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Studio di associazione caso-controllo di polimorfismi del gene del Vascular Endothelial Growth Factor (VEGF) nella demenza di Alzheimer e Vascolare

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UNIVERSITA DI PISA

Facoltà di Scienze Matematiche, Fisiche e Naturali

Tesi di Laurea Specialistica in

Neurobiologia

Candidato: Noemi Josette Giglioli Relatore: Prof. Gabriele Siciliano

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INDICE

RIASSUNTO ... 3

ABSTRACT ... 5

INTRODUZIONE ... 7

La malattia di Alzheimer... 10

Fattori di rischio e di protezione ...11

Caratteristiche neuropatologiche ...13

Etiopatogenesi ...18

Ipotesi della cascata dell amiloide ...18

Ipotesi dello stress ossidativo...20

Ipotesi infiammatoria ...23

Forme familiari autosomico-dominanti ad esordio precoce ...24

Fattori di suscettibilità nelle forme sporadiche...27

Ruolo dei fattori vascolari...32

Angiogenesi e malattia di Alzheimer ...35

La Demenza vascolare ... 38

Neurodegenerazione nella Demenza vascolare ...42

Il Vascular Endothelial Growth Factor (VEGF) .... 43

Il gene e le isoforme del VEGF ...44

Regolazione della espressione del VEGF ...45

Funzioni biologiche VEGF...47

Recettori e meccanismi di trasduzione intracellulare...49

Azione del VEGF nel Sistema Nervoso ...50

Studio dei polimorfismi del VEGF ...53

SCOPO DELLA TESI ... 56

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Pazienti ... 57

Tecnica per lo studio dei polimorfismi... 58

Estrazione del DNA...59

La metodica della PCR ...60

Enzimi di restrizione ...63

Elettroforesi su gel di agarosio...64

Analisi dei genotipi -2578 C/A ...66

Analisi dei genotipi -1198 C/T ...67

Tipizzazione del genotipo dell ApoE...69

Analisi statistica... 69

RISULTATI... 70

DISCUSSIONE... 73

FIGURE E TABELLE... 82

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RIASSUNTO

La demenza è una patologia altamente invalidante che colpisce prevalentemente la popolazione anziana. La malattia di Alzheimer (MA) e la demenza vascolare (DV) sono le due forme principali di demenza e ne costituiscono rispettivamente il 50-55% e il 20%. La MA è una patologia neurodegenerativa, caratterizzata da tipiche lesioni istopatologiche, quali le placche senili e i grovigli neurofibrillari. Il meccanismo etiopatogenetico che determina la malattia rimane comunque ad oggi sconosciuto. La DV è una demenza secondaria determinata da un fattore vascolare ischemico, in seguito al quale si determina un deficit emodinamico in corrispondenza delle regioni coinvolte nella funzione cognitiva. Le lesioni vascolari più comuni sono rappresentate dagli infarti multipli e lesioni della sostanza bianca sottocorticale.

Alcuni studi pongono al centro dell attenzione il ruolo dei fattori vascolari nella MA, in quanto si è rilevato che un danno dell endotelio vascolare possa comportare un progressivo danneggiamento dei neuroni. L endotelio produce numerosi fattori di crescita, fra i quali il fattore di crescita vascolare endoteliale (Vascular Endothelial Growth Factor, o VEGF), una citochina proangiogenica che svolge anche funzioni neuroprotettive. L espressione di VEGF aumenta in risposta all ipossia, ed è quindi coinvolto nelle risposte compensatorie che si verificano in situazioni

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ischemiche, stati ipoperfusionali ed infiammatori che si presentano, sebbene in misura diversa, sia nella MA che nella DV.

In uno studio del 2005 due polimorfismi presenti nella regione del promotore del gene del VEGF, il -2578C/A e il -1198C/T, sono stati associati ad un incremento del rischio di sviluppare la MA, ma i risultati non sono stati confermati da altri due lavori in proposito.

Lo scopo di questa tesi sperimentale è stato quello di verificare tale associazione in un gruppo di pazienti con MA sporadica rispetto ad un gruppo di controllo.

La stessa analisi è tata intrapresa in una piccola popolazione di pazienti con DV, malattia per la quale non sono stati condotti ad oggi studi di associazione con il VEGF. Nel nostro lavoro non abbiamo rilevato alcuna associazione. tra le varianti alleliche e i genotipi relativi .ai polimorfismi -2578C/A e -1198C/T e le due patologie.

I nostri dati indicano che tali polimorfismi non conferiscono rischio significativo per MA, almeno nella popolazione italiana.

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ABSTRACT

Dementia in one of the most disabling health conditions in older people. Alzheimer s disease (AD) and vascular dementia (VaD) are the two main types of dementia affecting between 50-55% and 20%, respectively of all demented patients. AD is a neurodegenerative disorder, neuropathologically charaterized by the presence of neurofibrillary tangles and by the deposition of -amiloid in the form of neuritic plaque. However, the pathogenesis of the disease is poorly understood. There is increasing evidence of a central role of vascular endhotelial cells in the progressive damage of cortical neurons. The endothelium exerts direct local effects by producing several paracrine growth factor that act on adjacent cells. We have focused our attention on the vascular endothelial growth factor (VEGF), an angiogenic citochine also implicated in neuroprotection, regeneration, axonal growth. VEGF is upregulated in response to hipoxia, and, therefore, it might have a pivotal role in response to ischemic stimuli, ipoperfusion and inflammation, conditions that occurred in both AD e VaD. VaD is caused by multiple infarcts, or subcortical white matter lesion, which led to hypoperfusion and death of hypoxic brain tissue in cognitive areas. Abnormal expression of VEGF has been observed in both AD and Vad.

In a preliminar report, two polymorphisms within the promoter region (-2578 C/A and -1198 C/T), has been associated with increased risk of AD,

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but other two study failed to replicate this association. To further elicited the relationship between genetic variation and AD, we have tested this association in a group of Italian AD patients and controls, by examining the promoter -2578 C/A and -1198 C/T VEGF polymorphism. We have also analyzed the same polymorphisms distribution in a small group of VaD patients. We did not observed any association between the two tested polymorphisms and both AD and VaD, as well as no correlation between the genetic variants and the clinical features. Our data indicate that the tested VEGF polymorphisms do not confer greater risk for AD, at least in our Italian population.

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INTRODUZIONE

La demenza è un disturbo delle funzioni intellettive, acquisito o di natura organica, caratterizzato da una progressiva compromissione della memoria a breve e a lungo termine e di almeno una delle attività mentali primarie, cioè il pensiero astratto, la capacità critica, il linguaggio, l orientamento topografico, in assenza di alterazioni della coscienza e con significativa interferenza nella attività lavorativa e nelle relazioni interpersonali (DSMIV-1994).

La demenza è una sindrome altamente invalidante che colpisce prevalentemente la terza età (Üstün et al., 1999). Indagini epidemiologiche hanno infatti rilevato che circa il 4-5% dei soggetti al di sopra dei 65 anni è affetto da demenza, e tale percentuale cresce proporzionalmente con l età, arrivando ad interessare più del 30% degli ultraottantenni (Lobo et al.., 2000). Il numero dei casi è destinato inevitabilmente a crescere per il progressivo invecchiamento della popolazione, dal momento che studi prospettici parlano di un aumento del numero degli anziani nei paesi occidentali pari al 250% entro il 2030 (World Bank, 1993). Partendo dall assunto che i tassi di incidenza età specifici non cambieranno nei prossimi anni, in Italia si prevedono 213.000 nuovi casi di demenza ogni anno a partire dal 2020, contro i 150.000 rilevati nel 2000 (Italian Longitudinal Study of Aging, 2002).

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Per molto tempo la demenza è stata considerata una normale conseguenza dell invecchiamento, quale una accentuazione di un normale processo fisiologico. In realtà, le modificazioni delle funzioni cognitive che si possono riscontrare con l età, quali ad esempio un rallentamento nei processi di apprendimento o modificazioni della velocità di esecuzione delle prove di performance sono stabili e non hanno impatto funzionale perché l anziano non affetto da demenza riesce a compensare bene queste alterazioni (Cullum et al., 1998). Con l età si osserva anche un declino della memoria ristretto a specifici aspetti quali l acquisizione di nuove informazioni e al recupero precoce delle stesse, mentre non si osservano alterazioni del linguaggio, delle abilità visuospaziali, del ragionamento astratto (Small et al., 1999).

