UNIVERSITA’ DI PISA
Dipartimento di Giurisprudenza
Corso di laurea in Giurisprudenza
FEMMINICIDIO E REATI SENTINELLA
La Candidata
La Relatrice
Samantha Castrogiovanni Chiar.ma Prof.ssa Emma Venafro
iii
iv
SOMMARIO
Introduzione...1
CAPITOLO PRIMO
IL
RAPPORTO
MALATO
TRA
VITTIMA
E
CARNEFICE...5
1.1 IL RAPPORTO PERVERSO...7
1.1.1 L' Aggressore...11
1.1.2 La Vittima...14
1.2 PERCHÉ UNA DONNA ABUSATA NON RIESCE A
FUGGIRE?...18
CAPITOLO SECONDO
“FEMMINICIDIO”: SEMPLICE OMICIDIO O QUALCOSA
DI PIÙ?...31
2.1 Le Origini. Dal FEMICIDIO al FEMMINICIDIO……..35
2.2 Il Femminicidio : UN PRIMO INQUADRAMENTO
CRIMINOLOGICO...40
2.3 LA TUTELA DELLE DONNE NEL CODICE
PENALE...
50
v
2.3.1 OMICIDIO...50
2.3.1.1 L’ omicidio di identità...56
2.3.2 VIOLENZA SESSUALE... 59
2.3.2.1 Circostanze...76
2.3.2.2 Procedibilità...,,...79
2.3.2.3 Pene e Tutele Accessorie...82
2.3.3 MALTRATTAMENTI IN FAMIGLIA...,...86
2.3.3.1 Convenzione di Lanzarote e
Maltrattamenti in famiglia...90
2.3.4 LA SINDROME DELLE MOLESTIE ASSILLANTI.
LO STALKING...94
2.3.4.1 D.L 11/2009
«Misure urgenti in materia sicurezza
pubblica e di contrasto alla violenza
sessuale nonché in tema di atti
persecutori. »...104
2.3.4.2 Il Concorso di reati...111
2.3.4.3 Circostanze aggravanti...118
2.3.4.4 Procedibilità...124
2.3.4.5 Misure cautelari e
Altre misure anti-violenza...127
2.3.4.6 Procedura di ammonimento...134
2.3.4.7 La rete di tutela e il numero verde...139
2.3.5 MOBBING E MOLESTIE...141
1.3.3.1 Mobbing e tutele in ambito
Civilistico...144
1.3.3.2 Mobbing e tutele in ambito
Penalistico...153
vi
CAPITOLO TERZO
IL FEMMINICIDIO COME EMERGENZA
NORMATIVA...174
3.1 STRATEGIE ADOTTATE A LIVELLO EUROPEO...174
3.1.1 Programma Daphne...177
3.1.2 Programma
«Diritti, Uguaglianza e
Cittadinanza.»... 180
3.1.3 O.P.E...185
3.1.4 Direttiva 2012/29/UE
«Norme Minime in
materia di diritti, assistenza e protezione delle
vittime di reato. »...187
3.1.5 Organismi...193
3.2 STRATEGIE INTERNAZIONALI...199
3.2.1 CEDAW...204
3.2.2 Dichiarazione sull' eliminazione della violenza
contro le donne...207
3.2.3 Convenzione di Istanbul...212
3.3 PROSPETTIVE DI CODIFICAZIONE : IL FEMICIDIO E
IL FEMMINICIDIO COME NUOVE CATEGORIE DI
REATO?...218
vii
CAPITOLO QUARTO
LA PERCEZIONE ITALIANA DEL FENOMENO. MISURE
DI CONTRASTO...225
4.1 D.L . 14 AGOSTO 2013, N. 93
«DISPOSIZIONI URGENTI IN MATERIA DI SICUREZZA E
PER IL CONTRASTO DELLA VIOLENZA DI GENERE,
NONCHÉ IN TEMA DI PROTEZIONE CIVILE E DI
COMMISSARIAMENTO DELLE PROVINCE
»...228
4.1.1 Modifiche al codice penale...231
4.1.2 Modifiche al codice di procedura penale...239
4.1.3 Misura Di Prevenzione Per Condotte
Di violenza domestica... 253
4.1.4 Tutela per gli stranieri vittime di violenza
Domestica...255
4.1.5 Piano d'azione straordinario contro la violenza
Sessuale e di genere...257
4.1.6 Centri anti-violenza e case rifugio...260
4.2 RECENTI SVILUPPI.
D.D.L. ORFANI CRIMINI DOMESTICI...262
4.3 C.A.M. ...271
CONCLUSIONI...273
BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE...282
1
2
INTRODUZIONE
Come incipit della mia tesi trovo necessario in primo luogo fare una
breve ricognizione delle ragioni per le quali ho deciso di avvicinarmi ad una
tematica così impegnativa, come quella dell’ ormai dilagante fenomeno ,
meglio conosciuto anche col nome di : “ FEMMINICIDIO ”.
Le motivazioni che mi hanno spinto ad affrontare con così tanta
passione questo argomento risultano essere principalmente due: la
prima, è il fascino che ho sempre provato per lo studio di quella che è la
psicologia criminale e dei moventi che spingono l’ essere umano a
compiere crimini così efferati; la seconda, è invece la volontà (che mi ha spinto poi anche a scegliere la facoltà di giurisprudenza) di realizzare, nel
mio piccolo, qualcosa di concreto per la realtà sociale in cui viviamo.
Nonostante gli innumerevoli passi avanti compiuti in questi ultimi
anni, le risposte statali su questa tematica, risultano essere, secondo un
mio modesto parere, ancora ad oggi, tardive ed, in molti casi, inadeguate.
I casi di femminicidio che i media ci presentano, sono spesso soltanto la
“punta di un iceberg”, l’ epilogo nefasto di anni e anni di stalking, mobbing,
violenze perpetrate in famiglia. Queste violenze, potrebbero, e
dovrebbero, essere fermate prima; ecco perché, credo sia necessario
intervenire in una maniera più concreta, mirata ed incisiva. L’ obbiettivo della mia tesi sarà quello di cercare, attraverso lo studio della
3
psiche criminale e quello comportamentale della vittima, le possibili falle
presenti nel sistema; prospettando, laddove possibile e nella più assoluta
modestia, soluzioni nuove, maggiormente rispondenti alle troppe grida
4
5
CAPITOLO PRIMO
IL RAPPORTO MALATO TRA VITTIMA E CARNEFICE.
« Lui disse a lei
“ Spegni la tivù non ne posso più”
,“ No, non la spengo” rispose lei “Son fisime le tue” E lui. Le spense tutte e due. » 1
“Quattordici coltellate alla moglie: non accettava la separazione”,
“Uccide la moglie incita; vestiva all' occidentale”, queste e tante altre
testate giornalistiche sono solo la rappresentazione della punta di un
iceberg sommerso. Quando parliamo di femminicidio pensiamo quasi
sempre alla violenza fisica, alle percosse, alla morte. La violenza tuttavia
non è solo un trauma di tipo fisico che implica sempre e comunque dolore
corporeo; è anche soprattutto una capacità distruttiva che invalida le
funzioni psichiche e relazionali di un individuo.
« Può essere il coniuge che ci denigra in pubblico o si serve dei figli per
ricattarci; può essere il capoufficio che ci affida incarichi avvilenti e non ci fornisce dati che pure ci servirebbero; in ogni caso stiamo subendo un'
1 S. BENNI, Delitto in un interno familiare. L'amore primo o poi arriva ,Milano, Feltrinelli, 1992, p. 14
6
aggressione, o meglio una molestia morale. Una violenza che non si manifesta sul piano fisico ma si esercita attraverso sottintesi, allusioni, sgarbi che si ripetono fino a diventare ossessivi. Una violenza che gli altri non scorgono, nemmeno se proviamo a mostrargliela: perché è sotterranea, e chi ci aggredisce sa sedurre, persuadere- e siamo noi a passare per deboli o paranoici. »2
La violenza morale è una violenza che trova le proprie fondamenta in
un rapporto malato tra vittima ed aggressore. Marie-France Hirigoyen,
psichiatra, psicanalista e psicoterapeuta familiare, nonché esperta in
vittimologia, ci dà una descrizione dettagliata del fenomeno nel suo libro: “Molestie Morali”. La Hirigoyen, in quest'opera, analizza il rapporto
perverso che si ingenera tra i due soggetti, descrivendocelo come un
rapporto bi-fasico; cercheremo in questa sede di analizzarlo in breve.
