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SVILUPPO DI SISTEMI MICROPARTICELLARI PER IL RILASCIO CONTROLLATO DI BIOMOLECOLE

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Academic year: 2021

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DIPARTIMENTO DI FARMACIA

Corso di Laurea Specialistica in Chimica e Tecnologia Farmaceutiche

Tesi di Laurea:

SVILUPPO DI SISTEMI MICROPARTICELLARI

PER IL RILASCIO CONTROLLATO DI

BIOMOLECOLE

Relatori:

Prof. Clementina Manera Prof. Alessandro Sannino Ing. Luca Salvatore

Co-relatori:

Dott.ssa Nunzia Gallo Dott.ssa Maria Lucia Natali

Candidata:

Gabriella De Pauli

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INDICE

1. INTRODUZIONE

2. STATO DELL’ARTE

2.1. La Medicina rigenerativa

2.2. Dispositivi a rilascio controllato (DDS) 2.3. Cenni storici dei DDS

2.4. Proprietà dei DDS

2.4.1. Confronto tra farmaci convenzionali e DDS 2.4.2. Materiali utilizzati

2.4.3. Tecniche di realizzazione 2.4.4. Classificazione dei DDS 2.5. Interazione cellula-microparticella 2.6. Acido valproico (VPA)

2.7. VPA e senescenza cellulare

3. SCOPO DELLA TESI 4. MATERIALI E METODI

4.1. Acido poli(lattico-co-glicolico) (PLGA) 4.2. VPA

4.3. Protocollo di sintesi delle microsfere 4.4. Metodi di caratterizzazione

4.4.1. Analisi morfologica 4.4.2. Distribuzione dei diametri 4.4.3. Efficienza di incapsulamento 4.4.4. Rilascio in vitro

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4 5. RISULTATI

5.1. Analisi morfologica 5.2. Distribuzione dei diametri 5.3. Efficienza di incapsulamento 5.4. Rilascio in vitro

6. CONCLUSIONI 7. BIBLIOGRAFIA Ringraziamenti

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1. INTRODUZIONE

L’aumento dell’età media della popolazione e quello delle annesse patologie degenerative stimola costantemente la ricerca scientifica verso lo studio e l’elaborazione di nuove terapie e formulazioni per la risoluzione di problematiche disabilitanti, che hanno un notevole impatto sulla qualità della vita dei pazienti. L’obiettivo principale della ricerca è quello di individuare e validare nuovi approcci terapeutici che siano, da un lato, sempre più efficaci e risolutivi e, dall’altro, meno invasivi e più mirati. In tale contesto, negli ultimi anni sono state sviluppate nuove e svariate forme di somministrazione di farmaci, tra le quali anche i cosiddetti sistemi a rilascio controllato (o Drug Delivery Systems, DDS). I DDS sono dei sistemi, perlopiù particellari, che permettono di rilasciare in maniera controllata un determinato principio attivo con l’obiettivo di circoscriverne l’effetto biologico su una determinata tipologia di cellule o distretto tissutale, migliorare l’efficacia del trattamento farmacologico e ridurre la tossicità di una terapia. Il principale vantaggio dei DDS rispetto alle forme farmaceutiche convenzionali è la possibilità di modulare la cinetica di rilascio del principio attivo [1]. Grazie a questa tecnologia, non sono più necessarie le convenzionali somministrazioni multiple dal momento che è possibile far assumere al paziente un’unica dose attraverso un sistema micro o nano particellare che ne regoli il corretto dosaggio nel tempo. Tale strategia consente di raggiungere e mantenere costanti i livelli di farmaco in circolo ed evitare le problematiche classiche di sotto/sovra-dosaggio e gli effetti collaterali [2]. Un esempio sono i sistemi microparticellari biodegradabili a base di poli-alfa-idrossiacidi per il rilascio graduale ed a lungo termine (fino a 3 mesi) di terapie oncologiche o ormonali di natura peptidica/proteica con ridotta emivita plasmatica [3]. Inoltre, un vantaggio notevole risiede nella possibilità di veicolare il farmaco in una specifica zona, evitando l’interazione che potrebbe essere dannosa tra il

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farmaco ed organi non interessati. Una delle tante applicazioni dei DDS è nella diagnostica. Tali sistemi permettono di veicolare sostanze sensibili in grado di rilevare una specie bersaglio e indicare così la presenza di una particolare patologia [4].

Nell’ambito di alcune discipline emergenti quali l’ingegneria tissutale e la medicina rigenerativa, nate per superare le limitazioni della chirurgia tradizionale e quindi per permettere la rigenerazione di un tessuto danneggiato (per cause patologiche o traumatiche) piuttosto che la sua riparazione, i DDS trovano ampia applicazione, ad esempio inseriti in sistemi o dispositivi tridimensionali (scaffolds)[5][6] progettati per supportare la rigenerazione, con la specifica funzione di veicolare molecole segnale (fattori di crescita) in grado di promuovere e facilitare i processi rigenerativi [7].

I materiali tipicamente utilizzati per la produzione di questi sistemi di rilascio sono i polimeri biodegradabili e biocompatibili, come l’acido polilattico (PLA), l’acido poliglicolico (PGA), il copolimero acido poli-(lattico-co-glicolico) (PLGA), il collagene e alcuni polisaccaridi come il chitosano. Tra questi, il PLGA, essendo uno dei più sicuri ed approvato dall’FDA, è il copolimero più utilizzato [8]. Ad esempio, per quanto riguarda lesioni a carico del midollo spinale, per evitare iniezioni ripetute, sono state iniettate nel sito interessato delle microsfere in PLGA caricate con neurotrofine [9] ovvero delle proteine che stimolano la sopravvivenza e lo sviluppo dei neuroni. Tale sistema, oltre ad evitare iniezioni ripetute, consente di proteggere la proteina dall’inattivazione chimica o enzimatica in vivo e, dunque, di prolungare l'attività terapeutica.

In tale scenario, il presente lavoro di tesi ha come obiettivo lo sviluppo di un sistema a rilascio controllato per la somministrazione di molecole che siano in grado di influenzare la senescenza cellulare e quindi, controllare processi come l’invecchiamento, il differenziamento e l’apoptosi nel tempo. Il sistema scelto, ben noto in letteratura, è quello microparticellare a base polimerica, in particolare a base di PLGA, ingegnerizzato opportunamente

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per l’incapsulamento di una specifica molecola. In particolare, in questo lavoro è stato scelto l’Acido Valproico (VPA). Tale scelta è motivata dalle evidenze sperimentali emerse da alcuni studi recenti, che hanno mostrato come l’acido valproico, commercializzato con il nome di Depakin® ed utilizzato come farmaco antiepilettico, possa influenzare in maniera significativa i processi di invecchiamento cellulare in vitro [10].

Le attività sperimentali alla base del presente elaborato si sono sviluppate in due fasi principali. La prima fase ha riguardato l’ottimizzazione del processo di sintesi di microsfere in PLGA, ben noto in letteratura, e la sua customizzazione rispetto alla molecola scelta. In particolare, è stato dapprima utilizzato il metodo della doppia emulsione acqua-olio-acqua (“water-oil-water”, W/O/W), al fine di effettuare degli studi preliminari su molecole modello, quali il colorante Comassie Brillant Blue R 250 (CBB) e la proteina Albumina Sierica Bovina (BSA), e successivamente il metodo della singola emulsione olio-acqua (“oil-water”, O/W), specifico per l’incapsulamento di molecole idrofobe, quali il VPA. La seconda fase ha riguardato la validazione del processo e, dunque, del sistema di delivery e la caratterizzazione dei materiali/device prodotti mediante studio della morfologia superficiale, valutazione della distribuzione dei diametri, studio dell’efficacia di incapsulamento e della cinetica di rilascio.

Il lavoro di tesi svolto si incentra, dunque, sullo studio e sullo sviluppo a livello ingegneristico di un protocollo per la sintesi di microsfere di PLGA ottimizzate specificatamente per avere la massima efficienza di incapsulamento di VPA, modulando sia la tecnica che la procedura di sintesi. I risultati ottenuti, sebbene preliminari, sembrano fornire spunti interessanti nel contesto dello sviluppo di sistemi di delivery innovativi e per l’individuazione di molecole in grado di influenzare i processi di senescenza cellulare.