Nell ambito delle varie forme di demenza (Tabella 1), circa il 50-55% è costituito dalla malattia di Alzheimer (MA); circa il 15-20% da demenza vascolare (DV); altre forme di demenza sono rappresentate da patologie neurodegenerative, quali la demenza a corpy di Lewy, la demenza frontotemporale e la malattia di Pick (Stephanie et. al, 1999) e demenze secondarie a patologie potenzialmente reversibili, riconducibili a sindromi carenziali, metaboliche, endocrine, tossiche, infettive, traumatiche, tumorali, da idrocefalo normoteso (Bianchetti et al., 1994).

Da un punto di vista neuropatologico, le principali forme di demenze degenerative (MA , demenze frontotemporali e malattia di Pick, malattia a

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corpi di Lewy) si differenziano sia qualitativamente (tipologia delle lesioni neuropatologiche) che quantitativamente (estensione e distribuzione delle stesse) (Aguero-Torres et al., 1998). La manifestazione clinica della malattia avviene spesso molto tempo dopo la comparsa delle lesioni istopatologiche (de Leon et al., 1997) e una diagnosi certa è possibile solo post-mortem. Il percorso diagnostico deve quindi basarsi su una raccolta mirata delle informazioni riguardo la storia clinica del paziente che deve definire il più precisamente possibile le modalità di esordio della malattia, sull esame obiettivo e su una valutazione accurata delle capacità funzionali e cognitive mediante batterie di test neuropsicologici. La diagnosi differenziale ha come primo obbiettivo quello di differenziare le demenze degenerative primarie, tra le quali la MA, dalle demenze reversibili e quelle di origine vascolare. L uso di indagini ematochimiche e strumentali migliora l accuratezza diagnostica, in particolare un esame di neuroimmagine (Tac, Risonanaza Magnetica e in casi selezionati SPECT e PET) è considerato fondamentale nel protocollo diagnostico delle demenze (Petersen et al., 2000; Wang et al., 2004). Nei casi familiari è possibile inoltre eseguire test genetici specifici. Per porre la diagnosi clinica di demenza è, inoltre, necessario che vengano soddisfatti i criteri diagnostici stabiliti dal DSM-IV (American Psychiatric Association-Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders, 1994).

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La malattia di Alzheimer

La MA rappresenta la causa più frequente di demenza nelle popolazioni occidentali e comprende il 50-60% di tutti i casi di demenza; la prevalenza della malattia si attesta intorno all 1% tra i 60 e i 64 anni, aumenta esponenzialmente con l età fino a raggiungere valori pari al 24-35 % nei soggetti al di sopra degli 85 anni (Ferri et al., 2005). Da recenti studi italiani è emerso che la MA rappresenta il 67,7% dei casi di demenza nelle donne e il 38,5% dei casi negli uomini. L incidenza della malattia mostra una specifica relazione con l età e la frequenza raddoppia approssimativamente ogni cinque anni. Attualmente ne sono affette oltre 500.000 persone e si prevede che il loro numero raddoppi nell arco dei prossimi vent anni (Italian Longitudinal Study of aging, 2002).

L età media di insorgenza è intorno agli 80 anni, anche se esistono rare forme ad esordio precoce, così definite quando la sintomatologia compare prima dei 65 anni (6-7% di tutti i casi di MA) (Campion et al., 1999). La malattia colpisce entrambi i sessi, con predilezione per le donne, indipendentemente dalla loro maggiore durata di vita (Cutter et al., 2003; Sherwin, 2003; Lambert et al., 2004). Il decorso della malattia è progressivo e comprende deficit gravi di memoria a breve ed a lungo termine, disturbi del linguaggio, perdita di orientamento spazio-temporale. Si accompagnano spesso disturbi di natura psichiatrica, quali depressione e talvolta deliri ed allucinazioni. Nelle ultime fasi della malattia, il

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paziente manifesta rigidità muscolare, incontinenza ed incapacità a parlare e perde totalmente autonomia. Il decesso avviene in stato di marcato scadimento delle condizioni generali, per complicanze infettive e broncopolmonari (Loeb e Favale 2003). La durata della malattia è di circa 8-10 anni ma può variare tra 1 e 25 anni (Mecocci et al., 2001, Braunwald et al., 2001). I criteri clinici utilizzati per la definizione di MA sono quelli del NINCDS-ADRDA Work Group (National Institute of Neurological

and Comunicative Disorders and Sroke; Alzheimer s Disease and Related

Disorders Association Work Group) (McKhann et al.., 1884), che

delineano tre differenti livelli di accuratezza diagnostica: MA possibile, probabile e certa (quest ultima post-mortem).

Fattori di rischio e di protezione

I fattori di rischio più importanti per la MA sono l'età avanzata e la familiarità.

E stato calcolato che il rischio di sviluppare MA sia di circa il 5% per gli ultrasessantacinquenni e di oltre il 50% per gli ultraottantacinquenni. L incidenza di MA mostra dunque un significativo aumento con l avanzare dell età (Maj & Sartorius, 2004).

I familiari di primo grado di soggetti affetti da MA hanno un rischio 3,5 volte maggiore di manifestare il disturbo (van Duijn et al., 1991).

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Studi epidemiologici indicano che a MA è più frequente nel sesso femminile e che la terapia estrogenica sostitutiva postmenopausale si correla ad un incidenza più ridotta di sviluppare MA. Esiste inoltre un evidenza sperimentale del fatto che gli estrogeni possano modificare la produzione del peptide A (Xu et al., 1998). Tuttavia, il potenziale significato degli estrogeni, ai fini della neuroprotezione per la MA, rimane da chiarire (Mulnard et al. 2000).

Alcuni studi hanno correlato inoltre lo sviluppo della malattia a fattori quali un minor volume cerebrale, basso livello culturale e ridotta attività mentale e fisica in età avanzata (Mayeux et al., 2003; Mortimer et al., 2003).

Un grave danno traumatico cerebrale può rappresentare un fattore di rischio e si ritiene che possa interagire con una predisposizione genetica (presenza dell allele e4 del gene apolipoprotena E, APOE) nell'anticipare l'esordio della malattia (Jellinger et al., 2001; Mayeux et al., 1995; Schofield et al., 1997).

Altri fattori di rischio sono comuni a quelli che predispongono a patologie vascolari quali l ipertensione, l aterosclerosi, l ipercolesterolemia, fumo, obesità, diabete e patologie coronariche (Mayeux et al., 2003).

Diversi studi hanno riportato che l esposizione cronica all alluminio può aumentare il rischio di sviluppare la malattia. L alluminio è naturalmente presente nelle riserve di acqua in forma insolubile; può però essere

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aggiunto in forma solubile durante il trattamento delle acque, per migliorarne la limpidezza: sarebbe proprio la forma solubile ad essere più prontamente assorbita dall organismo, comportando il rischio di un suo accumulo. Diversi studi hanno riportato una maggiore incidenza di MA in aree con maggiore quantità di alluminio nelle acque, soprattutto se acide. Tuttavia poiché la metodologia con cui tali studi sono stati condotti ha suscitato alcune critiche, attualmente sussistono soltanto deboli prove a sostegno del ruolo che l alluminio svolgerebbe nel favorire lo sviluppo di MA (Douglas, 1998).

Alcune ricerche hanno suggerito che l'uso di farmaci antinfiammatori non steroidei (FANS) potrebbe essere associato ad un rischio ridotto della MA (in't Veld et al., 2001). Inoltre anche l'utilizzo a lungo termine di inibitori della 3-idrossi-3-metilglutaril coenzima-A-reduttasi (statine) sembra essere protettivo nei confronti della MA (Rockwood et al.. 2002; Wolozin et al. 2000). Alcuni studi correlano l assunzione di vitamina B12 e folati, vitamina E, vitamina C e di acidi grassi insaturi ad un minor rischio di sviluppare MA (Luchsinger et al., 2004).

