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Impact zone. La città dal basso, dalla casa bottega a internet. La trasformazione della città nel quadro delle nuove forme di consumo.

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Impact zone

La città dal basso, dalla casa bottega a internet.

La trasformazione della città nel quadro delle nuove forme di consumo.

Università degli Studi di Catania Dipartimento di Architettura Dottorato di Ricerca in “Progetto architettonico e analisi urbana”, XXIV ciclo

Tesi di Salvatore Rugino Tutor: Vincenzo Latina Tutor esterno: Roberto Collovà

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Impact zone

La città dal basso, dalla casa bottega a internet.

La trasformazione della città nel quadro delle nuove forme di consumo.

Università degli Studi di Catania

Dipartimento di Architettura

Dottorato di Ricerca in “Progetto architettonico e analisi urbana”, XXIV ciclo

Tesi di Salvatore Rugino Tutor: Vincenzo Latina Tutor esterno: Roberto Collovà

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I

NTRODUZIONE

Lo spazio esibito

M

ETODO DI RICERCA

Osservare camminando

T

RASFORMAZIONE DEL TIPO

Spazi del consumo: dalla casa bottega a internet

S

TRADE

La strada come luogo di scambio Imparando dalla strip commerciale La strada come spazio urbano del commercio: tre esempi

L

UOGHI DEL COMMERCIO

Luoghi del commercio: spazi simbolo del tempo Cambiamento e permanenza della bottega Centri commerciali Outlet

S

CENARI

Avanti dal passato: nuovi scenari, nuovi spazi del consumo Il non-luogo E-gora: conclusioni e ulteriori tracce di ricerca

B

IBLIOGRAFIA

9 23 35 71 81 89 113 127 151 169 181 213 221

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La città contemporanea, oggi, assume un ruolo diverso rispetto al pas-sato. Per esempio essa è un paesaggio complesso formato da diverse sovrastrutture che la rendono in qualche modo affascinante, pensiamo a Dubai, che viene considerata la città ideale della contemporaneità.

Tenteremo di leggere, in prima battuta attraverso un’immagine di un qualsiasi paesaggio urbano, la città contemporanea per poi capire, attra-verso le recenti teorie, come potrà essere nel futuro.

In questa immagine è pienamente descritto quello che si intende per paesaggio contemporaneo. Sicuramente rappresenta una parte di una periferia di qualunque città del mondo, visto che si somigliano tutte, potremmo dire alla maniera di Koolhaas sono “città generiche”. Gli elemen-ti che primeggiano sono le infrastrutture, nel caso, una strada e una linea ferrata sorretta da un ponte. L’uomo e la macchina che in qualche modo prendono possesso dell’infrastruttura. Sullo sfondo una piccola striscia di verde quasi da cornice, come se volesse ricordare che anche l’elemento naturale fa parte del paesaggio contemporaneo. Il rapporto tra natura e città, o meglio architettura, oggi, è molto complesso. La natura non è ele-mento principale della scena, ma diviene secondario. L’eleele-mento più importante che emerge da questa immagine non è tanto l’infrastruttura, l’uomo, la macchina o l’elemento naturale, ma l’ambiguità. Cosa si intende per ambiguità? Nell’architettura contemporanea un materiale, che assu-me un ruolo di notevole importanza nell’immagine della città è il vetro. Questo, per appunto, determina la perdita della dimensione. Difatti, ritor-nando all’immagine presa come esempio per il nostro discorso, la

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rappre-Ronald Lampitt, The Ideal City, in Illustrated Magazine del 17 Febbraio 1951.

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sentazione sembra ribaltata ma, invece, è un semplice riflesso su una superficie che ne fa perdere la dimensione spazio-temporale, evidenzian-do delle problematiche che sono estranee alla rappresentazione della città ideale rinascimentale.

A tal proposito, facendo un salto nel passato, nel 1951 Ronald Lampitt1

provò a disegnare una mappa della città ideale descritta sul periodico

Illustrated2, nello stesso anno, da John Sleigh Pudney3.

La città descritta, attraverso le pennellate, da Lampitt è un paradiso situato su un terreno ondeggiante costruito da monumenti vagamente familiari. Perché questi monumenti sono là? Perché sono icone architetto-niche provenienti da varie parti del mondo. Un paesaggio urbano ricco di memoria, ma sterile; non vi è la presenza di un negozio, nessuna baracca, nessun cumolo di spazzatura, nessun cartellone pubblicitario, non vi è la perdita spazio-temporale sopra descritta.

