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L'evoluzione dell'Entrepreneurial Finance dalle origini ad oggi: un focus sull'Italia.

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Academic year: 2021

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Dipartimento di Economia e Management

Corso di Laurea Magistrale in

“Banca, Finanza Aziendale e Mercati Finanziari”

Tesi di Laurea Magistrale

L’evoluzione dell’Entrepreneurial Finance dalle origini ad oggi:

un focus sull’Italia.

Candidato Relatore

Matteo Profeti Prof.ssa Giovanna Mariani

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3

Indice

Introduzione

...

5

Capitolo 1- La letteratura sull’entrepreneurial finance ... 6

1.1 Entrepreneurial finance e corporate finance

...

6

1.2 Sviluppi nell’entrepreneurial finance

...

11

1.3 Le fasi di sviluppo dell’impresa

...

17

1.4 Il finanziamento di start-up e SME

...

19

1.4.1 I problemi di accesso al canale bancario

...

21

1.4.2 Il funding gap

...

24

1.5 Le principali alternative di finanziamento nell’entrepreneurial finance:

contributi e limiti

...

27

1.5.1 Business Angels

...

27

1.5.2 Venture Capital e Governmental Venture Capital

...

31

1.5.3 Corporate Venture Capital

...

35

1.5.4 Equity Crowdfunding

...

38

Capitolo 2- Gli interventi a sostegno di start-up e SME in Europa e Italia ... 44

2.1 Lo Small Business Act e l’accesso ai finanziamenti

...

44

2.2 La finanza agevolata in Europa

...

49

2.2.1 Horizon 2020

...

49

2.2.2 COSME

...

57

2.3 La Capital Markets Union

...

61

2.4 Le politiche di supporto finanziario per start-up e PMI in Italia

...

65

2.4.1 Start-up e PMI innovative

...

65

2.4.2

Il Fondo di Garanzia per le PMI

...

67

(4)

4

2.4.4

I mini-bond

...

77

2.4.5

Smart & Start Italia

...

83

Capitolo 3- Le politiche nel contesto italiano: effetti e prospettive ... 87

3.1 Il ruolo del Fondo di Garanzia per le PMI

...

87

3.2 Lo sviluppo dell’Equity Crowdfunding

...

96

3.3 Il trend dei mini-bond

...

106

Conclusioni ... 118

Bibliografia ... 122

(5)

5

Introduzione

Le Small mid-sized enterprises (SME) sono fondamentali per lo sviluppo del sistema economico e sociale dei vari Paesi ma spesso si trovano a dover far fronte a ostacoli nel ricorso al capitale di debito e a quello di rischio, a causa di alcuni elementi come la maggiore incertezza circa le prospettive future e l’elevata opacità informativa. Nonostante ciò, l’attenzione della letteratura sulle esigenze finanziarie di tale categoria di imprese è stata sacrificata in favore di quelle di dimensioni più grandi ed è risultata pressoché assente fino all’inizio degli anni ’90, vedendo un deciso sviluppo solo con l’arrivo del nuovo Millennio, parallelamente all’emersione di nuove forme di finanziamento.

Così, alla luce di questo contesto, l’obiettivo dell’elaborato è quello di approfondire le tematiche inerenti all’Entrepreneurial Finance, cioè alla disciplina che presidia le necessità di finanziamento di start-up e piccole e medie imprese.

In particolare, nel capitolo uno, una volta introdotte le differenze di questa materia con la corporate finance e l’evoluzione che gli studi sulla stessa hanno visto nel tempo, tratteremo delle problematiche incontrate dalle imprese di dimensione ridotta nell’accesso al capitale per poi concentrarci sulle principali alternative di finanziamento, mettendone in luce da un lato il supporto che possono fornire e dall’altro i limiti che le caratterizzano, in base a quanto evidenziato dalla letteratura al riguardo su scala internazionale.

Nel secondo capitolo passeremo poi in rassegna i principali interventi a supporto di start-up e SME nel panorama europeo e italiano. Per quanto riguarda il primo, un focus particolare sarà riservato alle opportunità presentate dai due programmi principali di finanza agevolata posti in essere dall’Unione Europea, Horizon 2020 e COSME, e alle prospettive offerte dalla Capital Markets Union. Invece, in relazione al contesto italiano, dopo aver trattato l’introduzione delle categorie di start-up e PMI innovativa, ci soffermeremo sull’istituzione del Fondo di Garanzia per le PMI, sugli aggiornamenti regolamentari che hanno inteso ampliare il ricorso all’Equity Crowdfunding e rendere i titoli obbligazionari (mini-bond) alla portata delle PMI non quotate e sulle caratteristiche principali di Smart & Start Italia, programma a sostegno delle start-up innovative.

Infine, nel capitolo tre approfondiremo la situazione italiana, valutando in particolar modo il ruolo che il Fondo di Garanzia ha avuto nel sostenere il credito bancario verso start-up e PMI e analizzando la diffusione dell’Equity Crowdfunding e dei mini-bond, nonché le prospettive del contributo che tali strumenti potranno offrire in futuro.

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Capitolo 1- La letteratura sull’entrepreneurial finance

1.1 Entrepreneurial finance e corporate finance

L’entrepreneurial finance è un ambito di studio riguardante il processo di allocazione delle risorse finanziarie alle start-up e alle piccole e medie imprese il cui obiettivo principale attiene alla creazione di valore per l’imprenditore. Questa disciplina presidia varie problematiche che affliggono tutti gli imprenditori come la quantità di fondi che dovrebbe essere raccolta, il momento in cui si dovrebbe procedere al fundraising e a chi ci si dovrebbe rivolgere, la definizione di una ragionevole valutazione per la start-up e come si dovrebbero definire contratti e strategie di exit con gli investitori (Maleki, 2015).

Dunque il focus di questa materia è centrato sulle necessità finanziarie di start-up e piccole e medie imprese che, sebbene non siano identiche dal punto di vista concettuale, presentano tratti comuni, come l’opacità informativa, che permettono loro di essere entrambe ricomprese all’interno dell’entrepreneurial finance (sebbene talvolta devono essere stabilite le opportune precisazioni).

L’accezione maggiormente riconosciuta di start-up è quella di un’impresa che presenta una forte dose di innovazione e che è configurata per crescere in modo rapido secondo un business model scalabile (per cui deve operare in un mercato ampio, con possibilità di aumentare le sue dimensioni senza un impiego di risorse proporzionali) e replicabile nei suoi processi (deve perciò essere ripetibile in diversi luoghi e periodi senza essere rivoluzionato e con l’apporto di piccole modifiche)1.

Per ciò che riguarda le piccole e medie imprese, vi sono molte definizioni, ognuna diversa in base alle situazioni economiche e geografiche delle varie organizzazioni economiche.

In accordo con la Raccomandazione 2003/361 della Commissione Europea, rientrano tra le Small mid - sized enterprises (SME) quelle imprese che rispettano certe soglie relativamente al numero di occupati, al fatturato e al totale di bilancio.

In particolare, come rappresentato nella tabella successiva, si tratta di microimpresa se il numero di occupati è inferiore a 10 e il fatturato o il totale di bilancio non supera i 2 milioni, si considera piccola impresa se gli impiegati sono meno di 50 e il fatturato o il totale di bilancio non oltrepassano i 50 milioni, mentre si configura una media impresa se il numero di

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7

dipendenti è inferiore a 250 e se il fatturato totale non supera i 50 milioni (o alternativamente il totale di bilancio non è maggiore di 43 milioni).

*=condizioni alternative

Tabella 1- Classificazione delle SME da parte della Commissione Europea.

La presenza delle SME, in particolar modo quelle innovative, e delle start-up è fondamentale per la stimolazione dell’innovazione, per la crescita delle economie dei Paesi in tutto il mondo, per lo sviluppo locale e regionale e per la coesione sociale. Esse contribuiscono maggiormente alla creazione di posti di lavoro rispetto alle imprese più grandi e stabili. Basti pensare che si stima che le SME abbiano inciso tra il 60% e l’80% nella generazione di nuova occupazione nei Paesi in via di sviluppo (Abor, 2017), giocando comunque un ruolo importante anche nelle economie più sviluppate, considerato che in Canada hanno creato il 77% di nuovi impieghi tra il 2002 e il 20122 e che nell’area euro contano il 99,8% delle imprese, il 60% del fatturato e il 70%

dell’occupazione3, mentre tra i membri dell’OCSE costituiscono più del 97% delle imprese

(Paulet, 2018).