Caratteristiche neuropatologiche

La MA è una malattia neurodegenerativa caratterizzata da perdita neuronale e atrofia in regioni specifiche, quali le aree associative della neocorteccia, l'ippocampo, l'area entorinale, alcuni nuclei dell'amigdala, la

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porzione anteriore del talamo (Francis et al.., 2006). Nella MA il danno esordisce nella corteccia entorinale, soprattutto a livello del II strato, si estende all'ippocampo e colpisce le cellule piramidali dell area CA1 e CA2, e successivamente interessa le regioni temporali posteriori e la neocorteccia parietale ed alla fine causa una degenerazione diffusa in tutta la corteccia cerebrale. Lesioni di alcuni circuiti cortico-sottocorticali possono avere riflessi significativi sul comportamento.

Il sistema colinergico appare selettivamente colpito nella MA, si riscontra infatti una considerevole perdita dei neuroni del nucleo basale del Meynert (Bowen et al., 1990). Si verifica inoltre degenerazione di neuroni serotoninergici e glutammatergici (Bowen e Francio, 1990). La perdita dei neuroni colinergici e serotoninergici, localizzati rispettivamente nel diencefalo basale e nella parte superiore del tronco encefalico, comporta una diminuzione degli effetti modulatori ascendenti sulla funzione neocorticale ed ippocampale. Numerose evidenze indicano che la sindrome clinica coinvolge una riduzione della neurotrasmissione a livello delle sinapsi colinergiche della neocortex e dell ippocampo (Coyle et al., 1983). In primo luogo, nella MA i marcatori colinergici presinaptici della neocortex e nell ippocampo sono ridotti e si è notata una loro correlazione con la gravità della demenza (Bowen e Francis, 1990; Davies e Maloney, 1976). Studi clinici sugli inibitori dell aceilcolinesterasi (AchE) evidenziano un miglioramento cognitivo e della qualità della vita,

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una riduzione dei problemi comportamentali, una posticipata istituzionalizzazione (Cummings e Cole, 2002, Dooley e Lamb, 2000; Knopman et al., 1996; Lamb e Goa, 2001; Olin e Schneider, 2002). Tuttavia le alterazioni dei marcatori colinergici non sembrano apparire precocemente nel corso della malattia. Il numero dei neuroni del diencefalo basale non è alterato in caso di lieve compromissione cognitiva e nemmeno negli stadi precoce della MA (Gilmor et al., 1999).

Lo studio istologico del tessuto cerebrale dei pazienti affetti da MA rivela la presenza di alterazioni morfologiche extra ed intracellulari, rispettivamente le placche senili e i grovigli neurofibrillarie (Figura 1 a e b). Le placche senili si osservano anche nel cervello di soggetti anziani non dementi, dove si localizzano soprattutto a livello dell ippocampo e dell amigdala; invece nei pazienti con MA sono presenti anche a livello della neocorteccia ed in misura molto maggiore. Le placche senili sono strutture di forma rotondeggiante od ovale, di diametro di 50-200 m, evidenziabili con l impregnazione argentica e formate da una parte centrale proteica di amiloide (o core) circondata da neuriti distrofici, microglia e astrociti reattivi (Selkoe et al., 1994). La sostanza amiloide è costituita da fibrille di 8-10 nm di diametro, composta da un peptide di 40-43 aminoacidi, denominato -amiloide ( A) che origina per idrolisi enzimatica da una molecola di più grandi dimensioni, la proteina precursore della amiloide (amyloid precursor protein, APP) (Glenner et

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al., 1984). Le placche senili si trovano generalmente a livello dello strato molecolare del giro dentato dell ippocampo, nell amigdala, nelle aree associative frontali, temporali e dei lobi parietali ed in alcuni nuclei profondi che proiettano a queste regioni (Selkoe, 2004). I grovigli neurofibrillari sono costituiti da ammassi di filamenti localizzati nel citoplasma perinucleare e nei processi neuritici. Queste tipiche lesioni sono diffuse e interessano sia gli strati superficiali che profondi della corteccia associativa, i neuroni dei gangli della base e di alcuni nuclei del tronco encefalico. Al microscopio elettronico essi appaiono formati da una coppia di filamenti avvolti ad elica del diametro di 10 nm costituiti dalla proteina tau, nella sua forma iperfosforilata. La proteina tau, appartenente alla famiglia delle proteine associate ai microtubuli, facilita in condizioni non patologiche l'assemblaggio e il legame dei microtubuli all'interno della cellula, stabilizzando la struttura citoscheletrica e il trasporto assonico. La fosforilazione della proteina tau ne determina la polimerizzazione in dimeri insolubili che si aggregano nei grovigli neurofibrillari (Selkoe, 2004). L angiopatia amiloide è una lesione che può essere riscontrata a livello dell avventizia e della media dei vasi delle leptomeningi e della corteccia. Consiste in un accumulo di materiale fibrillare formato da e può determinare un aumento della frequenza di emorragie lobari.

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Altre alterazioni istopatologiche sono state osservate nel cervello di pazienti con MA, ma anche in altre patologie neurodegenerative e, in misura molto ridotta, nell invecchiamento cerebrale. I filamenti del

neuropilo sono brevi processi neuronali visibili sottoforma di chiazze

argentee, composti da tioflavina, riscontrabili per lo più nelle regioni corticali in associazione ai grovigli neurofibrillari. I corpi di Hirano sono filamenti bastoncellari costituiti da actina ed altri microfilamenti, più comunemente rilevabili nei neuroni piramidali dell ippocampo. La

degenerazione granulovacuolare si riscontra nei medesimi neuroni e si

identifica con la presenza di grandi vacuoli citoplasmatici delimitati da membrana e contenenti proteine associate al citoscheletro (Terry et al., 1994). Tali lesioni neuropatologiche si riscontrano anche, in minor misura, nel cervello dell anziano non demente; in pazienti con MA si associano però ad alterazioni morfologiche e funzionali a livello sinaptico, che correlano con la perdita delle funzioni cognitive (Francis et al., 2006). A livello intracellulare si rilevano diverse modificazioni a livello per esempio dell apparato del Golgi e dei compartimenti endosomiali. Queste modificazioni insorgono precocemente nel corso della malattia, anche in fasi precliniche nei neuroni vulnerabili (Terry et al., 1996).

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Etiopatogenesi

In base all età di esordio, si distinguono due forme di malattia: MA ad esordio precoce (early-onset), quando compare prima dei 65 anni, e MA ad esordio tardivo (late-onset) quando si presenta dopo i 65 anni (Nussbaum et al., 2003).

Le forme ad esordio precoce costituiscono il 6-7% di tutti i casi di MA e circa il 7% delle forme early-onset mostrano un ereditarietà di tipo autosomico dominante a penetranza completa (Campion et al., 1999). Nella maggioranza dei casi la MA ha carattere sporadico, esordio tardivo e mostra perciò una patogenesi multifattoriale, dove concorrono fattori sia di ordine genetico che ambientale e dalla cui interazione si innescano meccanismi di amplificazione del danno iniziale, con conseguente perdita funzionale e strutturale progressiva delle cellule nervose. La ricerca ha messo in luce di volta in volta diversi aspetti patogenetici, chiamando in causa fattori genetici, infiammatori, ormonali, stress ossidativo, che sembrano costituire i vari tasselli di un complesso quadro unitario, ma rimane da comprendere il primum movens e la loro esatta sequenza nell insorgenza della malattia.

Ipotesi della cascata dell amiloide

Il riscontro dei tipici reperti anatomopatologici a livello del sistema nervoso centrale, l identificazione dei geni mutati nelle forme familiari e

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l evidenza di un coinvolgimento dell ApoE, quale principale fattore di suscettibilità delle forme sporadiche, nel metabolismo del peptide A hanno portato alla formulazione di un ipotesi patogenetica unificante, che vede nell accumulo della A e nella sua strutturazione in placche insolubili l evento primario nella genesi della MA: si tratta della cosiddetta ipotesi della cascata della amiloide (Selkoe, 2000). Secondo tale teoria, per effetto di un aumentata produzione o di un diminuito smaltimento, la concentrazione del peptide A -42 aumenterebbe progressivamente fino a raggiungere un livello critico di polimerizzazione tale da innescare uno stato di stress ossidativo ed indurre una degenerazione associata ad alterazioni del citoscheletro (grovigli neurofibrillari) e a morte cellulare programmata (Figura 2).