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2. STATO DELL’ARTE

2.1. La Medicina Rigenerativa

La medicina rigenerativa è una scienza multidisciplinare che applica i principi e i metodi dell’ingegneria e delle scienze della vita per comprendere a fondo la relazione che esiste tra struttura e funzione in tessuti in stato fisiologico o patologico al fine di sviluppare delle strategie che possano ripristinare, mantenere o migliorare una determinata funzione tissutale.

La mimesi delle condizioni fisiologiche di un tessuto o di un intero organo è un requisito fondamentale da raggiungere per rispondere positivamente ad una situazione patologica o traumatica ed avere il completo ripristino della funzionalità. La mimesi delle condizioni fisiologiche prevede

in primis lo sviluppo di strutture che siano in grado di sostenere lo sviluppo

dei tessuti sia in vivo che in vitro: gli scaffold [11]. Lo scopo principale dell’ingegneria tissutale è infatti la realizzazione di sostituti (scaffold) che al meglio mimino la struttura della matrice extracellulare nativa al fine di una completa rigenerazione tessutale [12] [13] così da ridurre o eliminare il bisogno di autograft o di donatori di organi [14]. La complessità di realizzazione risiede non soltanto nella scelta del biomateriale opportuno ma anche nell’ottenimento di una configurazione spaziale coerente a quella del tessuto vivo per cui esistono diverse tecniche sperimentali e numerosissimi protocolli [15]. Variando i parametri di processo nell’ambito di una stessa tecnica, si possono realizzare impalcature con caratteristiche morfo-funzionali molto diverse [16].

2.2. Dispositivi a rilascio controllato (DDS)

Con il termine di Drug Delivery Systems (DDS) si indicano i sistemi terapeutici progettati e sviluppati per rilasciare il principio attivo nella

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concentrazione e nel tempo necessario ad ottimizzarne l’azione terapeutica, nonché essere sito-specifici.Le motivazioni alla base del crescente interesse per questi sistemi sono legate alla necessità di trovare soluzioni alternative rispetto alle convenzionali terapie impiegate nel trattamento di diverse patologie.

La ricerca, per superare i limiti dei farmaci convenzionali, ha cercato di ottenere “farmaci intelligenti” aventi specifiche caratteristiche: mantenere il farmaco in azione nel corpo ad una certa concentrazione, minimizzando gli effetti collaterali collegati alla cinetica di rilascio; posizionare il principio attivo come sistema a rilascio controllato attiguo o prossimo al target; infine, realizzare carrier che devono rendere possibile la veicolazione di farmaci, anche di quelli poco solubili e instabili, direttamente al sito target (cellula/tessuto) [17].

Un concetto innovativo nella progettazione di questi dispositivi è il

drug targeting, suggerito da Paul Ehrilch nel 1908 con la teoria del “magic bullet” ovvero farmaci in grado di accumularsi nell'organo o nel tessuto bersaglio selettivamente e quantitativamente, indipendentemente dal sito e dai metodi della sua somministrazione, e capace di agire su cellule malate senza danneggiare altre parti del corpo [18].

I DDS modulano la farmacocinetica e la sito-specificità attraverso l’utilizzo di sistemi micro/nano-particellari a base polimerica, di sistemi vescicolari (liposomi), a base fosfolipidica (micelle), di polimeri dendritici multifunzionali.

Tra i materiali attualmente più utilizzati per realizzare i DDS, vi sono diversi polimeri sintetici biocompatibili, quali l'acido polilattico (PLA), l’acido poli lattico-co-glicolico (PLGA) e il polietilenglicole (PEG), molecole costituite da semplici monomeri naturalmente presenti nel corpo e quindi facilmente escreti senza essere tossici.

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2.3. Cenni storici dei DDS

I sistemi di drug delivery (DDS) sono piuttosto recenti. Inizialmente, i DDS furono concepiti con l’obiettivo di prolungare il rilascio di un farmaco nel tempo in modo tale da migliorare la compliance dei pazienti. Più recentemente sono state sviluppate nuove tecnologie in grado di risolvere alcuni dei più seri problemi della farmacoterapia.

I DDS ebbero la loro origine nel 1952, quando apparve la prima forma orale a rilascio sostenuto di farmaco, la capsula Spansule®, sviluppata dai laboratori Smith Kline & French. Ogni capsula conteneva centinaia di micropellet che erano rivestiti con una cera idrosolubile, PEO o Poli-(EtileneOssido), a diversi spessori per fornire un rilascio lento [19].

Durante la prima generazione dei DDS (1950-1980), il successo commerciale di Spansule® spinse verso la produzione di sistemi innovativi sia dal punto di vista della tecnologia sviluppata che dal punto di vista delle formulazioni cliniche introdotte. Negli anni’60 nacque anche il primo sistema per il rilascio controllato in vivo. Infatti, Judah Folkman brevettò un dispositivo a rilascio costante di farmaco, costituito da tubi sigillati di Silastic® (gomma siliconata) contenenti all’interno il principio attivo [20].

Zoladex® Depot (1989), fu il primo impianto realizzato per erogare il principio attivo per uno o tre mesi [19].

2.4. Proprietà dei DDS

I sistemi di rilascio, progettati per poter essere utilizzati a contatto con l’organismo, devono rispondere ad una serie di requisiti che lo rendano adatto ad interfacciarsi con il sistema biologico, per un tempo prolungato, minimizzando inoltre le eventuali reazioni avverse da parte dell'organismo [21].

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progressiva e spontanea degradazione del polimero in seguito a specifiche azioni da parte dell'organismo [22], consentendo così al materiale di essere facilmente assorbito (riassorbibile) in maniera controllata [23]. Il polimero verrà sostituito dal tessuto che lo ospita in modo da evitare il ricorso alla chirurgia per la sua rimozione, con conseguente diminuzione del disagio per il paziente [24].

Il materiale deve presentare bassi livelli di citotossicità poiché i prodotti della degradazione non devono provocare danni a carico dei distretti con i quali sono venuti a contatto ed essere in grado di essere metabolizzati ed espulsi dall'organismo.

Inoltre, i dispositivi che entrano in contatto con il sangue non devono subire rigetto, cioè devono essere emocompatibili. Chimicamente si possono definire inerti in ambiente biologico, in quanto hanno una combinazione adeguata di proprietà fisiche uguali a quelle del tessuto sostituito[25].

Sebbene per i primi sistemi riassorbibili a rilascio controllato si siano utilizzati polimeri di origine naturale e semi-sintetica, i polimeri sintetici si sono dimostrati col tempo molto più adatti a questo tipo di applicazioni poiché, essendo di produzione non naturale, è possibile esercitare un maggior controllo sul loro profilo di degradazione e sulle loro funzionalità [26].

2.4.1. Confronto tra farmaci convenzionali e DDS

Dopo aver identificato le alterazioni cellulari e biochimiche causate dalla patologia, l’obiettivo principale è sintetizzare molecole in grado di trattare in modo specifico le disfunzionalità.

Le molecole sintetizzate vengono manipolate al fine di ottimizzare la selettività, l’affinità, la sicurezza e la capacità di raggiungere il sito d’azione attraverso diverse vie di somministrazioni ovvero parenterale, orale, cutanea e topica. Questi sistemi convenzionali soffrono di limitazioni

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cinetiche, ovvero non vi è una sincronia tra il tempo richiesto affinché la concentrazione del principio attivo raggiunga il valore soglia utile ai fini terapeutici ed il profilo di rilascio del farmaco che segue meccanismi diffusionali.

Le limitazioni molto spesso possono essere collegate alla progettazione stessa del farmaco. Durante lo sviluppo, infatti, ci si potrebbe imbattere in situazioni in cui si ha una scarsa solubilità correlata ad inconvenienti fisici del principio attivo; oppure, in cui si osserva un’insufficiente stabilità in vitro, determinata dalla reattività chimica delle molecole che potrebbero risultare sensibili alla degradazione soprattutto quando sono in soluzione [27].

Ogni farmaco ha un determinato intervallo di concentrazione entro il quale è farmacologicamente attivo per esercitare l’attività terapeutica e, tuttavia, la sua biodistribuzione può essere influenzata da numerosi fattori che intervengono nel meccanismo di risposta, come il tipo di formulazione, l’età del paziente, il peso, l’assetto genetico, la presenza di altre patologie e le somministrazioni ripetute del farmaco.

La forma farmaceutica è un fattore che influenza molto il grado di assorbimento e l’assunzione di tipo orale è probabilmente la via che più risente di queste variabili. Nel caso di formulazioni solide (pillola, confetto, capsula), è necessario prevedere un tempo necessario affinché il principio attivo venga liberato e sia reso disponibile all’assorbimento [28].