Queste rappresentano una risorsa per il dinamismo delle varie economie e grazie alla loro semplice struttura possono rispondere velocemente alle mutate condizioni economiche e soddisfare le necessità dei clienti.

Purtroppo però tali imprese si devono continuamente scontrare con una serie di impedimenti che ne limitano l’espressione completa del potenziale.

D’altra parte le SME non sono versioni in scala ridotta delle imprese più grandi, come si potrebbe pensare in modo superficiale, ma hanno esigenze peculiari con le loro decisioni finanziarie che sono rese più difficoltose da fattori come la mancanza di collateral e la maggiore incertezza relativa ai flussi di cassa da queste generati.

2 www.investopedia.com 3 www.ecb.europa.eu

Tipo di impresa Occupati Fatturato* Totale di bilancio*

Media <250 ≤ €50 Mln ≤ €43 Mln

Piccola <50 ≤ €10 Mln ≤ €10 Mln

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Così l’entrepreneurial finance si differenzia dalla corporate finance che, invece, si riferisce ad aziende più grandi e stabili e trascura molte questioni che sono cruciali per le imprese di nuova costituzione o di minore dimensione.

In particolare, le divergenze tra le due materie si riferiscono ai seguenti aspetti (Smith et al., 2011):

➢ Grado di asimmetria informativa: nell’entrepreneurial finance la diversità di informazioni disponibili per imprenditore e fornitori di capitale è spesso accentuata dalla presenza di una nuova impresa e ciò rende più difficile convincere i potenziali investitori della bontà del proprio progetto. Dall’altra parte, sebbene un gap informativo sussista anche tra soggetti interni ed esterni ad una grande società, quest’ultima è capace di gestirlo in modo migliore, con le decisioni di investimento dell’impresa che sono influenzate solo relativamente da tale asimmetria.

➢ Attribuzione del valore: nelle start-up e nelle piccole imprese, come accennato prima, il focus è posto sull’imprenditore, per cui le decisioni in ambito finanziario si muovono nell’ottica della massimizzazione del valore a lui attribuibile. Diversamente, nella corporate finance l’obiettivo attiene alla massimizzazione del valore degli azionisti della public company (Abor, 2017).

➢ Relazione tra le decisioni di finanziamento e di investimento: nelle start-up è difficile separare i due tipi di decisioni in quanto normalmente la possibilità di effettuare un investimento si lega alla capacità di raccogliere fondi da investitori esterni. Al contrario, per quanto riguarda la corporate finance, si assume che le decisioni di finanziamento e investimento siano indipendenti, dato che le grandi imprese possono finanziare interi progetti anche solo tramite fondi generati internamente; il manager può infatti scegliere il tipo di investimento da effettuare limitandosi a comparare il rendimento dell’investimento con quello medio di mercato per un investimento di analogo rischio. Così può accadere che la public company riesca a finanziare un progetto con un rendimento netto positivo che invece sarà precluso alla start-up date le maggiori problematiche da questa incontrate nel finanziarlo.

➢ Separazione tra proprietà e management: nell’entrepreneurial finance, i fornitori di capitale (come ad esempio i business angels, il cui ruolo approfondiremo successivamente) in molti casi tendono ad apportare anche un contributo manageriale all’impresa aiutandola ad incrementarne il valore e rendendo più sfumata la suddetta separazione. Dall’altro lato,

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nelle grandi imprese, azionisti e creditori solitamente denotano un atteggiamento passivo, senza contribuire alla gestione dell’impresa.

➢ Orizzonte dell’investimento: normalmente coloro che finanziano le nuove o piccole imprese hanno un tempo definito per l’investimento la cui realizzazione può avvenire tramite un’Initial Public Offering (IPO) dell’impresa o un’acquisizione privata della stessa. Dall’altra parte, coloro che investono in una public company prestano minore attenzione all’eventualità della vendita delle quote e alle valutazioni e ai costi connessi alla vendita stessa.

➢ Grado di diversificazione del rischio e valore dell’investimento: la corporate finance considera l’assunto che gli investitori possano diversificare al minor costo ma, se tale assioma vale per alcuni tipi di finanziatori, lo stesso non accade per l’imprenditore che ha investito molto, sia in termini di capitale umano che finanziario, nella sua impresa. Per questo il valore di un progetto, valutato in corporate finance attualizzando flussi di cassa attesi dallo stesso con un tasso di sconto che rifletta il solo rischio non diversificabile, sarà diverso per investitore e imprenditore.

➢ Meccanismi contrattuali: sia nell’entrepreneurial finance che nella corporate finance sono presenti sistemi contrattuali che mirano ad allineare gli interessi dell’imprenditore/manager con quello dell’investitore o a scongiurare che l’imprenditore/manager possa operare a danno dei portatori di capitale; tuttavia tali meccanismi tendono ad essere più stringenti nel caso delle start-up, date anche le maggiori asimmetrie informative che potrebbero rendere possibile all’imprenditore di sottrarsi ai suoi doveri e di non operare alla massima efficienza ed efficacia per l’impresa (Bellavitis et al, 2017).

➢ Il ruolo delle opzioni reali: mentre nella corporate finance si tende a valutare un progetto solo tramite l’attualizzazione dei flussi di cassa da esso attesi, nell’entrepreneurial finance, data l’alta rischiosità degli investimenti, diviene fondamentale il ruolo delle opzioni reali (che collegano il valore del progetto alla possibilità di sfruttare in futuro un’opportunità di espansione, differimento, contrazione o conversione dell’investimento, se conveniente) per la loro valutazione.

Da queste differenze emerge come sia stato fondamentale lo sviluppo dell’ambito dell’entrepreneurial finance per presidiare meglio un settore ricco di incertezza e problemi inerenti ai finanziamenti come quello delle start-up e delle SME.

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Comunque è da notare come spesso gli strumenti considerati in una disciplina siano utili anche per l’altra, sebbene con modifiche e differenti prospettive di utilizzo (Abor, 2017).

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1.2 Sviluppi nell’entrepreneurial finance

Gli studi nell’ambito dell’entrepreneurial finance sono stati quasi inesistenti fino ai primi anni ’90, quando sono iniziati a emergere i primi approfondimenti sull’impatto della presenza del venture capital sulle performance delle Initial Public Offerings (IPO).

Infatti, come notato da Zingales (2000), “l’enfasi empirica sulle grandi imprese ha portato a ignorare il resto dell’universo: le giovani e piccole imprese che non hanno accesso ai mercati pubblici”4.

Comunque con l’avvento del nuovo millennio questo campo di ricerca ha mostrato una grande crescita, con particolare riferimento al venture capital, come business di investimento nel capitale di rischio di start-up e piccole imprese con un elevato potenziale di crescita (Maleki, 2015). E in particolare, dal 2006 si è sviluppata una ingente mole di ricerche sull’entrepreneurial finance, probabilmente connessa con l’aumento delle attività imprenditoriali, l’avvento della gig economy, cioè il fenomeno dei contratti di lavoro flessibili che accompagnano o sostituiscono i posti di lavoro a tempo pieno, e di nuove forme di finanziamento come in particolar modo il crowdfunding (una modalità di raccolta di risorse collettiva tramite una piattaforma online).

Del resto le imprese più giovani e piccole necessitano di consistenti risorse per finanziarsi e sostenere la loro crescita e, poichè il finanziamento bancario spesso risulta un’alternativa poco percorribile per imprese con elevata opacità informativa e poche garanzie, e gli scarsi cash-flows nel breve termine rendono difficile il ricorso al capitale interno, serve uno sviluppo di forme di finanziamento alternative.