2 M.F. HIRIGOYEN, Molestie Morali. La violenza perversa nella famiglia e nel lavoro, Einaudi, 2000
7
1.1 IL RAPPORTO PERVERSO
Nel primo periodo della relazione, ridenominato anche come fase del
“décervelage” (decervellaggio) o fase della seduzione perversa, l' aggressore mira a destabilizzare la propria vittima con l' obbiettivo
principale di esercitare un ascendente su di essa, ed infine, soggiogarla. I
passaggi di questo primo stadio, sono passaggi inconsci; chi viene
manipolato non si rende conto di cosa gli stia succedendo attorno, ed è
convinto di agire, pensare e decidere nella piena facoltà delle proprie
azioni. A poco a poco la vittima, senza accorgersene, viene in realtà
privata della propria identità, divenendo in questo modo una sorta di
vero e proprio alter-ego del proprio adulteratore. Il soggetto debole,
paralizzato, non è più in grado di pensare autonomamente, decidere, o
avere senso critico, è completamente soggiogato dalla persona
dell' altro che invece è apparentemente sicura, decisa, irremovibile. Il
nostro aggressore, che la Hirigoyen ci definisce come narcisista
perverso 3 ; è un soggetto astuto, che non si compromette; utilizza
allusioni, sottintesi dice ma non dice così che non sia possibile percepire
dall' esterno quando l' aggressione sia cominciata e se ci sia mai stata
3 Il narcisista perverso, nella descrizione della Hirigoyen, è simile ad un vampiro che prosciuga le energie delle proprie prede fino a dominarne completamente la psiche. Questa patologia è una risposta al senso d’inadeguatezza che deriva da un’immagine di se non corrispondente ai canoni imposti dalla società. I dubbi circa la propria identità del narcisista perverso, la sua mancanza di autostima, lo conducono a comportamenti compensatori megalomani.
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veramente. Le metodologie usate dall’ aggressore in questa fase, sono
delle più varie:
COMUNICAZIONE PERVERSA : Il non detto è veicolo di angoscia. La
vittima è destabilizzata, cerca approvazione, ha paura di sbagliare. “Che
cosa ho fatto di sbagliato?”. L' aggressore non parla, si limita a gesta di
disapprovazione: un sospiro o un alzata di spalle sono sufficienti per
mandare in crisi l' altro.
TRAVISAZIONE DEL LINGUAGGIO: il perverso utilizza messaggi imprecisi,
volutamente confusi: frecciatine, allusioni non evidenti. Vuole essere
frainteso. Il tono è il più delle volte freddo, distaccato, saccente. Vuole
dare l' impressione di sapere anche se dice sciocchezze. L' interlocutore è
disorientato.
MENZOGNE: Il detto non detto ingenera malintesi, che l' aggressore usa
a suo vantaggio. “Hai capito male”, “Non dicevo a te”. La vittima appare
agli occhi degli altri come pazza.
SARCASMO, DERISIONE, DISPREZZO: L' individuo debole viene
ridicolizzato, denigrato; preferibilmente in pubblico. L' aggressore sfrutta
la presenza di altre persone per trovare approvazione e cela la propria
aggressività con una finta ironia.
UTILIZZO DEL PARADOSSO: L' utilizzo di messaggi paradossali consente
di far vacillare l' altro. Creare un divario tra parole dette e tono di voce
utilizzato, mettere in dubbio fatti della vita quotidiana: sono tutte azioni
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SQUALIFICAZIONE
DIVISIONE: il piacere del perverso consta proprio nel creare discordia tra
chi gli sta attorno. Lasciare che un individuo distrugga l' altro sazia la sua
fame di onnipotenza.
IMPOSIZIONE DEL POTERE: Il perverso detiene la verità, da impressione
di sapere, dà lezioni di probità così da imporre all' altro il proprio volere.
A questo punto del rapporto l' intreccio si sviluppa sempre secondo
uno stesso schema: la vittima, manipolata, si accorge in qualche modo del
suo status ed inizia a reagire; per questo deve essere annientata.
Entriamo nella cosiddetta fase della “violenza perversa”.
La Hirigoyen ci spiega:
« Dapprima è non-amore camuffato da desiderio, non per la persona in sé, ma per quello che ha in più di cui il perverso vorrebbe appropiarsi, poi odio nascosto che nasce dalla frustrazione di non ottenere dall'altro quanto si vorrebbe. Quando l' odio si esprime apertamente si accompagna al desiderio di distruggere, di annientare.»4
La violenza diventa azione, e raramente si tratta di violenza fisica;
parliamo piuttosto di una violenza subdola, fredda, fatta di ingiurie,
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sottintesi, aggressioni apparentemente insignificanti ma continue. Il
perverso provoca volutamente la propria vittima davanti a terzi; agli occhi
di un osservatore estraneo le reazioni spropositate di quest' ultima
saranno percepite come patologiche, ed in un attimo i ruoli verranno ad
invertirsi: il carnefice è la vittima e la vittima, carnefice. Proiettare tutto il
male su qualcun altro consente al narciso perverso di essere migliore nella
propria vita; si tratta di una difesa, attacca per non essere attaccato. A
questo punto la vittima è “alle strette”, si trova paralizzata: se reagisce
cade nella trappola della provocazione, se non reagisce sarà costretta per
11
1.1.1 L' AGGRESSORE
La figura dell'aggressore tratteggiataci dalla Hirigoyen è quella di un narcisista perverso. Il Narciso, dal Narciso di Ovidio, è un individuo privo
di consistenza, che cerca se stesso guardandosi allo specchio. Così è
il nostro aggressore: scelta la sua preda, come una sorta di vampiro, tenta
di appropiarsene, bramando di trovare in essa se stesso; quando tuttavia non riesce nel suo intento, ciò che gli rimane da fare, è distruggere il
prossimo, cosicché non ci possa essere vita neppure in lui. Il termine perverso, che deriva dal verbo latino “pervertere” da cui : “sconvolgere,
mettere sottosopra, rivoltare”, denota proprio il passaggio che porta l'
aggressore a distogliersi dal proprio vuoto, proiettandolo sulla vittima. Lo
sfruttamento dell'altro, e la sua conseguente distruzione, avvengono in
totale assenza di sensi di colpa da parte dell' aggressore. Stiamo
trattando infatti di individui privi di empatia, di sensibilità; persone fredde
la cui forza sta proprio nel fatto che nulla potrà scalfirli. Il narciso perverso
è in primo luogo un soggetto megalomane: si mostra come un detentore
di verità, dà sempre una buona immagine di se, mette in luce le debolezze
altrui per negare le proprie, solo gli altri sono sbagliati, deboli, cattivi. Il
narciso non può, e non deve, essere colto in fallo; è sempre giusto,
perfetto, deve trionfare sull' altro, sentirsi superiore. Un eventuale rifiuto
o un fallimento nella vita, non possono essere accettati; sortiscono in lui
un senso di rivalsa e di rabbia tali da non dargli pace. Da qui la
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questione è generalmente dotata di qualità di cui l' aggressore defice;
parliamo di qualità morali, difficili da sottrarre, come: la gioia di vivere, la
sensibilità, la capacità comunicazionale. Vedere l' altro realizzarsi nella vita
è fonte di angoscia, di invidia. L'aggressore tenta perciò di “nutrirsi” delle
energie altrui per rigenerarsi, ma non riuscendoci, si espone alla presa di
coscienza del proprio fallimento. Non gli resta a questo punto, per
colmare il proprio vuoto, che distruggere l' oggetto del suo desiderio,
oramai irraggiungibile: lo umilia, lo avvilisce, gli trasmette il suo
pessimismo. I perversi fanno così, amano smorzare ogni entusiasmo
attorno a loro, addossando al prossimo ogni difficoltà ed ogni loro
fallimento. L' altro è il male: gettare la colpa su di lui consente
all' aggressore di scagionarsi e di sentirsi migliore. Un soggetto perverso
non e' mai responsabile di ciò che gli accade, questo perchè, nella sua
percezione delirante della realtà, è lui stesso vittima e, non, carnefice.