I meccanismi attraverso i quali la A esplica il suo effetto neurotossico non sono ancora completamente chiariti: sembra che la forma fibrillare insolubile, interagendo con la membrana neuronale, determini un alterazione dei processi di trasduzione del segnale e porti la cellula all apoptosi. L innesco di tali meccanismi potrebbe essere facilitato dalla produzione di radicali liberi, di citochine infiammatorie per attivazione delle cellule microgliali e dall aumentata sensibilità agli aminoacidi eccitatori. I danni alla membrana neuronale potrebbero poi contribuire ad una disregolazione nei meccanismi che controllano il flusso intraneuronale

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di calcio, con conseguente iperattivazione delle chinasi intracellulari ed iperfosforilazione della proteina tau.

Se questa ipotesi, che indica nell accumulo della A il primo ed unico fattore patogenetico, è ben applicabile nelle forme familiari in cui è possibile riscontrare mutazioni causative di malattia in geni direttamente coinvolti nel metabolismo dell APP, non si può dire altrettanto per la maggioranza dei casi sporadici di demenza di Alzheimer, dove non esistono evidenze così forti da giustificare una primaria alterazione nella produzione del peptide A -42.

Nel corso degli anni sono state postulate ipotesi alternative, che chiamano in causa fattori in gran parte legati al fisiologico processo dell invecchiamento, capaci di accelerare la degenerazione e la morte neuronale e contemporaneamente di modificare il metabolismo dell APP, favorendo la produzione di La malattia sarebbe quindi il risultato dell interazione di svariati elementi, in primis dello stress ossidativo (Joseph et al., 2001), e la deposizione della A diventerebbe in quest ottica un fattore necessario ma non più sufficiente allo sviluppo della MA.

Ipotesi dello stress ossidativo

Il ruolo cruciale mostrato dall età quale principale fattore di rischio della MA, così come di altre patologie neurodegenerative, ha suggerito la

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possibile continuità tra i meccanismi molecolari e cellulari implicati nei normali processi dell invecchiamento. Nel 1956 Denham Harman formula la cosiddetta teoria dei radicali liberi , secondo la quale alla base del fisiologico invecchiamento cellulare e tissutale vi sarebbe il progressivo accumulo di alterazioni irreversibili indotte da radicali liberi dell ossigeno (reactive oxygen species-ROS) (Harman, 1992). Questi agenti ossidanti sono prodotti durante il normale metabolismo cellulare, ma possono provocare danni in quanto derivati chimici estremamente reattivi capaci di modificare la struttura delle molecole con cui reagiscono e di danneggiare la membrana lipidica, gli acidi nucleici, i carboidrati e le proteine, con conseguenti gravi disturbi nelle funzioni cellulari ed organiche (Polidori, 2003). La cellula possiede sistemi antiossidanti, enzimi quali la manganese-superossido-dismutasi (Mn-SOD), la catalasi, la glutatione perossidasi, e altri agenti quali l acido ascorbico (vitamina C), l -tocoferolo (vitamina E) e il -carotene (Stahl e Sies, 1997), in grado di contrastare la produzione o gli effetti dei radicali liberi. Quando questo equilibrio viene meno, si realizza lo stress ossidativo (Praticò e Delanty, 2000), nei confronti del quale la vulnerabilità tende ad aumentare con l avanzare dell età, anche in seguito ad un graduale decremento delle capacità difensive della cellula (Agarwal e Sohal, 1995). Queste osservazioni hanno condotto all ipotesi che lo stress ossidativo giochi un ruolo di primo piano anche nelle patologie età-correlate, inclusa la MA

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(Chong et al., 2005). Questa ipotesi è stata progressivamene avvalorata da un crescente numero di pubblicazioni (Praticò, 2005). Il sistema nervoso centrale appare infatti particolarmente suscettibile ai danni dello stress ossidativo (Praticò e Delanty, 2000; Christen, 2000) a causa dell elevata presenza di acidi grassi polinsaturi, dall elevato metabolismo e dalla scarsità di difese antiossidanti (Foy et al., 1999). I lipidi perossidati sono composti instabili che tendono a trasformarsi rapidamente in una serie di prodotti più stabili, quali le aldeidi (come il 4-idrossinonenale e la malondialdeide) (Esterbauer e Cheeseman, 1990), gli alcani o gli isoprostani (Cracowski et al., 2002). Il grado di perossidazione lipidica e di ossidazione proteica è infatti significativamente aumentato nella corteccia associativa frontale, parietale e temporale, nell amigdala e nell ippocampo (Esterbauer et al., 1991; Kristal et al., 1992; Hensley et al., 1995; Markesberry, 1997; Marcus et al., 1998). E stato osservato inoltre un incremento del danno ossidativo a carico del DNA, quantificabile attraverso la misurazione della 8-idrossi-deossiguanosina (8-OH-dG) (Mecocci et al., 1994).

La stretta associazione tra il deposito dell amiloide e lo stress ossidativo è stata ormai confermata da molti lavori: si è visto ad esempio che modelli animali portatori della mutazione del gene per l APP presentano un maggior numero di placche senili insieme ad un incremento di markers di danno ossidativo (Smith et al., 1998) e l utilizzo di sostanze in grado di

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ridurre la produzione di radicali liberi attenua anche l ingiuria cellulare connessa all esposizione del peptide A (Subramaniam et al. Un altro studio ha dimostrato che nei topi portatori di mutazioni sia a livello del gene per l APP che del gene codificante l enzima Mn-SOD, coinvolto nel meccanismo di protezione contro il danno provocato dai radicali liberi, si osserva, oltre ad un evidente accumulo di danno ossidativo, un incremento di circa sette-otto volte della aggregazione in placche del peptide rispetto agli animali portatori della sola mutazione a carico del gene per l APP Li et al., 2004).

Tutto ciò depone per un ruolo centrale dello stress ossidativo nel meccanismo patogenetico della MA, a sua volta capace di innescare un circolo vizioso che si autoalimenta e che porta alla progressiva deposizione di amiloide e alla degenerazione neuronale (Praticò, 2005).

Ipotesi infiammatoria

Studi immunoistochimici e di biologia molecolare hanno messo in evidenza che il tessuto cerebrale presenta un attivo sistema immunitario endogeno e che l infiammazione cronica a livello cerebrale può giocare un ruolo importante nella progressiva morte neuronale in molte patologie neurodegenerative, in particolare nella MA (McGeer e McGeer, 1995). Sia la deposizione di A nelle placche amiloidi, che il danno neuronale ed i neuriti scatenano la reazione infiammatoria cerebrale e attivano diverse vie

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infiammatorie (Wyss-Coray et al., 2002). La microglia e gli astrociti sono attivati in risposta all'infiammazione e producono nuovi elementi antinfiammatori. Si determina così una attivazione del complemento, delle citochine, delle proteine della fase acuta e di altri mediatori dell'infiammazione (Kowalska et al., 2004). Studi immunoistochimici rilevano infatti che la microglia che circonda le placche esibisce una marcata immunoreattività per il Tumor necrosis factor- (TNF- ) (Fillit et al., 1991), per l interleuchina 1 (IL-1) e l interleuchina 6 (IL-6) (Bauer et al., 1991) e per il VEGF (Vascular endothelial growth factor) (Kalaria et al., 1998). L IL-1 sembra promuovere la sintesi e il processamento anomalo dell'APP e quindi stimola una ulteriore produzione e deposizione del frammento tossico nella placche amiloidi, suggerendo una sorta di circolo vizioso auto-sostenuto (Wegiel et al., 1990).

Forme familiari autosomico-dominanti ad esordio precoce

Sono state identificate nel corso degli anni una serie di mutazioni responsabili delle forme familiari ad esordio precoce a carico di tre geni, quali il gene della proteina precursore dell amiloide (amyloid precursor

protein, APP), che mappa sul cromosoma 21 (Tanzi et al., 1987; Goate et

al., 1991), e i geni delle preseniline 1 e 2 (PSEN1 e PSEN2), che mappano rispettivamente sul cromosoma 14 e sul cromosoma 1 (Mullan et al., 1992;

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Schellemberg et al., 1992, St.George-Hyslop, 1992; Sherington et al., 1995; Rogaev et al., 1995).