Lo studio della materia, nel primo periodo, si è soffermato sull’importanza di venture capital e, seppure con un attenzione minore a causa della scarsa disponibilità di dati, di business angels nel supporto alle imprese con elevato potenziale di crescita, dato che si tratta di investitori in capitale di rischio che hanno sviluppato particolari competenze nella gestione di problemi inerenti alle asimmetrie informative; comunque negli ultimi anni le pubblicazioni si sono rivolte anche ad altre fonti di finanziamento, con particolare attenzione al crowdfunding. Da una ricerca svolta da Cumming e Johan (2017) sui Trend Topic in Google Scholar tra il 2000 e il 2016 è emerso come il venture capital e le IPO siano state le aree di ricerca più popolari, avendo

4 Citazione tratta da “A conceptual framework for identifyng financing preferences of SMEs”, Kumar S.,

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quasi monopolizzato l’interesse degli studiosi nel primo decennio degli anni duemila, sebbene l’interesse su questi argomenti sia diminuito dal 2013 mentre, al contrario, il crowdfunding ha visto crescere esponenzialmente l’attenzione ad esso rivolta dal 2010 al 2016. D’altra parte alcuni studiosi hanno criticato il focus, a loro avviso sproporzionato, realizzato sul capitale di rischio esterno fornito da venture capitalist (VC) e business angels (BA), rilevando che non sono molte le imprese con un alto potenziale di crescita che poi hanno anche la capacità di attrarre questo tipo di investitori. E ciò è stato particolarmente enfatizzato da Robb e Robinson (2014) nella loro indagine, dalla quale è emerso che su 4928 imprese statunitensi fondate nel 2004, solo 26 hanno attratto finanziamenti da VC e 110 da BA (Bellavitis et al., 2017).

Dunque negli ultimi anni la letteratura nell’entrepreneurial finance si è mostrata in evoluzione, dato anche che il panorama degli attori che operano in questo ambito si è ampliato a causa di fattori legati all’offerta e alla domanda di risorse finanziarie (Block et al., 2018).

Tra i primi c’è da segnalare che la negativa esperienza della bolla delle dotcom del 2000 ha ridotto il numero delle IPO, diminuendo le opportunità di exit da parte dei VC e quindi gli incentivi a investire nelle start-up da parte loro.

In aggiunta, la crisi finanziaria del 2008/2009 ha portato a un’intensificazione della regolamentazione relativa alle istituzioni finanziarie, in particolare in ambito bancario. Infatti il Comitato di Basilea ha aumentato i requisiti minimi di capitale da detenere per le banche in relazione alla rischiosità dei prestiti che hanno erogato e questo ha reso ancora più difficile l’accesso al capitale di debito per le piccole imprese.

Comunque, dall’altra parte l’abbassamento dei tassi di interesse dopo la crisi economica ha allontanato gli investitori dai titoli di stato indirizzandoli verso altre opportunità di investimento, permettendo così di incrementare le attività di operatori come per esempio gli incubatori e aumentando la possibilità che le imprese innovative ad alto rischio potessero ricevere risorse finanziarie.

Un ruolo importante è interpretato anche dai fattori relativi alla regolamentazione che possono abbassare i costi di entrata e assicurare maggiori certezze contrattuali: basti pensare al Jobs Act statunitense che ha chiarito le condizioni circa l’offerta di equity sulle piattaforme di crowdfunding.

Poi la tecnologia, in particolare grazie a internet e ai nuovi modi di comunicazione tramite i social media, ha permesso l’emersione di nuove figure nell’ambiente dell’entrepreneurial finance, in grado di fornire nuovi modi di gestire i rischi e di trattare le informazioni finanziarie,

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riducendo i costi di monitoraggio e facilitando il coinvolgimento di investitori non professionali nel finanziamento delle imprese più giovani e piccole, recando un evidente beneficio alle stesse.

Un contributo importante allo stimolo dell’offerta di capitale è inoltre stato apportato dalle politiche dei governi che hanno istituito fondi di governmental venture capital per integrare il mercato dei venture capital privati, sottosviluppato in molti Paesi al di fuori degli USA, e definito politiche di finanza agevolata nell’ottica di diminuire i costi di finanziamento per le start-up e per le piccole imprese.

Per ciò che riguarda i fattori inerenti alla domanda, lo sviluppo dei social media e la globalizzazione dei mercati hanno generato alcuni “winner-take-all-markets”, che possono indurre a situazioni di mercato quasi monopolistiche: basti pensare a Facebook o Google come esempi di società che operano in simili mercati. Così le start-up che cercano di operare in queste realtà devono crescere velocemente e cercare di attrarre il maggior numero di clienti in tempi brevi. A tal proposito aumentano le risorse di cui l’impresa necessita nelle prime fasi del ciclo di vita. Allora, forme come il reward based crowdfunding che permettono al proponente di ricevere pagamenti anticipati dall’insieme dei sostenitori in cambio della successiva erogazione di una ricompensa in futuro, possono rappresentare una soluzione ideale, permettendo anche un contatto anticipato con la clientela, anche se c’è da precisare che le campagne di crowdfunding di questo tipo che conseguono l’obiettivo finanziario non sono ancora molte, come noteremo nel corso dell’elaborato.

Inoltre, molti operatori storicamente attivi in un settore hanno iniziato a temere di essere danneggiati dalla forza innovativa e dirompente di alcune start-up, per cui si sono dimostrati disposti a collaborare con queste ultime tramite strumenti come i fondi di Corporate Venture Capital che hanno permesso alle nuove imprese di ampliare il ventaglio di opzioni che possono scegliere per ottenere risorse.

In aggiunta, la disintermediazione ha ricoperto un ruolo decisivo nell’ampliamento delle opportunità di finanziamento alternative, consentendo di abbassare i costi relativi al ruolo degli intermediari finanziari, facilitando il modo in cui domanda e offerta di capitali si possono incontrare. A tal riguardo lo sviluppo delle piattaforme online può influenzare sia l’equity con un passaggio dalle tradizionali borse valori all’equity crowdfunding, sia il debito con la transizione dal sistema bancario tradizionale a strumenti come il peer-to-peer lending. Tuttavia, relativamente al capitale di debito, i benefici di questa disintermediazione devono essere

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ponderati con il rischio sistemico che essa può comportare nel momento in cui questi canali non bancari operano in modo simile ad una banca e hanno una forte interconnessione con il sistema bancario.

Comunque, come emerge dal grafico sottostante, bisogna precisare che la crescita dello sfruttamento di queste piattaforme si è visto soprattutto nei mercati cinese, statunitense e britannico, mentre ha avuto tassi di sviluppo più lenti nell’Europa continentale.

Grafico 1- Volume di mercato totale (in Miliardi di dollari) delle risorse finanziarie alternative online, differenziato per macroregioni. Fonte: “Financing SMEs and entrepreneurs 2018. An OECD Scoreboard. Highlights”

Considerati tutti questi fattori, si è venuta a sviluppare una molteplicità di risorse finanziarie alternative nell’entrepreneurial finance, con le principali che sono riportate nella tabella successiva con la relativa descrizione e con la specificazione del tipo di capitale cui si riferiscono (da segnalare come alcune voci possano appartenere alla categoria di debito o equity, a seconda delle tipologie specifiche della risorsa: si pensi al crowdfunding che nella forma di equity crowdfunding fornisce capitale di rischio e nella forma di lending crowdfunding si riferisce al capitale di debito).

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Risorse Finanziarie Debito/Equity Descrizione

Banche Debito Erogazione prestiti

Business Angels Equity Individui ricchi disposti a investire in piccoli

progetti

Bootstrapping Debito/Equity Utilizzo di varie risorse finanziarie, come i

risparmi dell’imprenditore, il credito commerciale e altre forme creative di finanziamento.

Crowdfunding Debito/Equity Investitori retail che, tramite piattaforme

online, possono partecipare al capitale di rischio dell’impresa o concederle piccoli prestiti

Corporate Venture Capital

Equity Grandi imprese che investono in start-up o

imprese in crescita con obiettivi strategici Governmental Venture

Capital

Debito/Equity Fondi governativi aventi l’obiettivo di alleviare il funding gap e di ricercare investimenti con ripercussioni positive sulla società

Incubatori/Acceleratori Debito/Equity Strutture create per accelerare lo sviluppo di nuove imprese mettendo a loro disposizione un’ampia gamma di servizi di supporto materiali e immateriali.

