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Phytoremediation: una tecnica verde per pulire i suoli inquinati da metalli pesanti

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Academic year: 2021

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1. Metalli

I metalli sono presenti nei suoli, nell’atmosfera, nelle acque, e negli organismi viventi.

Un elemento, in rapporto agli organismi vegetali, può considerarsi (Lepp, 1981):

essenziale: quando in sua assenza la pianta non può completare il proprio ciclo vitale, quando la funzione di tale elemento non può essere svolta da nessun altro elemento e quando esso è coinvolto direttamente nel metabolismo della pianta;

benefico: pur non essendo indispensabile la sua presenza migliora la crescita vegetale;

tossico: anche in basse concentrazioni riduce la crescita della pianta danneggiando il suo metabolismo.

Il concetto di tossicità non è assoluto, in quanto esistono elementi come Cd, Hg, U che sono sempre tossici per gli organismi vegetali, mentre ce ne sono altri, compresi quelli essenziali, che possono provocare effetti dannosi sulla pianta in relazione alla loro concentrazione; infatti tutti gli elementi oltre una certa soglia diventano tossici. Il grado di tossicità, inoltre, varia a seconda del metallo e dell’organismo.

Molto spesso parlando di metalli tossici ci si riferisce ai metalli pesanti.

Da un punto di vista chimico, la denominazione “metalli pesanti” identifica una serie di elementi della tavola periodica che presentano una densità maggiore a 5 g/cm³ (Lapades,1974), oltre a ciò essi si caratterizzano per avere un comportamento cationico e diversi stati di ossidazione in relazione alle condizioni di pH. Essi hanno una forte affinità per i solfuri, formano idrati piuttosto insolubili e hanno una spiccata attitudine a formare complessi. Inoltre sono elementi con proprietà metalliche (duttilità, conduttività, stabilità come catione, specificità legante, etc.) e un numero atomico >20. I metalli sono componenti naturali nel terreno. La contaminazione, comunque, è il risultato delle attività industriali come le miniere e le fonderie di minerali metalliferi, la placcatura elettrica, il gas di scarico, la produzione di energia e carburante, l’uso di fertilizzanti e pesticidi, e la generazione di scarichi municipali (Kabata-Pendias e Pendias, 1989).

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Generalmente vengono considerati metalli pesanti Ag, Ba, Cd, Co, Cr, Mn, Hg, Mo, Ni, Pb, Cu, Sn, TI, Ti, V, Zn; anche alcuni metalloidi che presentano proprietà simili come As, Sb,Bi e Se vengono associati alla categoria dei “metalli pesanti”.

Gli elementi che determinano più frequentemente fenomeni di inquinamento a causa dei loro molteplici impieghi industriali sono: Cd, Co, Cr, Cu, Mn, Mo, Ni, Pb, Sn, Zn e Se (Adriano, 1986; Alloway, 1995). Le condizioni ambientali, ed in particolare il pH, il potenziale redox e la presenza di composti organici o inorganici, giocano un ruolo fondamentale nella speciazione degli elementi. Questa, a sua volta, determina il destino degli elementi nell’ambiente ed in definitiva la loro biodisponibilità (Kabata-Pendias, 1992).

L’origine dei metalli pesanti che alterano la qualità dell’ambiente, della pedosfera in particolare, è riconducibile a fonti sia naturali quali il substrato pedogenetico, che antropiche quali le attività industriali, civili ed agrarie.

1.1 Substrato pedogenetico

I metalli originati dal substrato si definiscono “inquinanti geochimici”, anche se i fenomeni di contaminazione attribuibili al materiale originario ed in grado di produrre danni biologici sono di norma limitati ad aree ristrette. La presenza di un metallo in un substrato dipende dal fatto che esso può sostituire nella struttura cristallina altri elementi, a raggio ionico e a carica simile. Conseguentemente i metalli tossici sono presenti nei terreni naturali come risultato della decomposizione del substrato pedogenetico.

Inizialmente la composizione di un terreno in metalli è in genere simile a quella della sua roccia madre, con il tempo tenderà a differenziarsi con un incremento o un decremento della concentrazione di ciascun elemento sotto l’influenza della vegetazione, della topografia e, soprattutto, del clima.

1.2 Attività industriali

Numerosi processi industriali danno luogo a contaminazione sia direttamente, con fumi e acque di scarico, sia indirettamente attraverso la produzione di sostanze a loro volta inquinanti (vernici, pneumatici, combustibili, ecc.).

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I fanghi di depurazione delle acque reflue industriali contengono metalli pesanti di tipo e in quantità variabili a seconda delle lavorazioni e della dimensione delle industrie, nonché in dipendenza dell’eventuale rapporto reflui industriali/reflui civili. Spesso il metallo presente in concentrazioni maggiori risulta lo Zn, seguito da Cu, Pb, Cr e Ni. Le fonderie, le industrie elettrogalvaniche, i processi di fotoincisione ed in genere tutti i processi che utilizzano l’elettrolisi sono tra le maggiori fonti di metalli tossici quali Cu, Ni, Zn, Pb, Cr, Cd e Hg.

Un’altra importante fonte di inquinamento è rappresentata dagli aerosol ed, in genere, dai fiumi. Molti combustibili contengono metalli pesanti per cui, con la rivoluzione industriale, l’ambiente si è diffusamente e progressivamente contaminato (Sequi, 1998).

I principali processi produttivi responsabili di significative emissioni nell’ambiente di metalli pesanti sono:

! impianti di combustione;

! impianti di arrostimento o sinterizzazione di minerali metallici (inclusi solfuri) o concentrati per il trattamento di minerali di ferro, rame, piombo, zinco o di qualsiasi minerale di oro e mercurio;

! impianti per la produzione di ghisa o acciaio, inclusa la colata continua; ! fonderie di metalli ferrosi;

! impianti per la produzione di rame, piombo e zinco dai minerali, concentrati o materie prime secondarie mediante processi metallurgici, o per qualsiasi produzione primaria di mercurio;

! impianti per la fusione: raffinazione, colata di fonderia, ecc.; ! impianti per la produzione di clinker di cemento;

! impianti per la produzione di vetro con processi in cui si usa il piombo; ! impianti per la produzione di cloro-alcali mediante elettrolisi;

! impianti per il (co-) incenerimento di rifiuti pericolosi o ospedalieri; ! impianti per il (co-) incenerimento di rifiuti urbani.

1.3 Attività civili

I metalli pesanti ed in genere gli elementi inquinanti provenienti dalle attività civili si possono ritrovare sia nella fase gassosa che in quella liquida: alla fase

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gassosa pervengono con i combustibili utilizzati per il riscaldamento , con i fumi degli inceneritori o in seguito al traffico motorizzato. Per combustione dei carburanti e dei lubrificanti si diffondono prevalentemente Pb e Cd, mentre Cd e Zn si liberano soprattutto dal consumo dei pneumatici.

I metalli tossici derivanti dai prodotti utilizzati quotidianamente dall’uomo come prodotti di igiene e bellezza, vernici, scatolame, medicinali, e derivanti dalla corrosione di tubature e gronde si raccolgono nelle acque di scarico e si concentrano nei fanghi di depurazione dove costituiscono il principale ostacolo alla loro utilizzazione in agricoltura.

1.4 Pratiche agrarie

Anche l’esercizio delle attività agricole può costituire una fonte di contaminazione per i terreni. È stato calcolato che più del 10% dei fungicidi e degli insetticidi tradizionalmente utilizzati apportano Cu, Hg, Mn, Pb e Zn. I liquami di fattoria, soprattutto di porcilaia, contengono notevoli quantità di Zn e di Cu, che sono somministrati come antiparassitari. Dato che tali metalli sono assorbiti solo in minima parte (5%) dagli animali, si accumulano nelle feci e si ritrovano in notevoli quantità nei reflui degli scarichi provenienti dagli allevamenti.

Infine gli stessi concimi chimici possono causare inquinamento dato che, talora, contengono metalli pesanti (Co, Cr, Cu, Mn, Mo, Ni, Pb, Zn) derivanti dalle materie prime e dai processi industriali.

Pur essendo modesto il contributo annuo dei concimi all’inquinamento, esso in realtà non è trascurabile dato che la concimazione viene effettuata tutti gli anni (Sequi, 1998).

1.5 Metalli nel terreno

Tenendo conto della importante diversità delle forme chimiche dei metalli presenti nel compost, è soprattutto nel terreno che si svolgono i processi fondamentali per l’assunzione di questi elementi da parte delle piante coltivate. In questo senso i principali fattori che influenzano l’assimilabilità dei metalli sono il pH, il potenziale redox, l’attività biologica, la sostanza organica, la quantità e il tipo di argilla e la capacità di scambio cationico del terreno. La disponibilità dei

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metalli pesanti tende a diminuire all’aumentare del pH per la formazione di precipitati e di adsorbimenti molto forti, oltre che per l’aumentata stabilità dei complessi con la sostanza organica.