L APP è una glicoproteina transmembrana, con un lungo segmento extracellulare N-terminale ed un breve segmento intracellulare C-terminale (Kang et al., 1987), da cui origina per idrolisi enzimatica, attraverso una serie di proteasi, il peptide A presente nel nucleo centrale delle placche senili e nella parete dei vasi cerebrali colpiti da amiloidosi. La glicoproteina può essere catabolizzata attraverso due diverse vie enzimatiche. La via non amiloidogenica coinvolge l enzima associato alla membrana secretasi e porta alla formazione di un frammento solubile N-terminale (Selkoe, 1994) (Figura 2). L altra via si realizza nel compartimento lisosomiale ad opera della secretasi (che produce la porzione N-terminale dell A ) e della -secretasi (che libera la porzione C-terminale), la cui azione combinata o sequenziale determina il rilascio del peptide A nel mezzo extracellulare. Il sito di taglio della -secretasi è di primaria importanza per la formazione di peptidi di differente lunghezza: il peptide A di 39 o 40 aminoacidi è la forma più comune, prodotta attraverso il clivaggio dei residui 712-713 e non è amiloidogenico. Il peptide di 42 o 43 aminoacidi (A 42-43), generato dal clivaggio dopo il residuo aminoacidico 714, è invece più neurotossico, in quanto capace di formare fibrille insolubili e di accumularsi nelle placche senili (Koo et al., 1994).

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Ad oggi sono state identificate 17 mutazioni missenso a livello del gene APP (http://www.molgen.ua.ac.be/ADMutation) e si ipotizza che esse siano responsabili di un alterato metabolismo dell APP e spostino il sito di clivaggio a favore della secretasi, determinando in tal modo un incrementata produzione di peptidi A amiloidogenici (Nilsberth et al., 2001; Beck et al., 2003). Tali mutazioni risultano però coinvolte solo in un 10% circa delle forme ereditarie ad esordio precoce (Bertram e Tanzi, 2004).

Gli altri due geni (PSEN1 e PSEN2) identificati come responsabili delle forme familiari di MA codificano per due proteine transmembrana dotate di un altissima omologia, chiamate presenilina 1 e presenilina 2 (PS1, PS2), localizzate principalmente a livello del reticolo endoplasmatico, dell apparato di Golgi e della membrana nucleare (Kovacs et al., 1996). Sebbene il preciso meccanismo d azione nella patogenesi della malattia non sia noto, la localizzazione di entrambe le proteine nelle membrane intracellulari supporta l idea di un possibile ruolo nel processamento dell APP e che una loro mutazione comporti una maggiore produzione di frammenti lunghi di A. Attualmente si conoscono circa 130 mutazioni causative a carico di PSNE1, responsabili di oltre il 50% delle demenze familiari, e 11 mutazioni a carico di PSEN2, che risultano invece coinvolte solo in una piccola frazione di pazienti (Bertram e Tanzi, 2004http://www.molgen.ua.ac.be/ADMutation).

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Malgrado le fondamentali conquiste nella comprensione della genetica e della fisiopatologia della MA familiare ad esordio precoce, rimangono ancora da identificare addizionali fattori genetici, visto e considerando che numerosi pazienti (circa il 40%) non presentano alcuna mutazione a carico dei tre geni sopradescritti.

Fattori di suscettibilità nelle forme sporadiche

Nelle forme comuni non-mendeliane della malattia, che si presentano usualmente in forma sporadica, le cause restano sconosciute ed i modelli monogenici appaiono inadeguati. Queste forme presentano un eziologia complessa in cui intervengono sia fattori ambientali che genetici i quali, presi singolarmente, non sono necessari né sufficienti allo sviluppo della malattia. Questo significa che un singolo individuo può ereditare, attraverso un alterazione genetica, la predisposizione a sviluppare una malattia; tale alterazione non è di per sé la causa della patologia, ma comporta un aumentato rischio di svilupparla in seguito all esposizione a fattori esterni scatenanti, ad altri fattori genetici o ad entrambi. Si parla di polimorfismo genetico quando per un dato locus esistono più alleli; per convenzione un locus viene considerato polimorfico se l allele meno frequente ha una frequenza superiore all 1% nella popolazione generale. Sono noti e sono stati indagati molti geni polimorfici che potrebbero conferire suscettibilità alla MA. Il tipico approccio che si adotta, per

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valutare il contributo di fattori genetici alla patogenesi della malattia, è di analizzare la distribuzione delle frequenze, in pazienti affetti e controlli, di varianti alleliche di siti polimorfici in geni candidati. In genere sono considerati possibili candidati per studi di associazione, quei geni codificanti proteine che si reputano coinvolte nei meccanismi patogenetici della malattia.

Gli studi di associazione sulla MA hanno condotto ad un quadro molto complesso in cui numerosi geni sono stati proposti come fattori di predisposizione alla malattia senza peraltro essere chiaro il ruolo esatto di ciascuno di essi nella patogenesi, né i meccanismi di interazione tra i vari fattori.

Tra questi il gene dell apolipoproteina E (ApoE) è stato individuato come il principale fattore di suscettibilità. L ApoE è una glicoproteina plasmatica sintetizzata principalmente dal fegato, dai neuroni e dagli astrociti, ma anche da altri tipi di cellule, inclusi macrofagi e monociti (Siest et al., 1995); è presente nei chilomicroni, nelle VLDL e nelle HDL ed è coinvolta nella mobilizzazione e nella ridistribuzione del colesterolo a livello del sistema nervoso centrale. Svolge inoltre molte altre funzioni, risultando coinvolta nei meccanismi di rigenerazione dei nervi, nella immunoregolazione e nell attivazione di una serie di enzimi lipolitici (Mahley et al., 2000; Vance et al., 2000).

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Della proteina si conoscono tre isoforme, denominate ApoE2, ApoE3 e ApoE4 (Uterman et al., 1979; Zannis et al.,1981) e codificate da tre alleli diversi ( di uno stesso gene presente sul braccio lungo del cromosoma 19. La frequenza degli alleli e nella popolazione è rispettivamente pari all 10%, al 75% e al 15% (Saunders et al., 1993); inoltre l allele 4 è risulta più comune nel sesso femminile (Corbo e Scacchi, 1999).

Numerosi studi hanno identificato l ApoE come il principale fattore di suscettibilità delle forme sporadiche ad esordio tardivo della MA e in particolare è stato dimostrato che i soggetti portatori dell allele 4 hanno un rischio aumentato di sviluppare la demenza. Sebbene l associazione tra ApoE4 e MA sia stata ampiamente dimostrata, la presenza dell allele 4 non è una condizione né necessaria né sufficiente per causare la malattia (Bertram e Tanzi, 2004). Essa agisce soprattutto anticipando l esordio della sintomatologia in modo dose-dipendente, dal momento che gli omozigoti mostrano una più precoce età di insorgenza rispetto agli eterozigoti. In termini statistici l effetto si traduce in un aumento del rischio di circa tre volte negli eterozigoti e di circa 15 volte negli omozigoti, se paragonati ad i soggetti portatori del genotipo 3 (Nussbaum e Ellis, 2003).

Nonostante la quantità innumerevole di dati, il meccanismo preciso tramite il quale l isoforma Apo 4 contribuisce alla patogenesi della MA

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non è ancora stato chiarito. E probabile che l aumentato rischio di MA sia il risultato indiretto dell effetto sul sistema cardiovascolare, ad esempio aumentando il rischio del portatore di sviluppare ipercolesterolemia (Poirer et al., 2000).

Dato che oltre il 50% dei pazienti affetti da forme sporadiche di MA non è portatore dell allele 4, si suppone che esistano altri geni di suscettibilità genetica. I polimorfismi di numerosi geni codificanti proteine, enzimi, fattori di crescita, che si suppone possano essere coinvolti nel meccanismo patogenetico della malattia, sono stati ampiamente studiati ma i dati ottenuti mancano spesso di conferme e risultano discordanti.

Fra questi, il MTHFR è un gene che codifica per il 5,10-metileneidrofolato reduttasi, un enzima chiave nel metabolismo dell omocisteina, fattore di rischio per le malattie cerebrovascolari. Una variazione missenso 677C/T causa una variazione da alanina a valina nel codone 222, che determina elevati livelli plasmatici di omocisteina. I portatori dell allele 677T hanno una maggiore probabilità di sviluppare una forma di demenza ma non ci sono dati conclusivi per quanto riguarda l associazione specifica con la MA (Nishiyama et al., 2000).

