrogato dello stato di mobilizzazione. Le soglie definite per dare inizio all’aferesi possono essere diverse da centro a centro, ma in genere variano da 5 a 20 CD34+ cellule/microlitro.

La procedura di aferesi avviene mediante una macchina aferetica, che centrifuga il sangue proveniente da un catetere, separa le cellule in strati e ne preleva lo strato in cui si raccolgono le cellule staminali. La raccolta delle cellule staminali prosegue per l’intera procedura, a cicli o in modo continuo, mentre gli emocomponenti restanti vengono restituiti al paziente attraverso il secondo lume del catetere. Le sedute di raccolta possono

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avvenire su base giornaliera finché non sono raggiunti i livelli target di CD34+. La procedura di aferesi può protrarsi anche per 4 giorni in base alle caratteristiche del paziente e al regime di mobilizzazione utilizzato. Per il trapianto autologo, il numero minimo di cellule raccolte deve essere almeno 2×106 CD34+/kg, mentre per l’allogenico varia sulla base delle specifiche del trapianto (mieloablativo, non mieloabativo, aploidentico, αβ-depleto) ma non può a prescindere essere minore di 4-10×106 CD34+/kg 16.

In ogni caso, un numero maggiore di cellule si associa a migliore outcome del trapianto 19.

Razionale del trapianto: autologo e allogenico

La chiave del trapianto di cellule staminali emopoietiche sta nella possibilità di poter somministrare chemio-radioterapie a dosi sovramassimali, o comunque in grado di indurre aplasia midollare, utilizzando il potenziale rigenerativo delle cellule staminali reinfuse per poter ricostituire in tempi relativamente rapidi un’emopoiesi efficace.

Il trapianto di cellule staminali propriamente detto è il trapianto da donatore allogenico. E’ comunque molto diffusa la metodica del cosiddetto trapianto “autologo”. In questo caso il donatore di cellule staminali è il paziente stesso, che viene sottoposto, nel corso delle terapie necessarie ad indurre la remissione delle malattia ematologica da cui è affetto, ad una stimolazione con G-CSF e/o con farmaci chemioterapici con potere mobilizzante (ARA-C e ciclofosfamide ad alte dosi, nella maggior parte dei casi). Nel caso di una mobilizzazione con numero di cellule CD34+ sufficienti ad una staminoaferesi esaustiva, il paziente viene avviato alla procedura di raccolta. Nelle patologie in cui si è dimostrato un beneficio del trapianto autologo (ad esempio il mieloma multiplo, o il linfoma follicolare in seconda recidiva), soprattutto in termini di tempo libero da progressione o recidiva, non è infrequente il riscontro di elementi patologici raccolti nel prodotto aferetico. La ricerca di cellule di malattia nel prodotto aferetico può essere eseguita con metodiche citofluorimetriche o di amplificazione genica (ad es. PCR per riarrangiamento IgH o per bcl-2). A tale scopo sono state messe a punto numerose strategie di purging, che devono da una parte eliminare le cellule contaminate, dall’altra garantire l’integrità delle cellule staminali sane. È possibile trattare i prodotti aferetici “contaminati” in modo da eliminare i cloni neoplastici, potenziando così l’effetto dalla procedura del trapianto autologo.

I vantaggi del trapianto autologo rispetto alla procedura allogenica sono legati soprattutto al minor numero di effetti collaterali. Vengono infatti meno i problemi legati alla compatibilità donatore-ricevente e alla GvHD, così come quelli dovuti alla terapia immunosoppressiva. Tuttavia, il donatore di cellule staminali resta il paziente stesso, e in molte patologie ematologiche, specie quelle che derivano da una patologia della cellula staminali emopoietica (ad es. le sindromi mielodisplastiche, le neoplasie mieloproliferative croniche) è difficile, ad oggi, isolare le cellule staminali sane da quelle patologiche.

Il trapianto allogenico consiste invece nell’infusione di cellule ematopoietiche prelevate da donatori sani, consanguinei o non consanguinei, identici totalmente o soltanto parzialmente per il sistema maggiore di istocompatibilità. Al confronto con l‘autologo, il trapianto allogenico ha il vantaggio di trasfondere cellule

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therapy-naïve, non esposte precedentemente a terapia citotossica, che ne accorcia la vita e la capacità di fare homing.

Inoltre, il trapianto allogenico è potenzialmente curativo per alcune patologie ematologiche in virtù dell’”immunoterapia adottiva”, legata all’infusione, oltre che di cellule staminali, di linfociti di un altro individuo. La sorveglianza immunitaria verso i tumori è infatti ad oggi riconosciuta come il principale meccanismo antitumorale in vivo, con almeno tre diversi meccanismi: (I) protezione contro le infezioni virali e di conseguenza soppressione delle neoplasie virus-indotte, (II) prevenzione dell’instaurarsi di un ambiente infiammatorio che facilita l’oncogenesi mediante pronta eliminazione dei patogeni e risoluzione dell’infiammazione, (III) eliminazione delle cellule tumorali, poiché le cellule tumorali neoformate spesso esprimono i ligandi per recettori attivatori sulle cellule dell’immunità innata e gli antigeni tumorali che vengono riconosciuti dai recettori dei linfociti 20.

E’ noto come i tumori siano in grado di indurre anergia nel sistema immunitario dei soggetti affetti, motivo per cui in pazienti oncologici è possibile riscontrare in vivo la presenza di linfociti anergici o senescenti. Dati recenti suggeriscono che la circolazione di cellule T effettrici nel microambiente tumorale non sempre avviene in maniera corretta, mentre le cellule che effettivamente lo raggiungono spesso si dimostrano essere disfunzionali, sottolineando un meccanismo immunosoppressivo del microambiente tumorale. L’insufficiente co-stimolazione B7, la soppressione estrinseca da parte di cellule regolatrici, l’inibizione tramite legame con proteine pro-apoptotiche come PD-1 (programmed death-1) e l’azione di fattori inibitori solubili come il TGF-β, sono tutti fattori che hanno dimostrato di essere implicati nella creazione di questo ambiente immunosoppressivo, che induce l’anergia delle cellule T effettrici 21. Per esempio, l’interazione tra la proteina di superficie PD-1 e PD-L1 (programmed death-ligand1), upregolato in un’ampia gamma di cellule maligne, porta le cellule T attivate verso uno stato di anergia 22.

Il trapianto allogenico si è affermato negli anni alla luce di risultati favorevoli in patologie altrimenti incurabili, e la riuscita di questa procedura nel controllo a lungo termine delle patologie onco-ematologiche è da ricercarsi nella capacità di reagire verso cellule di malattia da parte di un sistema immunitario circolante “trasferito” da un soggetto ad un altro. Tale meccanismo è in grado di by-passare e rompere la tolleranza che si instaura tra il sistema immunitario del paziente e il tumore.