La presenza di metalli in eccesso nel terreno causa rischi per l’uomo e per l’ambiente. Alcune malattie umane sono dovute al Cd (Nogawa et al., 1987; Kobayashi, 1978; Cai et al., 1990), al Se (Yang et al., 1983) e al Pb presenti nel terreno (Chaney et al., 1999). Il bestiame e la flora e fauna selvatiche hanno sofferto per l’avvelenamento da Se (Rosenfeld e Beath, 1964; Ohlendorf et al., 1986). In più, la contaminazione del suolo con Zn, Ni, e Cu causata dai rifiuti delle miniere e fonderie è ritenuta fitotossica per le piante sensibili (Cheney et al., 1999). Uno dei più grandi problemi per la salute umana è causato dalla contaminazione da Pb. L’esposizione al Pb può verificarsi attraverso molti modi, inclusa l’inalazione di aria e l’ingestione di Pb nel cibo, acqua, terreno o polvere. Un’eccessiva esposizione al Pb può causare attacchi, disturbi mentali e comportamentali. Il pericolo del Pb è aggravato dalla scarsa mobilità ambientale, anche con forti precipitazioni.

Anche alcuni fattori fisici e ambientali influenzano l’assimilazione dei metalli presenti nel terreno: ad esempio le basse temperature, così come le condizioni di basso contenuto idrico, tendono a ridurre la loro disponibilità per i vegetali.

L’effetto delle proprietà chimiche e fisiche del suolo fa sì che i metalli pesanti in esso contenuti possano essere presenti in diverse forme chimiche:

1. in soluzione nel terreno come ioni semplici o complessati nella soluzione circolante;

2. assorbiti con i costituenti di terreno inorganico in siti di scambio ionico; 3. legati alla sostanza organica;

4. occlusi e coprecipitati con ossidi, carbonati, fosfati, idrossidi, o con altri minerali secondari;

5. uniti in reticoli cristallini dei minerali primari .

I metalli presenti nelle prime tre forme chimiche sono considerati i più disponibili per la nutrizione vegetale.

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Le estrazioni di terreno in sequenza sono impiegate per isolare e quantificare i metalli associati con differenti frazioni (Tessier et al., 1979).

Per la fitoestrazione, i contaminanti devono essere biodisponibili (pronti per essere assorbiti dalle radici).

La biodisponibilità dipende dalla solubilità del metallo nel terreno. Solo i metalli associati con le frazioni 1) e 2) viste sopra sono subito disponibili per l’assorbimento della pianta. Alcuni metalli, come Zn , sono presenti in forma biodisponibile, scambiabile. Altri, come il Pb, sono presenti nel terreno come precipitato, forma meno biodisponibile. Nei terreni acidi, l’assorbimento del metallo dai siti di collegamento del terreno in soluzione è stimolata dalla competizione H+ per i siti colleganti.

Il pH del terreno influenza non solo la biodisponibilità del metallo, ma anche il reale processo dell’assorbimento del metallo nelle radici. Questo effetto sembra essere specifico dei metalli. Per esempio, in Thlaspi caerulescens l’assorbimento di Zn nelle radici mostrava una piccola dipendenza dal pH mentre l’assorbimento di Mn e Cd risultava dipendente dall’acidità del terreno (Brown et al.,1995a). Principali equilibri dei metalli nel terreno:

Solfuri Carboidrati Idrati

Ossidi

Idrossidi Mineraliargillosi Sostanza organica

SOLUZIONE DEL TERRENO

Lisciviazione Erosione Volatilizzazione

Assorbimento vegetale

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Le applicazioni di compost comportano evidenti effetti sulle condizioni chimiche e fisiche del terreno, che possono alterare il comportamento dei metalli pesanti e quindi la loro disponibilità per i vegetali. In particolare l’impiego di compost comporta aggiunte di metalli pesanti in forme chimiche diverse da quelle normalmente presenti nel terreno, apporti di sostanza organica di differente struttura molecolare e può, quindi, influenzare anche la reazione del substrato pedogenetico. E’ evidente che tali effetti possono modificare gli equilibri esistenti tra le diverse forme chimiche dei metalli pesanti nel terreno, inducendo quindi importanti variazioni della loro assimilazione. Infatti gli apparati radicali delle piante sono in grado di assorbire non solo gli ioni liberi presenti nella soluzione del terreno, ma anche di interagire con i complessi più deboli metalli-sostanza organica e con le forme adsorbite e scambiabili.

Per quanto riguarda l’impiego di compost in agricoltura assume quindi grande importanza la valutazione degli effetti causati sulla qualità del suolo, sulla mobilità e sulla disponibilità dei metalli pesanti, sui loro possibili effetti di fitotossicità, sulla loro assunzione da parte del vegetale e sul loro inserimento nella catena alimentare.

L’arricchimento del suolo in metalli pesanti è dovuto principalmente alla deposizione secca e umida dell’atmosfera e, per i suoli ad uso agricolo, alla fertilizzazione chimica a causa della ricchezza in metalli del materiale di partenza e all’uso di fanghi di depurazione come fertilizzanti.

Dalla rivoluzione industriale ad oggi, la concentrazione di metalli quali Co, Cr, Ni, Mo, Rb, V e Zr non è aumentata significativamente, mentre quella di altri elementi quali Pb, Zn, Cu, Cd è aumentata fino al 10% negli orizzonti superficiali del suolo.

Ad esempio, circa l’arricchimento di Cd nel suolo l’input atmosferico netto di Cd è stato stimato in 3 g ha -1 anno -1 negli ultimi 100 anni.

L’apporto medio dovuto all’uso di fertilizzanti fosfatici è di 75 mg Cd per Kg di P (Jones e Johnston, 1989) e l’aumento della concentrazione di Cd in suoli trattati con fanghi di depurazione per circa venti anni può passare da circa 1 a circa 12 mg Cd/Kg suolo, in stretta dipendenza dalla quantità di fanghi applicati. Simili

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applicazioni di concime organico negli stessi suoli hanno portato ad un modesto incremento di 0,4 mg Cd/Kg suolo (Brooks, 1995). Questi dati sono importanti se si considera che lo smaltimento di fanghi di depurazione in mare è illegale in tutti i Paesi dell’Unione Europea (UE) dall’anno 2000 e che quindi un incremento della quantità di fanghi usati in agricoltura è verosimile.

Allo scopo di prevenire l’accumulo di metalli pesanti nei suoli coltivati, l’Unione Europea (UE) nel 1986 ha stabilito i contenuti massimi in ppm di metalli pesanti per i suoli destinati ad uso agricolo soggetti a spargimento di fanghi, in base alla Direttiva Comunitaria CEC 1986.

Tabella 1

Dall’esame della tabella 1 è evidente che la concentrazione massima ammissibile per alcuni metalli, ad esempio Cd e Hg, è molto bassa rispetto a quella di altri metalli pesanti.

I motivi fondamentali sono due: Cd e Hg non sono elementi essenziali per gli organismi viventi e soprattutto, sono caratterizzati da una elevata mobilità nell’ambiente a causa della minore affinità verso i colloidi del suolo rispetto ad altri metalli quali ad esempio il Pb e il Cu.

L’esistenza di intervalli di concentrazione è dovuta al fatto che la tossicità e la mobilità potenziale dei metalli pesanti dipende dalle proprietà chimico-fisiche dei suoli (tessitura, pH e uso del suolo). Si ritiene oggi che concentrazioni di metalli

Metalli pH 5-7

pH > 7

Cd 1-3 Cr 100-150 Hg 1-3 Cu 50-140 200 Pb 50-300 Ni 30-75 110 Zn 150-300 450

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pesanti intorno o di poco superiori ai limiti stabiliti dalle Direttive Comunitarie potrebbero ridurre la biomassa microbica e la diversità biologica e funzionale del suolo, non influenzando le rese colturali e le concentrazioni di metalli pesanti nelle piante (Jones e Johnston, 1989).

Per questi motivi i valori sono al momento in fase di revisione da parte dell’Unione Europea.

L’accumulo dei metalli pesanti nella pedosfera è dovuto alla reattività delle particelle organiche e minerali presenti nel suolo. Queste trattengono i metalli pesanti perché reagiscono con esse attraverso diversi meccanismi.

L’elevata diversità e le molteplici proprietà chimiche e fisiche delle fasi solide del suolo, fanno sì che i metalli pesanti in esso contenuti siano presenti in diverse forme chimiche, quali ioni semplici e complessati in soluzione, ioni scambiabili legati alla sostanza organica, ioni precipitati od occlusi con ossidi a basso ordine cristallino o carbonati, o ancora, come ioni inclusi nei reticoli cristallini dei minerali primari. Un aspetto importante di cui tener conto è che tra queste diverse forme esistono equilibri chimici che dipendono dalle condizioni ambientali (temperatura, umidità, potenziale redox) e dal tempo di contatto poiché il suolo è un sistema aperto in equilibrio dinamico con l’atmosfera, l’idrosfera e la biosfera. Nonostante la grande diversità delle forme chimiche dei metalli presenti nel suolo, i principali fattori che influenzano più di altri la mobilità, e conseguentemente la loro pericolosità, sono il pH, il potenziale redox, l’attività biologica, la quantità e la qualità della sostanza organica, la quantità e il tipo di argilla e la capacità di scambio cationico (Logan e Chaney, 1983; Forstner, 1995; Krebs et al., 1998). In generale, la mobilità e la disponibilità dei metalli pesanti nel suolo si riduce all’aumentare del pH per precipitazione, adsorbimento e per l’aumento della stabilità dei complessi organici (Banuelos e Ajwa, 1999). Il Pb, per esempio, è generalmente considerato insolubile e non disponibile per le piante, ma la sua solubilità aumenta col diminuire del pH (Mc Bride, 1994). Fanno eccezione elementi come il Cr IV ed il Mo che sono presenti sotto forma anionica e mostrano perciò un aumento della solubilità con l’aumento del pH.