Un altro gene di interesse è il VLDL-R, localizzato sul cromosoma 9, che codifica per un recettore di membrana che media il trasporto di molte molecole, incluse le particelle lipoproteiche contenenti l ApoE (Sakai et al., 1994). La funzione di questo recettore nel metabolismo cerebrale

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dell ApoE, ha destato interesse per studi di polimorfismi in particolare nella regione non codificante, a monte ed a valle del gene. I risultati degli studi di associazione sono comunque ad oggi discordanti.

Un ulteriore gene candidato si trova sul cromosoma 12 e codifica per l -2-macroglobulina, un inibitore delle pan-proteasi coinvolto nella degradazione e nella clearence della A (Qiu et al., 1999). Uno dei polimorfismi studiati è una delezione/inserzione di 5 paia di basi localizzata vicino al sito di splicing al 5 dell esone 18 (Blacker et al., 1999). Alvarez e collaboratori (1999) hanno dimostrato in studi di associazione caso-controllo che allele con la delezione è più rappresentato nella MA. L associazione dell allele D mostrava una significatività nei pazienti in età avanzata, mentre era più bassa nei pazienti con età minore di 80 anni (Alvarez et al., 1999). La presenza dell associazione dell allele D è stata confermata solo da uno studio italiano del 2002 effettuato su pazienti sporadici MA, ma non è risultata alcuna relazione con l età di esordio della malattia (Zappia et al., 2002). I restanti lavori riguardo allo stesso polimorfismo sono tutti con risultati negativi. Un secondo polimorfismo si trova nell esone 24 e determina una sostituzione amminoacidica (sostituzione da valina a isoleucina). La isoleucina in posizione 24 sembrerebbe aumentare il rischio di sviluppare malattia (Liao et al., 1998). L implicazione funzionale di questo fenotipo non è ancora chiarita, ma dato che la sostituzione aminoacidica si verifica in prossimità

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del sito attivo dell -2-macroglobulina potrebbe conferire un attività minore dell enzima e determinare un aumento di deposizione di A (Rocchi et al., 2003).

Il TNFA, situato nel cromosoma 6, codifica per il fattore di crescita TNF (Collins et al., 2000). TNF è una citochina che si ritiene coinvolta nei processi infiammatori e apoptotici che si verificano nella MA. Ci sono attualmente 10 studi di associazione caso-controllo effettuati nella popolazione caucasica, dei quali solo quattro sono risultati positivi (Bertram e Tanzi, 2004).

Ruolo dei fattori vascolari

Alcuni studi indicano che le patologie vascolari possono essere associate ad un deterioramento delle funzioni cognitive (Breteler et al., 1994), e che l ictus costituisca tra l altro un fattore di rischio per demenza (Tatemichi et al., 1992). Inoltre, nonostante la presenza di malattie cerebrovascolari sia generalmente motivo di esclusione per la diagnosi clinica di MA, diversi dati epidemiologici hanno riportato una associazione tra MA e fattori di rischio vascolari come ipertensione, malattie coronariche, fibrillazione atriale, diabete mellito, aterosclerosi generalizzata e fumo (Skoog et al., 1999; Skoog e Kalaria, 1999). L associazione tra allele 4 dell ApoE e MA può anche suggerire una eziologia vascolare nell Alzheimer, poiché questo allele è stato implicato come fattore di

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suscettibilità anche per le malattie cardiovascolari. Anche gli studi neuropatologici supportano l ipotesi di una possibile associazione con i fattori vascolari. I soggetti non affetti da demenza con malattie coronariche (Sparks et al., 1990) e ipertensione (Sparks et al., 1995) mostrano un numero più alto di placche senili e di grovigli neurofibrillari nel tessuto cerebrale. A tale proposito lo studio autoptico condotto nell ambito del The Nun study , ha dimostrato l importanza del danno vascolare cerebrale nel condizionare la gravità dell espressione clinica nella MA. La presenza di infarti cerebrali in cervelli che all esame post-mortem mostravano lesioni tipiche della MA, è stata associata ad una più grave compromissione delle funzioni cognitive e ad una più elevata frequenza di demenza (Snowdon, 1999).

Dal concetto di due forme nettamente distinte di demenza, quali la MA e la DV, con patogenesi diverse, si sta facendo strada l ipotesi che in molti pazienti, specialmente in età avanzata, ci si trovi di fronte ad una situazione in cui un danno ischemico od uno stato di ipoperfusione cerebrale rappresentino un fattore di slatentizzazione di una sottostante condizione neurodegenerativa (Zlokovic et al., 2005). Inoltre alcuni autori sostengono che il sistema colinergico del proencefalo basale, tipicamente colpito nella MA, possa essere suscettibile all ipertensione arteriosa, a ipoperfusione prolungata e ad ischemia ed essere danneggiato anche nella DV (Romàn et al., 2005).

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La malattia cerebrovascolare e la MA possono così spesso coincidere, complicando ulteriormente la diagnosi differenziale fra MA e DV. Una considerevole percentuale di soggetti nella popolazione presenta patologie miste (Lim et al., 1999). In molti casi, manifestazioni di entrambi i disturbi, singolarmente insufficienti per causare la demenza, possono causarla se agiscono insieme (Erkinjiuntti et al., 1993). La terapia della componente cerebrovascolare potrebbe quindi far migliorare i sintomi di demenza in soggetti affetti da MA. L associazione fra MA e fattori vascolari può anche riflettere il fatto che simili meccanismi, per esempio le alterazioni della permeabilità della barriera ematoencefalica, l ApoE, lo stress ossidativo del sistema renina-angiotensina e l apoptosi, possono essere coinvolti in entrambi i disturbi (Skoog et al. 1999; Skoog e Kalaria 1999). Inoltre la patologia della MA può anche stimolare o causare malattie vascolari e portare a lesioni del microcircolo cerebrale. Thomas e collaboratori hanno riportato che l interazione fra A con le cellule endoteliali dell aorta di ratto producevano un eccesso di ROS, che determinavano a loro volta un danno endoteliale (Thomas et al., 1996). Esperimenti che utilizzano topi transgenici che sovraesprimono una forma mutante umana di APP, mostrano che, in presenza di A , si determina una dimuzione del flusso sanguigno cerebrale che è in condizioni fisiologiche innescato dall aumento di attività neuronale. Questo fenomeno determina

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un disaccoppiamento fra la richiesta metabolica del neurone e apporto di sanguigno, alterandone l omeostasi (Iadecola et al., 2002).

Angiogenesi e malattia di Alzheimer

L angiogenesi è un processo che consiste nella formazione di nuovi vasi a partire da strutture vascolari preesistenti, e comprende degenerazione della membrana basale della parete vascolare, la proliferazione delle cellule endoteliali e la maturazione dei neovasi (Pogue et al., 2004). Sebbene sia coinvolta in molti processi fisiologici, l angiogenesi può essere implicata in molte patologie, ad esempio nel cancro è un fattore fondamentale che ne permette la progressione (Semenza et al., 2003).

Nella MA, si rilevano alterazioni del microcircolo ed un aumento della densità vascolare in concomitanza dei depositi di A, probabilmente collegata alla presenza, a livello microcapillare, di angiopatia amiloide (Perlmutter et al., 1990). Evidenze di proliferazione endoteliale e neovascolarizzazione in reperti anatomopatologici di cervelli di pazienti con MA erano emerse già nella prima autopsia della storica paziente Auguste D. dallo stesso Alois Alzheimer.

Studi epidemiologici mostrano che l assunzione cronica di alcune categorie di farmaci, tra le quali i FANs, le statine e i bloccanti dei recettori istaminergici è associata ad una diminuzione significativa del rischio di sviluppare la MA. L osservazione che alcuni di questi farmaci

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quali l aspirina, il Diclofenac e l Indometacina, esibiscono oltre ad un attività antinfiammatoria anche antiangiogenica, ha posto al centro dell attenzione di alcuni autori il coinvolgimento del sistema infiammatorio ed in particolare del vascolare nella patogenesi della MA (Vagnucci et al., 2003). L attivazione delle cellule endoteliali, colpite da ipossia e infiammazione, innesca infatti un processo compensativo di angiogenesi mediato da numerosi fattori di crescita e citochine. Molti dei segnali e dei fattori paracrini prodotti in queste condizioni sono protettivi e antiapoptotici e includono il VEGF, il Transforming Growth Factor (TGF ) e il Tumor Necrosis (TNF ) (Tarkowsky et al., 2002; Buee et al., 1997).