Resta da chiarire quali popolazioni linfocitarie siano attive in questa reazione immunitaria verso la malattia, in quali tempi i linfociti siano più attivi verso il residuo di malattia, e come implementare in vivo questo effetto al netto delle complicanze, anche fatali, legate all’attivazione di un sistema immunitario “estraneo” all’interno di un organismo. Infatti, all’interno del sistema immunitario diverse popolazioni sono responsabili del riconoscimento e del killing in vivo dei cloni leucemici. Allo stesso modo, popolazioni linfocitarie specifiche sono coinvolte nella difesa dai patogeni opportunisti, nell’omeostasi del sistema immunitario e nella prevenzione delle reazioni di ipersensibilità o di auto-immunità, altre ancora sono riconosciute essere potenzialmente responsabili delle reazioni del trapianto verso l’ospite8. Il trapianto allogenico ideale deve fornire quindi:

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- Un’emopoiesi efficace nel minor tempo possibile (attecchimento breve);

- Un’alta attività GvL (linfociti allo reattivi verso cellule malate, popolazioni killer ben rappresentate); - Una bassa attività GvH, in acuto e nel lungo periodo;

- Un repertorio immunologico ampio, che consenta al soggetto trapiantato una difesa verso virus, batteri e miceti.

Per permettere il trapianto allogenico sono necessari alcuni requisiti: è necessario un grado di compatibilità donatore-ricevente sul sistema maggiore di istocompatibilità (sistema HLA), è necessario “preparare” il paziente a ricevere cellule staminali e linfociti estranei (condizionamento), ed è necessario prevenire e trattare l’attivazione eccessiva e impropria del sistema immunitario del donatore, preservando allo stesso tempo gli effetti positivi che questo può produrre nei confronti del residuo di malattia e l’attività di protezione immunologica verso i microrganismi. Il rapporto di tolleranza che si instaura tra donatore e ricevente è dinamico, e non è legato solo all’espansione della quota di linfociti infusi al momento del trapianto. Le cellule staminali emopoietiche ricostituiscono un repertorio B, T, e NK attraversando le fasi della genesi del sistema immunitario a partire da precursori. Questo processo, conosciuto come ricostituzione immunologica, si svolge nel midollo osseo per i progenitori B, e nel residuo timico e in altri tessuti per le cellule della linea T, e si sviluppa nell’arco di mesi o anni.

Compatibilità donatore-ricevente: il sistema HLA

La compatibilità del donatore rappresenta un requisito fondamentale per ridurre due importanti complicazioni del trapianto, il rischio di rigetto e la GvHD.

Il ruolo primario delle molecole HLA è quello di presentare l’antigene ai linfociti T, permettendogli di riconoscere ed eliminare particelle estranee all’organismo, così come impedire che il self venga riconosciuto come estraneo. Per il successo di un trapianto è necessario manipolare o aggirare questa funzione dell’organismo, in modo da garantire l’attecchimento del nuovo sistema immunitario.

Il sistema HLA è codificato dal locus MHC, localizzato sul braccio corto del cromosoma 6 (6p21.3). Esso contiene più di 200 geni, la maggior parte dei quali hanno funzioni correlate all’immunità. È diviso in tre regioni principali: HLA-I, che contiene i geni HLA-A, -B e –C, e HLA-II, contenente HLA-DR, -DQ e –DP. HLA-III, situato in mezzo alle precedenti, e codifica per numerose proteine tra cui fattori del complemento e TNF.

È un sistema caratterizzato da un marcato polimorfismo (è attualmente la regione più polimorfa conosciuta dell’intero genoma umano), soprattutto a carico delle sequenze codificanti per i siti di legame con l’antigene, i PBG (peptides binding groove). Questa variabilità si è sviluppata in seguito ad una spinta evoluzionistica, per la necessità di rispondere ad un’enorme varietà di agenti patogeni, infettivi e non.

Le molecole HLA sono espresse sulla superficie delle cellule, dove presentano l’antigene ai linfociti T, che lo riconoscono solo se presentato dalla stessa molecola MHC che hanno incontrato durante la timopoiesi. È qui che si determina la compatibilità o l’incompatibilità del donatore con il ricevente: a seguito del trapianto, il

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nuovo sistema immunitario, sviluppatosi a partire dalle cellule staminali del donatore, rischia di riconoscere le cellule del ricevente, che presentano HLA nativo, come non-self, scatenando contro di esse una risposta immune alla base della GvHD. Questo rischio aumenta all’aumentare del grado di disomogeneità tra gli antigeni HLA (mismatch). Il peso di ogni antigene HLA non è tuttavia identico, presentando alcuni di essi una minore immunogenicità.

Nonostante l’immenso polimorfismo, il sistema HLA viene comunque ereditato con meccanismo mendeliano, perché i geni sono raggruppati in regioni cromosomiche ristrette, rendendo la ricombinazione omologa altamente improbabile. Ciò implica che gli alleli vengano ereditati insieme come aplotipi. Gli alleli sono codominanti e vengono sempre espressi entrambi.

Per determinare i polimorfismi del sistema HLA, abbiamo a disposizione diverse tecniche di tipizzazione. Le tecniche sierologiche, le prime ad essere state usate, vengono oggi utilizzate per effettuare un primo screening dei potenziali donatori. Gli avanzamenti nelle metodiche di biologia molecolare hanno permesso di sviluppare tipizzazioni sempre più precise, a risoluzione media e alta, che permettono di individuare per ogni sequenza HLA il gruppo sierologico, la sequenza aminoacidica e la sequenza genica che lo caratterizzano. Ne deriva una nomenclatura caratterizzata da una serie di quattro cifre separate da “:”. Le prime due cifre indicano il gruppo sierologico della proteina (bassa risoluzione), che da solo non è sufficiente per definire l’allele in maniera univoca, sebbene possa essere utile per un primo screening tra donatori. Il secondo gruppo di cifre identifica nell’ambito di quel sierotipo i diversi sottotipi (media risoluzione), ovvero un gruppo di alleli che codificano per lo stesso prodotto proteico, pur con polimorfismi diversi, nell’ambito del quale, con metodiche ad alta risoluzione, si possono individuare le specifiche sequenze geniche che definiscono l’allele in maniera univoca. Per la scelta di donatori non consanguinei è raccomandato l’utilizzo di metodiche ad alta risoluzione. Si parla di mismatch antigenico quando si ha sostituzione di aminoacidi sia a livello delle regioni leganti l’antigene che di quelle che riconoscono i linfociti T, mentre il mismatch allelico fa riferimento solo alle regioni leganti l’antigene. Polimorfismi sia marcati che minimi possono causare una immunogenicità, perché, anche se molto limitati, non sono comunque funzionalmente nulli. È stato addirittura suggerito che differenze limitate possono indurre una risposta immune maggiore che differenze più marcate, perché la molecola MHC somiglia di più alla MHC-self, ed è quindi maggiormente portata a cross-reagire con LT del ricevente. Sembra che specifici mismatch siano maggiormente permissivi rispetto ad altri, intendendo con permissive mismatch una condizione che non presenta peggiore outcome rispetto a un match. Definire però quali siano è difficile, anche se numerosi tentativi sono stati fatti in questo senso 23,24.