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Comunque, la vulnerabilità di un suolo all’accumulo di metalli pesanti è funzione delle caratteristiche pedochimiche sopra citate, il cui peso relativo varia in relazione al tipo di suolo considerato e alla tipologia dell’inquinamento.

Il grado di concentrazione nel terreno e i limiti regolativi per alcuni dei maggiori metalli contaminanti sono mostrati nella tabella 2 (Reeves e Baker, 2000):

Tabella 2

Metalli Concentrazione nel suolo mg/Kg

Limite consentito per legge mg/Kg Pb 1,00-6.9000 600 Cd 0,10-345 100 Cr 0,05-3.950 100 Hg < 0,01-1.800 270 Zn 150,0-5.000 1.500

Alti livelli di metalli nel terreno possono essere fitotossici. La lenta crescita delle piante e la copertura del terreno causata dalla tossicità dei metalli può condurre al movimento del metallo nell’acqua di scarico e al successivo deposito nei vicini corpi d’acqua. In più, il nudo terreno è più soggetto all’erosione e all’espandersi della contaminazione nella polvere trasportata dal vento. In queste situazioni, l’obiettivo immediato del recupero è stabilire nel luogo una copertura vegetale per minimizzare l’erosione del suolo e l’espandersi dell’inquinamento.

I metalli presenti nelle forme solubili, scambiabili ed organiche sono quelli a maggiore mobilità e più “biodisponibili”, mentre le forme chimiche legate agli ossidi a basso ed elevato ordine cristallino sono più stabili e si mobilizzano solo in seguito ad eventi catastrofici come ad esempio forte acidificazione o sommersione del suolo. In alcuni suoli, anche queste ultime forme possono migrare verso gli strati più profondi del profilo del suolo in associazione con le particelle più fini in sospensione.

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La pericolosità potenziale che scaturisce dall’accumulo di metalli pesanti nel suolo non dipende esclusivamente dal contenuto totale, ma dalla loro capacità di muoversi ed interagire con gli organismi viventi.

Non tutte le forme chimiche dei metalli pesanti hanno la stessa mobilità, solubilità e potenziale tossicità, pertanto al fine di definire il rischio associato all’inquinamento del suolo da metalli pesanti e impostare gli interventi di bonifica è necessario quantificare le diverse forme geochimiche.

2. Tossicità

Per lungo tempo si è ritenuto che il suolo avesse la capacità di trattenere le sostanze inquinanti tamponando, o addirittura impedendo, gli effetti negativi per lungo tempo. Purtroppo, la lentezza della manifestazione degli effetti negativi ha come risvolto un deterioramento chimico e biologico progressivo e difficilmente reversibile.

Oltre all’entità dell’accumulo di metalli pesanti, gli esperimenti a lungo termine hanno dimostrato che l’accumulo dei metalli pesanti del suolo provoca una diminuzione della fertilità chimica e biologica del suolo dovuta alla riduzione della biomassa microbica e della diversità biologica della microflora, dell’attività enzimatica e della fissazione dell’azoto. Il contenuto di metalli pesanti nelle piante di interesse agronomico dipende dal tipo di pianta e dallo stadio fenologico in cui il materiale vegetale è stato raccolto.

Inoltre, la presenza di metalli pesanti a concentrazioni vicine ai limiti fissati dalla normativa riducono la capacità del suolo di mineralizzare molecole organiche complesse e fitofarmaci quali parathion e pyrazophos (Flieβbach e Reber, 1990). Misure sul massimo carico tollerabile per prevenire il trasferimento di metalli tossici dal suolo alle acque superficiali mostrano che in alcuni suoli, soprattutto sabbiosi e poco organici, una contaminazione anche moderata può portare ad un superameno delle concentrazioni limite fissate dalla WHO (Organizzazione Mondiale della Sanità) di alcuni elementi particolarmente tossici, come ad esempio il Cd (Ingwersen et al., 2000).

La necessità di pianificare interventi rapidi di recupero di suoli contaminati è anche in relazione al fatto che i metalli di recente deposizione si trovano in genere

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in pool chimici labili (scambiabili e associati alla sostanza organica) che sono allo stesso tempo quelli più mobili e più pericolosi nell’ambiente e più facilmente asportabili con gli interventi di bonifica fitoassistita. Queste forme chimiche evolvono nel tempo, con un processo di maturazione in seguito alle variazioni delle condizioni pedo-climatiche e alle trasformazioni operate da piante e microrganismi (Tagami Uccida, 1998). La maturazione comporta il passaggio dei metalli pesanti da forme più biodisponibili a forme più complesse, ma non per questo meno pericolose, rendendo gli interventi di recupero più lunghi e costosi e dagli esiti più incerti.

L’inquinamento del suolo da metalli pesanti ha risvolti negativi anche sulla salute e sulla qualità della vita umana perché essi si diffondono attraverso la catena alimentare o con l’esposizione ambientale attraverso i tessuti cutanei, le mucose gastriche e respiratorie accumulandosi nei tessuti connettivi ossei e adiposi.

L’esposizione ambientale è molto pericolosa perché è continua, incontrollabile, non quantificabile, indipendente dallo stile di vita degli individui ed inconscia, gli individui sono inconsapevoli del rischio e non adottano quindi alcuna misura preventiva.

L’esposizione dei metalli pesanti provenienti da suoli contaminati è legata al movimento delle particelle in seguito all’azione del vento e dell’acqua.

Per quanto detto, i suoli contaminati non soggetti ad alcun trattamento di ripristino o decontaminazione rappresentano una probabile fonte di esposizione a metalli pesanti e ai rischi per la salute umana connessi. Tra i fattori che limitano il rischio molta importanza riveste la copertura vegetale poiché essa riduce l’erosione eolica e il ruscellamento.

La sostanza organica presente nel suolo ha una funzione essenziale nella solubilizzazione e nel ciclo di un elemento nel suolo. La tossicità di un elemento può aumentare o diminuire ad opera della sostanza organica sotto specifiche condizioni ambientali. In aggiunta, a causa della formazione di chelanti metallici, la sostanza organica costituisce una sorgente di capacità di scambio cationico per i cationi metallici e tali chelanti metallici sono più solubili dei precipitati inorganici, per cui la solubilità dei metalli è collegata alla sostanza organica

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solubile presente. Tale azione è direttamente correlata alla quantità di acidi fulvici presenti nella sostanza organica (Ellis e Knezek, 1971).

È stato visto che l’incremento della concentrazione salina aumenta la mobilità del metallo lungo il profilo del suolo, a conferma che lo scambio cationico e la complessazione con leganti inorganici può avere effetti sulla solubilità del metallo (Boyle e Fuller, 1987; Amrhein et al., 1992).

Anche la microflora batterica e fungina agisce sui metalli tossici sia indirettamente liberando sostanze organiche solubili che legano il metallo, sia direttamente mediante processi metabolici che possono contribuire a diminuire la mobilità dei metalli.

La pianta rimuove il metallo dalla soluzione circolante, per cui la sua concentrazione nella soluzione circolante diminuisce. Se quel metallo è presente nei siti di scambio del suolo, una parte di quello adsorbito viene liberato. La diminuzione di un metallo nella soluzione determina inoltre la dissoluzione dei minerali cristallini e di altri precipitati per ristabilire la concentrazione nella soluzione circolante e riempire i siti di scambio del suolo. Anche i microrganismi possono rimuovere il metallo dalla soluzione durante le loro attività metaboliche. Durante la decomposizione della sostanza organica si può avere un apporto di metalli nella soluzione (Lindsay, 1971). Inoltre la pianta può facilitare il desorbimento e la solubilizzazione degli elementi attraverso l’emissione di essudati radicali.

Gli effetti della tossicità dei metalli si possono manifestare sia sulla pianta stessa, con riduzione del vigore, inibizione della crescita ed eventualmente morte, sia nel suolo con diminuzione del numero, della diversità e dell’attività dei microrganismi.

Il livello di tossicità di un metallo è influenzato da molti fattori (Baker, 1987):

• il tipo di metallo e la sua forma in soluzione, che può essere organica o inorganica, solubile o particolato;

• la presenza di altri metalli o tossine, dato che si può verificare un’interazione sinergistica ovvero antagonista che può generare effetti più che additivi, additivi o meno che additivi;

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• le proprietà del suolo e le condizioni ambientali che influenzano la biodisponibilità e l’assorbimento del metallo;

• le condizioni dell’organismo: specie, stadio di sviluppo, vita pregressa, organo della pianta.