La città descritta da Pudney e interpretata da Lampit, attraverso la sua mappa, non ha tutti quegli elementi che invece caratterizzano oggi il pae-saggio contemporaneo.

Pudney, nell’articolo summenzionato, non predilige la città ideale uma-nista, ma la sua descrizione è quella di una città controversa. Perché la sua realtà non deve essere costruita solo per chi l’ha pensata, ma per tutta l’umanità. Qui decade la metafora biblica della Torre di Babele, dove la struttura dello spazio abitativo assume una carica utopica e ideale. Secondo questa allegoria l’intera umanità deve essere unita, anche negli intenti utopici, affinché non si disperda. Questo ideale ha avuto un cata-strofico insuccesso, perché l’uomo comune non si riconosce più nelle “gabbie per carcerati”, per dirla alla Pudney, di conseguenza vi è una forte perdita di riconoscibilità dello “spazio ideale”.

L’uomo, lungo tutta la sua storia, ha avuto l’ambizione di poter vivere in una città che rispecchi pienamente gli ideali socio-politici. Sono proprio questi che strutturano una città ideale. In mancanza di elementi che qua-lificano la città, si può finire semplicemente per riflettere, riprodurre, o per-petuare i rapporti di forza e gli assetti sociali espressi dalla società.

Ed è proprio in questi rapporti di forza che è possibile collocare la strut-tura del paesaggio contemporaneo della città.

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La scena tragica con auto (da R. INGHERSOLL, p. 109). Sebastiano Serlio, La scena tragica, dal Secondo Libro di Perspetiva, 1545, Parigi

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Uno scenario abbastanza complesso che rispecchia pienamente que-sta struttura è la città del Cairo. La città con le sue fragili abitazioni fisica-mente sovrastate dalla solida monumentalità delle piramidi, non fa altro che esprimere, in maniera quasi simbolica, la natura dispotica e ierocrati-ca di quella antiierocrati-ca civiltà.

Sicuramente la città del Cairo non rispecchia le aspettative della città ideale rinascimentale, luogo per antonomasia della rappresentazione. La scena tragica di Serlio è concentrata sulla strada pedonale, la città pre-industriale è concentrata sulla scena laterale alle strade, sulle facciate degli edifici che la caratterizzano, quasi una scena teatrale, tutto in fuga prospettica. Lo spazio e il tempo sono determinati dai codici della prospet-tiva rinascimentale, da uno spazio ordinato e misurato nel tempo. Tutto si rifà alle proporzioni del corpo umano4. La strada urbana diviene teatro della

vita, luogo della rappresentazione delle azioni quotidiane.

Essa è simbolica, misurata e ordinata nello spazio dove, però, non esi-ste, nelle varie rappresentazioni di città, la presenza dell’uomo. È una città che rappresenta se stessa, il potere degli ideali.

La città entra in crisi quando a invadere gli spazi della rappresentazio-ne sono le macchirappresentazio-ne, le infrastrutture, lo spazio vierappresentazio-ne sconvolto, in alcuni casi la macchina non entra nella strada, ne rompe le proporzioni armoni-che e lo stesso fa l’infrastruttura nel territorio. Lo spazio teatrale, rappre-sentativo della città, viene frammentato, spezzato dalla velocità tutto diviene sfuggente, si dissolve nello spazio. Non assume più un ruolo di monumentalità ma di dissolvenza. In questo modo torniamo all’immagine iniziale dove l’uso del nuovo materiale determina questo effetto di veloci-tà, esiste, come per l’uomo contemporaneo, la possibilità di guardare da più punti di vista, davanti e dietro con lo specchietto retrovisore.

Vedremo, più avanti, l’esperienza di un’attore protagonista, in un film di Wim Wenders, che ha un principale obiettivo: accrescere e sviluppare la sensibilità verso quelle zone inesplorate, dove i rapporti tra i fenomeni assumono nuove forme all’interno del paesaggio contemporaneo.

Si sente oggi il bisogno di dilatare i nostri orizzonti esplorando e speri-mentando attraverso le differenze e le incongruità dei sistemi culturali. La città perde la sua forza rappresentativa, ma ne acquista una nuova che è

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Ecstacity, città nelle città (da N. COATES). Città pre-industriale.

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narrativa, relazionale.