Sulla base del grado di omologia genetica del sistema di istocompatibilità tra paziente e donatore e sul grado di parentela è possibile identificare:

 Trapianto singenico, da gemello monocoriale  Trapianto da donatore familiare HLA compatibile

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 Trapianto da donatore familiare HLA parzialmente compatibile (HLA mismatch e aploidentico, ovvero uguale al 50%)

 Trapianto da donatore non familiare HLA compatibile, da banca (matched unrelated donor, MUD)  Trapianto da donatore non familiare HLA non compatibile (mismatched unrelated donor, MMUD) Maggiore è il grado di divergenza tra donatore e ricevente, maggiore è il rischio di sviluppare reazioni avverse quali rigetto e GvHD. Il donatore migliore è in ogni caso, se presente, il germano HLA-identico, suggerendo che, anche se molti altri fattori (età, sesso, etc) giocano un ruolo nella determinazione del risultato, quelli genetici rimangono i più importanti. Questo è valido soprattutto nelle classi di rischio intermedie, mentre per le classi di rischio più alte l’aspetto più importante rimane la necessità di garantire il trapianto, quando si sia trovato un donatore “accettabile”, senza prolungare più del necessario la ricerca del donatore “perfetto”. Per ridurre i rischi di un trapianto con elevato grado di disparità genetica, si può ricorrere alla manipolazione delle cellule da trapiantare, come nel caso della deplezione in vivo o in vitro della frazione T (vedi oltre).

Il condizionamento

Il condizionamento rappresenta uno dei punti centrali della procedura trapiantologica. Consiste nella fase preparatoria al trapianto, che getta le basi del controllo a lungo termine della malattia. Ha un triplice scopo:

 La creazione di spazio: le cellule staminali dell’ospite vanno eliminate per permettere a quelle del donatore di poter raggiungere le nicchie e rendere possibile l’attecchimento.

 L’immunosoppressione: inattivando il sistema immunitario dell’ospite si riducono le possibilità di rigetto del trapianto.

 L’eradicazione della malattia oncologica di base.

Il regime ideale di condizionamento eradica la malattia, permette l’attecchimento e causa la minima tossicità possibile.

Attualmente si basa su regimi combinati di chemioterapia e/o TBI (total body irradiation).

I primi regimi di condizionamento sviluppati sono quelli ad oggi definiti mieloablativi, basati sul concetto che l’eradicazione della malattia dipendesse esclusivamente da questo passaggio. Evidenze cliniche successive hanno mostrato come parte dell’effetto antitumorale sia in realtà mediato dai linfociti T alloreattivi del donatore, con un meccanismo detto GvL (graft versus leukemia) 25. A partire da queste evidenze sono stati sviluppati i regimi cosiddetti non-mieloablativi, che hanno garantito l’accesso al trapianto anche a pazienti anziani o con comorbidità significative, che non avrebbero tollerato un regime di condizionamento mieloablativo, a causa della sua spiccata tossicità tissutale 26.

Si sfrutta quindi l’effetto immunoterapeutico dell’infusione contemporanea di cellule staminali e cellule mature per evitare di esporre il paziente a trattamenti altamente tossici, diminuendo le complicanze trapiantologiche e aumentando il numero di soggetti trapiantabili efficacemente.

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 Regimi mieloablativi: essi inducono una profonda aplasia midollare, che espone il paziente al rischio di infezioni opportunistiche e allunga le tempistiche di recupero ematopoietico; sono associati ad un’alta tossicità tissutale, soprattutto epatica, cutanea e renale.

 Regimi di condizionamento a ridotta intensità: utilizzano chemioterapici in grado di contrastare efficacemente la neoplasia di base.

 Regimi di condizionamento minimamente mieloablativi e immunosoppressivi: si basano sul concetto di immunoablazione invece che mieloablazione, utilizzano i soli farmaci immunosoppressori per impedire il rigetto del trapianto, lasciando ad esso il ruolo di eradicare la malattia.

L’attecchimento

L’ultima fase del trapianto consiste nell’attecchimento e nel recupero. Durante questa fase critica le cellule staminali infuse ritornano al loro microambiente nel midollo osseo e ripopolano le riserve di midollo vuotate. L’attecchimento viene definito dal valore dei polimorfonucleati (PMN) delle piastrine e dei reticolociti a livello del sangue periferico. Convenzionalmente l’attecchimento per la serie granulocitaria è definito dal numero dei PMN, >500/mm3 per almeno tre giorni consecutivi, mentre per le piastrine da una conta superiore a 50 000/mm3 e per la serie rossa da un numero di reticolociti superiore a 25 000/mm3 sempre su tre controlli consecutivi in tre giorni successivi. La perdita dell’attecchimento è definita dalla riduzione dei PMN al di sotto dei 200/mm3 e dalla cellularità midollare. La ripresa emopoietica dipende da vari fattori, quali la malattia di base, il regime di condizionamento pre-trapianto, il numero di cellule infuse, la profilassi della GVHD, la comparsa di eventuali infezioni virali (Cytomegalovirus, CMV).

L’infezione da CMV rappresenta la complicanza infettiva più frequente dopo trapianto di staminali, con percentuali di riattivazione che arrivano fino all’80% e infezioni sintomatiche in circa il 10% dei casi. Al di là della profilassi antivirale, un ruolo importante nella riattivazione è data dal siero-stato del donatore, soprattutto in riceventi sieropositivi, in ragione dell’immunità CMV-specifica trasferita da donatori positivi. Una maggiore incidenza si riscontra anche in seguito a ricostituzione rallentata o deficitaria, a GvHD e rispettiva terapia, che contribuiscono all’immunosoppressione 27.

Finché non avviene l’attecchimento i pazienti sono esposti ad un rischio maggiore di infezioni, di conseguenza si dovranno adottare adeguate precauzioni per evitare l’esposizione a patogeni microbici. Spesso, i pazienti richiedono strategie e terapie di supporto, comprendenti la somministrazione di antiemetici, antidolorifici, antibiotici e supporto nutrizionale per migliorare le conseguenze derivanti da regimi di preparazione con chemioterapia ad alto dosaggio e da un periodo successivo di pancitopenia di lunga durata.

La sostituzione del compartimento staminale del paziente con le cellule del donatore determina la convivenza nello stesso individuo del patrimonio genetico di due soggetti differenti; il ricevente in questo caso diventa genotipicamente una chimera (termine mutuato dalla mitologia classica per definire una creatura con parti anatomiche derivate da individui differenti)

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Attraverso diverse metodiche, applicabili sia su cellule midollari che su sangue periferico, è possibile stabilire il chimerismo post-trapianto e soprattutto seguirne l’andamento nel tempo. In base alla persistenza o meno di cellule del ricevente a livello midollare o periferico si distinguono tre possibili differenti stati chimerici:

• Chimerismo completo (assenza di residuo cellulare emopoietico del paziente): si definisce completo quando almeno il 95% dell’emopoiesi è sostenuta da cellule del donatore.

• Chimerismo misto (concomitante presenza di cellule del donatore e del ricevente). • Assenza di chimerismo (ricostituzione emopoietica autologa).