Aggredisce per non essere aggredito.
Quando possiamo affermare di trovarci di fronte ad un potenziale
aggressore?!
Quando abbiamo a che fare con una persona intensamente dipendente
dalle relazioni intime e timorosa di essere abbandonata, ma incapace di
mantenere relazioni a causa della rabbia repressa e dell’impulsività caratteriale. Gli uomini che possiedono uno stile relazionale violento, a
volte anche al di fuori della famiglia, tendono a comunicare tramite
l’aggressione verbale o quella fisica. Tali pattern comportamentali sono
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• trasmissione intergenerazionale di violenza (nel caso in cui siano stati
testimoni di violenze nella famiglia di origine, oppure abbiano subito
punizioni fisiche da bambini);
• concezioni tradizionali sui ruoli nel matrimonio, in cui l’uomo debba
avere un ruolo dominante;
• abuso di alcool e/o sostanze
• isolamento sociale;
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1.1.2 LA VITTIMA
La vittima è un vero e proprio capro espiatorio; non rappresenta
nessuno in particolare per il proprio aggressore; viene scelta
esclusivamente perché è li, e ad un certo punto inizia a dare fastidio. Le
prede ideali sono generalmente le persone più coscienziose, quelle
propense ad auto-colpevolizzarsi, che si dedicano al prossimo e che sono
disposte a sobbarcarsi una mole di lavoro superiore alla media. Parliamo
per lo più di individui con poca fiducia in se stessi, che hanno bisogno di
compiacere gli altri per sentirsi appagati; persone che si mettono in
mostra, che fanno trasparire un' immagine perfetta di se, un’immagine
felice, vitale. Quest' eccessiva esposizione della propria persona, sortisce
invidia e gelosia nell' altro, che da luogo ad un vero e proprio circolo
vizioso: la vittima, infatti, che ha bisogno di dare per essere accettata,
viene scelta dal suo aggressore, che invece ha bisogno di prendere, di
nutrirsi del prossimo, per colmare il proprio vuoto. Non sussiste
connubio migliore: l' uno è alle dipendenze dell' altro. Il partner, voglioso
di dare, si assume a questo punto l' incarico disperato di donare al proprio
compagno perverso la vitalità di cui è privo, fa di questo la sua missione;
pensa sempre : “con me cambierà”. Niente affatto. L' aggressore,
prendendo di mira i punti deboli del suo interlocutore, punta ad annientarlo con piccoli colpi e gesta quotidiane destabilizzanti; lo
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percepisce, minimizza, si auto-colpevolizza: “E' colpa mia se non è
contento”, “ E' colpa mia se è aggressivo”; ed è proprio questo che
finisce per paralizzarla. Gli individui disposti ad aiutare il prossimo non
rinunciano davanti ad un fallimento, non possono immaginare che non ci
sia margine di miglioramento nell’ altro individuo, lo giustificano e non lo
abbandonano, perché se ne sentirebbero responsabili.5
Tali tipi di molestie, sia che avvengano in ambito familiare, che in quello lavorativo, hanno la peculiarità di rimanere sotterranee per lunghi
periodi di tempo. La vittima, troppo fiduciosa, rifiuta il più delle volte gli
aiuti esterni che la mettono in guardia dalle continue, e palesi, mancanze
di rispetto subite. La presa di coscienza, in questi casi, è frutto di un lungo
lavoro psicologico, al termine del quale, lo choc emozionale risulta essere
fortissimo. Alcuni descrivono di aver provato una sensazione molto simile
all' aggressione fisica.
Davanti ad una minaccia chiara, generalmente, chi subisce abusi, o
si lascia andare, abbandonandosi definitivamente alla dominazione,
oppure, decide di lottare. Chi è stato soggetto, per anni, a pedissequi condizionamenti, spesso trova troppa difficoltà nel reagire. In tali ipotesi,
la soluzione adottata dalla vittima è generalmente quella di rifugiarsi in
farmaci, ansiolitici o sostanze stupefacenti al fine di trovare quella forza
necessaria per continuare a sopportare lo stato di asservimento
16
impostogli. Chi invece trova il coraggio di liberarsi dalla morsa del proprio
aggressore, è consapevole che dovrà affrontare un lungo periodo all'
insegna del dolore e dei sensi di colpa. La fase di separazione vede infatti
il realizzarsi di un vero e proprio capovolgimento di ruoli. Il soggetto che
pone in essere gli abusi, sentendosi abbandonato, si atteggia a
danneggiato della situazione e da luogo ad un nuovo ciclo di violenze: “Te
ne vai?! Ti ricatto.”. Chi aggredisce è consapevole della cedevolezza della
vittima, che, bramante di concludere un rapporto ormai divenuto per lei
insostenibile, è disposta a qualsiasi tipo di concessione. Inizia qui una fase
intensa di ricatti che hanno l' obbiettivo specifico di rendere impossibile la
vita al soggetto che tenta di divincolarsi. Le pressioni esercitate possono
essere delle più varie: nella coppia generalmente vengono usati i figli o
i beni materiali; mentre nell' ambito professionale si innesca quasi un vero
e proprio processo che generalmente ha ad oggetto piccoli errori,
dimenticanze, cavilli. Al termine di questo incubo, anche quando la vittima
riesce finalmente a liberarsi del proprio aggressore; non sempre gli effetti
drammatici scaturenti da quell' intero periodo di vita trascorso nell'
oppressione tendono a sparire. Sebbene alcuni individui, infatti, riescano
a cavarsela senza apparenti conseguenze psichiche, molti sperimentano
invece episodi di reminescenza delle aggressioni e delle umiliazioni subite
che possono estrinsecarsi poi in: ansia generalizza, affaticamento cronico, disturbi psicosomatici nonché dipendenza comportamentale da alcool o
sostanze tossiche. Con il tempo, l' esperienza vissuta non si dimentica, ma
17
mondo, e delle persone, possono costituire senza dubbio un aiuto
18
1.2 PERCHE' UNA DONNA ABUSATA
NON RIESCE A FUGGIRE?