Ipotizzando di avere tre formulazioni diverse dello stesso principio attivo, caratterizzato dalla stessa dose e somministrato tramite la stessa via è evidente come la forma farmaceutica può influenzare la velocità di assorbimento. L’andamento della concentrazione plasmatica del principio attivo, nel caso della curva A mostra il tipico comportamento delle compresse a rilascio immediato. In questo caso si osserva come il farmaco che viene assorbito più velocemente e che raggiunge, quindi, il picco di concentrazione più elevato, avrà l’effetto più intenso con il superamento della dose tossica. La curva B ipotizza somministrazioni ripetute di bioattivo che determina

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dosaggi non omogenei e nell’ultimo caso, ovvero C si osserva la somministrazione di una compressa a rilascio prolungato che presenta un

burst effect immediato del farmaco e una fase di eliminazione veloce ma che

per un certo intervallo di tempo mantiene una costante velocità. Gli ultimi due casi, comunque, proiettano le curve all’interno della finestra terapeutica.

Figura 1. Concentrazione plasmatica del principio attivo in base ai diversi tipi di

formulazioni.

Un altro fattore che influenza la biodistribuzione sono le somministrazioni ripetute del principio attivo che nel tempo mirano ad avere una concentrazione piuttosto stabile per tutto il periodo della terapia. Se le somministrazioni avvengono in tempi ristretti si avrà un andamento con dei picchi che man mano aumentano per il fatto che la quantità di farmaco che viene somministrato si somma a quella precedente. Quindi, si va incontro a delle concentrazioni tossiche che possono provocare il superamento dell’intervallo terapeutico con conseguente manifestazioni di effetti tossici dovuti ad un accumulo di farmaco nell’organismo (sovra-dosaggio). Viceversa, si possono manifestare picchi di concentrazione plasmatica di minimo in cui il farmaco non raggiunge la giusta concentrazione e non risulta, quindi, efficace (sotto-dosaggio) [29].

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Figura 2. Effetti di sovradossaggio e sottodosaggio osservati in seguito alla

somministrazione di dosi ripetute di farmaco.

Oltre alle formulazioni convenzionali (compresse, sciroppi, liquidi e solidi) esistono anche formulazioni non convenzionali, ovvero dispositivi avanzati che sono inquadrati nella “drug delivery”. Con queste formulazioni si cerca di indirizzare il farmaco o a particolari distretti o con particolari cinetiche di assorbimento. Ad esempio, i cerotti transdermici, costituiti da polimeri bioadesivi oppure i sistemi liposomiali, vescicole che contengono il farmaco, possono essere usati per la consegna mirata ad un organo, a un tessuto oppure ad un tipo cellulare specifico.

Questi sistemi, inoltre, con una determinata cinetica controllano il rilascio del farmaco con lo scopo di evitare somministrazioni ripetute, che possono determinare fluttuazioni di concentrazione, cercando di mantenere la concentrazione del farmaco all’interno della finestra terapeutica per lunghi periodi (grafico 3). Il rilascio graduale e costante del farmaco rende più semplici le modalità e i tempi di assunzioni, permettendo, quindi, di ridurre il numero di somministrazioni, che si traduce in una migliore accettabilità della

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terapia da parte del paziente [30].

Figura 3. Confronto differenza tra la curva della somministrazione a rilascio controllato e

quella relativa alla somministrazione ripetuta.

2.4.2. Materiali utilizzati

A partire dal 1970 l'approccio interdisciplinare tra scienze chimiche, biologiche e farmaceutiche ha portato all'introduzione di nuove applicazioni in campo medico dei polimeri. Da vari studi pregressi e dall’esperienza nel loro utilizzo nei DDS si è visto che quelli completamente sintetici sono molto più adatti poiché è possibile esercitare un maggior controllo sulle loro caratteristiche. Un polimero è una sostanza composta dalla ripetizione di unità, dette monomeri, tenute insieme da legami covalenti e la sua macrostruttura può presentarsi in forma di catena lineare, ramificata o reticolata. A seconda della composizione e disposizione dei monomeri nella catena si possono avere omopolimeri, cioè ripetizione della stessa unità per tutta la lunghezza della catena, o copolimeri ovvero la sequenza di due o più tipi di monomero in maniera più o meno disordinata.

La degradazione di tali materiali avviene principalmente per idrolisi: ad esempio, l’acido polilattico (PLA), l’acido poliglicolico (PGA) e il loro

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copolimero, l’acido poli(lattico-co-glicolico) (PLGA), si degradano per idrolisi e producono monomeri, quali acido lattico e acido glicolico, che vengono successivamente metabolizzati nei normali processi fisiologici del corpo umano data la loro naturale presenza nell’organismo [21] [31].

Figura 4. Classificazione dei polimeri.

L'acido poliglicolico (PGA), è stato il primo polimero biodegradabile sintetico utilizzato come sistema di drug delivery. La prima commercializzazione del PGA risale ai primi anni '70. Venne utilizzato come dispositivo di sutura ed ebbe un notevole successo nel campo della chirurgia per il vantaggio di non dover eseguire successive operazioni per la rimozione dei punti. Il PGA ha una bassa solubilità nei solventi organici, eccetto i

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solventi organici fluorurati, e il punto di fusione è molto alto (più di 200°C). Inoltre, perde la sua resistenza in 1-2 mesi ed è completamente riassorbito in 4-6 mesi. Presenta elevata cristallinità e per questo motivo possiede eccellenti proprietà meccaniche [32].

Figura 5. Formula di struttura dell’acido poliglicolico.

L'acido polilattico (PLA) deriva dall'acido lattico, di origine naturale e prodotto dalla fermentazione batterica di carboidrati. Il monomero è una molecola chirale che esiste sotto forma di due isomeri L e D, quindi il polimero risulta avere due forme: l’acido poli-L-lattico puro (PLLA) e l’acido poli-D-lattico puro (PDLA). Il PLA deriva quindi dalla polimerizzazione di una miscela di monomeri di tipo L e D. Inizialmente, venne commercializzato come sutura riassorbibile e, in seguito, viste le notevoli proprietà meccaniche fu impiegato per sviluppare diversi dispositivi protesici impiantabili [33]. Nel corpo il polimero si degrada attraverso il processo di idrolisi dei legami esteri e, quindi, non necessita di enzimi che lo catalizzino. Questa reazione, però, richiede da 1 a 5 anni. Un così lungo periodo per lo smaltimento è la principale causa delle reazioni infiammatorie all'interno del corpo. Inoltre, la lunga permanenza è dovuta alla presenza nella struttura del gruppo metilico che possiede un comportamento idrofobo e di conseguenza tende ad assorbire meno molecole d'acqua determinando il prolungarsi della degradazione [34].

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Figura 6. Formula di struttura dell’acido polilattico.

L’acido polilattico-co-glicolico (PLGA) è il prodotto della copolimerizzazione di due monomeri ovvero l’acido poliglicolico e l'acido poli-L-lattico. Tale polimero, essendo un blend tra due materiali, è caratterizzato da un esteso range di proprietà rispetto a quelle dei rispettivi omopolimeri. Il PLGA può essere prodotto in qualsiasi forma e dimensione ed inoltre è in grado di incapsulare molecole di ogni tipo. A seconda del rapporto molare dei monomeri utilizzati, possono essere ottenute diverse forme di PLGA. In aggiunta è stato dimostrato che il tempo richiesto per la degradazione è correlato al rapporto dei monomeri: infatti, si è visto che quando è maggiore il contenuto di unità glicolidiche, minore è il tempo necessario per la degradazione rispetto ai materiali che sono prevalentemente lattidi [35]. La possibilità di adattare il tempo di degradazione del polimero, alterando il rapporto dei monomeri, ha fatto del PLGA il miglior materiale per la produzione di una grande varietà di dispositivi biomedici, quali innesti, suture, impianti, dispositivi protesici, film sigillante chirurgico, micro e nanoparticelle [36].

Figura 7. Formula di struttura dell’acido polilattico-co-glicolico.

Un altro polimero degradabile molto utilizzato è il policaprolattone

(PCL). Questo materiale, a causa della presenza di legami esterei, si degrada attraverso il meccanismo di idrolisi simile a quello che avviene nel corpo umano [37]. In campo medico, Viene utilizzato in campo medico per la

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realizzazione di impianti di lunga durata [38].