La reazione del trapianto contro l’ospite

Una delle principali complicanze a cui vanno incontro i pazienti allotrapiantati è la GvHD. Essa è caratterizzata dalla reazione di cellule immunocompetenti del donatore contro tessuti del ricevente. Rappresenta ad oggi la complicanza più frequente del trapianto allogenico, in grado di influenzare la morbidità, la NRM (non relapse mortality) e la qualità della vita dei pazienti trapiantati 28.

Dalle diverse casistiche, per il trapianto di midollo HLA identico, l’incidenza della GvHD è del 30-50%; tale incidenza aumenta al 50-80% dei casi nei trapianti da MUD o familiari HLA parzialmente compatibili. La sopravvivenza a lungo termine nei pazienti con GvHD di grado >II risulta inferiore al 30%. Ovviamente, non solo il tipo di trapianto (il trapianto di SCO correla infatti con una più bassa probabilità di incidenza della GVHD) e il grado di compatibilità donatore-ricevente influenzano l’incidenza della GVHD, ma anche il regime di profilassi impiegato e numerosi altri fattori.

Questa reazione, mediata principalmente da linfociti T, non è spiegabile unicamente con la compatibilità HLA, poichè si verifica anche in caso di trapianto HLA identico in una percentuale elevata di casi. In questo caso la risposta è diretta contro specifici antigeni detti antigeni minori di istocompatibilità, la cui presenza è dovuta pricipalmente a polimorfismi di singolo nucleotide, che causano l’esposizione di epitopi differenti tra donatore e ricevente 29.

Un ruolo nel trapianto aploidentico è riconosciuto anche a rapporti fra HLA di classe I del ricevente e i recettori KIR delle cellule NK del donatore 30. Le cellule NK del donatore possono infatti essere attivate dalla mancata espressione dell’appropriato ligando HLA, che funge da segnale inibitorio.

Tutti questi meccanismi hanno come risultato l’attivazione di una risposta citotossica del nuovo sistema immunitario contro l’ospite, con conseguente infiammazione e distruzione tissutale, evidente soprattutto a livello di cute, mucose e parenchima epatico.

Altri fattori di rischio riportati per lo sviluppo di GvHD sono l’età avanzata del paziente, l’utilizzo di un donatore donna per un paziente di sesso maschile, l’uso di cellule staminali periferiche invece che da midollo osseo, una precedente alloimmunizzazione del ricevente, l’intensità del regime di condizionamento 31. Classicamente si distinguevano una forma acuta (aGvHD) e una forma cronica (cGvHD) sulla base delle tempistiche di insorgenza, rispettivamente entro o dopo 100 giorni dal trapianto. Ad oggi, con l’introduzione

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di regimi di condizionamento a intensità ridotta e le manipolazioni del trapianto come l’infusione di linfociti del donatore, questa distinzione ha perso di significato, perché le due forme, con caratteristiche cliniche diverse, possono manifestarsi senza seguire i tempi canonici di presentazione.

Possiamo quindi riconoscere una forma acuta classica, che si manifesta nei primi 100 giorni dal trapianto, o una forma acuta persistente, ricorrente o tardiva, con caratteristiche cliniche della GvHD acuta ma una tempistica ritardata. La forma cronica, analogamente, può distinguersi in una forma pura e in una sindrome overlap, che senza distinzioni temporali, mostra i segni clinici di forma acuta e cronica.

La GvHD acuta, direttamente o indirettamente, è la principale causa di mortalità nei primi 100 giorni dopo il trapianto. Può essere considerata una risposta disregolata al danno tissutale indotto dalla procedura di trapinto, che inizia già dalla fase di condizionamento con la liberazione di mediatori infiammatori, continua con il reclutamento di cellule APC dell’ospite e termina con l’attivazione delle cellule citotossiche del donatore, che determinano un’attività citolitica diretta soprattutto a livello di cute, mucose e parenchima epatico.

Si manifesta con rash eritematoso maculopapulare, anoressia e/o diarrea persistenti, epatopatia con elevati livelli plasmatici di bilirubina, transaminasi e fosfatasi alcalina. Caratteristica comune di tutte le presentazioni è l’esposizione a contaminazione microbica. L’intensità della manfestazione è molto variabile, da forme autolimitantesi a forme gravi e potenzialmente fatali.

La GvHD cronica è una complicanza anch’essa molto frequente, sebbene in una fase più tardiva. Ha una presentazione clinica che mima una patologia autoimmune, con coinvolgimento di numerosi organi quali cute, fegato, occhi, cavità orale e polmone. La sua patogenesi è meno chiara, coinvolge sempre una risposta T-mediata, anche se studi recenti hanno attribuito importanza anche all’attivazione dei linfociti B 32.

È da sottolineare che entrambe le forme di GVHD aumentano la tendenza alle complicanze infettive, sia per la loro natura immunosoppressiva che per l’effetto immunosoppressore delle terapie impiegate per il suo trattamento. In questa fase diventa pertanto particolarmente importante il monitoraggio delle complicanze infettive e la loro eventuale profilassi.

I farmaci impiegati nella profilassi della GVHD sono farmaci citotossici o immunosoppressori quali il MTX, la CSA e i corticosteroidi; sono inoltre state impiegate tecniche di manipolazioni del midollo infuso come la rimozione dei linfociti T.

LE POPOLAZIONI LINFOCITARIE

Le cellule del sistema immunitario sono divise tra linfociti, dotati di specificità antigenica, cellule specializzate che catturano e presentano gli antigeni e cellule effettrici che eliminano gli agenti estranei. Di questi, i linfociti sono le uniche cellule dotate di recettori specifici per l’antigene e rappresentano la componente centrale

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dell’immunità adattativa. Sebbene tutti i linfociti siano morfologicamente simili e apparentemente privi di caratteristiche particolari, sono estremamente eterogenei sotto il profilo ontogenetico, funzionale e fenotipico, e sono capaci di risposte biologiche e funzioni estremamente complesse. Le popolazioni cellulari vengono differenziate in base all’espressione di diverse proteine di superficie, identificabili con l’utilizzo di anticorpi monoclonali.

I linfociti B

I linfociti B hanno come funzione principale quella di produrre gli anticorpi. Maturano nel midollo osseo e incontrano l’antigene a livello degli organi linfoidi secondari. Il riconoscimento dell’antigene avviene grazie alle Ig di superficie che sintetizzano. Sono i mediatori dell’immunità umorale, responsabile dell’eliminazione dei batteri, in particolar modo quelli capsulati. In citofluorimetria si individuano per l’espressione di CD45, CD19, CD20. La forma matura di linfocita B è la plasmacellula, ovvero un linfocita B che ha incontrato l’antigene, ha proliferato e si è differenziato nella forma producente anticorpi.

In seguito a trapianto, bassi livelli di linfociti B sembrano associati alla presenza di GvHD, suggerendo che questa, o i farmaci utilizzati per il suo trattamento (in particolare glucocorticoidi) siano implicati nel rallentamento della ricostituzione 33. Bassi livelli di linfociti B a loro volta sono correlati con una maggiore incidenza di infezioni post-trapianto 34,35.