Anche il tentativo di Nigel Coates nella sua Ecstacity5 è quello della

ricerca di una città ideale. Esso non fa altro che mettere insieme città sto-riche del mondo come elementi di riconoscibilità. A differenza di Lampitt, che costruisce la città attraverso monumenti, elementi di riconoscibilità di una società, Coates costruisce una vera e propria mappa di città possibile. Questo lo realizza attraverso un collage di pezzi di mappe di differenti città. Nella presentazione Nigel Coates dice:

Ecstacity: metà reale e metà immaginaria, Ecstacity si fonda sulla globa-lizzazione delle città esistenti... essa associa il mondo dell’informazione nel quale viviamo ad un’architettura fluida di ibridi... investe la vita d’ogni giorno con combinazione di scala, di storia, di emozione, sostituendo il potere istituzionale con terreni comuni di identità e desiderio...6.

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attraverso la sovrapposizione di immagini ed esperienze, come sarà la città del futuro. Non è altro che la costruzione mentale di una realtà che proviene dalle sue idee di architettura e di città. Potremmo dire che

Ecstacity non è il trionfo dell’immagine o dell’immaginario collettivo, ma

incoraggia una lettura multipla e non lineare dei fenomeni della contempo-raneità. Dove l’elemento principe è l’esperienza che diviene linea guida per l’architettura dove, le nozioni di estetica e qualità diventano eventuali e non principali come nelle esperienze della città ideale.

In tutte le immagini che rappresentano o la città ideale, o quella pre-industriale o post-pre-industriale, lo spazio della città non si misura mai con due attori fondamentali per la comprensione della dimensione dello spa-zio. Questi sono: l’uomo e la macchina. Se inseriamo questi due attori, le quinte sceniche, le architetture perdono il ruolo di rappresentare lo spazio. Oggi, lo spazio della strada è rappresentato da un insieme di relazioni che interagiscono tra uomo, macchina, infrastruttura e architettura. Si passa, come si era accennato prima, da uno spazio iconico e rappresenta-tivo ad uno spazio relazionale. L’attore principale diviene l’essere umano che con le sue esperienze costruisce lo spazio e le relazioni con esso.

In definitiva potremmo dire che l’organizzazione relazionale della città ruota intorno alla riforma del concetto e uso dello spazio. Le relazioni hanno bisogno prima di tutto di buoni spazi, di alta qualità, e di buone architetture.

L’architettura è la presenza fisica dello spazio esibito racchiuso, mentre con processo apparentemente violento essa definisce due spazi, due mondi: uno pianificato e uno casuale, ma conseguenza dell’altro [...] l’uno non può esistere senza l’altro e nessuno dei due può esistere senza l’ar-chitettura7.

La conseguenza dei due tipi di spazio genera un’azione e una reazione all’interno dello spazio della città. L’oggetto architettonico è inserito attra-verso la sua forma nel contesto della città. Vive in esso, lo influenza e ne viene influenzato. Lo spazio collettivo, tra gli oggetti architettonici è uno spazio relazionale, casuale che viene fuori dal nulla.

16 Impact zone

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L’oggetto architettonico relazionale, è un’architettura basata non solo sulla topologia, ma anche sull’uso dei media per connettere la gente agli edifici e agli spazi in una relazione continua. Gli edifici sono resi attivi così che l’input della gente nella strada può provocare dei coinvolgimenti narra-tivi oltre a quelli previsti dagli architetti, dai costruttori e dagli abitanti. L’azione del muoversi, tra gli oggetti architettonici, prepara il fruitore a nuove esperienze che non appartengono solo al mondo dell’architettura e della città, ma alle relazioni che si attivano nella città dal basso. Questo scenario si prefigura soprattutto nella periferia della città, ma da pochi anni anche all’interno dei centri storici.

In passato, la periferia della città era qualcosa di distante, ci si andava solo per le grandi compere stagionali, il centro storico era abbandonato e si andava progressivamente svuotando, la periferia aveva delle piccole botteghe per i bisogni primari. Le forme di commercio erano ben diverse: ci si spostava in centro città per le grandi compere e per la sopravvivenza si andava nelle piccole botteghe che molte volte erano stanze di una abita-zione al piano terra. Il latte si comprava dal signore che passava con la bici-cletta, che aveva le mucche, e così via. Oggi gli interessi commerciali si sono spostati nelle periferie, ma non coinvolgendole bensì penalizzandole, costruendo dei grandi non luoghi, come li definisce Marc Augè, dove tutto è possibile. Il rapporto cordiale e interpersonale della casa bottega non esi-ste più, non esiesi-ste più la possibilità di raccontare e raccontarsi. All’interno di queste mega-strutture le storie si annullano, tutti sono nessuno, per portare un esempio di memoria pirandelliana “uno nessuno centomila”.