Anche nel caso di contaminazione da metalli si può parlare di tossicità acuta per esposizione di breve durata ad alte concentrazioni di inquinante o di tossicità cronica nel caso di esposizione a basse concentrazioni per lungo tempo.

La reattività, il potere inquinante e la tossicità dei metalli per gli organismi sono correlati alla possibilità di assumere più di uno stadio di ossidazione e formare composti intermedi, alle proprietà catalitiche e alla capacità di dare complessi più o meno stabili con molecole organiche a causa dell’affinità con gruppi tiolici, carbossilici e amminici.

Uno dei fattori principali che determinano la tossicità dei metalli è costituito dal fatto di non essere degradabili e di essere perciò soggetti al fenomeno della biomagnificazione e dell’accumulo lungo la catena alimentare.

Ochiai (1987) ha così suddiviso i diversi meccanismi con cui i metalli tossici recano danno alle cellule:

• blocco di gruppi funzionali in molecole biologicamente importanti, come enzimi, polinucleotidi o sistemi di trasporto per gli ioni nutritivi;

• eliminazione e/o sostituzione di ioni metallici essenziali da biomolecole e unità funzionali cellulari;

• alterazione dei processi metabolici dovuti a denaturazione e inattivazione di enzimi;

• distruzione dell’integrità di membrana di cellule e organelli;

• azione mutagena, dato che attaccano il DNA provocando per esempio anomalie cromosomiche;

• formazione di forme attivate dell’ossigeno (AOS).

L’apparato radicale è il primo organo della pianta a subire i danni, trovandosi direttamente a contatto con i metalli e di solito ne accumula una quantità superiore rispetto alla parte aerea (Ciscato et al., 1997; Milone, 1995; Milone et al., 2003; Sgherri et al., 2001; Cosi, 2001). I metalli, alterando la struttura e le attività enzimatiche della membrana plasmatica delle cellule radicali, provocano un

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aumento della permeabilità e una diminuzione della selettività nei confronti degli stessi ioni metallici (Cumming e Tomsett, 1992).

Ad esempio il Cu e il Cd provocano nelle radici una riduzione della divisione cellulare e una minore distensione cellulare, tanto da provocare una ridotta crescita (Arduini et al., 1994; Milone, 1995). Inoltre il Cd inibisce la pompa protonica responsabile dell’espansione cellulare (Aidid e Okamoto, 1993) e inibisce la Fe (III) riduttasi e la nitrito e nitrato riduttasi causando problemi nell’assimilazione rispettivamente di ferro e nitrato (Hernandez et al., 1996), mentre il Cu inibendo l’allungamento e stimolando la formazione di radici laterali determina cambiamenti nella morfologia delle radici (Savage et al., 1981; Quartacci et al., 2003).

In seguito alla traslocazione i metalli raggiungono la parte epigea dove influiscono sulla regolazione del sistema fotosintetico danneggiando la struttura e la funzionalità delle membrane tilacoidali e diminuendo il contenuto di clorofilla (Milone et al., 1995; Ciscato et al., 1997). Nella pianta si verifica clorosi e crescita ridotta della parte epigea e delle radici, con conseguenti problemi nell’assorbimento dell’acqua (Milone, 1995; Milone et al., 2003; Sgherri et al., 2001).

Il Cd inoltre interferisce col passaggio di calcio, potassio e acido abscissico a livello delle cellule di guardia stomatiche provocando una riduzione della velocità di traspirazione, della conduttanza stomatica e dell’assimilazione di CO2 (Barcelò e Poscheenrieder, 1990). Anche lo Zn inibisce la fissazione di CO2 e interferisce con le catene di trasporto elettronico nei mitocondri e nei cloroplasti (Weckx e Clijsters, 1997).

2.1 Meccanismi di tolleranza

Le piante possono distinguersi in tolleranti, sensibili e metallo-ipersensibili in funzione della loro risposta alla presenza di concentrazioni elevate di metalli (Baker, 1987).

La tolleranza ad elevati livelli di metalli all’interno dei tessuti diventa un’importante proprietà per quelle piante che saranno utilizzate per la “phytoremediation”. Non saranno però utilizzabili tutte quelle piante che

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impiegano, come meccanismi di tolleranza, l’immobilizzazione del metallo a livello della parete delle cellule radicali o la diminuzione dell’assorbimento radicale (Ernst, 1992).

L’efficienza di un programma di fitoestrazione dipende dalla scelta della pianta più idonea, cioè dotata della migliore capacità di crescere e accumulare il metallo nelle specifiche condizioni climatiche e pedologiche del sito da bonificare, piante cioè in grado di mettere in atto efficienti meccanismi di detossificazione (Chaney, 1983; Salt et al., 1995; Baker et al., 2000).

L’elevata quantità di metalli presente nei tessuti delle piante iperaccumulatrici ha fatto supporre l’esistenza di meccanismi di difesa che evitano alla pianta gli effetti dannosi causati dai metalli (Baker e Brooks, 1989; Lasat, 2002).

La cellula vegetale può adottare vari sistemi di difesa come immobilizzazione, esclusione, sintesi di metallotioneine, fitochelatine (PC) e altri composti chelanti, compartimentalizzazione, sintesi di proteine da stress o di etilene (Navari-Izzo e Quartacci, 2001; Sgherri et al., 2001; Milone et al., 2003). La parete cellulare delle radici è la prima struttura della pianta ad entrare in contatto con i metalli e può ostacolarne l’assorbimento attraverso meccanismi di esclusione. Ad esempio il Cd può essere immobilizzato nella parete cellulare (Nishizono et al., 1989) anche per mezzo di carboidrati extracellulari come le mucillagini (Wagner, 1993). La membrana plasmatica può impedire o limitare l’entrata dei metalli e può ridurre la concentrazione degli ioni metallici aumentandone l’efflusso. Studi recenti hanno rivelato l’esistenza, nelle piante, di trasportatori di metalli coinvolti nei meccanismi di tolleranza. Essi includono le CPx-ATPasi, i Nramps, la famiglia dei facilitatori della diffusione dei cationi (CDF) (Williams et al., 2000) e la famiglia ZIP (Guerinot, 2000).

Un altro meccanismo che riduce la fitotossicità degli ioni metallici liberi è loro chelazione ad opera di leganti che ne riducono la concentrazione in soluzione. In presenza di alte concentrazioni di metalli, le piante incrementano la produzione di molecole peptidiche, come per esempio le metallotioneine e le fitochelatine, ricche di residui cisteinici che sono in grado di legare il metallo e sequestrarlo formando un composto stabile. Le metallotioneine (MT) sono state scoperte, nel 1957, da Margoshes e Vallee, nel rene di cavallo. Sono proteine a

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basso peso molecolare (6-7 kDa) ricche di cisteina, sono state identificate negli animali, nelle piante superiori, nei cianobatteri e nei funghi. La biosintesi di queste molecole è regolata da diversi fattori quali ormoni e gli stessi metalli come Cd, Zn, Hg, Cu e Au. In base alla distribuzione dei residui di cisteina le metallotioneine sono suddivise in tre classi ognuna affine ad un determinato metallo (Rauser, 1990, 1999).

E’ ritenuto plausibile il coinvolgimento delle metallotioneine vegetali nell’omeostasi degli ioni metallici e in processi di detossicazione: è stato dimostrato che la metallotioneina di classe 2 di Arabidopsis thaliana, ottenuta in forma ricombinante in Synechococcus, è in grado di legare ioni zinco, in vitro, e di conferire tolleranza a concentrazioni elevate dello stesso metallo in mutanti ipersensibili (Robinson et al., 1996); analogamente si è osservato che cDNA codificanti per metallotioneine di pianta sono in grado di complementare mutanti di lievito ipersensibili al rame (Zhou et al., 1994). La metallotioneina di classe 1 invece è coinvolta nel metabolismo del Cu (Cobbett e Goldsbrough, 2000).

L’espressione dei geni per le metallotioneine nelle piante è regolata in modo specifico nei diversi organi e durante i vari stadi dello sviluppo. Le metallotioneine vengono indotte nei processi di senescenza, come risposta a “shock” termici, sostanze tossiche e carenze nutrizionali. Inoltre sembra che esse svolgano anche un ruolo nei meccanismi di riparazione della membrana plasmatica (Salt et al., 1998).

Le fitochelatine (PC), chiamate anche metallotioneine di classe 3, sono una famiglia di piccoli peptidi la cui struttura generale è (γ-Glu-Cys)n-Gly con n che va da 2 a 11 (Grill e Zenc, 1985). Sono anch’esse polipeptidi ricchi di cisteina, a basso peso molecolare, che formano complessi con i metalli nel citosol e sono importanti nella compartimentalizzazione dei metalli nel vacuolo (Ortiz et al., 1995). Le fitochelatine agiscono chelando gli ioni metallici liberi per trasportarli nel vacuolo dove vengono sequestrati e messi in condizione di non rappresentare un pericolo per il metabolismo cellulare. Queste molecole sono indotte nelle piante e nei funghi da molti metalli (Rauser, 1990) incluso il cadmio, mercurio, argento, oro, piombo, zinco e arsenico. Le fitochelatine non derivano dall’attivazione di geni coinvolti nella risposta allo stress, ma vengono prodotte in

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seguito all’attivazione di una via biosintetica. Uno dei prodotti di questa via è il glutatione, molecola estremamente importante non solo per il fatto che dalla sua polimerizzazione derivano le fitochelatine, ma in quanto fondamentale nei sistemi di difesa contro lo stress ossidativo.