I linfociti T

In generale sono i linfociti mediatori dell’immunità cellulo-mediata, attiva in particolar modo contro virus e batteri intracellulari. Rispetto ai linfociti B sono una famiglia più eterogenea: tra di essi vi sono cellule che fungono da mediatori per l’attivazione dell’immunità umorale (linfociti T helper), cellule effettrici citotossiche (linfociti T citotossici), cellule responsabili della tolleranza al self (linfociti T regolatori) ed altre sottopopolazioni ancora oggetto di studio come i linfociti T γδ. Il marcatore di superficie che accomuna tutti i linfociti T è il CD3.

Nell’ambito dei linfociti T una prima distinzione va fatta sulla base del TCR, proteina di superficie responsabile del riconoscimento dell’antigene. La maggior parte delle cellule T esprime il TCRαβ, ristretto per MHC, in grado di riconoscere esclusivamente antigeni di natura peptidica. Dei linfociti T positivi per il TCRαβ fanno parte le cellule T helper, le T citotossiche e le T regolatorie. Una percentuale di linfociti T, inferiore al 5%, esprime invece il TCR γδ, non ristretto per MHC e in grado di riconoscere antigeni di natura lipidica o glicolipidica. Queste cellule presentano numerose peculiarità e sono ancora oggi oggetto di studio, in ragione delle loro funzioni complesse e del numero estremamente elevato di sottotipi.

Di particolare interesse è la ricostituzione T dopo trapianto di cellule staminali, poiché, seguendo le tappe dell’ontogenesi T, si rende necessaria la maturazione dei nuovi cloni linfocitari a livello timico. Il timo, però, è un organo particolarmente sensibile ad insulti esogeni ed endogeni, come infezioni, shock, chemio-radioterapia e GvHD. Inoltre la capacità rigenerativa particolarmente spiccata che lo caratterizza declina con l’età. Mentre l’involuzione timica non rappresenta un problema in individui sani, la sua funzionalità è

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essenziale quando gli viene richiesta una ripresa della timopoiesi dopo deplezione immunitaria 36. Un’insufficiente recupero timico è stato infatti correlato con infezioni opportunistiche e peggior prognosi in pazienti sottoposti a trapianto 37.

Linfociti T helper

Il ruolo di queste cellule è quello di fornire un segnale di attivazione per le cellule dell’immunità sia innata che adattativa, mediante la secrezione di citochine. Tra le altre funzioni, fanno da ponte tra l’immunità umorale e quella cellulo-mediata, fungendo da segnale coattivatorio per i linfociti B, indirizzandoli verso la differenziazione in plasmacellule e la produzione di anticorpi.

Si identificano in citofluorimetria per l’espressione del CD4.

Linfociti T citotossici

Sono le cellule effettrici dell’immunità cellulo-mediata. Hanno azione citotossica, resa possibile dalla liberazione di enzimi litici che portano alla necrosi le cellule infettate.

Si identificano per l’espressione del CD8.

I linfociti T regolatori

Sono linfociti TCRαβ CD4+ che esprimono in maniera costitutiva il CD25 e il fattore di trascrizione Foxp3. La loro funzione è quella di contribuire al mantenimento della tolleranza al self attraverso la soppressione della risposta immunitaria.

Essi possono avere due origini distinte:

• Durante la linfopoiesi, nella fase di selezione negativa, alcuni cloni linfocitari che riconoscono i MHC self con alta avidità, invece che andare incontro ad apoptosi prendono una via diversa, che li porta alla conversione in T-reg, attraverso peculiari vie di trasduzione del segnale. Sembra che i corpuscoli di Hassel siano le strutture responsabili della maturazione di queste cellule 38.

• A livello periferico, a partire da linfociti T naïve che riconoscono l’antigene in assenza di sufficienti segnali coattivatori. In questo caso prendono il nome di linfociti T regolatori inducibili o adattativi. Esperimenti sui topi hanno dimostrato che i T-reg possono prevenire la GvHD 39 e prove cliniche hanno dimostrato che la quantità di T-reg nel sangue del donatore è inversamente proporzionale alla probabilità di sviluppare GvHD 40.

Studi in vitro hanno mostrato come l’espansione delle T-reg possa inibire l’espansione delle cellule NK, in ragione di un meccanismo competitivo per l’IL-2. Questo porta a ipotizzare che un’espansione eccessiva delle T-reg possa comportare una ridotta GvL per insufficiente espansione NK 41.

I linfociti γδ

I linfociti γδ appartengono ad un sistema a rapida riposta contro lo stress tissutale, sia di natura infettiva che non. Essi hanno numerose funzioni, ad oggi non del tutto comprese. Garantiscono una protezione locale

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mediante interazione di natura regolatoria con macrofagi, granulociti e cellule dendritiche. D’altro canto, però, determinano la produzione di citochine e chemochine in grado di attivare la risposta innata e quella adattativa, fungendo addirittura da cellule presentanti l’antigene. Sono cellule coinvolte nell’immunosorveglianza neoplastica, in grado di riconoscere variazioni tissutali indotti dalla trasformazione neoplastica rispondendo sia con la produzione di IFN-γ, sia mediante citolisi diretta.

La percentuale delle cellule γδ varia molto a seconda dei tessuti e della specie, ma rappresenta meno del 5% di tutti i linfociti. Sono cellule che presentano uno spiccato tropismo per gli epiteli di rivestimento di alcuni organi, in particolare intestino, albero respiratorio e lingua, dove esercitano una funzione difensiva, per cui solo una piccola percentuale di essi (1-2%) rimane circolante. Non sono ristretti per MHC e riconoscono un’ampia gamma di antigeni, non solo di natura proteica ma anche lipidica o glicolipidica.

Per anni l'ipotesi dominante è stata che il recettore T γδ istruisse le cellule doppio-negative nel successivo sviluppo, e che quindi diventassero cellule γδ le cellule che avessero espresso il recettore T γδ prima del preTCR; questa prospettiva è messa in discussione dalla constatazione che linfociti αβ possono, in condizioni particolari, divenire γδ 42,43.

Esiste una varietà molto vasta di sottopopolazioni γδ 44 ed è stato ipotizzato che non seguano tutte lo stesso processo di selezione a livello timico. La stimolazione dei linfociti T γδ con IL-2 e pamidronato/zoledronato si è rivelata un'immunoterapia efficace nel trattamento di tumori maligni linfoidi quali linfoma non hodgkin a cellule B e mieloma 45. A conferma di questa ipotesi, la ricostituzione di cellule γδ è uno dei fattori che correla più chiaramente con l'effetto del trapianto contro la malattia (GvL) nei pazienti trapiantati con preparati di cellule ematopoietiche T-depleti 46. I linfociti T γδ proteggono inoltre dalla GvHD, rivelandosi capaci di separare l’effetto GvL da quello GvHD.