Figura 8. Formula di struttura del policaprolattone.

Tra i polimeri naturali rivestono un ruolo rilavante i polisaccaridi come cellulosa, chitina e il suo derivato chitosano, collagene.

La cellulosa è un composto organico molto diffuso in natura e rappresenta il principale componente del tessuto fibroso delle pareti cellulari vegetali. Il polisaccaride è formato da una catena lineare di vari monomeri di β-glucosio, legati tra loro attraverso un legame β-1,4. Sono proprio questi legami a risultare inscindibili per gli enzimi digestivi umani. I materiali a base di cellulosa, oltre ad essere di facile fabbricazione, costituiscono una piattaforma a basso costo per l'ingegneria dei tessuti. Inoltre, il notevole potenziale è dovuto alle proprietà meccaniche [39], alla struttura e alla chimica della superficie [40], ed infine alle spiccate proprietà igroscopiche. Proprio per la grande ritenzione idrica e per l’elevata porosità ha trovato impego nella produzione di pelle artificiale e per la medicazione delle ferite [41].

Figura 9. La cellulosa costituita da un gran numero di molecole di glucosio unite tra loro da un legame β glicosidico.

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solo alla cellulosa. Il biomateriale rappresenta circa il 70% della componente organica dell'esoscheletro dei crostacei, degli insetti, della parete cellulare di funghi e dei batteri. Il polisaccaride è costituito da più unità di N-acetilglucosammina legate tra di loro con un legame di tipo β-1,4. Possedendo una notevole durezza, dovuta ai legami a idrogeno tra polimeri adiacenti, un’evidente flessibilità ed un’alta degradabilità, la chitina è diventata un ottimo materiale per la produzione di fili per suture chirurgiche, bende e anche per lo sviluppo di pelle sintetica. Recentemente è stato scoperto come la chitina sia in grado di accelerare la guarigione e ottimizzare i processi di cicatrizzazione delle ferite negli esseri umani [42].

Il chitosano è ottenuto tramite deacetilazione della chitina ed è un polisaccaride lineare composto da D-glucosamina e N-acetil-D-glucosamina. Il materiale possiede un’attività biologica intrinseca, infatti è stato studiato per l'azione ipocolesterolemizzante, per le proprietà curative di piaghe, di ferite e per le azioni di antiacido e antiulcera [43]. Inoltre, negli ultimi anni l'industria farmaceutica ha utilizzato il chitosano per sistemi mucoadesivi. Inoltre, diversi studi propongono l’uso di chitosano come eccipiente da utilizzare nelle formulazioni farmaceutiche, specialmente per la somministrazione del farmaco per inalazione. Infatti, risulta essere un polimero molto promettente per la creazione di nanoparticelle e microparticelle da utilizzare come vettori di principi attivi diretti ai polmoni [44].

Il collagene è la proteina più importante del corpo umano, infatti, è presente nella pelle, nei tendini, nei vasi sanguigni, nelle ossa, e nelle membrane cellulari. Nel campo dell’ingegneria dei tessuti trova largo impiego [45]. Le applicazioni più efficaci e stimolanti sono gli studi in oftalmologia [46], le dispersioni iniettabili per il trattamento del tumore locale, le spugne che trasportano antibiotici e i minipellets carichi di farmaci proteici [47].

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questi troviamo polianidridi e poliortoesteri. Le polianidridi, derivano da monomeri contenenti il gruppo funzionale CO-O-CO. Questi sono idroliticamente instabili e se sono alifatici si degradano nel giro di qualche giorno o qualche settimana, infatti, sono stati studiati come materiale importante per il rilascio a breve termine di farmaci o agenti bioattivi, mentre se sono aromatici i tempi si allungano fino a raggiungere molti mesi o addirittura anni [48]. Un altro gruppo di polimeri adatti alla realizzazione di matrici per trasporto di farmaci sono i poliortoesteri, una categoria di polimeri amorfi e idrofobi. Il meccanismo con cui degradano è attraverso l’erosione superficiale e tendono a diventare sottili senza sgretolarsi. Questo tipo di materiale non si è rivelato ideale per altri tipi di applicazioni a causa dell’elevata velocità di degradazione [49]. L’impiego di materiali come le polianidridi e i poliortoesteri come dispositivi riassorbibili per il rilascio di farmaci resta molto limitata a confronto con quelle relative a PLA, PGA e ai loro copolimeri.

2.4.3. Tecniche di realizzazione delle microparticelle

Le tecniche di microincapsulazione consistono nel rivestimento di piccolissime goccioline di liquidi, bollicine gassose o esigue quantità di solidi con una sottile pellicola, di solito costituita da polimeri naturali o sintetici, in modo da formare microparticelle. Il processo tecnologico prevede generalmente tre passaggi: il caricamento del farmaco, la formazione delle microparticelle e l’essiccamento. Le tecniche di preparazione utilizzate si differenziano a seconda della natura delle molecole da rivestire e del materiale scelto per il rivestimento, ed inoltre in base alle caratteristiche che le microsfere devono presentare [54].

Lo spray drying è un processo semplice, continuo ed economico che si basa sull’essiccamento a spruzzo. Nel sistema l’attivo viene disperso in una

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soluzione acquosa di polimero, successivamente l’emulsione così ottenuta viene spruzzata attraverso un ugello in una camera di essiccamento a flusso di aria calda. L’evaporazione del solvente organico volatile e dell’acqua contenuta nelle goccioline porta alla deposizione della matrice di farmaco[50]. Le particelle sono selezionate da filtri e raccolte sul fondo dello

spray-drier. Si ottiene in tal modo un prodotto finale costituito da sferette con

diametri di pochi micrometri (tra 1 e 50). Questa tecnica, a confronto con le altre, presenta dei vantaggi: grande disponibilità di attrezzature, la possibilità di impiegare un vasto numero di matrici, di avere una produzione su larga scala e di avere una buona efficienza. Gli svantaggi maggiori, invece, sono una produzione di particelle di dimensioni non uniformi e l’impossibilità di usare sostanze sensibili al calore o molto volatili [50] [51].

Figura 10. Schema spray-dryer.

La tecnica dello spray-cooling è molto simile a quella precedente ed è utilizzata per incapsulare sostanze idrofile come vitamine o minerali all’interno della matrice di natura idrofoba. Le microparticelle vengono prodotte mediante una nebulizzazione in un flusso di aria fredda.

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Diversamente dallo spray-drying, il procedimento non si basa sull’evaporizzazione dell’acqua ma sull’istantaneo raffreddamento del solvente che solidifica. Questo processo presenta tra i vantaggi una resa elevata e la possibilità di ottenere particelle dalla forma sferica e regolare [52]. L’estrusione è una tecnologia semplice ed economica che consiste nel caricare una siringa, alimentata attraverso un serbatoio, con una soluzione acquosa contenete il farmaco ed un polimero (sodio alginato) e nell’inserire tale siringa in una testa vibrante che interrompe il getto con una frequenza controllata in modo da ottenere delle goccioline di dimensioni uguali. Un elettrodo esterno permette la separazione delle goccioline. Queste a contatto con una soluzione di ioni di calcio in bagno di gelazione portano alla formazione di microsfere sferiche omogenee [53]

Figura 11. Metodo dell’estrusione.

Il fluid-bed coating è un processo particolarmente adatto a incapsulare particelle solide. Il processo separa le particelle mediante un getto d’aria e

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vengono mantenute in movimento dentro una camera. Nella zona inferiore è installato uno spruzzatore che nebulizza una formulazione di rivestimento (polimeri solubili, cere, idrocolloidi, ecc). Le particelle solide vengono rivestite e nel frattempo il solvente evapora rapidamente nella corrente di aria fluidizzante: ha così luogo la formazione delle microparticelle.

Figura 12. Nel fluid-bed coating le particelle attraversano il nebulizzatore, entrano nella

colonna ad alta velocità (1) che separa le particelle e le trasporta nella camera (2) a velocità più bassa dove il rivestimento asciuga. Poi le particelle transitano nella zona di deposito (3) per un tempo sufficiente a permettere loro di muoversi verso il fondo del recipiente dove sono nuovamente trascinate nel flusso di aria ad alta velocità ed il ciclo ricomincia.