In un interessante studio condotto da Grammas e collaboratori (1999) è stato dimostrato che i capillari di pazienti con MA possono mediare la morte dei neuroni in vitro. L esperimento consisteva nell allestimento di co-colture di neuroni e microcapillari prelevati da lobo temporale, parietale e frontale di reperti autoptici di pazienti con MA, confrontati con cocolture che includevano microcapillari di anziani non dementi e altre con microcapillari provenienti da reperti autoptici di individui giovani. L effetto neurotossico, indotto dai capillari dei pazienti, era significativamente maggiore di quello mediato dai capillari estratti da tessuti di cervelli anziani non dementi, mentre era nullo nella colture contenti i capillari degli individui giovani. La morte dei neuroni si

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verificava sia per necrosi che per apoptosi. Questo esperimento, mostra inoltre che la neurotossicità mediata dai capillari è specifica e colpisce i neuroni corticali primari e cerebellari granulari. Si ritiene che la morte dei neuroni sia mediata da una sostanza liberata nel mezzo di coltura dalle cellule endoteliali, e dato che l attività neurotossica risultante è termo-labile e sensibile alla applicazione di tripsina, si ipotizza che si tratti di una proteina (Grammas et al., 1999).

L agente neurotossico potrebbe essere la stessa A, in quanto genera specie reattive dell ossigeno che danneggiano l endotelio dei capillari cerebrali (Liu et al., 2000) i quali a loro volta contengono depositi di APP (Miyakawa et al., 1997).

In risposta al danno l endotelio è attivato e si determina l attivazione della trombina. Sembra che questo fattore sia in grado di causare il rilascio di APP attraverso l attivazione di un recettore legato alla protein chinasi C. (Ciallella et al., 1999; Tsopanoglou et al., 1999). Questo evento potrebbe contribuire all accumulo di A nelle placche ed in questo modo innescare un circolo vizioso che amplifica il danno prodotto dalla A (Figura 3). Fra i fattori angiogenici che possono mediare questo processo, un possibile candidato è il fattore di crescita basico dei fibroblasti (bFGF). I grovigli neurofibrillari, infatti, contengono proteoglicani eparan-solfato, un substrato il fattore lega con alta affinità (Selkoe et al., 1999; Sieldak et al., 1991). Inoltre la trombina, coinvolta nel meccanismo di riparazione

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endoteliale, possiede la capacità di promuovere l angiogenesi a livello delle zone danneggiate dell endotelio vascolare, probabilmente mediando un aumento dell espressione dei recettori per il VEGF (Tsopanoglou et al., 1999). Altri fattori, fra i quali le citochine antinfiammatorie TNF , l interleuchina 6, e la proteina 1 chemoattraente monocitaria, stimolano l angiogenesi (Grammas et al., 2001). L ipossia determina l attivazione di HF1- che si lega a specifiche zone del promotore del VEGF e ne promuove la trascrizione. I macrofagi e i monociti attivati rilasciano in circolo VEGF, il bFGF e il fattore di crescita derivato dalla placenta (PDGF). L osservazione che gli astrociti reattivi e i depositi perivascolari dei pazienti con MA presentano aumenti dell espressione del VEGF sostiene l ipotesi di un possibile coinvolgimento del VEGF in questo processo (Kalaria et al., 1998).

La Demenza vascolare

Sono definite come demenza vascolare (DV) le forme di deterioramento cognitivo secondarie ad una encefalopatia su base ischemica o emorragica. La DV è la seconda causa di demenza dopo la MA (27% dei casi totali di demenza) e rappresenta il 37% dei casi di demenza nel sesso maschile e il 16,1% nel sesso femminile. L incidenza media della DV è di 3,30/1000 persone/anno. L incidenza aumenta con l età e varia da 1/1000 persone/anno tra gli individui di età compresa tra 65 e 69 anni e

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10,12/1000 persone/anno nei soggetti di età compresa tra 80-84 anni (Italian Longitudinal Study of Aging, 2002).

Tra i fattori di rischio per la DV, oltre l età avanzata vengono considerati l ictus, l ipertensione, il diabete mellito, coronopatia o altre patologie legate ad aterosclerosi diffusa, ematocrito elevato e iperomocisteinemia (Hèbert e Braine, 1995). Pazienti con storia pregressa di ictus cerebrale presentano un rischio nove volte superiore di sviluppare demenza rispetto ai controlli sani, ed una storia clinica di ictus è presente nel 76% dei soggetti con DV (Tatemichi et al., 1992). Riguardo ai fattori di rischio genetici, alcuni studi hanno dimostrato che, come per la MA, la presenza dell allele 4 dell ApoE è più frequentemente osservato nei soggetti con DV (Saunders et al., 1993). Sembra infatti che la presenza di tale allele si attesta intorno al 45% nei pazienti affetti da DV (Frisoni et al., 1994). Al momento i criteri diagnostici più utilizzati sono quelli del NINDS-AIREN (National Institute of Neurological Disorders and Stroke - Association Internationale pour la Recherche et l Ensegnement en Neuroscience) (Romàn et al., 1993), secondo i quali la diagnosi di DV poggia sui seguenti criteri:

- diagnosi di demenza;

- presenza di cerebrovasculopatia;

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La demenza vascolare può essere classificata in rapporto con le alterazioni vascolari riscontrate alle neuroimmagini:

- Demenza multi-infartuale: dovuta ad infarti grandi, completi e multipli, localizzati soprattutto a livello corticale, anche se possono essere presenti in minor misura lesioni sottocorticali. Sono in genere dovuti all'occlusione di grossi rami arteriosi. E il sottogruppo di DV che si manifesta più frequentemente.

- Demenza da infarti singoli "strategici": caratterizzata da piccole lesioni ischemiche localizzate in aree corticali e sottocorticali. Tale forma di DV è dovuta a lesioni del giro angolare, dell ippocampo (in genere colpito bilateralmente) o del talamo.

- Demenza in corso di malattia dei piccoli vasi. Comprende due diverse entità che condividono come momento fisiopatologico comune un danno della sostanza bianca sottocorticale per alterazioni del circolo cerebrale profondo. Queste sono la malattia di Biswanger e lo stato lacunare.

- Demenze emorragiche e demenza ipoperfusionale.

- Altri meccanismi. Una combinazione dei fattori sopra indicati, o qualche altro fattore non ancora conosciuto possono giocare un ruolo nella patogenesi della demenza vascolare.

In rapporto all entità e alla sede delle lesioni ischemiche i quadri di deterioramento cognitivo che si riscontrano in queste forme di demenza

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sono spesso tra loro disomogenee e non sempre riconducibili alla definizione classica di demenza, dove il deficit di memoria è il disturbo caratterizzante. L esordio del declino cognitivo è spesso improvviso, con un tipico decorso a scalini in relazione a successivi episodi ictali ed è contraddistinto da fluttuazioni della sintomatologia, confusione notturna, labilità emotiva, una ridotta capacità nelle funzioni esecutive e di astrazione, di inibizione e di autocontrollo, per un danno dei circuiti fronto-sottocorticali (Looi et al., 1999).

Mentre la MA colpisce le diverse aree cognitive in modo relativamente stereotipato, nella DV ci si aspetta la presenza di multipli deficit focali, e di differenti quadri sintomatologici e clinici. Mentre la MA è principalmente espressione di una disfunzione corticale, la demenza vascolare ha anche caratteristiche che riflettono un disturbo sottocorticale: un rallentamento psicomotorio, un deficit delle funzioni esecutive, o un cambiamento del tono dell'umore e della personalità supportano la diagnosi di DV (Loeb e Favale 2003).

Le scale ischemiche sono state il primo tentativo di fornire dei criteri clinici e strumentali, organizzati come un sistema a punteggio, per la diagnosi differenziale tra MA e DV(Hachinski et al., 1975).

Tuttavia, solo il 47% dei pazienti con infarti multipli e il 23% dei malati con stato lacunare sviluppano una demenza. Il deterioramento mentale può

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quindi essere espressione, nei malati con queste lesioni cerebrovascolari, di una patologia multifattoriale.

Esistono inoltre quadri di demenza vascolare ereditaria, quali l arteriopatia cerebrale autosomica dominante con infarti subcorticali e leucoencefalopatia, indicata con l acronimo CADASIL (Cerebral autosomal dominant arteriopathy with subcortical infarcts and leukoencephalopathy). Circa 70 mutazioni associate al gene NOTCH3 sono causative della malattia (Peters et al., 2005).