La maturazione T: linfociti T naïve e cellule della memoria

Oltre ad essere identificati sulla base delle proprie funzioni, i linfociti possono differenziarsi per il loro stadio evolutivo: si definiscono quindi naïve i linfociti che non hanno ancora incontrato l’antigene, identificati mediante l’espressione sulla superficie del CD45RA (isoforma del CD45 da 220 kD). Una volta incontrato l’antigene, essi si differenziano nelle varie cellule effettrici, sulla base dei segnali costimolatori ricevuti. Parte di queste cellule attivate si differenziano ulteriormente nelle cosiddette cellule della memoria, in grado di permanere a lungo tempo in circolo e dare una risposta rapida ed efficiente nel caso di un secondo incontro con l’antigene per cui sono specifiche. Questo gruppo di cellule si identifica per l’espressione di CD45RO (isoforma del CD45 da 180 kD).

In seguito a cicli ripetuti di replicazione, le cellule possono esprimere marcatori di senescenza, indicativi dell’accorciamento dei telomeri e quindi della “stanchezza” cellulare. In questo caso le cellule si identificheranno per l’espressione del CD57.

Questi marcatori possono essere utili nella valutazione della ricostituzione dopo trapianto: alte concentrazioni di cellule CD57+ sono testimonianza di un’espansione periferica di cellule mature infuse assieme a quelle

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staminali, piuttosto che rappresentare una ripresa dell’ematopoiesi. Al contrario, un incremento delle cellule naïve sta a significare una ripresa della timopoiesi.

Le cellule NK

Le cellule natural killer (NK) sono una classe di linfociti particolarmente importanti nella risposta ad agenti infettanti intracellulari. Sono le meno specializzate del sistema immunitario e distruggono ogni elemento cellulare riconosciuto come "non-self". Il riconoscimento avviene grazie a interazioni tramite specifici recettori inibitori detti KIR (killer immunoglobulin-like receptors), che interagiscono con il complesso MHC di classe I. Le NK risparmiano le cellule che esprimono MHC di classe I e bassi livelli di molecole stress-induced, mentre uccidono le cellule dove il MHC è down-regolato e i segnali di stress sono aumentati 47-49

Numerosi sono gli studi che hanno documentato l’attività antitumorale delle cellule NK, che avviene con meccanismi diversi, tra cui la lisi diretta delle cellule tumorali mediata da perforina o l’induzione della morte cellulare attraverso vie di segnalazione come TRAIL e FasL 50,51. Le funzioni effettrici delle cellule NK sono regolate dinamicamente, e l’uccisione o meno delle cellule target dipende dall’interazione con segnali distinti che arrivano alla cellula dopo l’interazione con i ligandi espressi sulla superficie delle cellule target. Nell’ambito trapiantologico si riconosce alle NK parte dell’effetto GvL 52.

LA RICOSTITUZIONE IMMUNOLOGICA

La ricostituzione immunologica è il lento processo che accompagna il soggetto trapiantato dalla fase di aplasia al recupero di un sistema immunitario efficiente.

Si parla di attecchimento quando il paziente presenta una conta granulocitaria sopra 500/mm3 per almeno tre giorni consecutivi. Il tempo in cui esso si realizza varia in base al regime di condizionamento e alla sorgente delle cellule (è più lungo nei trapianti da cordone ombelicale). Nei regimi mieloablativi si assesta in media intorno alla XVI giornata.

Sulla base delle cellule presenti in circolo e alla suscettibilità ai diversi agenti infettivi, si possono individuare 3 fasi della ricostituzione:

I. Fase pre-attecchimento (< 15-45 giorni post-tapianto): durante questa fase la profonda neutropenia e i danni alla barriera mucosa determinano un rischio sostanziale di batteriemia, infezioni micotiche che coinvolgono Candida spp. e Aspergillus spp. e riattivazione di HSV. La durata di questa fase dipende soprattutto dal regime di condizionamento, che allunga la fase di aplasia in maniera proporzionale all’intensità. I soggetti sottoposti a regimi esclusivamente immunosoppressivi non ne sono soggetti. II. Fase post-attecchimento (30-100 giorni post-trapianto): in questa fase le infezioni dipendono

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comparsa e dall’estensione della GvHD, oltre che dalla terapia immunosoppressiva con cui questa viene prevenuta e trattata. Durante questo periodo le complicanze infettive di più comune riscontro sono la riattivazione di virus, in particolare herpesvirus come CMV, ma anche infezioni da parte di Pneumocystis Jiroveci e Aspergillus spp.

III. Fase tardiva post-attecchimento (>100 giorni post-trapianto): in questo lasso di tempo le conte leucocitarie si stabilizzano. Può permanere un deficit immunoglobulinico, in particolare per quanto riguarda l’immunità mucosale. Questo espone il paziente a un maggio rischio di infezione da parte di batteri capsulati, per esempio Steptococcus Pneumoniae. L’insorgenza di GvHD, come nella fase II, aumenta il rischio infettivo, prolungando lo stato di immunodeficienza 53,54.

La ricostituzione dell’immunità innata

L’immunità innata costituisce il primo meccanismo di risposta dell’organismo agli attacchi da parte di agenti esterni, infettivi e non. Comprende le barriere epiteliali, adiuvate dalle secrezioni antimicrobiche come il sebo, la saliva e il lisozima, il sistema del complemento e le citochine infiammatorie, i fagociti come i neutrofili e i monociti-macrofagi e le cellule NK. Ognuna di queste ricostituisce in tempi diversi, ma caratteristica comune a tutte le componenti cellulate è il fatto che la comparsa di GvHD ne può ritardare o compromettere la ripresa efficiente.

Barriere epiteliali

Questo primo sistema di difesa può essere compromesso dalle terapie radio-chemioterapiche stesse, che ne compromettono l’integrità. La GvHD può ostacolarne o complicarne la riparazione, che può rimanere incompleta per un tempo indefinito. Ad essa si aggiunge il danno causato alle ghiandole salivari, con conseguente compromissione della secrezione, che aumenta il rischio di infezioni a carico del cavo orale.

Complemento

I fattori solubili dell’immunità innata quali complemento e citochine infiammatorie non sono generalmente deficitari nel soggetto trapiantato, poiché la loro produzione è principalmente epatica. Nonostante ciò, il trapianto può slatentizzare deficit congeniti fino a quel momento asintomatici, con conseguente calo della produzione.

Neutrofili

Essi sono la componente leucocitaria circolante più rappresentata nell’individuo normale, nonché la prima a risalire dopo il periodo di aplasia, tanto da essere utilizzate come indicatori di avvenuto attecchimento. Essi ritornano dosabili già intorno alla XVI giornata.

Cellule presentanti l’antigene

I monociti-macrofagi ricosituiscono anch’essi in tempi brevi, raggiungendo livelli normali nel giro di un mese, anche se alcuni studi riportano un deficit della funzione chemiotattica che si prolunga fin ad un anno dopo il trapianto 55.

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Le cellule di Langherans ricostituiscono in genere nel giro di 3-6 mesi. Le cellule dendritiche mieloidi ricompaiono intorno ai 3 mesi dopo il trapianto, mentre quelle plasmocitoidi possono rimanere a livelli bassi fino a un anno dopo il trapianto, così come le cellule dendritiche follicolari, necessarie per il processo di maturazione dei linfociti B nei centri germinativi. Questo spiega anche il motivo per cui i deficit immunoglobulinici possono prolungarsi a lungo tempo.