IPO Equity Offerta pubblica iniziale di azioni su un

mercato regolamentato che permette ai membri del pubblico di investire nell’impresa

Venture Capital Equity Investitori specializzati che raccolgono fondi

per finanziare progetti abbastanza grandi per un periodo di 5-7 anni.

Tabella 2- Principali alternative di finanziamento per SME e start-up. (elaborazione personale)

Lo sviluppo delle varie risorse si è tradotto in una frammentazione della letteratura al riguardo, sebbene le questioni affrontate nei diversi segmenti siano simili tra loro e si riferiscano soprattutto alle necessità finanziarie dell’impresa, ai fattori che influenzano il gap tra il capitale che l’imprenditore vorrebbe ottenere e quello che riceve realmente, al valore aggiunto fornito dalla risorsa di capitale in termini di crescita dell’impresa e di ampliamento delle conoscenze dell’imprenditore, ai meccanismi contrattuali che regolano il rapporto tra l’impresa e l’investitore e ai fattori che influenzano il successo dell’investimento.

Fra l’altro questa segmentazione per risorsa di finanziamento non rispecchia il fatto che l’imprenditore tenda a finanziare l’impresa tramite una pluralità di fonti, per cui, oltre a

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considerare il ruolo delle singole alternative di finanziamento, merita maggiore attenzione da parte della letteratura l’analisi del rapporto che si può venire a instaurare tra le varie risorse finanziarie.

A tal riguardo sono le relazioni tra venture capital e business angels e tra venture capital e IPO quelle più indagate, ma molto resta da fare relativamente allo studio delle interazioni tra le altre risorse finanziarie, attualmente in una fase embrionale anche perché le evidenze empiriche riguardo alle fonti di finanziamento emerse recentemente sono ancora scarne e si riferiscono soprattutto al crowdfunding.

Fra l’altro le ricerche sulla mera alternatività o sulla complementarietà tra le diverse fonti potrebbero permetterci di comprendere meglio le modalità di finanziamento delle SME, aiutando anche i policy maker nella valutazione dell’impatto dei cambiamenti delle politiche sulle piccole e medie imprese e nella pianificazione di programmi su misura per supportarle (Moritz et al., 2016).

Del resto, gli interventi legislativi in tal senso sono fondamentali, dato che le esigenze finanziarie di queste imprese nelle varie fasi del ciclo di vita si scontrano con molte problematiche che impediscono il pieno soddisfacimento delle stesse, come approfondiremo successivamente.

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1.3

Le fasi di sviluppo dell’impresa

Solitamente la vita di una impresa dalla sua fondazione alla sua stabilizzazione sul mercato si suddivide in quattro fasi: seed, start-up, early growth, sustained growth.

Nella fase seed viene concepita l’idea innovativa e l’impresa investe nella ricerca e nello sviluppo del prodotto. Nella fase di ricerca non è possibile accertare se un prodotto genererà futuri benefici economici, mentre in quella di sviluppo l’impresa non realizza profitti, né genera vendite e ha un’intensità del capitale nulla. Pertanto i cash-flows sono negativi e l’impresa non dispone di tutto il necessario per produrre e commercializzare il prodotto. Allo stage iniziale è associato un finanziamento detto seed financing in cui le risorse necessarie sono abbastanza contenute e si riferiscono alle spese per effettuare la ricerca e lo sviluppo e per sviluppare il business plan, valutando il mercato e la convenienza a continuare il progetto.

Terminata la fase seed, si passa a quella di start-up (diverso dal concetto di start-up riportato nel primo paragrafo) in cui l’idea è presentata al mercato e l’impresa inizia a investire nell’attrezzatura e nei macchinari necessari per iniziare le operazioni oltreché nel personale che possa occuparsi della produzione. Qui i flussi di cassa continuano a essere negativi dati gli investimenti svolti per avviare la realizzazione del prodotto (Abor, 2017). L’impresa necessita di un elevato ammontare di finanziamenti, data la crescente intensità di capitale accompagnata dall’assenza di ricavi.

Successivamente si arriva all’early growth, in cui l’impresa realizza e commercializza il prodotto e iniziano a incrementarsi i ricavi, nonostante non vi siano ancora profitti. In questo stadio ingenti risorse risultano necessarie per ampliare il mercato e aumentare il capitale circolante dell’impresa, anche se comunque il rischio operativo si abbassa.

Infine, vi è la fase di sustained growth in cui i ricavi continuano ad aumentare, c’è un’ampia diffusione del prodotto sul mercato e così può crescere il margine di autofinanziamento dell’impresa, anche se le fonti esterne sono comunque necessarie per supportare il tasso di crescita richiesto dall’impresa.

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Figura 1- Fasi di sviluppo dell’impresa.

Come abbiamo notato, ad ogni fase della vita dell’impresa corrispondono diverse necessità finanziarie. Tuttavia di frequente non è semplice riuscire a soddisfarle, in quanto le SME devono fronteggiare numerose barriere nel fundraising, sia in relazione al capitale di debito che a quello di rischio, e questo problema assume un rilievo particolare soprattutto nelle prime fasi di sviluppo dato l’elevato profilo di rischio a esse associato.

•esiste l'idea

•elevato rischio legato all'incertezza dei risultati prospettici •fabbisogno finanziario contenuto Seed •avvio dell'attività produttiva •fabbisogno finanziario elevato

Start-up •avvio dell'attività commerciale •abbassamento del rischio operativo •fabbisogno finanziario molto elevato Early growth

•crescita del margine di autofinanziamento •fabbisogno finanziario

medio

Sustained growth

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1.4 Il finanziamento di start-up e SME

Le esigenze finanziarie dell’impresa hanno da sempre catalizzato l’attenzione degli studiosi di finanza. In particolare, in letteratura, è stato particolarmente elevato l’interesse per la composizione degli strumenti di finanziamento preferita dall’impresa ed ottimale per garantirle la crescita e lo sviluppo.

A tal proposito, negli anni si sono sviluppate varie teorie alternative su quale fosse la migliore struttura del capitale, con le tre principali, tra quelle che considerano le imperfezioni dei mercati, che sono di seguito riportate: 1)trade-off theory; 2)agency theory; 3)pecking order theory.

La versione classica della trade-off theory, che è la più antica delle tre, è stata introdotta nel 1973 da Kraus e Litzenberger ed è incentrata sulla considerazione della fiscalità e dei costi di fallimento legati all’indebitamento. Infatti, secondo questa, l’impresa persegue il livello ottimale di debito grazie al bilanciamento tra i vantaggi connessi con lo scudo fiscale, in virtù della deducibilità degli interessi, e gli oneri relativi al rischio di fallimento che cresce all’aumentare dell’indebitamento: l’impresa tenderà perciò a spingere il leverage fino al punto in cui i benefici marginali relativi al primo aspetto eguaglieranno i costi marginali riferiti al secondo.

L’agency theory, invece, teorizzata nel 1976 da Jensen e Meckling, si basa sul fatto che vi sono costi di agenzia legati alla presenza di conflitti d’interesse tra principale (proprietario) e agente (manager), e tra proprietario e creditore (la più rilevante nell’entrepreneurial finance). Per cui la struttura finanziaria ottimale sarà conseguita quando tali costi di agenzia, provocati dalla diversità delle informazioni in possesso degli attori in gioco che possono indurre a comportamenti scorretti di una parte nei confronti dell’altra, saranno minimizzati.

Infine la pecking order theory è una teoria costruita sulle asimmetrie informative e sviluppata nel 1984 da Myers e Majluf, per i quali le imprese preferiscono finanziare i nuovi progetti prima con risorse interne, che sono più economiche, e solo successivamente con fonti esterne, più costose.

Nel caso non si possa ricorrere all’autofinanziamento, tra le risorse esterne, si preferirà ricorrere al debito piuttosto che all’equity.