La presenza di fitochelatine è stata confermata in oltre 200 specie differenti di piante appartenenti ai taxa Phytophyta, Briophyta, Pteridophyta e Spermatophyta (Gekeler et al., 1988, 1989).

Alcune piante contengono composti simili ma non identici alle fitochelatine canoniche. Inizialmente sono state isolate molecole contenenti un residuo di β-alanina al posto della glicina C-terminale, di formula: λ-Glu-Cys-β-Ala; per analogia con l’omoglutatione, il termine coniato per indicare tali composti è omofitochelatine (h-PC) (Grill et al., 1986). Successivamente sono state identificate nuove varianti delle fitochelatine, che sono normalmente modificate a livello dell’amminoacido C-terminale: con un residuo terminale di serina (λ-Glu-Cys)n-Ser nella famiglia delle Poaceae (Klapheck et al., 1994), con un residuo terminale di acido glutammico (λ-Glu-Cys)n-Glu in Zea mays (Meuwly et al., 1995), con un residuo terminale di glutammina in Armoracia rusticana(Kubota et al., 2000). In accordo alla terminologia proposta da Zenk, nel 1996, gli omologhi delle fitochelatine aventi un residuo C-terminale diverso da glicina, vengono genericamente indicati col termine isofitochelatine (iso-PC), così, ad esempio, le h-PC sono più correttamente denominate iso-PC (β-Ala).

La capacità delle fitochelatine di rilasciare i metalli legati ad apoproteine metallo-dipendenti è stata verificata in vitro (Thumann et al., 1991).

Studi recenti sull’importanza ed il ruolo nella detossificazione dei metalli da parte delle fitochelatine sono stati condotti su sospensioni cellulari ed espianti tissutali da radice di Vigna angularis (Inouhe et al., 2000). L’ipersensibilità al cadmio di tale organismo è stata messa in relazione con la sua incapacità di produrre fitochelatine. La correlazione fra la produzione di fitochelatine e la resistenza al cadmio è stata verificata anche in Lycopersicon esculentum.

Queste molecole peptidiche inoltre sono state ritrovate nelle radici di Acer pseudoplatanus e Silene cucubalus cresciuti in un sito minerario ricco di Zn (Grill et al., 1989). Inoltre le PC partecipano al mantenimento dell’omeostasi cellulare

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del metallo (Zenk, 1996) e sono coinvolte nel limitare il trasporto dei metalli tossici dalle radici ai germogli (Galli et al., 1996). Esse sono responsabili della detossificazione di Cu, Zn e soprattutto del Cd (Salt, 1998; Cobbett, 2000). Analisi eseguite su radici di Brassica juncea hanno verificato che il Cd induce una massiccia formazione di PC (Shafer et al., 1999). E’ stato anche osservato il legame tra il Cd e le PC in pianticelle di mostarda indiana esposta ad eccesso di Cd (Salt et al., 1998). Leopold e Gunther nel 1997 hanno dimostrato un aumento di PC e la loro affinità con Cd, Cu, Pb e Zn, in colture di cellule di Silene Vulgaris esposte a diverse concentrazioni di questi metalli. Anche radici di Raphanus sativus cresciuto in eccesso di Cd hanno evidenziato un aumento di PC legato ad una diminuzione del glutatione (Sgherri et al., 2003).

Acidi carbossilici e amminoacidi, come citrato, malato e istidina sono potenziali leganti per i metalli e potrebbero avere un ruolo nella tolleranza e nella detossificazione (Rauser, 1999; Clemens, 2001; Hall, 2002). Il trasporto e la conseguente compartimentazione dei metalli costituiscono un meccanismo di tolleranza che consente di ridurre i livelli di metalli tossici nel citosol. Recenti studi hanno dimostrato che il vacuolo è il sito dove si accumulano molti metalli tossici, come Zn e Cd (Ernst et al., 1992; De, 2000). Cellule meristematiche di radici di Festuca rubra hanno mostrato un aumento della vacuolazione dopo trattamento con Zn (Davies et al., 1991). Studi condotti su foglie di orzo per analizzare i processi di assorbimento di 65Zn hanno suggerito che la rapida segregazione di Zn nel vacuolo rappresenta un meccanismo di tolleranza ad alti livelli di tale metallo (Brune et al., 1994).

La tossicità di un metallo o di un metalloide può essere ridotta all’interno della pianta attraverso riduzione chimica dell’elemento e/o attraverso la sua incorporazione in composti organici. Ad esempio in Astragalus bisulcatus il selenio si lega ad amminoacidi non proteici (selenometilselenocisteina e selenocistationina), in modo da evitare che questo metallo si leghi alla metionina e alla cisteina con conseguente alterazione della sintesi proteica, oppure viene metabolizzato in composti volatili (dimetildiselenide e dimetilselenide) (Lauchli, 1993).

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Le Heat Shock Proteins (HSP) sono emerse come un importante capitolo della biologia cellulare. Esse sono presenti costitutivamente nelle cellule eucariotiche e procariotiche e sono direttamente coinvolte nella biosintesi di proteine dalla fase di sintesi come catena nascente fino all’assemblaggio di complessi multimerici (Georgopoulos e Welch, 1993). Le HSP vengono sintetizzate quando le cellule sono esposte ad elevate temperature oppure ad una varietà di stimoli stressanti la cellula stessa, quali un danno ossidativo, deficienze nutrizionali, contaminazioni da metalli e infezioni virali e batteriche (Lindquist, 1980; Fayet et al., 1989; Lindquist e Craig, 1988; Pelham, 1988; Vierling, 1991; Lewis et al., 1999). Le HSP si classificano in base al loro peso molecolare. Un aumento di HSP17 è stato ritrovato nelle cellule di Silene vulgaris anche in seguito a trattamenti con diverse concentrazioni di metalli (Wollgiehn e Neumann, 1999).

Anche cellule di Lycopersicon peruvianum contaminate da Cd hanno mostrato una elevata sintesi di HSP70. Queste proteine sono state ritrovate nel nucleo, nel citoplasma e nella membrana plasmatica; ciò suggerisce un loro coinvolgimento nella protezione della membrana cellulare dai danni causati dal metallo (Neumann et al., 1994).

In piante esposte al Cd la produzione di etilene diminuisce quando il tessuto mostra sintomi di tossicità (Fuhrer, 1982), mentre aumenta quando si ha tossicità causata da Cu (Gora e Clijster, 1989) e in quantità non tossiche di Hg (Goren e Siegel, 1976). Questi risultati sono in accordo col fatto che i metalli sulla sintesi di etilene hanno un duplice effetto: stimolazione ed inibizione.

Si è dimostrato che l’interazione tra organismi simbionti (es. micorrize) e piante cresciute in terreni contaminati da metalli è vantaggiosa. I metalli, infatti, possono essere sia trattenuti, attraverso bioassorbimento, da molecole che formano la parete cellulare fungina come melanina, lucani, mannani, chitina e chitosani, sia immobilizzati dalla secrezione di sostanze organiche che li complessano, come siderofori e polisaccaridi (Dixon, 1988; Cumming e Weinstein, 1990; Iettswaart et al., 1992).

Si è visto che la colonizzazione di funghi migliori gli effetti tossici provocati dal Cd in germogli di Picea abies, determinando cambiamenti morfologici nelle radici (Jentschke et al., 1999).

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In ogni caso la contaminazione deve essere tale da permettere la sopravvivenza dei funghi. Infatti, nei suoli contaminati da Cu i funghi micorrizici sono assenti a causa delle proprietà fungicide di questo metallo (Griffioen e Ernst, 1990).

Quando la concentrazione del metallo è bassa, la pianta può attuare meccanismi di esclusione, traslocazione e complessazione nel citoplasma (Vansgronsveld e Clijsters, 1994). Ad alte concentrazioni tali meccanismi “di fuga” possono non essere sufficienti e l’aumento della concentrazione di ioni metallici liberi, può stimolare sia la produzione di radicali liberi, sia una situazione di stress ossidativo (Aust et al., 1998; Navari-Izzo et al., 1999; Quartacci et al., 2001a).

La tossicità associata a questi metalli può essere dovuta, almeno in parte, al danno ossidativo provocato nei tessuti. Studi recenti hanno dimostrato che metalli come Cr, Cu, Fe, Hg, Ni e Pb possono aumentare la normale produzione di forme attivate dell’ossigeno (AOS) provocando perossidazione lipidica, danni al DNA, ossidazione dei gruppi sulfidrilici ed un’alterata omeostasi del calcio (Navari-Izzo e Quartacci, 2001).