Neurodegenerazione nella Demenza vascolare

Nella DV le regioni lese sono definite dal tipo di infarto e/o dalla localizzazione dello stesso. Nella forma più comune della DV che coinvolge i piccoli vasi profondi, le regioni colpite sono i nuclei dei gangli della base, il talamo, il ponte e la materia bianca sottocorticale e periventricolare. Si verifica una perdita cellulare estesa, dovuta primariamente a necrosi, nella zona che circonda l infarto cerebrale (Mergenthaler et al., 2004).

L ischemia dovuta ad un deficit di apporto sanguigno, determina uno stato ipossico che attiva una cascata di eventi che portano a necrosi cellulare (Figura 5). Questo fenomeno infatti determina un ridotto apporto di energia al neurone ed alla glia, causando un alterazione del potenziale di

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membrana. Il conseguente squilibrio fra disponibilità e richiesta di energia da parte della cellula, porta ad una alterazione dell omeostasi del Ca2+, aumento del rilascio di glutammato e una iperstimolazione dei recettori glutammatergici, in particolar modo dei recettori NMDA (N-Metil-D-Aspartato) che aumentano ulteriormente la permeabilità a questo ione. Il Ca2+ infatti porta all innesco di una serie di processi che si concludono con il rigonfiamento e la morte cellulare. Questo processo colpisce anche le cellule vicine portando alla produzione di ROS e conseguente modificazione delle proteine. Tutti questi fenomeni portano alla necrosi cellulare. L aumento delle ROS, prodotte dal danno mitocondriale, determina, nelle cellule, l attivazione di BAX che promuove il rilascio del citocromo C nel citoplasma, l attivazione delle caspasi, la frammentazione del DNA e conseguente apoptosi (Francis et al., 2006). Esperimenti in modelli animali in cui veniva indotta ischemia supportano l ipotesi di un coinvolgimento della apoptosi nella DV (Merghentaler et al., 2004).

Il Vascular Endothelial Growth Factor (VEGF)

Il VEGF è un membro della famiglia dei fattori di crescita delle cellule endoteliali dei vasi sanguigni e linfatici (Vascular Endotelium Growth

Factor, VEGFs) strutturalmente e funzionalmente correlati. Sono stati

caratterizzati numerosi tipi di VEGFs:

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b) VEGF-B; c) VEGF-C; d) VEGF-D; e) VEGF-E;

Hanno tutti caratteristiche strutturali simili, ma differiscono per le attività biologiche. I VEGFs sono dimeri ed ogni monomero è caratterizzato da un legame a ponte disolfuro intracatena all estremità di una delle quattro eliche che formano il foglietto. Parte della sequenza dei VEGFs è omologa a quella dei membri appartenenti alla superfamiglia dei fattori di crescita derivati dalle piastrine (PDGF) (Robinson et al., 2001).

Il gene e le isoforme del VEGF

Il gene che codifica per il VEGF-A, o VEGF, si trova sul braccio corto del cromosoma 6 (6p21.3), comprende circa 14 Kb e contiene otto esoni separati da sette introni (Houck et al., 1991; Tischer et al., 1991). Lo splicing alternativo di un singolo pre-mRNA genera diverse isoforme di VEGF che hanno rispettivamente 121, 145, 165, 183, 189 e 206 aminoacidi, si parla quindi di VEGF-121, VEGF-145, VEGF165, VEGF183,

VEGF189, VEGF206. Le diverse isoforme di VEGF differiscono per

l affinità di legame con l eparina e l eparan-solfato presente nella matrice extracellulare. Le isoforme che legano l eparina forniscono l input essenziale per la formazione di rami vascolari (Ruhrberg et al., 2002).

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L isoforma VEGF-165 è è priva della sequenza amminoacidica codificata

dall esone 6. La proteina è costituita da un omodimero basico del peso molecolare di 46 kDa ed ha una moderata affinità per l eparina a causa della presenza di 15 aminoacidi basici dentro i 44 residui codificati dall esone (Wen et al., 2003). L isoforma VEGF165 ha quindi proprietà

intermedie, in quanto consta di una porzione solubile e di una frazione significativa che rimane legata alla superficie delle cellule e alla matrice extracellulare. La perdita del dominio che si lega all eparina si traduce in una perdita significativa dell attività mitogena del VEGF (Keyt et al., 1996). Questi studi suggeriscono che il VEGF165 possiede caratteristiche

ottimali di biodisponibilità e funzionalità biologica. Il VEGF145 si lega

all eparina, ma è incapace di legarsi alla matrice extracellulare. Il VEGF121

manca della sequenza codificata dagli esoni 6 e 7, è un polipeptide acido e non si lega né all eparina né all eparan-solfato. Le forme VEGF189 e

VEGF206 invece sono altamente basiche ed hanno un altissima affinità per

entrambe (Robinson et al., 2001).

Regolazione della espressione del VEGF

Il VEGF è uno dei maggiori fattori di crescita indotti dall ipossia. L espressione dell mRNA è indotta dall esposizione a basse pressioni parziali di ossigeno in una varietà di circostanze patofisiologiche (Dor et al., 2001). La trascrizione indotta dall ipossia è in parte mediata dal

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legame di un fattore di trascrizione detto fattore inducibile dall ipossia (HIF-1) alla regione regolatrice (hypoxia responsive element, HRE) presente nel promotore del gene VEGF (Semenza et al., 2002). L ipossia aumenta inoltre la vita media dell mRNA del VEGF. Molti altri fattori di crescita, fra i quali il fattore di crescita epidermico (EGF), il TGF- , e il TGF- , il fattore di crescita dei cheranociti, fattore di crescita simil insulinico-1, l FGF e il PDGF, aumentano l espressione dell mRNA per VEGF; ciò suggerisce che il rilascio autocrino o paracrino di questi fattori cooperi con l ipossia locale nel rilascio del VEGF nell ambiente extracellulare (Ferrara et al., 1997; Neufeld et al., 1999).

La regolazione dell espressione dipende anche dalla proteina vHL (von Hippel Landau), prodotta da un gene soppressore tumorale. Il gene vHL è inattivato nei pazienti con la vHL, una patologia caratterizzata da emangioblastoma capillare nella retina e nel cervelletto, ed in molti carcinomi renali (Ferrara et al., 2003).

Il vHL regola negativamente i geni indotti dall ipossia, fra i quali il VEGF, legandosi a HIF-1 quanto un determinato residuo di prolina nella sua sequenza risulta idrossilato. E stato infatti dimostrato che le cellule che hanno una ridotta produzione di vHL mostrano una aumentata espressione di VEGF (Neufeld et al., 1999). Inoltre, citochine infiammatorie quali IL-1 e IL-6 inducono l espressione di VEGF in diverse linee cellulari, inclusi i fibroblasti sinoviali; questa osservazione

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sembrerebbe in accordo con il coinvolgimento del VEGF nell angiogenesi e nell aumento della permeabilità dei vasi nelle malattie infiammatorie (Neufield et al., 1999). Inoltre mutazioni oncogeniche o amplificazione del segnale mediato da ras porta ad un aumento dell espressione di VEGF (Grugel et al., 1995; Okada et al., 1998).

Funzioni biologiche VEGF

Inizialmente il VEGF è stato isolato in qualità di fattore in grado di aumentare la permeabilità vascolare in pelle di cavia. In seguito, studi in

vitro hanno evidenziato la capacità del VEGF di indurre mitosi in cellule

endoteliali, linfociti e cellule di Schwann, per la quale sembra essere cruciale l esone 8 (Bates et al. 2003). Solo successivamente è stata dimostrato il ruolo dominante nell induzione dell angiogenesi.

Il VEGF svolge un ruolo importante nella modulazione della permeabilità dei vasi sanguigni (Senger et al., 1983; Dvorak et al., 1995). Questa attività è correlata ad un ruolo significativo del VEGF nell infiammazione ed in altre circostanze patologiche. In vitro, il VEGF causa il passaggio di macromolecole attraverso l endotelio che assume un aspetto fenestrato (Roberts et al., 1995).

Sebbene le cellule endoteliali siano il bersaglio principale, numerosi studi hanno riportato che questa molecola esercita effetti mitogeni anche su altri tipi di cellule (Matsumoto et al., 2001). VEGF è un fattore che promuove

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