Leonore E. Walker, psicologa newyorkese, fondatrice del “Domestic
Violence Institute”, fu una delle più appassionate studiose in materia di
violenze perpetrate tra le mura domestiche. Negli anni settanta la psicologa statunitense elaborò un' importante teoria criminologica, che
venne considerata, da molti, come un fondamentale passo avanti nello studio della violenza interpersonale: il Cycle of Abuse, o, in italiano, la
Spirale della Violenza.6 Si trattava di una teoria fortemente innovativa, che aveva come obbiettivo precipuo quello di focalizzare i modelli
comportamentali propri di una relazione abusiva. Secondo quanto
osservato attraverso numerosi studi della Walker, la manifestazione della
violenza non avveniva infatti in maniera casuale, ma tendeva a presentarsi
in fasi cicliche, che potevano ripetersi ad intervalli variabili nel corso del
tempo; ogni fase non aveva una durata fissa, ed il livello di violenza,
aumentava, e, si intensificava, col trascorrere del tempo. L'aggressore
doveva aver appreso la violenza da terzi, durante l'infanzia o
l'adolescenza, e la andava ad estrinsecare poi da adulto, continuando
secondo una logica di rivalsa e di rivincita. La violenza domestica, peraltro,
alla stessa stregua di altre forme di violenza, risulta essere fortemente
6 S. Ruffini, Maltrattamento domestico: perchè le donne non denunciano il partner violento? www. altalex.com, Pubblicato il 05/10/2010
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correlata al concetto di potere; il suo fine ultimo, non è semplicemente
quello di provocare dolore o sofferenza fisica, ma, piuttosto, quello di
sottomettere, piegare, annichilire la compagna. Il primo episodio violento
viene a collocarsi generalmente nella fase della gravidanza o subito dopo
il parto; l'uomo, temendo di essere messo da parte dalla donna, vede il
nascituro come una minaccia, un' intrusione. Da qui l' alternarsi di 3 fasi
molto simili a quelle già descritteci dalla Hirigoyen :
- La prima fase del rapporto è una FASE DI TENSIONE: la violenza non
si manifesta qui in modo diretto, ma trapela da comportamenti non
verbali dell' uomo: mimiche, silenzi ostili, occhiate aggressive, un timbro
della voce irritato. Tutto quello che fa la compagna diventa fastidioso. La
vittima avverte la tensione salire dagli atteggiamenti del partner quindi
per difesa si blocca, si sforza di essere gentile, di calmare la situazione per
diminuire il livello di pressione. Esattamente come ci descriveva la
Hirigoyen la vittima rinuncia ai suoi desideri cercando di accontentare il
compagno in tutto e per tutto. Durante questa fase di accumulo della
tensione l'uomo tende a rendere la donna responsabile delle proprie
frustrazioni e dello stress accumulato. Naturalmente i motivi che accampa
sono solo dei pretesti, eppure la donna si sente responsabile.
- Da qui sorge una FASE DI VIOLENZA ESPRESSA: l'uomo perde il
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inizia per gradi: spintoni, schiaffi, pugni. E' un vero e proprio scoppio di
violenza che rappresenta un sollievo per l' aggressore, una sorta di scarica
data dall'accumulo di energia negativa. La donna non reagisce.
- Segue una FASE DI RICONCILIAZIONE, detta anche fase della “luna
di miele”. Si tratta di una fase delicata in cui l'uomo intimorito dalla
possibilità di perdere la propria compagna diventa estremamente
affettuoso, premuroso, attento ed innamorato. L' uomo arriva persino a
soccorrere la donna per il disagio emotivo e fisico arrecatole, provocando
in questo modo un aumento della dipendenza emotiva e dell' affetto che
quest ultima prova nei suoi riguardi. Detta fase tuttavia risulta essere di breve durata poiché qualche piccolo screzio è sufficiente a dare subito
inizio ad una nuova fase di tensione.
Ad ogni nuovo ciclo di abusi, la situazione chiaramente peggiora, e
mentre le fasi di riconciliazione tendono a diminuire, quelle di violenza
espressa diventano sempre più brutali ed assidue, tanto che spesso
l' epilogo per la malcapitata risulta essere dei più nefasti: la morte. La
domanda che sorge a tutti spontanea a questo punto è : “Perché non fuggire prima?”
Una risposta alla nostra domanda fu individuata proprio da Leonore
Walker che cercò di evidenziare, tramite i suoi studi, quali meccanismi
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trova a vivere una condizione abusiva all' interno del proprio rapporto di
coppia. La psicologa statunitense introdusse per l' occasione la : BWS.
➢ BWS ( BATTERED WOMAN SYNDROME) O SINDROME DELLA
DONNA PICCHIATA (1980)
La BWS traeva le proprie origini oltre che dalla teoria appena citata,
ovvero dalla “Spirale della Violenza”, anche da un' ulteriore, famosa,
teoria: la “Learned Helplessness” o teoria dell' “Impotenza appresa”
elaborata dall' illustre psicologo Martin Seligman. Seligman7, attraverso i
suoi studi sulla depressione, ebbe modo di osservare sul campo, tramite
la somministrazione periodica di scosse elettriche ad animali che vivevano
in cattività, come questi ultimi sviluppassero un comportamento apatico
e passivo alla loro condizione di assoggettamento; comportamento che
era per altro in qualche modo assimilabile a quello tipico del “disturbo
depressivo”. L' organismo, esposto a periodici stimoli avversi, sembrava
apprendere il proprio status di impotenza, e cessava in questo modo di
7 Negli anni ’60-‘70 Martin Seligman, famoso ricercatore in campo psicologico, condusse una serie di esperimenti aventi ad oggetto cani che venivano collocati in gabbie le quali presentavano stimoli di tipo diverso . Nel primo tipo di gabbia, l’intera superficie del pavimento era elettrificata, e lo sperimentatore provocava uno shock elettrico pochi secondi dopo il suono di un campanello; in questa ipotesi il cane subiva una scossa indipendentemente dalla sua posizione nella gabbia. Nel secondo tipo, invece, la gabbia presentava una zona non elettrificata, nella quale i cani si sarebbero dovuti rifugiare al suono del campanello. Seligman (1975) teorizzò che l’iniziale esperienza dei cani di incontrollabilità dello shock nella prima gabbia avesse sviluppato in loro un atteggiamento passivo, rassegnato ed impotente rispetto alla situazione e che pertanto questa era la ragione per la quale una volta collocati nella seconda gabbia non erano in grado di porsi in salvo e raggiungere la zona non elettrificata.
22
reagire. Secondo quanto analizzato dalla Walker, una donna, esposta
periodicamente ad abusi in una relazione intima, finiva per provare un
senso di annientamento molto simile a quello appena descritto,
trovandosi in questo modo paralizzata.
A tale teoria ovviamente non mancarono veementi critiche: come
si poteva pensare che una donna impotente ed annichilita riuscisse, in
alcuni casi, a trovare le forze per uccidere il proprio aggressore?! Per anni, la teoria della Walker fu utilizzata nei tribunali penali quale estensione del
concetto di legittima difesa con l' obbiettivo precipuo di scagionare tutte
quelle donne, che, incapaci di liberarsi dalla prigionia vissuta, si erano
trasformate in veri e propri aguzzini dei loro carnefici. Proprio per tali
ragioniA alcuni autori, tra cui Gondolf e Fisher esclusero che l' impotenza
appresa fosse causa sufficiente ad impedire ad una donna l' abbandono di
un partner violento, ed elaborarono così una nuova teoria : la Teoria della
donna Sopravvissuta.
➢ LA TEORIA DELLA DONNA SOPRAVVISSUTA (1988)
Il vero nocciolo della questione secondo i due autori, non constava soltanto in una percezione psicologica di impossibilità alla fuga, ma bensì
23
effettivamente in grado di superare. La donna non trovava la forza di
fuggire da una relazione abusiva per quattro ragioni fondamentali:
• Mancanza di alternative alla situazione
•Mancanza o carenza di informazioni su come affrontare la situazione in
maniera sicura
• Mancanza di risorse finanziarie
•Un contesto sociale ed istituzionale carente e male organizzato, nonché
spesso indifferente a tali condizioni
Da qui la rappresentazione di una figura femminile più attiva rispetto
a quella descrittaci dalla Walker, una figura in cerca di aiuto, che tuttavia
fallisce, a causa di una rete istituzionale fortemente sovraccaricata e dalle risorse limitate. Accanto a queste due teorie iniziali se ne svilupparono
chiaramente altre con l' obbiettivo precipuo di trovare una risposta più
completa a questo quesito rimasto ancora in sospeso. Trovo interessante
citare a proposito la Teoria del Disturbo Post Traumatico da Stress.
➢ TEORIA DEL DISTURBO POST-TRAUMATICO DA STRESS (2001)
Sebbene il DSM-IV8 (2000) non riconoscesse la “Sindrome della donna
8 DSM-IV (sigla dell’ingl. DIAGNOSTIC AND STATISTICAL MANUAL OF MENTAL DISORDERS) Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali che consiste in una classificazione delle malattie psichiatriche basata sulla sintomatologia; la classificazione è nosografica (prescinde dalle caratteristiche personali del paziente), ateoretica (non tiene conto di teorie o scuole psichiatriche), e i sintomi sono raggruppati con criteri statistici, cioè in base alla loro frequenza nelle patologie.