I metalli redox, generando reazioni di ossidoriduzione che coinvolgono lo scambio di un elettrone, possono inoltre catalizzare facilmente la formazione di radicali liberi come il radicale superossido (O2.-) ed il radicale ossidrile (.OH) attraverso reazioni tipo Fenton:

Me(n-1)+ + O2 Men+ + O2.- 2 O2.- + 2H+ H2O2 + O2 Men+ + O2- Me(n-1)+ + O2

H2O2 + Me(n-1)+ Men+ + .OH + OH

-Il ciclo dei metalli redox, come Fe e Cu, vicino ai siti di legame dei costituenti delle membrane cellulari, può anche indurre una produzione sito-specifica del radicale idrossile attraverso le reazioni di Haber-Weiss (Chevion, 1988).

Nel fotosistema II isolato da grano cresciuto in eccesso di Cu, si è verificata la produzione di specie attivate dell’ossigeno come il radicale ossidrile, derivante dallo ione superossido (O2.-) (Navari-Izzo et al., 1998; Navari-Izzo et al., 1999).

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I metalli non redox, incapaci di partecipare a reazioni di ossido-riduzione, possono generare specie attive dell’ossigeno? E’ stato dimostrato che nei tessuti animali il Cd induce delle perturbazioni nell’equilibrio antiossidativo aumentando la produzione del radicale superossido e la perossidazione lipidica e diminuendo i livelli di antiossidanti enzimatici e non enzimatici. La produzione di forme attivate dell’ossigeno nelle piante può anche derivare dall’attività di enzimi redox legati o associati alle membrane plasmatiche delle cellule. In presenza di metalli non redox il ruolo delle lipossigenasi è probabilmente correlato alla capacità di questi enzimi di produrre O2.- ossidando il NADPH (Quartacci et al., 2001a; Roy et al., 1994).

E’ stato osservato che l’aumento della produzione di radicali liberi potrebbe essere dovuta anche all’interferenza del metallo con il normale funzionamento della catena di trasporto elettronico dei mitocondri e dei cloroplasti (Weckx e Clijsters, 1997). Infatti gli ioni metallici bloccando il flusso di elettroni nel PSII, provocano un eccesso di energia con conseguente formazione delle forme attivate dell’ossigeno (Kato e Simizu, 1985).

In presenza di metalli un aumento nei livelli delle forme attivate dell’ossigeno e una diminuzione nei meccanismi di detossificazione può provocare la degradazione delle biomembrane (Navari-Izzo, 1993; Quartacci et al., 1995; Quartacci et al., 2000; Quartacci et al., 2001a), con alterazione dell’ATPasi di membrana e dei processi mediati dall’ossidasi e inibizione della fotosintesi (Baszynski et al., 1980; Lidon et al., 1993; Ciscato et al., 1997).

Per contrastare le forme attivate dell’ossigeno le cellule delle piante attuano diversi tipi di difese (Allen, 1995; Alscher et al., 1997; Navari-Izzo et al., 1997; Navari-Izzo e Rascio, 1999). I composti antiossidanti idrofilici come il glutatione ridotto (GSH) e l’ascorbato ridotto (AsA) hanno la funzione di eliminare le forme attivate dell’ossigeno nella fase acquosa, mentre l’α-tocoferolo e i carotenoidi svolgono un’azione antiossidante nelle membrane. Inoltre la superossido dismutasi (SOD), enzima principale nei processi di detossificazione, converte O2- in H2O2, mentre la catalasi e l’ascorbato perossidasi catalizzano la trasformazione di H2O2 (Allen, 1995; Alscher et al., 1997; Navari-Izzo et al., 1997; Navari-Izzo e Rascio, 1999). L’immediata eliminazione di H2O2 è indispensabile per mantenere

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la normale attività cellulare. La sua detossificazione è mediata dalla catalasi che risulta prevalentemente localizzata nei perossisomi ed è presente a livelli bassissimi nel citosol e negli altri organelli cellulari.

In questi comparti cellulari esiste un meccanismo di detossificazione dell’H2O2 più efficiente della catalasi che si realizza mediante l’azione di un ciclo di reazioni promosse dall’enzima ascorbato perossidasi (AsAP) e costituito da una serie di ossido-riduzioni a carico degli antiossidanti ascorbato (AsA) e glutatione (GSH). La reazione di riduzione di H2O2 ad acqua ad opera della ascorbato perossidasi è accoppiata all’ossidazione di AsA a deidroascorbato (DHA), a sua volta ridotto per azione dell’enzima deidroascorbato riduttasi (DHAR). Gli equivalenti riducenti sono in tal caso resi disponibili dall’ossidazione del GSH a glutatione ossidato (GSSG). L’enzima glutatione riduttasi (GR) opera infine la riduzione del GSSG a GSH utilizzando il potere riducente derivante dal trasporto elettronico fotosintetico ed immagazzinato come NADPH.

2.2 Piante che tollerano un’alta concentrazione di metallo nel terreno

Studi ecologici hanno rivelato l’esistenza di specifiche comunità di piante, flore endemiche, che hanno attecchito in terreni contaminati da elevati livelli di Zn, Cu e Ni. Differenti ecotipi della stessa specie possono trovarsi in zone non contaminate da metalli. Per le piante endemiche con i terreni contaminati da metallo, la tolleranza al metallo è una proprietà indispensabile. Le piante hanno evoluto alcuni meccanismi effettivi per tollerare alte concentrazioni di metalli nel terreno. In alcune specie, la tolleranza è stata raggiunta impedendo l’assorbimento dei metalli tossici nelle cellule delle radici. Queste piante, chiamate escluditrici hanno un piccolo potenziale per l’estrazione di metallo. Un esempio di queste è “Merlin”, una varietà commerciale di Festuca Rubra, usata per stabilizzare i terreni contaminati da metallo soggetti all’erosione.

Un secondo gruppo di piante, accumulatrici, non permette l’assorbimento dei metalli da parte della radice. Le specie accumulatrici hanno creato meccanismi specifici per disintossicare livelli alti di metallo accumulati nelle cellule. Questi meccanismi permettono la bioaccumulazione di concentrazioni molto alte di metalli.

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Inoltre, un terzo gruppo di piante, le indicatrici, mostrano poco controllo sull’assorbimento del metallo e i processi di trasporto. In queste piante, l’incremento dell’accumulo del metallo riflette la concentrazione di metallo nel terreno rizosferico. Le specie indicatrici sono state usate per le miniere pensando di trovare nuovi giacimenti di minerali (Raskin e al., 1994).

2.3 Meccanismi di assorbimento del metallo nelle radici e traslocazione nei germogli

A causa della loro carica, gli ioni del metallo non possono muoversi liberamente attraverso le membrane cellulari, che hanno struttura lipofila. Perciò, il trasporto di ioni nelle cellule deve essere mediato dalle proteine delle membrane con funzioni di trasporto, generalmente conosciute come trasportatrici. Le proteine trasportatrici transmembrana possiedono un dominio di collegamento extracellulare al quale gli ioni si legano subito prima del trasporto, ed una struttura transmembrana che collega i mezzi extra e intracellulari. Il dominio di collegamento è recettivo solo a specifici ioni ed è responsabile della specificità del trasportatore. La struttura di transmembrana facilita il trasferimento di ioni legati dallo spazio cellulare attraverso l’ambiente idrofobo della membrana nella cellula. Questi trasportatori sono caratterizzati da certi parametri cinetici, come la capacità di trasporto (Vmax) e l’affinità per gli ioni (Km). La Vmax misura il grado massimo di trasporto di ioni attraverso le membrane cellulari, mentre la Km misura l’affinità dei trasportatori per uno specifico ione e rappresenta la concentrazione di ioni nella soluzione esterna nella quale il grado di trasporto equivale a Vmax/2.

Un basso valore di Km, alta affinità, indica che alti livelli di ioni sono trasportati nelle cellule, anche ad una bassa concentrazione esterna di ioni. Studiando i parametri cinetici, Km e Vmax, si ottengono risultati riguardo la specificità e la selettività del sistema di trasporto.

E’ importante notare che della quantità totale di ioni associati con la radice, solo una parte è assorbita nelle cellule. Una frazione significativa di ioni è assorbita nei siti extracellulari a carica negativa (COO-) delle pareti cellulari della radice. Gli ioni legati alla parete cellulare non possono essere traslocati ai germogli, e perciò

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non possono essere rimossi dalla biomassa del germoglio (fitoestrazione). Quindi, è possibile che una pianta esibisca un significativo accumulo di metallo nella radice esprimendo una limitata capacità di fitoestrazione. Per esempio, molte piante accumulano Pb nelle radici, ma il trasferimento di Pb nei germogli è molto lento. A sostegno di ciò, Blaylock e Huang (1999) sono arrivati alla conclusione che la traslocazione dalle radici ai germogli è il processo limitante alla fitoestrazione di Pb

Il legame alla parete cellulare non è il solo meccanismo della pianta responsabile dell’immobilizzazione del metallo nelle radici e della conseguente inibizione del trasporto di ioni nei germogli. I metalli possono anche essere legati e immagazzinati in strutture cellulari (es. vacuoli) diventando non disponibili per la traslocazione nei germogli (Lasat et al., 1998).

Inoltre, alcune piante, possiedono meccanismi specializzati per impedire l’assorbimento del metallo nelle radici.