La coacervazione è un procedimento utilizzato prevalentemente con polimeri idrofilici. È un procedimento chimico che induce la precipitazione del polimero sulla superficie di un farmaco sospeso mediante della temperatura o l’aggiunta di sali o solventi. Quindi, viene prodotta una soluzione formata da tre fasi immiscibili dove troviamo principio attivo, il materiale di rivestimento ed il solvente. Successivamente, sotto agitazione costante, il liquido di rivestimento si deposita intorno al farmaco e quest’ultimo strato viene solidificato termicamente o per evaporazione. Con

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questo metodo si ha una resa molto elevata (fino al 99%); di contro, è un metodo particolarmente dispendioso.

L’emulsione è una tecnica in grado di incapsulare il farmaco sfruttando la formazione di dispersioni in due solventi immiscibili tra loro. Tali fasi vengono agitate e contemporaneamente stabilizzate da un film interfacciale di tensioattivo o di polimero idrofilo il quale si dispone intorno alle goccioline disperse. L’eliminazione del solvente organico avviene per evaporazione o estrazione del soluto organico mentre l’emulsione viene mantenuta in continua agitazione permettendo così la formazione delle microsfere. Questo metodo oltre ad essere molto economico e semplice trova ampie possibilità di applicazione per composti sia idrofili che idrofobi [54].

Figura 13. Rappresentazione schematica delle diverse tipologie di emulsioni.

2.4.4. Classificazione dei DDS

Le molecole di un farmaco che raggiungono il sito d’azione sono generalmente poche rispetto alla dose che si somministra. Inoltre, spesso è necessario prolungare la terapia con ripetute somministrazioni, che porta ad ampie fluttuazioni periodiche dell’attività terapeutica ed alle manifestazioni di effetti tossici. Quindi, utilizzando diverse strategie si possono modulare le caratteristiche delle formulazioni farmacologiche in termini di tempi di

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rilascio in modo da ottenere la forma farmaceutica più efficace e meno dannosa. Inoltre, apportando delle modifiche sulla superficie della forma farmaceutica è inoltre possibile indirizzare il rilascio del farmaco in un particolare il sito corporeo (targeted drug delivery).

Il controllo del rilascio del principio attivo si può ottenere in termini di velocità con forme farmaceutiche a rilascio prolungato, quando si vuole ridurre la frequenza di somministrazioni, oppure a rilascio rapido quando si vuole un aumento della velocità di dissoluzione per farmaci poco solubili.In relazione al tempo, se si desidera che la liberazione del farmaco avvenga dopo un certo tempo, ovvero per ottenere un rilascio ritardato, è possibile modulare la dose o una parte di essa e far sì che venga rilasciata ad un tempo diverso da quello immediatamente successivo alla somministrazione (caso delle compresse gastroresistenti); oppure è possibile realizzare un effetto “pulsato”, ovvero rilascio ad intermittenza, (caso richiesto per la somministrazione di insulina).

La velocità di cessione del sistema può avvenire con una cinetica di ordine I° oppure di ordine 0.Nella maggior parte dei casi i farmaci seguono una cinetica di primo ordine dove la quantità del principio attivo assorbito nell’unità di tempo è una percentuale costante di quello che deve essere ancora rilasciato. Questi sono detti dose-dipendente poiché i parametri farmacocinetici variano al variare della dose. Nei processi di ordine zero la velocità è costante nel tempo ed indipendente dalla concentrazione e sono detti dose-indipendente poiché i parametri che li caratterizzano sono dovuti alle caratteristiche del farmaco che non variano al variare della dose [55].

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Figura 14. La concentrazione di un farmaco nel sangue varia in funzione del tempo nel

rilascio controllato di ordine zero, nel rilascio con cinetica di primo ordine, e nel rilascio di un farmaco convenzionale.

I sistemi polimerici a rilascio controllato possono essere classificati anche in base al meccanismo di rilascio del farmaco, ovvero:

 diffusione;

 penetrazione dell’acqua;  meccanismo chimico;  stimolo esterno.

Nelle forme a controllo diffusionale osserviamo un movimento determinato dalla presenza di un gradiente di concentrazione ovvero uno spostamento di molecole dalla zona a più alta concentrazione a quella a più bassa concentrazione attraverso i pori o le catene del polimero.

La velocità del rilascio è influenzata da diversi fattori come la permeabilità della membrana e la geometria del sistema. Nel primo caso influisce la matrice in cui si trova il soluto e quindi se la permeabilità è molto bassa il ritmo del rilascio sarà basso, invece, se è molto alta la liberazione sarà

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più veloce. Nel secondo caso esistono due tipi di sistemi diversi per forma che si basano entrambi sulla semplice diffusione. Si parla di microsfere monolitiche quando il farmaco è disperso omogeneamente nella matrice polimerica, in cui sia la concentrazione nella matrice che la distanza percorsa per uscire cambiano continuamente nel tempo. L’altro sistema denominato

reservoir è costituito da un nucleo centrale (core), dove è presente il farmaco,

circondato da una membrana. Il principio attivo può essere presente sotto forma di particelle solide sospese in un mezzo liquido oppure come soluzione concentrata in un mezzo disperdente solido o liquido. Questi due sistemi permettono per un certo tempo una velocità di rilascio del farmaco con una cinetica di ordine zero [56].

Microsfera monoliti Sistema reservoir

Figura 15. Dispositivi a geometria differente per la diffusione del farmaco.

Un fattore critico in queste forme farmaceutiche è il trasporto di molecole attraverso una membrana polimerica. Lo spostamento viene descritto dalla 1° Legge di Fick (J = - D dC/d) che definisce l’equazione del trasporto di massa ed è valida in condizioni stazionarie. Il flusso (J) è direttamente proporzionale al gradiente di concentrazione (dC/dX), ed ha un verso opposto ad esso, ovvero, se il gradiente di concentrazione aumenta in un verso, il flusso aumenta nell’altro. Inoltre, il segno negativo esprime proprio il movimento della corrente da una concentrazione più alta a una più bassa.Il coefficiente di diffusione (D) è inversamente proporzionale al raggio della particella ed alla viscosità del mezzo e direttamente proporzionale all’energia cinetica

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della particella. Tali sistemi danno all’equilibrio un rilascio costante seguendo una cinetica di ordine 0. Nella fase iniziale del rilascio, i DDS presentano uno stato non stazionario in cui si potrebbe avere un immediato rilascio (burst) [57] oppure un ritardo nel rilascio (lag time): entrambe sono messe in relazione all’instaurarsi del gradiente di concentrazione all’interno della membrana.

Figura 16. Il tratto iniziale della curva corrisponde allo stato non stazionario. Il tempo, che

si ottiene estrapolando sull’asse dei tempi la porzione lineare del grafico, è conosciuto come

lag time e corrisponde al tempo necessario per lo stabilirsi di un gradiente di concentrazione

costante all’interno della membrana.

Nel caso in cui il meccanismo di rilascio sia mediato dalla penetrazione dell’acqua, sono due i fattori che influenzano tale processo: lo swelling e l’osmosi. Il primo caso è costituito da una matrice idrofila polimerica contenente il farmaco che in assenza dell’acqua si presenta vetrosa, secca e rigida ma in presenza di questa si rigonfia subendo una transizione vetrosa – amorfa. Il solvente non è in grado di interagire immediatamente con l’intera matrice perché c’è un alto grado di organizzazione tra le catene e, quindi, penetrerà gradualmente nella matrice facendo avanzare un fronte di swelling che rappresenta il punto fino al quale il solvente è penetrato e che separa la zona già gelificata da quella vetrosa non ancora raggiunta dal solvente. Il farmaco inoltre dovrà diffondere attraverso il gel e nella parte appena

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gelificata sarà presente in concentrazione maggiore man mano a mano che ci si allontana verso l’esterno le molecole vanno in soluzione.

Figura 17. Rappresentazione di un DDS regolato dalla penetrazione dell’acqua.

Nel secondo caso il sistema di rilascio è regolato da pompe osmotiche. Questi sistemi hanno l’aspetto di una semplice compressa rivestita, ma in realtà sono costituiti da un nucleo contenente una soluzione satura di farmaco e sono circondati da una membrana semipermeabile caratterizzata dalla presenza di un foro che controlla l’ingresso dell’acqua. Quando la pompa è posta in ambiente acquoso, la differenza di concentrazione tra interno ed esterno determina un flusso di acqua verso l’interno.La pressione che si crea all’interno del sistema provoca la fuoriuscita del farmaco attraverso l’orifizio che nel frattempo si è disciolto. Il meccanismo determina una velocità a rilascio costante, dopo un iniziale lag time, finché la soluzione è satura, ma diminuisce esponenzialmente non appena questa diventa insatura. Quindi, si ha una cinetica di ordine zero come si può osservare dal grafico.