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picchiata” come disturbo mentale, alcuni esperti si convinsero che essa
potesse rappresentare una particolare tipologia di Disturbo
Post-Traumatico da Stress. I criteri diagnostici che consentono di individuare la
presenza di un Disturbo Post-Traumatico da Stress sono :
• L' esposizione ad un evento traumatico, che può essere:
- Minaccia di morte o aggressione diretta
- Minaccia dell' integrità fisica propria o altrui
• La triade sintomatologica:
- Intrusioni : pensiero ossessivo rivolto al trauma, incubi notturni,
flashback, fantasie diurne
- Evitamento: adozione di strategie emotive volte a ridurre al minimo
l' esposizione al rischio di ulteriori traumi, dissociazione, amnesia sino al
psychic numbing o intorpidimento psichico che consta in una sostanziale
difficoltà ad avere rapporti relazionali a causa di un' assenza emozionale
in merito. Attenuazione della reattività generale
- Hyperarousal : iperattivazione psicofisiologica, ipervigilanza, stress continuo, tensione, paura
L' evento traumatico che dava origine ad un DPTS (Disturbo Post
Traumatico da Stress) doveva essere un evento al di fuori
dell'esperienza comune, si pensi ai rapimenti, alle torture, alle guerre, alle calamità naturali. La “Sindrome della donna picchiata” non poteva essere
inclusa nella diagnosi del DPTS perché, sulla base dell' esperienza
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sufficientemente traumatico. I criteri di definizione del disturbo furono
tuttavia poi successivamente rivisitati nel DSM-IV, ove venne definito,
quale evento traumatico, ogni tipo di esperienza considerata come
notevolmente dolorosa dalla maggior parte delle persone. A questo
punto una lettura accurata dei sintomi del DPTS e dei criteri diagnostici
fece emergere interessanti assonanze con la teoria classica della Walker
al punto tale che fu possibile inquadrare “La Sindrome della donna
picchiata” tre le particolari tipologie del Disturbo Post traumatico da
Stress. Entrambe le teorie richiedevano infatti come requisito primario la
sottoposizione della vittima ad un evento traumatico; che nella teoria
della Walker veniva individuato proprio nell' esposizione al cosiddetto
“ciclo della violenza”. Inoltre, come altro punto di coincidenza tra le due
teorie, sussisteva l' approccio apatico, depresso e remissivo che
l' individuo sembrava assumere a seguito dell' avvenuta esposizione al
predetto evento traumatico. Una donna picchiata poteva in concreto
soffrire di un disturbo Post Traumatico da Stress. Ciò che tuttavia la Teoria
della DPTS presentava di veramente innovativo era quello di includere,
nell' analisi comportamentale della vittima, anche variabili individuali
come, ad esempio, il modo personale di rispondere al trauma, cosa che
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➢ TEORIA DELLA DISSONANZA COGNITIVA E LA SINDROME DI
STOCCOLMA (2002)
Da ultimo è utile analizzare l' applicazione da parte di J. Carver della
teoria della dissonanza cognitiva (Festinger, 1957) alle relazioni violente
come ennesimo tentativo adoperato per spiegare il perchè le donne non
trovino la forza di lasciare il proprio aggressore. Carver individuava nella
relazione “disfunzionale” le dinamiche proprie della cosiddetta “Sindrome di Stoccolma”. 9 Con questo termine, nato nell’ambito
criminologico, si intende denotare lo stato di dipendenza psicologica e
affettiva che si va ad ingenerare in alcuni casi nelle vittime di sequestro, o
nelle vittime di altri crimini. Il soggetto affetto dalla Sindrome di
Stoccolma, durante i maltrattamenti subiti, prova un sentimento positivo
nei confronti del proprio aggressore che talora può spingersi persino
all'amore e alla totale e volontaria sottomissione. Similmente a quanto
appena affermato, nell’ambito della violenza di coppia subentrano nella
donna convinzioni quali “tutto sommato è un buon padre”, oppure “non
posso lasciarlo nelle mie condizioni economiche”, “cambierà”. Le voci
esterne di aiuto, degli amici e della famiglia, molto spesso vengono
percepite come intrusive e per questo non vengono ascoltate le ragioni ci
vengono spiegate proprio dalla teoria della “Dissonanza cognitiva”.
Festinger affermava che allorquando un individuo viene posto davanti ad
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informazioni e opinioni dissonanti rispetto alla percezione fatta propria
di un determinato contesto; quest' ultimo cerca di ridurre la dissonanza di
pensiero al minimo. Chi sente attaccare un individuo nel quale ripone
estrema fiducia cerca di confutare le posizioni altrui tramite giustificazioni
e pensieri solidificati ne tempo; un pensiero dissonante è doloroso ed
emotivamente debilitante, è più facile scansarlo che accettarlo. Peraltro
tanto più è elevato l’investimento di risorse (denaro, casa, lavoro, tempo,
sforzi etc.) in qualcosa o in qualcuno e tanto più forte sarà il bisogno dell'
individuo di giustificare la propria posizione. Le relazioni violente
producono quasi sempre un grande investimento di risorse da parte di
entrambi i partner:
Investimento emozionale Sentimenti, pianti, preoccupazioni spingono a
credere che una relazione valga la pena di essere vissuta.
Investimento sociale Le persone cercano di evitare il giudizio del
contesto sociale in cui vivono. Celano le mancanze del rapporto per
salvaguardare le apparenze.
Investimento familiare La presenza di figli incide necessariamente
sulle decisioni di coppia. Lasciarsi è molto più difficile.
Investimento economico In molti casi, il partner prevaricatore ingenera appositamente una situazione finanziaria complessa. Molte vittime non
trovano la forza di interrompere la relazione abusiva perché non hanno
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Investimento nello stile di vita Molti utilizzano i soldi o il tenore di vita
per mantenere il controllo, e la vittima in queste situazioni potrebbe non
voler rinunciare ai privilegi acquisiti.
Investimento nell’ intimità Alcune vittime possono aver sperimentato,
nell’ambito della relazione dannosa, una distruzione della loro autostima
emozionale e/o sessuale; può accadere che il partner minacci di “spargere
delle voci” o raccontare dettagli e segreti intimi della relazione.
Accettare che qualcosa non va è molto più dura quando si ha qualcosa
da perdere; e secondo la teoria di Carver la combinazione della “Sindrome
di Stoccolma” alla “Dissonanza Cognitiva” va a produrre nella vittima una
condizione mentale per la quale: non solo la relazione sentimentale
abusiva risulta accettabile, ma è anche l' unica soluzione possibile ai fini
della sopravvivenza. In tali casi più i parenti insistono nell’affermare la
sconvenienza relazionale, più la vittima sviluppa in merito una difesa
legata alla dissonanza cognitiva. Tutti gli individui, per vero, creano delle
strategie di adattamento ambiente; tuttavia più la situazione vissuta
risulta essere disfunzionale, più sarà disfunzionale la modalità di
adattamento adottata.
Per concludere potremmo affermare che sussistono alcuni fattori che
aumentano nella donna il rischio di divenire vittima di una relazione
violenta e sono per l' esattezza:
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• i modelli socio-educativi che affermano la funzione di cura “materna” a
scapito dei desideri e bisogni personali;
• le relazioni e i modelli relazionali disfunzionali nella famiglia di origine;
• le cure discontinue in età minore;
• la dipendenza da alcool o sostanze nelle figure parentali;
• l' impossibilità (nella famiglia d’origine) di esprimere una vasta gamma
di sentimenti;
• la censura nelle reazioni di differenziazione nella famiglia d’origine;
• la mancanza di contatto e fiducia con i genitori;
• il maltrattamento o l' abuso sessuale in età minore.
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CAPITOLO SECONDO
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CAPITOLO SECONDO
“FEMMINICIDIO”:
SEMPLICE OMICIDIO O QUALCOSA DI PIÙ?