L’assorbimento del metallo nelle cellule delle radici, il punto di entrata ai tessuti vitali, è il passo di primaria importanza per il processo di fitoestrazione. Per far avvenire la fitoestrazione, i metalli devono anche essere trasportati dalle radici ai germogli.La traslocazione è controllata principalmente da 2 processi:

• la pressione della radice;

• la traspirazione della foglia.

2.4 Meccanismi delle piante per la disintossicazione dal metallo

Sebbene i micronutrienti come Zn, Mn, Ni e Cu siano essenziali per la crescita e lo sviluppo delle piante, un’alta concentrazione intracellulare di questi ioni può essere tossica. Per sopravvivere a questo potenziale stress, le piante non accumulatrici hanno sviluppato vari meccanismi per controllare l’omeostasi degli ioni. Questi meccanismi includono la regolazione del flusso di ioni (stimolazione dell’attività dei trasportatori a un basso rifornimento di ioni intracellulari e inibizione alle alte concentrazioni) ed espulsione degli ioni intracellulari nella soluzione esterna. Le specie iperaccumulatrici di metallo, capaci di assorbire metalli in migliaia di ppm, possiedono meccanismi aggiuntivi di disintossicazione. Per esempio, nella T. goesingense, un’iperaccumulatrice di Ni,

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l’alta tolleranza era dovuta al legame di Ni con l’istidina che rendeva il metallo inattivo (Kramer et al., 1997).

E’ stato suggerito che la tolleranza allo Zn nei germogli della pianta iperaccumulatrice T. caerulescens sia dovuta alla sua relegazione nel vacuolo (Lasat et al., 1998). Sono stati anche proposti altri meccanismi quale per esempio la precipitazione come lo Zn-fitato (Van Steveninck et al.,1990) oppure attraverso legami con acidi organici di basso peso molecolare (Salt et al., 1999). Il cadmio, un metallo potenzialmente tossico, sembra accumularsi nelle piante dove però è reso inattivo in quanto si lega alle fitochelatine (Cobbett e Goldsbrough, 1999). Le metallotioenine (MT), identificate in numerosi animali, nelle piante e nei batteri (Kagi, 1991), sono anch’esse delle proteine che hanno la capacità di legarsi col metallo (Tomsett et al.,1992).

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3 Phytoremediation

La phytoremediation è una tecnica di bonifica che consiste fondamentalmente nell’utilizzo di piante per rimuovere i contaminanti dall’ambiente o per renderli non disponibili (Salt et al., 1998). Il termine phytoremediation deriva dal greco phytos (pianta) e dal latino remedium (curare, risanare). Le piante possono essere infatti utilizzate per rimuovere, stabilizzare, degradare e ridurre la concentrazione di inquinanti.

Le possibilità di applicazione di questa tecnica sono le più varie; sono state studiate applicazioni su matrice solida, detossificazione di molecole organiche complesse come pesticidi o altri contaminanti organici di sintesi, ed infine trattamenti su reflui di origine civile, industriale o agricola.

Per meglio precisare le diverse modalità di intervento si utilizzano termini più precisi che indicano il tipo di intervento operato dalla vegetazione sulle matrici contaminate:

- fitodegradazione: degradazione dei contaminanti mediante uso di piante e microrganismi ad esse associati (Burken e Schnoor, 1997). Processo che può avvenire sia attraverso l’assorbimento radicale e la successiva degradazione metabolica, sia attraverso la secrezione da parte delle radici di composti complessanti e/o enzimi con degradazione nella rizosfera (Cunninghamm et al., 1996);

- fitostabilizzazione: riduzione della biodisponibilità degli inquinanti presenti nel suolo e nelle acque superficiali con l’ausilio delle piante (Vangronsveld et al., 1995; Smith e Bradshaw, 1972). In questo modo si riduce il rischio di un ulteriore degrado dell’ambiente dovuto a lisciviaggio o diffusione atmosferica dei contaminanti (Salt et al., 1995);

- fitovolatilizzazione: volatilizzazione in atmosfera degli inquinanti ad opera delle piante (Burken e Schnoor, 1997; Banuelos et al, 1997). Le piante convertono gli inquinanti (selenio, mercurio e arsenico) in forma volatile e successivamente vengono trasferiti nell’atmosfera attraverso le foglie (Brooks, 1998);

- rizofiltrazione: decontaminazione tramite adsorbimento e assorbimento di sostanze inquinanti presenti nei reflui (Dushenkov et al., 1995). Le radici delle

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piante cresciute in acqua aerata, assorbono, precipitano e concentrano gli inquinanti da acque e reflui contaminati (Raskin et al., 1997);

- radiophytoremediation: accumulo di radionuclidi da particolari piante quali Phragmites australis, Heliantus annus e specie del genere Populus (Vanek et al., 2001);

- fitoestrazione: rimozione degli inquinanti dal suolo attraverso la biomassa delle piante (Krumer et al., 1995). Vengono utilizzate le piante che accumulano metalli o sostanze organiche dal suolo, attraverso la traslocazione e la concentrazione nella parte vegetale raccoglibile (Baker, 1999; Navari-Izzo e Quartacci, 2001). La fitoestrazione in questi anni è quella che ha subito il maggior sviluppo scientifico e tecnologico (Salt et al., 1998).

La fitoestrazione presenta molti vantaggi: aumenta il contenuto di carbonio organico nel suolo, elemento che stimola l’attività microbica, determina un effetto di stabilizzazione del terreno ad opera delle radici delle piante, che limitano l’erosione e lo scorrimento superficiale delle acque e riducono il lisciviaggio, inoltre permette di rimuovere selettivamente i metalli contaminanti (Navarri-Izzo e Quartacci, 2001). Questa metodologia che non presenta elementi di ulteriore degrado dell’ambiente, ma lascia praticamente inalterate le proprietà del suolo e ha costi molto contenuti rispetto ad altre tecnologie (Salt et al., 1998). I metodi fisico-chimici di recupero sono infatti distruttivi in quanto danneggiano la struttura del suolo e ne eliminano ogni attività biologica, riducendone drasticamente la fertilità. Inoltre la fitoestrazione in confronto agli altri metodi di bonifica risulta meno costosa.

3.1 Fitoestrazione di metalli da terreno contaminato: interazione pianta-terreno-metallo

Il concetto di usare le piante per ripulire gli ambienti contaminati non è nuovo. Circa 300 anni fa, le piante furono proposte per essere usate nel trattamento delle acque di scarico (Hartman, 1975). Alla fine del 19esimo secolo, Thlaspi caerulescens e Viola calaminaria furono le prime specie di piante documentate ad accumulare alti livelli di metalli nelle foglie (Baumann, 1885). Nel 1935, Byers affermò che le piante del genere Astragalus erano capaci di accumulare fino allo

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0,6% di selenio nella bio-massa dei germogli asciutti. Dieci anni dopo, Minguzzi e Vergnano (1948) identificarono piante capaci di accumulare fino all’1% di Ni nei germogli. Più recentemente, Rascio (1977) ha riportato la tolleranza e l’alta concentrazione di Zn nei germogli di Thlaspi caerulescens.

Nonostante i lavori successivi affermassero l’identificazione di iper-accumulatori di Co, Cu, e Mn, l’esistenza di piante iper-accumulatrici di metalli diversi da Cd, Ni, Se, e Zn richiede una ulteriore conferma (Salt et al., 1995). L’idea di usare le piante per estrarre metalli dal terreno contaminato fu reintrodotta e sviluppata da Utsumamyia (1980) e Chaney (1983), e la prima sfida sul campo sulla fitoestrazione di Zn e Cd fu condotta nel 1991 (Baker et al.).

Negli ultimi anni, una ricerca estensiva è stata condotta per studiare la biologia della fitoestrazione del metallo. Nonostante un notevole successo, la comprensione dei meccanismi della pianta che permettono l’estrazione del metallo è ancora emergente. In più, rilevanti aspetti applicativi, come l’effetto delle pratiche agronomiche sulla rimozione dei metalli, sono ancora sconosciuti.

E’ probabile che la maturazione della fitoestrazione in una tecnologia commerciale dipenderà alla fine dal chiarimento dei meccanismi della pianta e l’applicazione di adeguate pratiche agronomiche. La naturale occorrenza delle specie di piante capaci di accumulare livelli di metallo straordinariamente alti rende particolarmente interessante lo studio di questo processo.

3.2 Fitoestrazione continua

La fitoestrazione continua, che opera nel lungo termine, consiste nell’utilizzo di piante che possiedono particolari capacità genetiche e fisiologiche che permettono loro di accumulare, traslocare e resistere ad alte quantità di metalli. Esistono infatti ambienti geochimici naturalmente contaminati da metalli (come i suoli serpentinosi in cui si trovano elevate concentrazioni di Ni, Cr, Mn, Cu, Co; o i suoli seleniferi che contengono molto Se, gli uraniferi con U e quelli calamitosi con elevati livelli di Zn e Cd) sui quali si è sviluppata una flora specializzata che si è adattata a tollerare questi alti livelli di concentrazione di metalli.

Nella fitoestrazione continua si utilizzano le specie iperaccumulatrici che mostrano la capacità di accumulare una notevole quantità di metallo (fino all’1%

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della biomassa secca aerea) ma normalmente hanno una produttività di biomassa ridotta e una velocità di crescita contenuta (la maggior parte di queste specie appartiene alla famiglia delle Brassicaceae).