Cellule NK

La ricostituzione delle cellule NK ricalca l’ontogenesi, sviluppando le nuove cellule a partire dai precursori linfoidi. Esse ritornano a livelli normali nei primi 30 giorni dopo il trapianto, periodo in cui rappresentano la maggior parte della popolazione linfoide circolante. Esse giocano un ruolo importante sia nella risposta antivirale che quella antitumorale (GvL), così come possono essere responsabili di un rigetto.

La ricostituzione dell’immunità adattativa

L’immunità adattativa rappresenta la componente più specializzata della risposta immunitaria. È definita adattativa per il fatto che essa viene modellata dall’incontro con gli agenti infettivi, potenziando e rendendo progressivamente più efficiente la sua attività. Essa viene attivata e potenziata dalle componenti dell’immunità innata. È costituita dai linfociti e dai loro prodotti, gli anticorpi. Può essere distinta in due tipi: la risposta cellulo-mediata e quella umorale, facenti capo rispettivamente ai linfociti T e i linfociti B, con diversi gradi di interazione fra le due.

Immunità umorale

Il punto centrale della risposta umorale è dato lai linfociti B producenti anticorpi. Essi si sviluppano nel midollo osseo e in seguito a riconoscimento dell’antigene negli organi linfoidi secondari maturano in plasmacellule, responsabili della produzione anticorpale.

Nei primi due mesi dopo trapianto la conta B-cellulare può essere bassa o addirittura indosabile, dopodichè tende a salire durante il terzo mese, fino a raggiungere livelli anche più alti dei soggetti sani. Nonostante il numero di cellule possa sembrare normale in tempi brevi, la funzione rimane deficitaria a lungo, per la mancanza della funzione dei linfociti T CD4+ helper, di una produzione citochinica adeguata e per l’assenza di cellule dendritiche follicolari, essenziali per la maturazione dell’affinità e la produzione di cellule della memoria.

Le plasmacellule sono chemo-radioresistenti, motivo per cui una quota di produzione anticorpale può essere presente nell’immediato post-trapianto. La produzione anticorpale diventa full-donor solo diversi mesi dopo. Se le plasmacellule dell’ospite resistono all’attacco della GvHD, immunoglobuline del ricevente possono essere riscontrate anche a distanza di anni 56.

Durante la ricostituzione B si ripercorrono le tappe ontogenetiche: a un iniziale rapida salita delle cellule B naïve fa seguito un lento recupero delle B-memoria. I centri germinali possono non essere presenti fino a un anno post-trapianto.

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Anche le immunoglobuline sieriche seguono un ordine di comparsa che ricorda quello del neonato: Le IgM compaiono per prime a 2-6 mesi, seguite dalle IgG tra i 3 e i 18 mesi, mentre la ricostituzione delle IgA può richiedere fino a 3 anni.

Diversamente da quanto accade ai linfociti T, la genesi dei linfociti B non dipende dalla timopoiesi, motivo per cui la ricostituzione è influenzata dall’età del paziente né dal grado di involuzione timica, mentre può essere rallentata dalla comparsa di GvHD.

Immunità cellulo mediata

La risposta cellulo-mediata fa capo ai linfociti T, che mediano sia la risposta umorale interagendo con i linfociti B (linfociti T-helper CD4+) che una risposta citotossica diretta (linfociti T citotossici CD8+). I linfociti T maturano del timo, circolano nel sangue, popolano i tessuti linfoidi secondari e da qui vengono reclutati nei focolai di infezione.

La ricostituzione T può seguire due vie: una via timo-indipendente, detta espansione omeostatica periferica, dominata da una proliferazione di linfociti CD8+ maturi presenti nel prodotto trapiantato, e una risposta timo-dipendente, che ricalca l’ontogenesi, avviene in tempi molto più lunghi ed è responsabile della lenta ripresa dei linfociti T CD4+.

Il primo meccanismo di ricostituzione T è guidato da una combinazione di fattori, tra cui l’accumulo di citochine come IL-7 e IL-15, prodotte in risposta alla linfopenia, citochine infiammatorie prodotte in risposta al danno causato dal regime di condizionamento e l’esposizione ad antigeni virali. In questa fase il rapporto CD4+/CD8+ è marcatamente ridotto. Rende ragione del fatto che le cellule CD8+ sono le prime a raggiungere livelli normali, dopo circa tre-quattro mesi dal trapianto. Inoltre il fatto che a proliferare siano esclusivamente cellule già mature è causa di una limitata capacità di risposta all’ampio range di infezioni possibili 8.

La seconda via è detta anche via timica. Ripercorre le tappe della maturazione T: le cellule staminali migrano fino al timo, dove passando attraverso l’epitelio vengono indotte a differenziarsi in senso CD4+ o CD8+, acquisendo specificità per un singolo antigene. Questa seconda via è fortemente influenzata dall’età del paziente e dalla funzionalità timica residua, compromessa anche dai trattamenti chemioterapici pregressi. In seguito a lenta ripresa di questa seconda via, si ha una normalizzazione del rapporto CD4+/CD8+, che necessita di almeno 6 mesi.

Le manipolazioni a cui si può sottoporre il prodotto da trapiantare possono influenzare l’efficienza di queste due vie. Per esempio, un trapianto T-depleto, eliminando il pool di cellule T mature, compromette la via extratimica, rallentando il recupero della funzionalità T.

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LA TIMOPOIESI

La maturazione dei linfociti T avviene nel timo, a partire da progenitori specifici che dal midollo osseo migrano a livello timico e vanno incontro a una serie di processi quali riarrangiamento dei geni per il TCR, proliferazione cellulare, selezione positiva e negativa e acquisizione di capacità funzionali.

Il Timo

Il timo è un organo impari mediano, che deriva dall’accostamento di due formazioni pari e simmetriche, i lobi timici. È localizzato per la maggior parte nel mediastino anteriore e per una piccola parte nel collo. Appare notevolmente sviluppato nel feto e nei primi anni di vita, andando poi incontro a un variabile grado di infiltrazione adiposa e involuzione. È organizzato in lobuli, in ciascuno dei quali si individua una zona corticale e una zona midollare.

Nella zona corticale si osserva una prevalenza di elementi linfoidi, in stretto contatto con la componente epiteliale che assume, in questa porzione del tipo, una conformazione reticolare dendritica. I linfociti T presentano caratteristiche morfologiche di immaturità con spiccata attività proliferativa nella parte sottocapsulare, e maturano procedendo verso la parte profonda della corticale. Il processo di maturazione dei linfociti T è regolato dalle cellule stromali epiteliali, che intervengono creando delle nicchie ospitanti i linfociti in fase di maturazione. In queste nicchie i linfociti vengono a contatto con citochine che stimolano proliferazione, differenziazione e migrazione, mentre i linfociti reattivi contro il self subiscono una selezione negativa che ne inibisce l’ulteriore crescita.