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20

La validità di queste teorie è stata valutata soprattutto in relazione alla struttura finanziaria delle imprese più grandi e quotate, quindi all’interno della corporate finance; al contrario gli studi empirici in tale ambito nell’area dell’entrepreneurial finance sono stati molti meno. Comunque, in base alle ricerche effettuate in relazione alle modalità di finanziamento delle start-up e delle SME sono emerse alcune interessanti evidenze relativamente all’idoneità di tali teorie circa la spiegazione delle dinamiche finanziarie di queste imprese.

Innanzitutto la teoria del trade-off, che è potenzialmente la più adatta da applicare alle decisioni di finanziamento delle imprese più grandi in virtù dell’ampiezza delle loro operazioni che le inducono a considerare il trade-off tra costi e benefici del debito, non sembra essere giustificata per spiegare il comportamento delle SME operanti sia nei Paesi sviluppati che in quelli in via di sviluppo.

Infatti la sua adattabilità alle piccole e medie imprese non è suffragata da molte evidenze (Fraser et al., 2013; Kumar, Rao, 2015): del resto le SME sono maggiormente soggette a restrizioni nell’accesso al capitale che le inducono a comportarsi diversamente rispetto alle imprese di taglia superiore per quanto riguarda le decisioni di finanziamento, limitando la loro possibilità di svolgere un’analisi costi-benefici sul debito.

Al contrario, le altre due teorie, che prendono maggiormente in considerazione le asimmetrie informative (che hanno un ruolo cruciale nell’ambito dell’entrepreneurial finance), sembrano essere più conformi agli orientamenti delle SME in tema di finanziamenti con, in particolare, la pecking order theory ad aver riscontrato le maggiori risultanze (Cosh et al., 2009; Fraser et al., 2013; Kumar, Rao 2015) come spiegazione delle preferenze finanziarie delle imprese più piccole e giovani, soprattutto in relazione al fatto che queste cerchino di finanziarsi in primis con il capitale interno del proprietario o comunque con quello dei suoi conoscenti. Del resto, nelle prime fasi di vita dell’impresa, le prime risorse ad essere chiamate in causa dal fondatore sono state storicamente considerate quelle riferite alle cosiddette “3F” relative a “Family, friends and fools”, più disponibili a finanziare attività molto rischiose e, più in generale, quelle inerenti alle tecniche di “bootstrapping”, corrispondenti all’utilizzo di una serie di metodi variegati, atti a soddisfare le necessità di risorse senza fare affidamento su finanziamenti esterni di debito o equity, che si possono manifestare, tra le altre cose, nel ricorso a finanziamenti da parte del proprietario o nella minimizzazione delle risorse. Tali tecniche sono spesso sottovalutate in letteratura, ma vari studi hanno dimostrato come circa il 95% delle nuove imprese siano coinvolte in un qualche genere di bootstrapping finanziario (Lam, 2010). E tutto ciò è coerente

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anche con il fatto che alcuni studi abbiano notato come le imprese più giovani tendano a ricorrere maggiormente a capitali informali, dato che sono relativamente più economici (Moritz et al., 2016).

Al tempo stesso però si deve precisare che, in particolar modo per quanto riguarda le start-up e le SME innovative, tale teoria conferma la propria validità solo relativamente al fatto che tali imprese preferiscano i capitali interni rispetto a quelli esterni. Infatti, quando sono necessarie fonti esterne, queste tendono a utilizzare l’equity invece del debito, soprattutto nelle prime fasi di sviluppo.

Questo ha indotto all’introduzione di una versione “allargata” della Pecking order Theory, per la quale la sequenza gerarchica viene ad essere la seguente: autofinanziamento, equity, debito (Domenichelli, 2007).

Del resto le asimmetrie informative tra queste categorie di imprese e gli investitori di pieno rischio riescono ad essere sensibilmente ridotte, dato che vi sono operatori come venture capitalists e business angels che vengono ad essere coinvolti nel progetto da loro finanziato e che sono specializzati a investire nelle piccole imprese innovative. Per questo per l’imprenditore sarà inizialmente più probabile (ma comunque non facile come vedremo in seguito) ottenere finanziamenti a titolo di capitale di rischio dai business angels, capaci di sopportare l’elevata incertezza che permea l’impresa, piuttosto che prestiti dalle istituzioni bancarie, che presentano invece varie problematiche nel relazionarsi con questo tipo di realtà imprenditoriali, a causa delle difficoltà che incontrano nel valutarle, come approfondiremo nel paragrafo successivo.

1.4.1 I problemi di accesso al canale bancario

Molti studiosi hanno discusso circa l’impraticabilità del capitale di debito per le nuove e piccole imprese e ciò è anche legato al fatto che il creditore sopporta il rischio di insuccesso dell’impresa, senza però condividerne i benefici nel caso di successo della stessa (Cumming, Vismara 2017).

Rischio che è acuito dalla frequente mancanza di collateral che questo tipo di imprese, soprattutto quelle più innovative, non sono in grado di fornire, dato che solitamente sono dotate principalmente di asset intangibili, la cui difficile valutazione non li rende

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particolarmente appetibili per la banca, confinando l’eventuale possibilità di ottenere capitale da parte degli intermediari bancari solo nelle fasi molto avanzate della vita dell’impresa.

Fra l’altro queste imprese non possiedono un’ampia storia relativa alle operazioni eseguite e alle performance dei finanziamenti ottenuti in precedenza, rendendo quindi problematica e costosa la definizione del loro merito creditizio da parte delle banche.

Così tali asimmetrie informative possono condurre a fenomeni quali selezione avversa e azzardo morale: la selezione avversa è data dal rischio di finanziare un cattivo investimento oppure di rifiutare di accordare fondi per un buon progetto, con quest’ultimo errore che è quello più pericoloso per le SME, dato che un’impresa meritevole potrebbe vedersi rifiutare la concessione di risorse finanziare con conseguenti ripercussioni negative sulla possibilità di finanziare i propri progetti; mentre l’azzardo morale si esprime nel rischio che l’imprenditore possa utilizzare un finanziamento per un fine diverso da quello originariamente pattuito con il prestatore, effettuando magari operazioni più rischiose rispetto a quelle per le quali i fondi erano stati inizialmente concessi.

Queste circostanze possono condurre a tre differenti scenari:

➢ la concessione di prestiti a tassi di interesse più alti, con la possibilità di attrarre i soggetti più rischiosi da parte dei prestatori;

➢ l’erogazione di finanziamenti con stringenti richieste di collateral che saranno proporzionalmente maggiori nei confronti delle nuove e piccole imprese rispetto a quelle più grandi, considerato il fatto che a ciascuna garanzia di una start-up o una SME sarà attribuito un valore più basso dato che vi sono grandi incertezze circa la sopravvivenza e le prospettive di crescita delle suddette imprese;

➢ rifiuto di erogare i prestiti a nessun tasso di interesse, dato l’elevato costo legato all’assunzione del rischio, ad analisi e monitoraggio del soggetto finanziato e all’accertamento della restituzione del prestito.

Per superare questi problemi di asimmetria informativa, un ruolo decisivo può essere svolto dal relationship banking, che si riferisce all’instaurazione di una relazione a lungo termine tra la banca e l’impresa e che permette alla prima di monitorare la seconda nel tempo, riducendo il vantaggio informativo dell’impresa (Fraser et al., 2013).

Infatti vi è un forte interscambio di informazioni che consentono alla banca di avere accesso alle “soft information” di natura qualitativa e riservata (acquisite dall’operatore che valuta il cliente tramite l’esperienza e il contatto diretto) facilitandola nel processo di valutazione della

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qualità del prenditore e di conseguenza nella definizione del suo merito creditizio. Fra l’altro alcune ricerche hanno notato che questo rapporto potrà portare anche la banca ad applicare un tasso di interesse minore e ad abbassare le richieste di collateral all’impresa affidata (Kumar, Rao, 2015).