Esse per tutta la durata del ciclo di accrescimento assimilano i metalli pesanti (Baker e Brooks, 1989).

Una limitazione delle piante iperaccumulatrici, nell’ipotesi di un loro impiego in siti inquinati, è che sono altamente specializzate per uno o due metalli, mentre non sono rare situazioni di suoli multicontaminati. Inoltre esse sono piante relativamente rare e si trovano in aree remote o spesso minacciate dalla devastazione dell’attività di estrazione mineraria. L’accumulo dei metalli nella biomassa vegetale è poi chiaramente limitato dalla produttività della pianta e in generale le iperaccumulatrici hanno bassa biomassa e un lento ritmo di crescita. Altre limitazioni sono dovute alla stretta selettività delle iperaccumulatrici nei confronti dei metalli ed alle scarse conoscenze riguardo alle loro caratteristiche agronomiche, alla gestione dei patogeni, alla genetica ed alle possibilità di coltivazione nelle nostre condizioni climatiche (Navarri-Izzo e Quartacci, 2001).

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3.3 Fitoestrazione assistita

La fitoestrazione assistita, detta anche fitoestrazione indotta, prevede l’utilizzo di piante agrarie, preferibilmente individuate tra le specie ad alta produzione di biomassa e la adozione di adeguate pratiche colturali in grado di innescare ad un certo punto del ciclo culturale una fase di intensa assimilazione dei metalli. Molti studi sono stati eseguiti sulla possibilità di utilizzare composti chelanti di origine sintetica allo scopo di incrementare l’efficienza della fitoestrazione (Blaylock et al., 1997) grazie alla mobilizzazione dei metalli indotta dai chelanti medesimi. E’ stata dimostrata, in effetti, una correlazione diretta tra l’assimilazione dei metalli da parte delle piante e l’impiego di diversi chelanti, che a loro volta posseggono affinità diverse per i metalli che debbono mobilizzare.

Sulla base di queste esperienze è stato messo a punto il seguente protocollo di intervento di fitoestrazione assistita:

1. valutazioni delle condizioni di contaminazione e definizione della combinazione coltura/chelato più adeguata;

2. preparazione agronomica e cure colturali; 3. applicazione del chelato;

4. accumulo dei metalli nei tessuti vegetali; 5. raccolta della biomassa.

E’ quindi necessario trovare la giusta combinazione tra pianta, pratica agraria e tipo, quantità e metodo di applicazione del chelante (Cooper et al., 1999).

Nei programmi di fitoestrazione assistita è indispensabile valutare sia l’impatto sugli ecosistemi di una eccessiva solubilizzazione dei metalli che possono lisciviare verso orizzonti di suolo non contaminati o nelle falde acquifere, sia la potenziale tossicità per flora, fauna ed eventualmente per l’uomo dei chelanti sintetici.

La fitoestrazione assistita utilizza specie agronomiche (per esempio Zea mays ed Helianthus annuus) ad elevata produttività e velocità di crescita. Queste specie non sono in grado di accumulare naturalmente elevate quantità di metallo nei tessuti mietibili (livelli dell’ordine dell’1% della biomassa secca), tuttavia l’assorbimento del metallo può essere notevolmente favorito somministrando

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agenti chelanti (sostanze in grado di mobilizzare il metallo nel suolo) al terreno di coltura.

3.3.1 Ammendanti nella fitoestrazione assistita

Studi recenti suggeriscono che l'aggiunta di chelanti al terreno (fitoestrazione assistita) possa rappresentare un'efficace strategia per aumentare l'assorbimento dei metalli da parte delle piante a causa della loro solubilizzazione nella soluzione circolante. La solubilizzazione è principalmente basata sulla capacità dei chelanti organici di formare complessi idrosolubili con i metalli. Per mezzo della complessazione i metalli sono estratti o desorbiti dai diversi componenti del terreno ovvero dalle loro superfici. L'efficacia della solubilizzazione dipende dalla costante di stabilità dei complessi calcolata in soluzione acquosa (Martell e Calvin, 1958). Esperimenti comparativi hanno mostrato che nei suoli la

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complessazione dei metalli con vari chelanti organici presenta il seguente ordine: EDTA (acido etilendiamminotetracetico) ed altri chelanti sintetici > acido nitrilotriacetico (NTA) > acido citrico > acido ossalico, seppure con una diversa selettività nei confronti dei vari metalli. È stato però osservato che quando la concentrazione dei chelanti nel terreno aumenta, la selettività diminuisce in proporzione (Hong e Pintauro, 1996).

Lo studio delle condizioni di crescita delle piante prima dell'addizione dei chelanti ha evidenziato che l'accumulo di Pb in mais trapiantato nel suolo contaminato dieci giorni dopo la germinazione è risultato essere circa 7 volte maggiore rispetto a quello riscontrato in piante germinate direttamente nel terreno inquinato (Wu et al., 1999). Poiché nei programmi di fitorisanamento il trapianto di specie cresciute per un certo periodo in un substrato non contaminato non è perseguibile sia da un punto di vista economico (spese di trapianto) che fisiologico (stress da messa a dimora), le ricerche applicative sull'uso degli ammendanti e sul fitorisanamento in genere non dovrebbero basarsi su piante trapiantate.

Spesso l'ammendamento con chelanti sintetici determina l'arresto della crescita ovvero la morte della pianta a seguito del forte aumento della frazione solubile del metallo nella soluzione circolante del terreno. L'applicazione di questi agenti organici dovrebbe quindi essere attuata non nelle prime fasi di crescita della pianta, bensì in quello stadio fisiologico dove maggiori sono la capacità di accumulo del metallo (generalmente la prefioritura), la crescita in termini di biomassa e la tolleranza ai metalli.

Kayser et al. (2000) hanno evidenziato che, mediamente, le piante cresciute in campo rimuovono soltanto il 20% del metallo assorbito dalle stesse specie cresciute in vaso nello stesso terreno. La spiegazione di questo comportamento può essere ricercato: (a) nella maggiore concentrazione di metalli ottenibile nelle prove in vaso a seguito dell' aggiunta di alte quantità di ammendanti; (b) nella conseguente maggiore concentrazione della frazione solubile; (c) nella maggiore esplorazione del terreno da parte delle radici che sono costantemente a contatto dell'agente ammendante; (d) nella minore diluizione del metallo a causa della ridotta produzione di sostanza secca che si ha in vaso.

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Buona parte degli studi eseguiti per valutare l'efficacia dell'applicazione degli agenti organici sulla fitoestrazione dei metalli si è focalizzata sul Pb, data l'alta affinità dei chelanti sintetici organici per questo elemento (costante di chelazione > 15).

Per alcuni metalli tossici come il Pb, un importante fattore che limita il potenziale per la fitoestrazione è la scarsa solubilità e biodisponibilità per l’assorbimento nelle radici. Un modo per indurre la solubilità del Pb è diminuire il pH del terreno (Mc Bride, 1994). In seguito all’acidificazione del terreno, comunque, il Pb stabilizzato può lisciviare rapidamente sotto la zona della radice. Inoltre, il piombo ionico solubile ha poca predisposizione per l’assorbimento nelle radici. Si è dimostrato che l’uso di componenti chimici specifici, i chelanti sintetici, stimola il potenziale per l’accumulo di Pb nelle piante. Questi componenti impediscono la precipitazione di Pb e tengono il complesso Pb-chelante solubile e disponibili per l’assorbimento nelle radici e il trasporto nelle piante. Per esempio, l’aggiunta di EDTA a un livello di 10 mmol/kg di terreno, accresce l’accumulo di Pb nei germogli di mais fino a 1,6 % di biomassa asciutta (Blaylock e al., 1997). In uno studio successivo, la senape indiana esposta a Pb e EDTA in soluzione idroponica è stata capace di accumulare più dell’1% di Pb nei germogli asciutti (Vassil e al., 1998). Un altro chelante sintetico, l’HEDTA, applicato al 2,0g/kg di terreno contaminato con 2.500 ppm Pb, aumentò l’accumulo di Pb nei germogli di senape indiana da 40 ppm a 10.600 ppm (Huang e Cunningham, 1996). L’accumulo di livelli elevati di Pb è altamente tossico e può causare la morte della pianta. A causa degli effetti tossici, si raccomanda che gli agenti chelanti siano applicati solo dopo che è stata prodotta una quantità massima di biomassa.

L'addizione di EDTA, del suo idrossi derivato HEDTA e di CDTA (acido1,2diamminocicloesanotetracetico) a concentrazioni comprese tra 0,44 e 5,8 g kg-1suolo ha determinato un drastico incremento del Pb accumulato in varie spe-cie agrarie, fino ad un massimo di 24 g kg-1 di sostanza secca in Lolium perenne (Deram et al., 2000). Alcuni studi hanno inoltre mostrato che una volta assimilato, il complesso EDTA-Pb viene traslocato dalle radici alla parte epigea attraverso il succo xilematico (Vassil et al., 1998). Blaylock et al. (1997) riportano che

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