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31

(A) (B)

Figura 18. Rappresentazione schematica di una pompa osmotica (A) e della cinetica di

rilascio (B).

Il meccanismo di tipo chimico che è determinato dal tipo di polimero. Nel sistema monolithic eroding il rate di rilascio di ordine zero è determinato dalla velocità di erosione del materiale che può essere di bulk, ossia il sistema si spezzetta in frammenti più piccoli ed è regolato dall’idrolisi, oppure superficiale, determinato dal rilascio dell’area superficiale e dalla geometria del sistema. Il farmaco verrà rilasciato fino a quando la degradazione e il rigonfiamento del polimero non controlla più l’interazione chimica polimero-farmaco.

Figura 19. Tipico sistema monolitico in cui si osserva come il volume varia nel tempo.

Infine, il rilascio di un farmaco da un sistema di delivery può essere indotto attraverso uno stimolo di tipo fisico (ad ultrasuoni, meccanico, magnetico) oppure chimico/biochimico (pH, forza ionica, energia, temperatura). Un sistema regolato, ad esempio, dalla temperatura, determina

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un preciso ritmo, ovvero, se si aumenta lo stimolo esterno applicato il sistema “shrinka”, cioè si riduce, determinando l’apertura e il rilascio del principio. Un esempio può essere fornito dall’idrogel che viene regolato da un meccanismo di rigonfiamento/contrazione in base alla variazione dello stimolo esterno applicato. Ad esempio tale materiale esibisce un cambiamento dalla forma espansa a quella collassata in seguito all’applicazione di una variazione della temperatura, permettendo così il rilascio del farmaco. Quando si elimina questo stimolo il materiale ritorna allo stato iniziale, quindi è un meccanismo reversibile ed è utilizzato per dare un rilascio pulsato [58].

Figura 20. Variazione del sistema idrogel sottoposto a cambiamenti di temperatura.

2.5. Interazione cellula-microparticella

Nei sistemi particellari si definiscono microparticelle tutte quelle particelle il cui diametro sia compreso tra 1 e 1000 µm.

Per raggiungere il target sono necessarie strategie atte a superare varie barriere biologiche, dal livello del sistema, al livello dell'organo, a quello cellulare. Il comportamento biologico delle nanoparticelle è fondamentalmente diverso da quello delle microparticelle. Le nanoparticelle, grazie alla loro ridotta dimensione hanno un’elevata reattività chimica, dovuta all’aumentata superficie per unità di volume la capacità di attraversare le

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membrane cellulari e la barriera ematoencefalica.

Inoltre, è ben noto come molecole con un diametro di circa 5 nm vengano rapidamente eliminate dalla circolazione attraverso la clearance renale. Particelle di dimensioni maggiori invece vengono accumulate principalmente nel fegato, nella milza e nel midollo osseo [59].

I sistemi microparticellari vengono comunemente somministrati per via orale o topica, più raramente per via endovenosa. Durante la somministrazione endovenosa, le microparticelle entrando in contatto con il plasma, subiscono il processo di opsonizzazione. Il riconoscimento dei sistemi microparticellari da parte di specifiche proteine plasmatiche appartenenti al sistema del complemento definite “opsonine” fa sì che vengano riconosciuti come corpi estranei dal sistema immunitario e fagocitati dai macrofagi [60].

L'attivazione del complemento può ostacolare il delivery del farmaco in quanto può indurre reazioni di ipersensibilità. Per aggirare l'attivazione del sistema immunitario, sono state elaborate diverse strategie: rendere la superficie delle particelle più idrofila; neutralizzarne la carica superficiale; applicare il concetto di “ostacolo sterico” per evitare il deposito di proteine plasmatiche facendo assorbire sulla superficie un tensioattivo [61].

Le applicazioni che utilizzano sistemi microparticellari si basano sul targeting. le microparticelle vengono usate soprattutto per applicazioni topiche ed orali, poiché assicurano grandi capacità di carico pur mantenendo una bassa tossicità rispetto a forme di dosaggio convenzionali come ad esempio le compresse.

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Figura 21. Scala dimensionale: rappresentazione del mondo nano e micro.

2.6. Acido Valproico (VPA)

Il VPA ha un peso molecolare di 144,21 g/mol ed è un acido grasso ramificato ad 8 atomi di carbonio (Sigma-Aldrich). È poco solubile in acqua ma è solubile in acetone, cloroformio, idrossido di sodio. Il VPA è un farmaco che viene commercializzato in Italia col nome di Depakin®. Sintetizzato per la prima volta nel 1882, solo nel 1963 è stato scoperto il suo effetto terapeutico e da quel momento è stato utilizzato come agente anticonvulsivante ovvero per curare sia le diverse forme di epilessia generalizzata, sia le epilessie parziali [62]. Inoltre, viene utilizzato in alcuni disturbi dell’umore come disturbi maniacali e disturbo bipolare. Recentemente, il principio attivo è stato utilizzato per i trattamenti di malattie diverse dall'epilessia infatti è stato somministrato per gli episodi di emicrania e per il dolore neuropatico [63].

Non è ancora ben chiaro il meccanismo con cui agisce ma è in grado di sopprimere la depolarizzazione neuronale ripetitiva e di elevata frequenza che dà inizio a una crisi epilettica. Sembra che l’azione dipenda dalla diminuzione, a livello cerebrale, della degradazione dell’acido γ-amminobutirrico (GABA), aumentando il livello di tale neurotrasmettitore

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inibitorio. Il principio attivo raggiunge questo obiettivo modificando la conduttanza ovvero bloccando il canale Na⁺ voltaggio-dipendente [64]. Inoltre, si ritiene che c’è un ulteriore blocco dei meccanismi glutammatergici, agendo sui canali del calcio e del sodio. Poiché l'epilessia è una malattia con eziologie multiple, queste combinazioni di meccanismi spiegano l’efficacia clinica di questo farmaco [10].

Figura 22. Struttura chimica dell’acido 2-propilpentanoico (VPA).

2.7. VPA e Senescenza cellulare

Da alcuni anni si sono aperte nuove frontiere riguardo all'uso dell'acido valproico in diverse patologie. Il VPA è uninibitore delle istoni deacetilasi (HDAC), degli enzimi nucleari [65]. Le HDACs catalizzano la rimozione dei gruppi acetile, aggiunti dall’ istone acetiltrasferasi (HAT), dai residui di lisina nelle code amminoterminali degli istoni del nucleosoma.Questo processo che controlla la trascrizione determina un’alterazione della struttura terziaria, la quale porta ad una variazione dell’accessibilità dei fattori trascrizionali al DNA. Quando i nucleosomi sono compattati risulta difficile la trascrizione, ma nel momento che avviene l’acetilazione degli istoni si ha un rilassamento della struttura che permette una maggiore accessibilità ai fattori trascrizionali. Dati di letteratura indicano che mentre l'azione delle HATs è quella di attivare l'espressione genica, quella delle HDACs è di concluderla. Si deduce che

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bloccando le HDACs, si permette ad uno o più geni di continuare ad esprimersi. Le modifiche a queste proteine facilitano le risposte differenti nella cellula quali l'attivazione/inattivazione di trascrizione, del compattamento del cromosoma, del danno del DNA e della riparazione del DNA[66,67].

Figura 23. Variazione della struttura della cromatina in funzione dell’acetilazione. Si osserva

il rilassamento del DNA che permette così una maggiore accessibilità a fattori trascrizionali.

L'HDAC, studiato principalmente nel contesto del cancro, negli ultimi anni da recenti evidenze si è osservato che svolge ruoli critici nella senescenza cellulare ovvero è una risposta biologica che svolgefunzioni importanti legate al corretto sviluppo di alcuni organi ed è anche un meccanismo di protezione dalla proliferazione incontrollata delle cellule tumorali [68].

Le cellule hanno un numero finito di replicazioni e una capacità proliferativa limitata dopodiché raggiunto il limite entrano in uno stato di senescenza e poi di apoptosi.

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Figura 24. Schema riassuntivo del differenziamento di una cellula staminale che si

differenzia in cellule progenitrici orientate che a loro volta in maniera limitata si specializzano.