Tuttavia, per le imprese particolarmente innovative non sembra facile accedere a questo tipo di relazioni con le banche, dato che le insicurezze circa le dinamiche future dell’azienda sono maggiori. Inoltre sembra che il relationship banking sia stato danneggiato dalla crisi finanziaria del 2008/2009, come dimostrato da evidenze in Gran Bretagna che hanno rilevato un deciso aumento nel livello di insoddisfazione degli imprenditori verso la loro banca di riferimento. Aumento che li ha indotti a rivolgersi ad altre banche, con il problema che è stato esacerbato dalla carenza di comunicazione denunciata dagli stessi imprenditori in relazione alle mancate motivazioni fornite dagli intermediari bancari riguardo al rifiuto di accordare finanziamenti (Fraser et al., 2013).

In aggiunta, come già accennato, proprio a causa della suddetta crisi finanziaria, è divenuta più stringente la regolamentazione delle istituzioni finanziarie, con le banche che, per rispettarla, hanno dovuto introdurre varie misure a presidio dei rischi assunti che hanno reso ancora più complesso il finanziamento per le SME.

Tutti questi fattori hanno portato la letteratura a concentrarsi sul finanziamento tramite capitale di rischio come strumento principale per dare copertura alle necessità finanziarie delle nuove e piccole imprese. Tuttavia, qualche studio ha evidenziato come le imprese più rischiose come le start-up abbiano una preferenza per i prestiti bancari.

In particolare, un’indagine di Deloof e Vanacker (2018) su un campione di start-up belghe ha mostrato come il debito bancario abbia rappresentato la risorsa finanziaria più importante per tali imprese sia durante la crisi che prima della stessa, confermando anche uno studio precedente di Robb e Robinson (2014) che aveva rilevato l’importanza del canale bancario per una popolazione di start-up statunitensi fondate nel 2004. Tali risultati sono stati sorprendenti alla luce dei modelli teorici correnti che si basano sulle imperfezioni dei mercati (come quelli relativi alle asimmetrie informative che precluderebbero alle start-up di accedere al mercato del debito) e hanno messo in dubbio le credenze tradizionali in merito al finanziamento delle nuove imprese, permettendo di riscoprire l’attenzione sul ruolo del debito bancario nel finanziamento delle imprese innovative.

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Comunque le ricerche su questi aspetti sono ancora in via di sviluppo e necessitano di studi teorici addizionali, che potrebbero venire in soccorso dei policy-makers in relazione all’implementazione di politiche che possano sostenere il mercato del credito per le start-up. D’altra parte, lo sviluppo di un sistema regolamentare che garantisca un forte regime di protezione dei diritti di proprietà, inclusi i diritti dei creditori, e che incoraggi le imprese ad operare in modo trasparente è fondamentale per stimolare l’attività creditizia.

1.4.2 Il funding gap

Sebbene uno studio di Cosh, Cumming e Hughes (2009), svolto su un campione di giovani imprese britanniche tra il 1996 e 1997, abbia notato che solo poche di queste avevano fronteggiato problemi nell’ottenimento della quantità di capitale esterno voluta mentre il problema più grande era riferito al fatto che non erano riuscite ad ottenere il tipo di capitale che avrebbero desiderato, la letteratura tradizionale si è storicamente molto focalizzata sulla scarsità di capitale con cui le imprese devono scontrarsi soprattutto nelle prime fasi del ciclo di vita.

Detto delle difficoltà relative all’ottenimento di capitale di debito, per loro spesso vi sono ostacoli anche nell’accesso al capitale di rischio, con il fallimento del mercato che induce alla formazione di un funding gap che si riferisce alla differenza tra l’ammontare di capitale richiesto e quello offerto.

A tal riguardo McCahery et al. (2015), stimando l’esistenza di un funding gap in Francia, Germania, Olanda, Polonia e Romania nel 2013, hanno notato che questo variava dal 4,8% (in Germania) al 20,3% (in Olanda) del rispettivo PIL nazionale (Cumming, Groh, 2018).

Del resto in Europa il differenziale è superiore rispetto a quello evidenziato negli Stati Uniti dato che il sistema è più bancocentrico e vede una minore presenza di investitori specializzati che abbiano le competenze adeguate e che siano disposti ad effettuare investimenti particolarmente rischiosi. Questo gap può dipendere sia da fattori relativi alla domanda che da elementi inerenti all’offerta di risorse finanziarie, ma non vi sono evidenze circa quale lato dei due incida maggiormente sulla sua formazione.

Dal lato dell’offerta, spesso le problematiche di finanziamento sono dovute agli elevati costi fissi associati all’emissione di equity e alla scarsa tendenza degli investitori istituzionali ad

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effettuare investimenti di piccola taglia che per loro sono meno convenienti. Inoltre, altri problemi si riferiscono al fatto che frequentemente i fondi di venture capital si limitano a finanziare solo determinati settori, con la crisi finanziaria che ha anche diminuito la loro volontà di effettuare investimenti, in particolare nei round successivi (Polzin, 2018): infatti l’ambiente macroeconomico e la salute del mercato azionario condizionano fortemente l’offerta di risorse finanziarie.

Invece, considerando il lato della domanda, si deve precisare che l’imprenditore potrebbe risultare penalizzato da un trattamento fiscale svantaggioso relativamente agli strumenti di equity che potrebbe indurlo a non utilizzarli.

Inoltre il fondatore, di frequente, ha scarsa familiarità con vari aspetti della finanza e spesso non ha sufficienti abilità per redigere un business plan convincente per i fornitori di capitale. E questa sua mancanza di preparazione è ben testimoniata dal grafico successivo che mostra come solo il 24% degli imprenditori siano preparati a sufficienza nel momento in cui si trovano a interagire con gli investitori.

Grafico 2- Percentuale di imprenditori preparati quando interagiscono con gli investitori. Fonte: “Why Business Angels do not invest. Findings on obstacles preventing investment in startups” EBAN 2018.

Poi, si deve sottolineare che l’imprenditore solitamente preferisce quelle risorse finanziarie che gli permettono di cedere una minore quota di controllo e che, come hanno notato Fraser, Bhaumik e Wright (2013), egli potrebbe tendere a rifiutare di ricorrere al capitale esterno, solamente perché indotto dalla sensazione che l’offerta di finanziamenti sia molto povera. In particolare, relativamente a quest’ultimo aspetto, il proprietario potrebbe rifugiarsi sulle fonti di finanziamento interno non tanto perché è più costoso e difficile ottenere finanza esterna a

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causa del fallimento del mercato quanto in ragione del solo fatto che questo sia percepito come più difficoltoso. Basti pensare che da un’indagine su un campione di imprese britanniche è emerso come, nel 2009 un imprenditore su 11 si sentisse scoraggiato relativamente alla richiesta di finanziamenti esterni in quanto riteneva che la sua domanda sarebbe stata rifiutata, mentre prima della crisi il rapporto era di 1 a 25.

Così, indubbiamente anche le sensazioni negative circa la disponibilità delle varie alternative di finanziamento hanno contribuito ad allargare il funding gap.

In relazione a ciò, l’impatto di queste percezioni potrebbe essere diminuito se l’impresa prendesse consapevolezza delle azioni da intraprendere, magari anche avvalendosi di consulenze esterne, per essere capace di attrare differenti tipi di investitori.

Infatti l’imprenditore dovrebbe essere istruito circa la tipologia delle risorse accessibili e le ripercussioni che l’una o l’altra scelta potrebbero avere sulla sua quota di controllo sull’impresa e sulla condivisione di rischi e remunerazioni con gli investitori esterni.

Dati questi problemi nell’incontro tra domanda e offerta di risorse finanziarie, è emersa la necessità di un maggiore coinvolgimento da parte degli investitori nel capitale di rischio (come per esempio business angels e venture capital), data la loro superiore abilità nel gestire i problemi di asimmetrie informative tramite meccanismi contrattuali e grazie al loro ruolo più marcato nella gestione dell’impresa, e importante è stato lo sviluppo di fonti di finanziamento alternative (come il crowdfunding) e la riscoperta di quelle già presenti nel panorama dell’entrepreneurial finance (come il corporate venture capital), che potessero ampliare il ventaglio di opzioni a disposizione dell’imprenditore per accedere a nuove risorse, anche se si deve approfondire il tema riguardante il fatto che queste ultime possano funzionare da complemento rispetto a quelle tradizionali o se siano mere sostitute, andando così a indebolire la portata dei loro effetti.