La zona midollare forma il corpo centrale del timo. La popolazione cellulare è rappresentata da una preponderanza di linfociti T e una piccola quota di linfociti B, nel contesto di una popolazione di cellule epiteliali. Sono presenti i corpuscoli di Hassal, costituiti da gruppi concentrici di cellule epiteliali con aree centrali necrotiche. Si ritiene che qui avvenga l’eliminazione dei linfociti in apoptosi che non hanno superato le fasi di selezione e che questi siano elementi fondamentali per dare origine ai linfociti T regolatori (T-reg). In generale, ogni fase del processo di differenziazione T-cellulare ha luogo in regioni distinte del timo, richiede interazioni con cellule residenti specializzate ed è caratterizzata dall’espressione sequenziale di antigeni di membrana rilevabili con tecniche citofluorimetriche e dal riarrangiamento di geni per il recettore T cellulare (TCR).

Maturazione dei linfociti T

Fasi precoci

I progenitori dei linfociti T originano dai CLP (common lymphoid progenitors) presenti nel midollo osseo. Nel momento in cui essi giungono al timo, si attiva la via di trasmissione mediata da Notch-1, che attiva il potenziale differenziativo T, inibendo quello B. La differenziazione prosegue con una fase caratterizzata

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dall’espressione differenziale e sequenziale degli antigeni di membrana CD44 e CD25, e l’assenza di marcatori di maturità come CD4, CD8 e CD3. In questa fase i linfociti sono definiti Pro-T, o doppio negativi. In questa fase inizia il riarrangiamento della catena β del TCR, che porta alla formazione del recettore immaturo pre-TCR, caratterizzato da una catena β identica a quella del recettore maturo e da una catena α provvista solo del dominio costante.

Il riarrangiamento VDJ

I geni per i diversi recettori per l'antigene sono generati nei singoli linfociti dal riarrangiamento di diversi segmenti della regione variabile (V) con segmenti della regione della diversità (D) e/o quelli della ricongiunzione (J dall'inglese joining). Esiste anche una regione costante (C) che contiene le parti del gene che non sono coinvolte nel riarrangiamento.

I geni che codificano per le catene α, β, e γ del TCR sono localizzati in tre loci distinti posti su tre diversi cromosomi, mentre il locus per la catena δ è contenuto all'interno di quello per la catena α. Nella configurazione germinativa, cioè quella presente prima del riarrangiamento, ciascun locus contiene segmenti V e J. Inoltre i loci per le catene β e δ possiedono anche segmenti D. I geni codificanti per le regioni C sono posizionati all'estremita 3' del segmento J.

Durante il processo di riarrangiamento, mediato da specifiche ricombinasi prodotte soltanto in determinati momenti della maturazione linfoide, i segmenti V-(D)-J vengono accostati fra di loro a livello di DNA, ma solo a livello di mRNA vengono uniti al segmento costante. Il processo di riarrangiamento somatico avviene in modo casuale ed impreciso. Infatti, a livello delle giunzioni fra i diversi segmenti genici, si può avere la delezione di alcuni nucleotidi (processo che viene definito come giunzione imprecisa) oppure l’aggiunta di altri per via dell’enzima TdT (deossi-terminal-transferasi).

Complessivamente questi processi causano la formazione di sequenze uniche ad ogni riarrangiamento, specialmente a livello delle giunzioni fra i vari frammenti.

TRECs

Una fase precoce del processo di neogenesi delle cellule T è l’escissione del locus δ, una porzione interna al locus TCR α, che genera un frammento episomale di DNA.

Altri due fenomeni generano frammenti di DNA liberi: l'escissione e l'unione dei segmenti VJ della catena α e l'escissione delle sequenze spaziatrici tra V e DJ nella catena β.

Questi frammenti liberi di DNA assumono struttura anulare, similmente ai plasmidi batterici, e vengono identificati con il nome di T-Cell Receptor Excision Circles (TRECs).

Tale processo si verifica esclusivamente nelle cellule che esprimeranno il recettore TCR αβ, durante la maturazione timica. Il TREC intracellulare non è sottoposto a degradazione e non si replica assieme al DNA cromosomico, quindi viene trasferito arbitrariamente a una delle cellule figlie in seguito a replicazione

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cellulare, conservandosi in numero assoluto; pertanto rappresenta un marcatore stabile delle cellule naïve derivanti dallo sviluppo timico (recent thymic emigrants – RTE) 57.

Al termine del riarrangiamento VDJ, se esso ha portato all’espressione di una catena β funzionante, questa viene espressa sulla superficie del linfocita T in associazione ad una proteina invariante (definita pre-Tα), al CD3 e alla catena ζ per formare il recettore pre-T (pre-TCR). I segnali provenienti dal pre-TCR mediano la sopravvivenza dei linfociti, che in questo momento sono detti pre-T, ne inibiscono ulteriori riarrangiamenti della catena β e conducono i linfociti alla fase doppio positiva CD4+ CD8+. I linfociti doppio positivo riarrangiano il gene della catena α e ne esprimono il prodotto, ricoprendosi di TCR eterodimerici uguali a quelli della cellula matura.

Fase di “educazione timica”

Lo sviluppo delle cellule doppio positive (DP) che sopravvivono alla β-selezione è condizionato ad altre due selezioni, la selezione positiva e la selezione negativa.

La selezione positiva è dovuta alla necessità del TCR-αβ di legarsi ai complessi peptidici MHC espressi dalle cellule dell'epitelio timico (pMHC) per la prosecuzione dello sviluppo. La cellula DP che non lega un pMHC va incontro a morte cellulare programmata.

Questo processo garantisce la selezione di linfociti T efficaci nell’instaurare una reazione immunitaria nel contesto della presentazione MHC.

La selezione negativa invece è effettuata tramite l'invio di segnali apoptotici ai linfociti più avidi verso l'MHC self. Questo processo è alla base della tolleranza centrale, che previene l'attivazione del sistema immunitario contro l'organismo a cui appartiene.

I linfociti che sopravvivono a questa doppia selezione sono in grado di riconoscere e legare il complesso MHC in maniera funzionale al riconoscimento dell’antigene, ma non legano i complessi MHC presentanti antigeni self con avidità sufficiente a trasmettere segnali intracellulari di attivazione.

Proprio il legame con i recettori MHC è fondamentale per l'acquisizione delle proprietà immunologiche da parte dei timociti: un timocita che leghi il complesso MHC di classe I andrà incontro a differenziazione CD8+, mentre un timocita che leghi MHC di classe II smetterà di esprimere CD8 e diverrà un linfocita CD4+.

Differenziazione in cellule effettrici e della memoria

I linfociti T che hanno superato la selezione positiva e negativa operata a livello timico sono definiti naïve e si identificano immunofenotipicamente per la presenza del marcatore CD45RA.

I linfociti T naïve ricircolano continuamente attraverso gli organi linfoidi secondari, fino a quando non incontrano l’antigene per cui presentano specifica selettività. L’incontro con l’antigene nel contesto delle molecole MHC determina l’attivazione e la successiva espansione di quel clone linfocitario, con progressiva differenziazione in linfociti effettori e di memoria. Il complesso recettoriale del TCR media il segnale intracellulare responsabile dell’attivazione e dell’espansione linfocitaria.

Riferimenti

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