L’arresto irreversibile è caratterizzato da un’insensibilità ai fattori di crescita, dalla presenza di aggregati di cromatina, dall’attivazione della beta-galactosidasi (β-gal) e dalla produzione di un profilo secretorio caratteristico della senescenza (SASP)[69,70]. Quest’ultimo caso mostra che la senescenza non è un fenomeno che coinvolge solo la singola cellula senescente ma anche quelle vicinerilasciando continuamente vari segnali chimici.

L’unità biologica non è più in grado di proliferare in risposta a una varietà di stress cellulari che possono includere danni al DNA, stress ossidativo, attivazione o inattivazione di alcuni oncogeni, perdita di alcuni soppressori tumorali, modifiche epigenetiche e altri [71].

La senescenza cellulare sembra rappresentare uno dei principali marcatori di invecchiamento. Dagli studi si è visto che l’eliminazione di queste cellule o l’induzione di senescenza cellulare rappresentano strumenti preventivi e terapeutici per contrastare l’insorgenza di patologie collegate all’età.

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renali umane (ARPCs). Le staminali progenitrici sono cellule specializzate in un unico tipo e sono presenti in molti e, forse, in tutti gli organi dei mammiferi anche se il loro numero si riduce con il progredire dell’età. Lo scopo della ricerca quello di valutare una possibile modulazione della plasticità cellulare, migliorando o ripristinando la funzionalità dell’organo in diversi modelli di patologia renale.

Le ARPCs fisiologicamente tendono ad andare incontro a differenziamento e morte verso il 5-6° passaggio. Tale comportamento è stato verificato mediante la diminuzione del CD133, una glicoproteina transmembrana utilizzata come marcatore di staminalità e l’overespressione del gene della β-gal, un enzima idrolitico utilizzato come marcatore dell’invecchiamento cellulare. Studi precedenti al presente hanno dimostrato come l’aggiunta di VPA alla concentrazione di 1 mM nel mezzo di coltura sia in grado di inibire l’invecchiamento cellulare in quanto si verifica una diminuzione del gene della β-gal e un aumento dell’espressione del CD133.

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3. SCOPO DELLA TESI

L’obiettivo di questo progetto di tesi è la realizzazione di sistemi microparticellari per il rilascio controllato di farmaci in grado di controllare il processo di senescenza cellulare, ovvero in grado di influenzare il differenziamento, l’invecchiamento e l’apoptosi delle cellule in modo tale da conservarne il carattere di staminalità per tempi più o meno lunghi. In questo caso specifico, si è individuato ed ottimizzato il sistema delle microparticelle in PLGA, un sistema ben noto in letteratura. Come modello cellulare si sono usate cellule staminali renali. Il farmaco incapsulato è l’acido valproico (VPA), un acido carbossilico ramificato utilizzato generalmente per il trattamento dell’epilessia, del disturbo bipolare e come anticonvulsivante. Il principio attivo è stato scelto in base a studi precedenti effettuati in vitro dai quali emerge come questo acido sia in grado di rallentare la senescenza cellulare.

Il progetto di tesi è diviso in due parti. La prima fase del lavoro è incentrata sullo sviluppo e sull’ottimizzazione di sistemi microparticellari a base di polimeri biodegradabili come il PLGA, utilizzando la tecnica dell’emulsione. In particolare, è stato utilizzato il metodo della doppia emulsione acqua-olio-acqua (W/O/W) con l’obiettivo di effettuare studi preliminari con molecole modello come coloranti (Comassie Brilliant blue R 250, CBB) e proteine (Albumina Sierica Bovina, BSA). Il metodo della singola emulsione olio-acqua (O/W), una variazione della doppia emulsione adatto all’incapsulamento di molecole idrofobe, è stato utilizzato per la customizzazione del sistema microparticellare rispetto alla molecola scelta, il VPA.

La seconda parte del lavoro riguarda la validazione e la caratterizzazione dei sistemi di delivery sviluppati. Mediante lo studio della morfologia superficiale, della distribuzione dei diametri, dell’efficienza di

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incapsulamento e delle cinetiche di rilascio è stato possibile verificare la funzionalità di tali sistemi.

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4. MATERIALI E METODI

In questo capitolo sarà fatta una descrizione dettagliata dei materiali usati per il processo di sintesi e le tecniche di caratterizzazione utilizzate.

4.1. PLGA

L’acido poli(lattico-co-glicolico), acronimo PLGA, è il copolimero ottenuto dalla polimerizzazione per apertura d'anellodegli omodimeri ciclici dell’acido lattico e dell’acido glicolico. Materiale biocompatibile e biodegradabile, è stato approvato dalla FDA (Food and Drug Administration) per uso medico [16]. Mostra caratteristiche che lo rendono un ottimo prodotto per la realizzazione di DDS. Il biomateriale possiede una temperatura di transizione vetrosa compresa tra i 40 e i 60 °C e solubile nella maggior parte dei solventi organici. A seconda del rapporto di lattide per glicolide usato per la polimerizzazione il biomateriale avrà una la cristallinità che varierà da completamente amorfa a completamente cristallina. In particolare, il blend utilizzato ha un rapporto acido lattico: glicolico di 50:50 e un peso molecolare 30,000-60,000 kDa (Sigma-Aldrich). Al di sopra della sua temperatura di transizione vetrosa possiede un comportamento gommoso, invece, al di sotto di tale temperatura si presenta in uno stato vetroso.

Il copolimero degrada per idrolisi dei legami esterei in presenza di acqua e la velocità del meccanismo è correlato dal tipo e dal rapporto molare dei monomeri ovvero essendo l’acido polilattico più idrofobo dell’acido poliglicolico, se il contenuto fosse maggiore di unità glicolidiche rispetto ai lattidei allora maggiore è il tempo necessario per la degradazione. Nel corpo produce i monomeri acido lattico e acido glicolico che sono sottoprodotti di varie vie metaboliche del corpo, e per questo motivo presenta una bassa tossicità sistemica associata all'utilizzo per le applicazioni di DDS [35].

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acido lattico acido glicolico

Figura 26. Gli omodimeri che costituiscono il copolimero PLGA.

4.2. VPA

Il VPA ha un peso molecolare di 144,21 g/mol ed è un acido grasso ramificato ad 8 atomi di carbonio (Sigma-Aldrich). È poco solubile in acqua ma è solubile in acetone, cloroformio, idrossido di sodio.

4.3. Protocollo di sintesi delle microsfere

Nella preparazione dei DDS è fondamentale la scelta della tecnica per la sintesi e delle condizioni che devono permettere di preservare l’integrità del principio attivo e, di conseguenza, mantenere inalterata la sua attività biologica. Come anticipato dei precedenti paragrafi è stato dapprima utilizzato il metodo della doppia emulsione. A livello preliminare, con questo metodo sono state incapsulate due molecole modello: il CBB e la BSA.

Il CBB, acronimo per Coomassie Brilliant Blue, èun colorante blu a base di trifenilmetano.Esistono due tipi ovvero G-250 e R-250, e differiscono tra loro per l'aggiunta nel primo di due gruppi metile. Il CBB G-250, utilizzato in questo lavoro di tesi, è caratterizzato dall’avere un picco di assorbimento alla lunghezza d'onda di 470 nm, caratteristica intrinseca della molecola che è stata sfruttata per la quantificazione dell’incapsulato [72].

La BSA (bovine serum albumin) è una proteina solubile, monomerica e globulare che compone circa la metà delle proteine del siero totali. Tale

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proteina viene utilizzata come standard per costruire la retta di taratura per la quantificazione di proteine attraverso analisi colorimetriche [73].

I materiali utilizzati per ottenere microsfere con la tecnica della doppia emulsione sono: PLGA 50:50, PM 30,000-60,000 (Sigma-Aldrich cod. P2191), Diclorometano (Sigma-Aldrich cod. 24233), PVA o alcol polivinilico (Sigma-Aldrich cod. 81386), acqua distillata.

Sotto cappa a flusso laminare, sono stati sciolti mediante vortex 500 mg di PLGA in 5 ml diclorometano (DCM). Successivamente si aggiungono 500 µl fase acquosa (con CBB o BSA). Nel caso del CBB sono state solubilizzate nella fase acquosa 4 diverse quantità di colorante: 0,006, 0,060, 0,300 e 0,600 mg. Nel caso della BSA invece è stata testata utilizzata una sola quantità pari a 0.5 mg. La miscela ottenuta viene omogenizzata a 15000 rpm per 2 minuti e versata in 50 ml di una soluzione acquosa di PVA 0.5%. Dopo un ulteriore step di omogeneizzazione a 8000 rpm per 1 minuto, si lascia la sospensione in agitazione magnetico per 3 ore a 800 rpm per consentire l’evaporazione del solvente. Diverse velocità di rotazione dell’omogeneizzatore sono state utilizzate per migliorare il protocollo di sintesi.