Infatti, la presenza di una moltitudine di risorse dalle quali attingere non è di per sé garanzia di un annullamento del funding gap. E ciò è di particolare rilevanza nelle prime fasi di vita dell’impresa, dove analisti e policy makers individuano la maggiore presenza di un simile gap o, più in generale, di un fallimento del mercato.

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1.5 Le principali alternative di finanziamento nell’entrepreneurial

finance: contributi e limiti

Trattate precedentemente le problematiche di finanziamento delle Sme, adesso soffermiamoci sulle principali risorse di finanziamento riferibili ai primi stadi di vita dell’impresa e analizziamo, avvalendoci di alcune delle maggiori evidenze emerse in letteratura, i contributi che questi possono offrire alla crescita dell’impresa, constatando anche i limiti a esse relativi, dati dal fatto che talvolta possono non essere accessibili o svolgere un ruolo alternativo, con l’utilizzo di una risorsa che andrebbe a precludere l’accesso all’altra.

In particolare passiamo ad approfondire le risorse relative a business angels, venture capital e governmental venture capital, corporate venture capital ed equity crowdfunding.

1.5.1 Business Angels

I business angels (BA) sono individui (solitamente imprenditori) con un’elevata ricchezza individuale e con una considerabile esperienza di business che investono una porzione abbastanza contenuta del loro patrimonio (tra i 10.000 e i 250.000 dollari) principalmente in start-up operanti in industrie o mercati in cui gli stessi hanno un’esperienza pregressa (Van Osnabrugge, 2000) e che presentano un alto rischio e un rendimento potenzialmente elevato. Sebbene i BA mirino anche a ottenere un ritorno finanziario dall’investimento, loro contribuiscono attivamente, grazie alle loro conoscenze e alla loro esperienza, a far crescere le imprese e gli imprenditori con cui si relazionano, considerato anche che investono sin dalla fase seed.

Fra l’altro, in questa fase il livello di incertezza è particolarmente rilevante e le questioni di corporate governance divengono molto delicate. Tuttavia, i BA utilizzano meccanismi di controllo meno formali rispetto a quelli attuati dai VC, dato che occupano poltrone nel CdA delle imprese in cui investono meno frequentemente rispetto a quanto avviene per i VC e tendono a ricevere azioni ordinarie che non gli permettono di avere un alto livello di protezione in caso di fallimento.

E nemmeno l’infusione di capitale tramite stage successivi (staging) è un meccanismo utilizzato dai BA, a dimostrazione che l’applicazione di questa modalità non aumenta in relazione

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all’incremento del livello di incertezza o dei costi di agenzia attesi, in opposizione a ciò che è emerso in vari studi focalizzatisi sui VC (Wong, 20105). D’altra parte i BA controllano

principalmente i costi di agenzia grazie all’allineamento degli interessi dell’imprenditore con quelli dell’impresa tramite il mantenimento di una netta quota di proprietà sulla stessa da parte del fondatore, con anche la vicinanza geografica che gioca un ruolo decisivo a tal riguardo e sostituisce le modalità di controllo più formali, influendo sul livello dei finanziamenti e di assistenza post-investimento da parte dei BA.

In molti hanno rilevato l’importanza dei Business Angels in vari ambienti dove l’equity gap è significativo: si pensi al caso delle economie emergenti in cui il loro capitale informale è fondamentale dato che i soggetti istituzionali sono più difficili da coinvolgere rispetto a ciò che avviene nei Paesi sviluppati. A tal riguardo, come uno studio sugli effetti della crisi del 2009 ha rilevato, l’attività dei BA ha anche dimostrato di essere meno influenzata dalle turbolenze finanziarie rispetto a quella dei VC, data la loro minore connessione con le grandi banche o con le compagnie di assicurazione rispetto a questi ultimi (Block et al., 2009).

Gli effetti benefici dei BA sono emersi anche da un’indagine su un campione di imprese statunitensi nel periodo che va dal 2001 al 2006 che ha mostrato come il finanziamento di BA sia associato con un incremento di probabilità di sopravvivenza da parte dell’impresa per 4 o più anni e con più alti livelli di occupazione (Croce et al., 2018). E varie ricerche hanno evidenziato che il contributo finanziario alle giovani imprese da parte dei BA è stato nettamente superiore a quello apportato dai fondi di Venture Capital: si prenda ad esempio quello dello “European Business Angel Network” (EBAN) che ha rilevato come, relativamente agli investimenti nell’early stage in Europa nel 2017, i BA abbiano investito 7,3 miliardi di euro in confronto ai 3,5 dei VC.

Da notare poi come i BA sempre più spesso si associno in networks (Business Angels Network), con la combinazione di diversi investimenti individuali che permette alle SME di raccogliere un ammontare di investimenti più grande, consentendo anche ai BA di diversificare i rischi del loro investimento su più progetti e di diminuire i costi legali e di due diligence tramite le economie di scala risultanti. In virtù di ciò, questi networks potranno poi offrire all’imprenditore un supporto manageriale e una rete di contatti maggiori, permettendo anche di aumentare il flusso di affari dato che per le imprese sarà più facile trovare i BA rispetto al caso in cui questi

5 Capitolo presente all’interno del volume “Venture Capital, Investment Strategies, Structures, and

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operino singolarmente. Inoltre, come emerge da uno studio di Lerner et al. (2015), essi hanno un impatto positivo sulla crescita, sulle performance, e sulla sopravvivenza delle imprese oltreché sulla loro capacità di raccogliere finanziamenti successivamente (Cumming, Groh, 2018). E coerentemente con quest’ultimo aspetto, alcuni hanno evidenziato come le imprese finanziate da questi networks di BA hanno una maggiore probabilità di ricevere successivamente fondi da VC (Croce et al., 2018).

Proprio in relazione alla combinazione di finanziamenti solitamente sperimentata dalle imprese più giovani e piccole, è interessante approfondire il rapporto che si può sviluppare tra BA e VC e il contributo che la loro interrelazione può fornire a tali imprese, soprattutto dal punto di vista del ritmo e della velocità di crescita. L’imprenditore che ricerca equity per la propria attività potrebbe voler coniugare queste due risorse finanziarie per abbassare il costo del capitale totale, dato che la presenza del BA permetterebbe di ridurre i costi cognitivi, mentre il VC contribuirebbe con la sua abilità di controllo dei costi di agenzia (Bonnet et al., 2012), con evidenze che hanno anche dimostrato come tale combinazione estenda l’ammontare raccolto, e aumenti le probabilità di ottenere nuovi finanziamenti da VC e di conseguire con successo l’exit (Croce et al., 2018).

Fra l’altro si deve anche notare come tra le due figure vi possa essere al tempo stesso un rapporto di collaborazione e rivalità in base allo stadio di sviluppo in cui il BA è specializzato a investire, dato che, se da un lato l’esperienza del BA agli stage iniziali della vita dell’impresa svolge un ruolo di certificazione e di signaling circa il futuro impiego del VC, dall’altro un VC tende a non investire nella start-up se è già sostenuta da un BA con esperienza anche nelle fasi più avanzate.

Per cui l’imprenditore dovrà valutare attentamente il trade- off relativo al coinvolgimento del BA all’interno della sua attività considerando da una parte i benefici relativi all’esperienza, all’assenza di una rigida attività di controllo e monitoring e alla certificazione sulla qualità dell’impresa che faciliterebbe l’attrazione di altre risorse di capitale altrimenti difficili da ottenere, e dall’altra le difficoltà nell’attrarre i fondi e le abilità dei VC, nel caso in cui il BA sia specializzato anche nella gestione degli stadi più avanzati (Croce et al., 2018).

Comunque si deve tenere presente che non sempre sarà facilmente accessibile il capitale apportato dai BA, soprattutto per l’alto rischio di fallimento dei progetti e per l’elevata valutazione che il fondatore attribuisce alla propria impresa, come dimostra il grafico

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successivo che riporta le principali ragioni per cui i BA non hanno investito in nuovi progetti negli ultimi 5 anni.

Grafico 3- Motivi per cui i BA non hanno investito in progetti negli ultimi 5 anni (%). Fonte: “Why Business Angels do not invest. Findings on obstacles preventing investment in startups” EBAN 2018.