Che ci piaccia o meno, la parola FEMMINICIDIO è entrata in questi
anni a far parte in maniera preponderante del nostro parlato quotidiano.
Intere testate di giornali vengono dedicate a questo, nuovo, dilagante fenomeno; ma, in concreto, di cosa si tratta, e soprattutto, quando è
nato?!
Quando parliamo di “femminicidio” ci troviamo di fronte ad un
neologismo la cui etimologia è rinvenibile da due lemmi latini, FEMINA e
CAEDERE, da cui appunto : uccisione di una donna. Prima che il termine
si diffondesse, nella lingua italiana, l’unica parola esistente col significato
di “uccisione di una donna” era UXORICIDIO. Ma uxoricidio, che deriva
dalla parola latina UXOR, alludeva solo all’uccisione di una donna in quanto
moglie, e non, all' uccisione di una donna in quanto donna.
La domanda che ci sorge spontanea, a questo punto, è: che bisogno
c’era di coniare un nuovo termine quando pur sempre di omicidi si
trattava?
Alcune criminologhe, nello studio degli omicidi volontari, poterono
verificare come gli omicidi perpetrati nei confronti delle donne, venissero
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persone conosciute dalla vittima e ad essa legate. A fronte di ciò si sentì il
bisogno di dare un nome a questa triste realtà. Queste morti annunciate,
per lungo tempo etichettate come i soliti delitti passionali, fattacci di
cronaca nera, liti di famiglia; trovavano finalmente un nome.
In Italia il termine “femminicidio” venne introdotto per la prima
volta nel 2001, trovando poi concreta diffusione esclusivamente nel
2008 grazie al fondamentale contributo dell' illustre giornalista e
parlamentare, Barbara Spinelli. Nel sul libro intitolato “Femminicidio. Dalla
denuncia sociale al riconoscimento giuridico internazionale”, la Spinelli
utilizzava questo nuovo vocabolo descrivendocelo cosi:
« E' una nuova categoria di analisi socio-criminologica delle discriminazioni
e delle violenze nei confronti delle donne per la loro appartenenza al genere femminile. »10
La definizione di femminicidio fu poi inserita in un vocabolario Italiano
nel 2009, il Devoto-Oli:
femminicidio (feminicidio), s. m.
1. Uccisione di donna o ragazza. 2. Qualsiasi forma di violenza esercitata
sistematicamente sulle donne in nome di una sovrastruttura ideologica di matrice patriarcale, allo scopo di perpetuare la subordinazione e di
10 B.SPINELLI,”Femminicidio. Dalla denuncia sociale al riconoscimento giuridico internazionale”, , Milano, Franco Angeli 2008.
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annientare l'identità attraverso l'assoggettamento fisico o psicologico, sino alla schiavitù o alla morte.
Il termine fu inserito nell'anno successivo anche nello Zingarelli (2010):
femminicidio (feminicidio), s. m.
Uccisione o violenza compiuta nei confronti di una donna, spec. quando
il fatto di essere donna costituisce l'elemento scatenante dell'azione criminosa.
Nei Neologismi Treccani la voce fu poi riportata così:
femminicidio (feminicidio), s. m.
Uccisione diretta o provocata, eliminazione fisica o annientamento morale della donna e del suo ruolo sociale. Le donne non possono lavorare, andare a scuola, frequentare i bagni pubblici, lavare vestiti al fiume, camminare da sole, viaggiare se non accompagnate da un maschio adulto della loro famiglia, calzare sandali che emettano suoni, essere assistite da un medico durante il parto. Questi divieti si sono tradotti in un femminicidio prolungato, per fame o per infezioni, ma non sempre indiretto. (Guido Rampoldi, Repubblica, 7 ottobre 2001, p. 12, Politica estera). L'assassinio di due amanti non andrà classificato, evidentemente, nella categoria del feminicidio, oggi oggetto di studio nelle università americane. Certo, come il feminicidio e l'infanticidio colpiscono i più deboli, anche l'uccisione di due amanti colpisce due esseri umani nel momento in cui sono più esposti e
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quando si sentono più innocenti. (Carlo Bertelli, Corriere della sera, 21 luglio 2004, p. 31, Cultura). Un termine forte ma che rende l'idea: femminicidio è l'olocausto patito dalle donne che subiscono violenza: da Nord a Sud, per aggressioni domestiche o fuori di casa, per casi meno eclatanti o finendo all'ospedale quando non al cimitero per mano di famigliari, compagni, congiunti, per lo più. (Roberto Lodigiani, Stampa, 17 gennaio 2008, Novara, p. 65).
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2.1 LE ORIGINI.
DAL FEMICIDIO AL FEMMINICIDIO
La sociologa e criminologa femminista statunitense, Diana Russell
utilizzo per la prima volta il temine FEMICIDIO (dall' inglese femicide) nel
1992 nel suo libro “FEMICIDE: THE POLITICS OF WOMAN KILLING”
realizzato assieme a Jill Radford. con esso la Russell intese identificare
non l' uccisione di una donna in generale, ma l' uccisione di una “donna
in quanto donna”
« Il concetto di femicidio si estende aldila' della definizione giuridica di assassinio ed include quelle situazioni in cui la morte della donna rappresenta l'esito/la conseguenza di atteggiamenti o pratiche sociali misogine. » 11
L’ intenzione della studiosa statunitense fu proprio dunque quella
di dare finalmente un nome ad un fenomeno ben preciso, dallo sfondo sessista e misogino. Non stiamo parlando soltanto degli omicidi
commessi dal partner o ex partner, ma parliamo anche di tutte quelle
ragazze uccise dai padri perché sottrattesi al controllo ossessivo delle loro
vite o delle loro scelte sessuali, delle donne uccise dall’AIDS contratto da
partner sieropositivi che per anni hanno intrattenuto con loro rapporti
non protetti tacendo la propria sieropositività, delle prostitute contagiate
da AIDS o ammazzate dai clienti, di tutte quelle donne che negli anni sono
11 Jill Radford, Diana E. H. Russell, "Femicide: The Politics of Woman Killing", Twayne Publishers, Settembre 1992
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state tacciate di stregoneria e bruciate sul rogo. La colpa di queste donne
è quella di aver scelto l'autodeterminazione, di aver scelto qualcosa di
diverso per la loro vita da ciò che la società, la famiglia o semplicemente
il compagno gli aveva imposto. Sono soggetti da punire; e chi si incarica
di punirle, uccidendole, non è solo il padre, l' amante o l' uomo di turno,
ma è anche, e, soprattutto, una società connivente che silenziosamente
accetta e consente tali atrocità. Diana Russell sosteneva che:
« tutte le società patriarcali hanno usato – e continuano a usare- il femminicidio come forma di punizione e controllo sociale sulle donne. »
La teoria della criminologa statuinitense fu poi presto famosa in tutto
il mondo e divenne oggetto di studi soprattutto in relazione ai terribili fatti
accaduti, a partire dal 1993, a Ciudad Juarez, cittadina dello stato
Messicano del Chihuahua. In quegli anni, centinaia di donne, nel cercare
lavoro nelle “maquiladoras”12 , scomparivano nel nulla, per essere poi
ritrovate nel deserto, stuprate ed ammazzate. Nel 2004 Marcela Lagarde,
antropologa messicana, , appassionatasi all’ opera della Russel, utilizzò
per la prima volta il termine FEMMINICIDIO (dallo spagnolo feminicidio) al fine di focalizzare l' attenzione politica su quanto stava accadendo in
12 In messicano fabbriche. Le Maquiladoras sorgono ad un passo dal confine statunitense, un vero paradiso per le aziende straniere che possono disporre di manodopera a prezzi stracciati. Lì i lavoratori, in piedi dodici ore al giorno, producono senza pause, senza nessuna tutela della sicurezza, e con un sostanziale divieto di organizzazione sindacale (pena il licenziamento). Il tutto per una cinquantina di dollari la settimana, con la connivenza delle autorità. Nelle Export Processing Zones alle imprese viene consentito di eludere legalmente il fisco, di calpestare i diritti essenziali dei lavoratori e di devastare l'ambiente naturale senza alcun tipo di conseguenza.