Le microsfere vengono dunque sottoposte a lavaggi e racconta mediante centrifugazione a 4000 rpm per 5 minuti per tre volte. In ogni fase si elimina il surnatante, si risospendono le particelle in acqua distillata e ricentrifugano. Dopo il terzo e ultimo lavaggio, a seguito dell’eliminazione del sovranatante, il pellet viene liofilizzato. Dopo 24 ore le microsfere si presentano come una polvere bianca [74].

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Figura 27. Passaggi schematici del metodo della doppia emulsione.

Per la sintesi di microparticelle con il metodo a singola emulsione sono stati utilizzati due protocolli e sono stati utilizzati i seguenti materiali: PLGA (Sigma-Aldrich cod. P2191); acetato di etile (Sigma-Aldrich cod 270989); PVA (Sigma-Aldrich cod. 81386); DCM (Sigma-Aldrich); acqua distillata.

La sospensione di 200 mg di PLGA in 2 ml di acetato di etile viene lasciata in agitazione magnetica a temperatura ambiente per 30 minuti. In seguito, tale sospensione viene addizionata goccia a goccia soluzione acquosa di PVA (5% p/v).Dopo la completa aggiunta di PLGA-farmaco, la miscela viene sonicata al 50% di ampiezza per un minuto in modo da creare una fine emulsione. Questa miscela viene incorporata a 100 ml di una soluzione acquosa di PVA (0,3% p/v) e successivamente lasciata per 3 ore in agitazione magnetica ad 800 rpm [75].

Nel secondo metodo, sono stati disciolti 200 mg di PLGA in 5 ml di DCM. Tale fase organica è stata addizionata goccia a goccia a una soluzione di 20 ml di PVA 1% e, contemporaneamente, omogenizzata a 15000 rpm per

Fase acquosa (molecola) Fase oleosa (PLGA+ DCM)

Emulsione A/O Emulsione O/A

Evaporazione del solvente Fase acquosa (PVA

)

15000 rpm 8000 rpm Lavaggi

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6 minuti. Dopodiché, è stata effettuata una seconda omogeneizzazione per 7 minuti. L’emulsione, infine, viene lasciata per 15 ore in agitazione magnetica a 300 rpm.

Anche in questi casi le microsfere sono state sottoposte a tre cicli di lavaggi e recuperate per centrifugazione. Infine, le microsfere sono state liofilizzate ed appaiono come polveri bianche e molto fini.

Dopo aver confrontato la morfologia e la distribuzione dei diametri delle microsfere prodotte, è stata scelta una sola delle tue tecniche per la produzione di microsfere caricate con VPA. In particolare, tre diverse quantità 1, 10 e 20 mg di VPA liofilizzato sono state aggiunte nella fase organica, insieme al PLGA.

Figura 28. Sintesi di microparticelle con il metodo della singola.

4.4. Metodi di caratterizzazione

I parametri come la scelta del biomateriale, le dimensioni delle microsfere, la porosità, la forma, l’efficienza di incapsulamento e la cinetica di rilascio sono alcuni aspetti da valutare allo scopo di ottimizzare i DDS. Il controllo di tutti i criteri durante il processo produttivo è necessario al fine di

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avere il prodotto con tutte le caratteristiche richieste. Dopo avere realizzato il modello per i DDS seguendo convalidati protocolli, bisogna fare delle modifiche al progetto inziale in modo da migliorarne le caratteristiche e da avere maggiori abilità nel gestire i diversi parametri.

Nella realizzazione delle microsfere il ridurre le dimensioni del diametro all’incirca di 10 µm è una necessità in quanto lavorando su scala micrometrica è possibile una maggior penetrazione nelle colture cellulari. Per tale motivo è indispensabile un controllo minuzioso sul processo produttivo delle sfere per ottenere un prodotto ottimizzato.

Prima di esaminare la possibilità di produrre microsfere farmaco-PLGA, il processo è stato ottimizzato. Per prima cosa è stata studiata la tecnica selezionata, insieme all'analisi di alcuni parametri operativi del processo. In seguito, a partire da emulsioni singole e doppie, sono state prodotte con successo innanzitutto microparticelle di PLGA vuote (prive di farmaco). Poi, il CBB e la BSA sono stati scelti come composti modello da incapsulare nelle microsfere di PLGA e valutarne poi il rilascio in vitro.

È’ stata studiata l’influenza che la concentrazione della molecola incapsulata ha sul diametro delle microparticelle prodotte, mostrando che la formazione di queste, determina un massimo di incapsulamento oltre il quale non si può andare e la distribuzione dei diametri delle microsfere rimane alle dimensioni micrometrica richieste. È stato anche valutato, l'effetto del tipo formulazione dell’emulsione sulle caratteristiche delle microsfere, dimostrando che la scelta del metodo di incapsulamento e la composizione dell'emulsione hanno una notevole influenza sull'efficienza di incapsulamento del farmaco.

Le microsfere prodotte sono state caratterizzate mediante le seguenti tecniche analitiche.

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4.4.1. Analisi morfologica

La natura chimica del biomateriale influenza le proprietà superficiali delle microsfere. La topografia delle sfere interviene sui meccanismi di interazioni con le cellule regolando i fenomeni responsabili della risposta immunitaria dell’organismo. Pertanto, la scelta dei materiali risulta un aspetto di prioritaria importanza nella definizione delle proprietà microscopiche delle microparticelle.

Un parametro utilizzato per valutare le particelle prodotte è la forma. Il Microscopio Elettronico a Scansione (SEM, Zeiss EVO) è stato utilizzato per condurre l’indagine, grazie all’interazione tra un fascio di elettroni e il campione. Gli elettroni interagiscono con gli atomi nel campione, producendo diversi segnali che vengono rilevati permettendo di ottenere informazioni sulla morfologia superficiale e sulla composizione del materiale in esame.

La distribuzione delle dimensioni dei pori delle microparticelle è stata misurata utilizzando il software ImageJ [74].

4.4.2. Distribuzione dei diametri

Il diametro medio delle microsfere e la distribuzione dei diametri sono stati valutati attraverso l’utilizzo dello strumento di diffrazione (CILAS 1190L).

Per effettuare la misurazione, i campioni sono preparati in triplicato. Un quantitativo di circa 15 mg di microsfere liofilizzate di PLGA è stato disperso 5 ml di acqua distillata e sonicato per 20 minuti in ghiaccio.

La dimensione della particella media è stata espressa come diametro medio e la larghezza della distribuzione è stata descritta in termini di Span. L’indice di intervallo è stato calcolato come segue:

(48)

48

Dove D90, D50 e D10 sonorispettivamente i diametri per i quali il 90%, il 50%

e il 10% delle particelle sono al di sotto di ciascun valore. I valori dell'indice di intervallo devono essere inferiori a due e sono indicativi di distribuzione ridotta delle dimensioni delle particelle [74].

4.4.3. Efficienza di incapsulamento

La quantità della molecola di interesse incapsulata all’interno della matrice polimerica è stata valutata mediante una estrazione con acetonitrile. Successivamente per quantificare il dosaggio totale effettivamente caricato durante la sintesi sono stati utilizzati metodi spettrofotometrici.

Circa 20 mg di microsfere liofilizzate sono state aggiunte a 1 ml di acetonitrile, un solvente organico in grado di dissolvere le microsfere. Successivamente le sospensioni sono state messe in ghiaccio e sonicate per 5 minuti, poi centrifugate per 2 minuti a 4000 rpm [76].

L’estratto viene, in seguito, dosato allo spettrofotometro sfruttando le proprietà della molecola nel caso del CBB, il saggio dell’acido bicinconinico (BCA) nel caso della BSA e il saggio dello Iodio nel caso del VPA. La concentrazione della molecola è stata calcolata costruendo una retta di taratura. Conoscendo la concentrazione della molecola e l’assorbanza relativa è stato possibile quantificare la molecola di interesse.

L’efficienza di incapsulamento E viene calcolata come:

100

teorica reale

m

m

E

dove mreale è la quantità (massa) di molecola effettivamente incapsulata e

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