Ed un’altra questione problematica circa i BA si riferisce al fatto che la bolla delle dot.com prima e la crisi del 2008/2009 dopo, avendo contratto gli investimenti dei VC, si sono ripercosse negativamente anche su questi, in quanto sono diminuite le loro opportunità di coinvolgere i VC nei round successivi di finanziamento delle imprese in cui i BA avevano investito, imponendo agli stessi di procedere all’apporto di ulteriori capitali. Così questa diminuzione delle opportunità di effettuare investimenti sequenziali complementari tra VC e BA ha enfatizzato ulteriormente il ruolo dei business angels networks. Tuttavia anche in relazione a questi ultimi bisogna precisare che, come emerge da uno studio di Mason et al. (2016), se da un lato la loro consistente capacità di finanziamento è risultata utile per coprire il funding gap generato dalla minore attività di investimento dei VC, dall’altro la collaborazione tra business angels, diminuendo la quantità di investimenti effettuati individualmente, ha contribuito a ridurre il numero di operazioni di piccola taglia, poco attraenti per grandi gruppi di BA, andando a generare quindi un altro gap nella fascia di imprese che richiedevano minori risorse. Così queste evidenze hanno accresciuto la considerazione delle possibilità per le altre risorse, come l’equity crowdfunding, di riuscire a colmare il differenziale per quello che riguarda gli investimenti di

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minore importo e delle capacità delle politiche governative di stimolare i finanziamenti in tal senso.

1.5.2 Venture Capital e Governmental Venture Capital

I fondi di Venture Capital (VC) sono investitori specializzati nel finanziamento delle imprese in fase di sviluppo con un business innovativo e con un alto potenziale di crescita, verso le quali mettono a disposizione anche le loro competenze. La tipologia di struttura organizzativa più diffusa di questi fondi è la limited partnership, in cui vi è un general partner che si occupa di gestire il fondo, di raccogliere i capitali, di investire in un portafoglio di imprese, negoziare gli accordi e monitorare gli investimenti svolti, e vari limited partner che sono individui ricchi e investitori istituzionali che forniscono la quasi totalità del capitale.

Come già accennato, i VC sono particolarmente abili nel gestire le asimmetrie informative e nell’esercitare l’attività di monitoraggio, grazie alla definizione di sistemi di controllo molto rigidi come: lo staging, con cui i finanziamenti sono posticipati fino a che non sono raggiunti determinati obiettivi con il fine di consentire al VC di abbandonare un investimento nel caso in cui non sembri più promettente e di stimolare l’imprenditore a concentrarsi sul raggiungimento dell’obiettivo prefissato; la definizione di incarichi all’interno del Cda per il VC così da permettergli di influenzare le decisioni strategiche; le clausole anti-diluizione che proteggono il VC da una eventuale diminuzione della quota di controllo dovuta a nuove emissioni verso altri soggetti.

Ed è indubbio anche il loro apporto dal lato della professionalizzazione dell’impresa, dato il loro contributo allo sviluppo di business plan, alla facilitazione dello sviluppo di partnership strategiche: del resto, come riporta Denis (2004), studi hanno notato come le imprese sostenute da VC sviluppino una maggiore professionalizzazione riguardo alle politiche sulle risorse umane e all’assunzione dei professionisti del settore vendite e del marketing, e riescano a portare il prodotto sul mercato più velocemente. I VC possono poi aiutare il fondatore a raccogliere capitale addizionale, certificando la qualità della start-up e anche per questo l’imprenditore accetta anche offerte con una più bassa valutazione pur di associarsi con importanti VC.

Inoltre, per ciò che riguarda il loro contributo all’innovazione, nonostante molti abbiano discusso sul fatto che questo sia effettivo o dipenda soprattutto dalla loro capacità di

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individuare le imprese più meritevoli, le evidenze si sono orientate soprattutto sulla prima direzione, mostrando che anche nel caso in cui il VC abbia avuto l’abilità di selezionare le imprese migliori, queste ultime abbiano iniziato a crescere più velocemente dopo il suo ingresso. Infatti vari studi hanno notato come la presenza di VC nel board sia associata con un’attività di innovazione più grande, in base al numero di brevetti ottenuti6, e come questa

attività sia cresciuta dopo il loro arrivo e diminuita in seguito alla loro dipartita (Chemmanur, Fulghieri, 2013). Ed a ciò bisogna aggiungere che un’indagine su alcune imprese technology-based in Italia ha mostrato che una volta che queste abbiano ricevuto finanziamenti da VC, il ruolo delle capacità del fondatore sia divenuto meno importante, dato che erano state le abilità di coaching dei VC a divenire fondamentali nel contribuire alla crescita dell’impresa (Fraser et al., 2013). Fra l’altro la capacità di innovare velocemente ha dimostrato di essere collegata anche alla localizzazione del VC, con un VC domestico che potrà permettere all’impresa di sviluppare più rapidamente nel breve periodo grazie alla conoscenza del mercato interno, mentre la presenza di un VC straniero darà i suoi frutti in maniera decisa nel lungo periodo dato che la crescita nei mercati internazionali necessita di più tempo per essere sviluppata.

Detto del valore aggiunto che essi sono in grado di fornire, si deve comunque precisare che è molto difficile accedere ai finanziamenti da parte di questi fondi dato il severo processo di screening cui le imprese sono sottoposte, gli elevati rendimenti richiesti da parte dei VC, il fatto che la taglia del loro investimento tenda ad essere ingente, precludendo alle imprese con minori esigenze di rivolgersi a questi, e che il loro coinvolgimento sia legato a una ragionevole possibilità di un soddisfacente exit.

Infatti, proprio in relazione a quest’ultimo aspetto, non si deve comunque dimenticare che i “limited partner” del fondo mirano ad ottenere una remunerazione elevata dall’investimento. Così l’esistenza di un appropriato meccanismo di uscita dall’investimento è una condizione che influenza notevolmente la misura e la forza del mercato del VC: infatti la disponibilità di un mercato pubblico dell’equity forte e liquido e incentrato sulle piccole imprese con alto potenziale di crescita è uno dei fattori più decisivi per la maggiore forza del mercato del VC negli Stati Uniti rispetto alle altre nazioni, in cui questo settore fatica a crescere sensibilmente.

6 Come hanno riportato Block et al. (2009), i VC sono stati responsabili del 10% delle innovazioni

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Fra l’altro, dal grafico successivo emerge chiaramente come il mercato del VC costituisca una percentuale trascurabile rispetto al PIL, aggirandosi addirittura al di sotto dello 0,05% per la maggior parte dei Paesi facenti parte dell’OCSE.

Grafico 4- Investimenti di VC in percentuale (riferita al 2017 o all’ultimo anno disponibile) rispetto al PIL. Fonte: “Entrepreneurship at a Glance 2018. Highlights OECD”

Relativamente a questo sottosviluppo del mercato del VC, molti governi hanno definito programmi volti a stimolare tale settore tramite l’istituzione di fondi di Governmental Venture Capital (GVC), per cercare di alleviare il problema del funding gap e di stimolare investimenti che producessero anche benefici per la società, come la creazione di posti di lavoro in determinate regioni.

In relazione all’intervento pubblico diretto, i tipi di allocazione delle risorse governative ai GVC si suddividono in: fondi pubblici diretti, che includono investimenti tramite strutture simili a VC supportati da istituzioni governative; fondi ibridi pubbliprivati, che vedono un co-investimento con investitori privati per compensare la mancanza di abilità nel settore che spesso connota le istituzioni governative; fondi dei fondi, che investono in altri fondi di investimento invece che direttamente nelle imprese.

La selezione da parte dei GVC delle giovani imprese poco finanziate può segnalare il loro alto potenziale al settore degli investitori privati, stimolando così l’accesso al capitale addizionale per le stesse e Cumming (2014), in uno studio europeo, ha notato che un investimento in sindacato tra VC indipendenti e governativi tende a portare a una più alta probabilità di un exit rispetto agli investimenti di VC indipendenti (Colombo et al.,2016).

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