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Messico. Il nuovo vocabolo doveva racchiudere un significato molto più
complesso che superasse la definizione ristretta di “femicidio” e si
focalizzasse soprattutto sugli aspetti sociologici della violenza e sulle
implicazioni politico-sociali del fenomeno. La Lagarde, connotando di
nuove sfaccettature il “femicidio” della Russell, andò ad inquadrare non
soltanto le uccisioni di genere, ma ogni forma di violenza e
discriminazione perpetrata contro le donne che fosse in grado di
menomarne lo stato e la libertà psico-fisica.
Lo definì per l’ esattezza come:
« La forma estrema di violenza di genere contro le donne, prodotto della violazione dei suoi diritti umani in ambito pubblico e privato, attraverso varie condotte misogine -maltrattamenti, violenza fisica, psicologica, sessuale, educativa, sul lavoro, economica, patrimoniale, familiare, comunitaria, istituzionale- che comportano l’impunità delle condotte poste in essere tanto a livello sociale quanto dallo stato e che, ponendo la donna in una posizione indifesa e di rischio, possono culminare con l’uccisione o il tentativo di uccisione della donna stessa, o in altre forme di morte violenta di donne e bambine: suicidi, incidenti, morti o sofferenze fisiche e psichiche comunque evitabili, dovute all’insicurezza, al disinteresse delle istituzioni e alla esclusione dallo sviluppo e dalla democrazia. il femminicidio si insinua nella disuguaglianza strutturale fra donne e uomini, che nella violenza di genere riproducono un meccanismo di oppressione delle donne. da queste condizioni strutturali sorgono
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altre condizioni culturali tali, come l'ambiente ideologico e sociale di maschilismo e misoginia, che normalizzano la violenza contro le donne. a queste condizioni culturali si sommano anche l'assenza legale, e le politiche democratiche con contenuti di genere del governo e degli organi di giustizia dello stato che producono l'impunità e che generano sempre più ingiustizie, così come le condizioni di insicurezza della vita, che mettono in pericolo la vita stessa e permettono l'insieme di atti violenti contro le bambine e le donne. contribuisce al femminicidio il silenzio sociale, la disattenzione, l'idea che ci sono problemi più importanti, la vergogna e la rabbia che non aiutano a migliorare le cose ma al contrario sminuiscono il fatto e si accingono a dimostrare che le morti non sono così innumerevoli o, si afferma anche, che non si tratta di femminicidio, ma solo di crimini contro le donne e le bambine. penso che sia giusto precisare che il femminicidio sussiste in condizioni di guerra e di pace.».
A differenza di quanto si possa ritenere, pertanto, il “femicidio” vero
e proprio inteso come la soppressione fisica della donna, non si configura
affatto come un evento isolato ed improvviso, ma costituisce l'ultimo atto
all'interno di un vero e proprio ciclo di violenze che spesso perdurano
negli anni e che le società il più delle volte consentono e avvallano.
Potremmo dunque tranquillamente affermare che questi termini sono in qualche modo la rappresentazione di veri e propri fatti culturali, l’
esito malato di tradizioni sociali radicatesi nel tempo che hanno
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androcentrico. Se pensiamo, infatti, al potere che da sempre è stato
esercitato sulle donne, risulta essere un potere culturale profondo, che
attraversa il tempo e lo spazio e si rappresenta in forme proprie nelle
diverse realtà sociali. Un potere che si è radicato nel sub-strato collettivo
al punto tale da condurre le donne stesse ad accettarlo e talora anche a
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2.2 IL FEMMINICIDIO: UN PRIMO INQUADRAMENTO
CRIMINOLOGICO
E’ in primo luogo necessario sottolineare come il fenomeno del
femminicidio, seppur diversamente condizionato dal variare nel tempo e nello spazio delle situazioni socio-economiche e culturali dei singoli paesi,
presenti caratteristiche comuni che ricorrono qualunque sia il contesto e
la realtà sociale in cui esso viene a manifestarsi. Predette caratteristiche
comuni sembrano rinvenirsi proprio nello sfondo misogino e sessista che
sta alla base di tali condotte criminose. Nell’ analisi dei vari reati, infatti, la
prospettiva di genere è emersa nel tempo a seguito dello stratificarsi nell’
immaginario collettivo di ruoli preconcetti attribuiti alla figura femminile;
ruoli dequalificanti e degradanti quali espressione di una “dominazione
sessuale di tipo patriarcale”13. La donna, intesa quasi come oggetto viene
subordinata all’ uomo, padre-padrone, che in quanto tale si sente in
diritto di violarla, disprezzarla, umiliarla e, da ultimo, persino assassinarla.
Ad oggi le realtà con cui ci dobbiamo confrontare sono delle più
varie; il caso di Ciudad Juarez non è rimasto purtroppo un caso isolato, e
la connivenza di alcuni governi ha contribuito a rendere della violenza
sulle donne un fenomeno quasi “naturale”. La presunta inferiorità fisica
ed intellettuale delle donne, ne ha consentito per molto tempo, e ne
13 Cristina Karadole. Femicidio: la forma più estrema di violenza contro le donne Rivista di Criminologia, Vittimologia e Sicurezza – Vol. VI – N. 1 – Gennaio-Aprile 2012
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consente ancora oggi, l’ esclusione dalla vita sociale, politica e lavorativa,
relegandole a compiti di cura e assistenza della famiglia e dei figli.
I mutamenti sociali che hanno dato il via ad un sempre più dilagante
fenomeno di emancipazione femminile, hanno messo in crisi l’identità
maschile tradizionale. L’ uomo a questo punto, trovatosi minato nella sua
virilità, si è visto costretto ad intervenire per ristabilire gli equilibri
gerarchici ormai venuti a mancare. A tal proposito è interessante un
versetto del Corano:
« Gli uomini sono preposti alle donne, a causa della preferenza che Allah
concede agli uni rispetto alle altre. […] Ammonite quelle di cui temete l'insubordinazione, lasciatele sole nei loro letti, battetele. Se poi vi obbediscono, non fate più nulla contro di esse »14
Le violenze di matrice religiosa come quelle ingenerate dalla
“Sharia”,15 sono uno dei tanti esempi in cui gli assunti culturali vanno in
qualche modo a giustificare tutte quelle discriminazioni legate a
sbilanciamenti di genere. Simona Lanzoni16, vicepresidente e direttrice dei
14 Sura IV del Corano, versetto 34.
15 Codice morale e legislativo della religione Islamica
16 Simona Lanzoni, laureata in Scienze Politiche indirizzo internazionale, è vicepresidente e direttrice dei progetti per la Fondazione Pangea onlus. Esperta sui temi relativi alle donne con uno sguardo internazionale, è impegnata nella cooperazione allo sviluppo e nella promozione dei diritti umani, il contrasto alla violenza e la promozione dell’empowerment economico femminile attraverso il
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progetti per la “Fondazione Pangea onlus”, a seguito dell’esperienza
maturata durante il lavoro svolto in Nepal, in India, in Afghanistan e in
Italia, ha elaborato un profilo di analisi accurato circa le risposte politiche
e legislative elaborate dai singoli Stati a tale fenomenologia sociale. In un
suo scritto l' esperta afferma:
« Nell’ambito dei diritti umani e del diritto internazionale per quel che riguarda il contrasto alla violenza, negli anni è stato elaborato il concetto di “DUE DILIGENCE” o “DILIGENZA DOVUTA”. Tale principio afferma che la fenomenologia sociale della violenza maschile sulle donne, anche nelle relazioni affettive ed intime, non è più da considerarsi una questione privata. È dovere di uno Stato agire ai sensi del diritto internazionale compiendo al meglio delle sue possibilità e capacità la funzione di prevenzione, indagine, persecuzione, punizione, e risarcimento degli atti di violenza contro le donne. »17
Il fatto che il femminicidio sia dunque un “caso di Stato” è oramai
un qualcosa di assodato e la necessità di un intervento forte, richiedente
uno sforzo comune da parte di tutti i Paesi, lo si evince anche dalla
microcredito. Ha vissuto cinque anni in Asia centrale tra Afghanistan, Nepal e Italia.
17 Lanzoni S.”Diligenza dovuta e responsabilità degli stati di eliminare la violenza sulle donne: elementi di riflessione su alcuni casi paese (nepal, india, afghanistan, italia)” Violenza maschile e femminicidio Vittoria Tola - Giovanna Crivelli (a cura di) M@gm@ vol.12 n.1 Gennaio-Aprile 2014
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Dichiarazione sull' eliminazione della violenza contro le donne del 1993,
art.4 (c), ove gli Stati membri delle Nazioni Unite sono stati esortati ad
« esercitare la dovuta diligenza per prevenire, indagare e, conformemente alla legislazione nazionale, punire gli atti di violenza contro le donne, sia che tali atti siano perpetrati dallo Stato o da individui. »
Analoghe sollecitazioni sono contenute altresì nell’art. 5 comma 2 della Convenzione di Istanbul del Consiglio d’Europa del 2011, mentre nella
Raccomandazione Generale n.19 della Convenzione per l'Eliminazione di
Tutte le Forme di discriminazione contro le Donne (CEDAW) si afferma
anche che :
« gli Stati membri possono anche essere responsabili di atti privati se non
riescono ad agire con la dovuta diligenza per prevenire le violazioni dei diritti o per indagare e punire gli atti di violenza. »
La Convenzione in oggetto, adottata nel 1979 dall'Assemblea generale delle Nazioni Unite, non soltanto dà positiva affermazione del principio di
uguaglianza tra uomo e donna, ma richiede anche a tutti gli Stati parte di
fare quanto necessario affinché tale principio trovi una corretta
44
è stato introdotto proprio con l’ obbiettivo di creare delle linee guida che
conducessero gli Stati membri ad adottare standard di tutela comuni; una
soluzione quindi che dovrebbe finalmente consentire una valutazione
obbiettiva circa il loro operato. Nonostante gli innumerevoli sforzi e gli
obbiettivi raggiunti, tuttavia, sono ancora tanti gli Stati che trovano
difficoltà nel concreto a realizzare quanto pattuito a livello internazionale.
Simona Lanzoni ci ha riportato alcune delle sue esperienze.
In Nepal, descrive sempre la Lanzoni, che circa l’ 80% delle donne ha
subito almeno una volta nella vita violenze.
« Maltrattate verbalmente e abusate fisicamente e sessualmente dal
marito, venivano poi denudate e legate ad un albero, riempite di sterco su tutto il corpo e lasciate in fin di vita sino a quando qualcuno nel villaggio non si accorgeva dei flebili gemiti e richiami d’aiuto. »18
La criticità della situazione, inoltre, veniva spesso aggravata
dall’ impossibilità per i centri donna di agire per vie legali contro tali abusi,
la maggior parte delle vittime, infatti, non era neppure in possesso un
documento di identità. In Nepal, una legge del ’76 consentiva l’ iscrizione
all’ anagrafe delle figlie femmine soltanto dopo il compimento del diciottesimo anno di età e, sempre e solo, a seguito dell’iniziativa di un
18 Ivi, p.9.
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uomo, fosse stato esso il padre, il fratello o il marito. Nel 2006 lo Stato era
intervenuto al fine di modificare tale legge allargando la possibilità di
riconoscimento delle figlie femmine anche da parte delle madri. Nella
pratica in realtà la situazione è rimasta quasi del tutto immutata. Ad oggi
sono ancora innumerevoli i casi in cui sono gli stessi impiegati a rifiutare il
rilascio di certificati alle madri perché donne. Essere senza documenti a
quel punto significa essere agli occhi dello Stato praticamente invisibili. La
maggioranza delle donne e delle bambine non avendo alcun documento
non possono accedere né ad un percorso di scolarizzazione né a sussidi
statali, possono persino essere oggetto di scambio o traffico di esseri
umani poiché nessuno sa' della loro esistenza. Vi è da sottolineare inoltre
che in caso di matrimonio, queste “donne fantasma” sono esposte non
soltanto a vuoti di tutela, in quanto un matrimonio contratto senza
documenti risulta essere invalido ai fini legali; ma, qualora abbandonate
dal marito, anche a gravi accuse di stregoneria e spesso insormontabili
difficoltà economiche.
Superati i confini del Nepal, anche la situazione indiana non sembra essere delle migliori. Il caso India costituisce e, ha costituito nel tempo, un
“caso sentinella” che ci ha consentito di mettere in luce le innumerevoli
lacune emerse dai governi statali nell’ affrontare il fenomeno “violenza”.
Nel 2013 lo stato Indiano fu oggetto di attenzione internazionale a seguito
di una terribile violenza di gruppo consumatasi nel dicembre 2012 a Delhi.
Una studentessa indiana, picchiata a sangue, morì per mano di sei uomini
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media, spinse milioni di persone di ogni età a scendere in piazza, per la
prima volta nella storia dell’ India, al fine di manifestare contro le violenze
perpetrate da anni nei confornti delle donne. Nel settembre 2013 la
Corte Suprema Indiana condannò gli stupratori all’ impiccagione. Il
verdetto, per quanto rispondente alle esigenze dell’ opinione pubblica,
non costituì né una scelta adeguata, né tanto meno una decisione in linea
con politiche di contrasto e di prevenzione alla violenza. La pena di morte
fu una scelta del tutto semplicistica che non si configurò neppure come
un deterrente per gli abusanti, ma che anzi, al contrario, li spinse persino
a premeditare l’ uccisione delle loro vittime, in modo tale che queste non
fossero più nella condizione di testimoniare su quanto accaduto.
Analizzando “Il caso Delhi” è facile comprendere come il Governo indiano
non fu in grado, in quell' occasione, di dimostrarsi all' altezza delle
proprie responsabilità. L' utilizzo di pene esemplari, come la pena di
morte, ha costituito per anni una risposta facile ed immediata dei governi
al malcontento sociale. Scelte di questo tipo, veloci ed economiche, erano
in grado di garantire ai rappresentanti politici non soltanto l' approvazione
popolare, ma anche la fidelizzazione di nuovi voti in prospettiva di future
elezioni. Un utilizzo così indiscriminato del monopolio del potere, seppur
rispondente all' emotività dell' opinione pubblica, costituiva però un'
arma a doppio taglio ed un palliativo nell' ottica di un problema così vasto e culturalmente radicato come la violenza. La Lanzoni in merito afferma:
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« Questo approccio securitario è a costo zero e si realizza in poco tempo. Ciò permette ai governi degli Stati di aggirare il problema e non studiare reali politiche di contrasto alla violenza, in particolare di prevenzione, formazione degli operatori e tutela delle donne che subiscono violenza, perché troppo costose e complesse. »19
Per creare delle piattaforme politiche durature nel tempo non possono ritenersi sufficienti interventi rapidi e poco onerosi, ma, al contrario, si rendono necessari lunghi periodi di supervisionamento,
cambiamenti sociali forti e la polarizzazione di forze tra loro in
opposizione che siano in grado di giungere a soluzioni comuni volte al
bene della popolazione nella sua integrità.
Condizioni ancor più allarmanti sono rinvenibili poi in Afghanistan.
Lì le donne vivono in uno stato di violenza quasi permanente e la giustizia,
ancora fortemente radicata ad una concezione patriarcale della società,
sembra rimanere inerte davanti a simili atrocità. Prima di essere persone,
le madri , le figlie, le mogli sono in primo luogo “proprietà della famiglia”
e la violenza domestica perpetrata nei loro confronti, non solo, non costituisce reato, ma è quasi considerata normalità. Abbandonate dal
sistema giudiziario, e prive di ogni forma di tutela, queste donne sono
costrette per salvarsi a compiere atti estremi di coraggio, che spesso
19 Ivi p.9