In estate, soprattutto nelle abitazioni al piano terra, la sera ci si appro-priava del marciapiede per incontrarsi e per dilatare lo spazio del soggior-no all’aperto. Le strade, costruite da pochi anni, erasoggior-no immense, quasi sproporzionate rispetto alla vita quotidiana, passavano poche macchine.

Oggi avviene un’inversione le stesse strade sono piccole: non si riesce a camminare, non si distinguono più i marciapiedi. Invece di dilatare lo spa-zio del soggiorno all’esterno, questa volta la macchina entra dentro casa. Eppure lo spazio della città non è cambiato, è sempre quello di trenta o venti anni fa. Cosa è successo? Cosa è cambiato? Sicuramente il benesse-re economico ha permesso grandi trasformazioni; sicuramente i

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pianifica-tori hanno avuto l’illusione che disegnando una città dall’alto, tracciando linee, potessero dare ordine al disordine. La macchina invade le strade e i marciapiedi, luoghi dell’interazione, e le abitazioni, non utilizzando lo spazio della città dal basso, cominciano a salire verso l’alto per allontanarsi dal caos. Si comincia a dimenticare che lo spazio della città è formato dalle sue architetture e dalle relazioni che essi stabiliscono con il suolo, con la vita sociale di ogni giorno. Si preferisce tracciare lunghe rette su carta, si pre-ferisce chiamare grandi pianificatori venuti da altre realtà, che decidono e prevedono cose che non costituiscono lo spazio della città dal basso.

Nel frattempo avviene un fenomeno, che negli anni va sempre più cre-scendo, e cioè quello dell’immigrazione. I centri storici, abbandonati dai facoltosi e da coloro che vengono con forza spostati in grandi aggregazio-ni chiamate “città giardino”, si spopolano e vengono totalmente occupati dai ceti meno abbienti. Questi cominciano ad organizzarsi e ad aggregarsi in piccole comunità, questo discorso è valido solo per alcune città, e ad occupare i piani terra degli edifici trasformandoli in botteghe. In queste si vende di tutto, ma quello che più a noi interressa è il completo arretramen-to architetarretramen-tonico delle stesse.

Se oggi camminiamo lungo le vie rappresentative della città, ci accor-giamo che molte delle piccole botteghe locali vengono sostituite con gran-di catene internazionali, che trasformano lo spazio della città con progetti a volte altamente tecnologici. Svoltando l’angolo tutto si inverte, esiste una inversione dello spazio, sembra quasi tornare indietro di molti anni, le botteghe sono spoglie, con poca luce, anonime, tutte uguali, si fa fatica a riconoscerle, le merci invadono lo spazio pubblico della città. Ma se spo-stiamo lo sguardo e guardiamo alle capitali di provenienza di questi com-mercianti, notiamo immediatamente che non hanno fatto altro che ricrea-re nelle nostricrea-re città l’atmosfera delle loro città.

Gli extracomunitari, arrivati dal sud del mondo, cominciarono a coloniz-zare le città partendo dai marciapiedi con i loro lenzuoli bianchi pieni di mercanzie dei propri luoghi o molto spesso contraffazioni di griffe.

Il processo è inverso a quello della casa-bottega, in quel caso l’azione è dall’interno all’esterno, in questa circostanza l’azione è al contrario, dal marciapiede alle botteghe abbandonate per crisi economica. Così

nasco-18 Impact zone

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NOTE

1- B. TSCHUMI, Architecture and Disjunction, The Mit Press, Cambrige 1996, trad. it. di R. Baiocco e G. Daminai,

Architettura e Disgiunzione, Pendragon, Bologna 2005, p. 19.

2- L. DOSSEY, Recovering the Soul, Sperling & Kupfer, 1989, trad. it. di A. D’Anna, Alla ricerca dell’anima, Sperling & Kupfer Editori, Milano 1991, p. 37.

3- Ivi, p. 186.

4- Z. BAUMAN, Liquid Modernity, Polity Press, Cambridge, e Blackwell Publishers Ltd, Oxford, 2000, trad. it. di S. Minacci, Modernità Liquida, Editori Laterza, Roma-Bari 2002, p. V.

5- AAVV, Dicionario Metápolis de Arquitectura Avanzada, Actar, Barcelona 2001. 6- N. COATES, Guide to Ecstacity, Laurence King Publishing Ltd, London 2003, p. 11.

7- G. ORWELL, Ninenteen Eighty-Four, trad. it. di G. BALDINI, 1984, Arnaldo Mondatori Editore, Milano 1983, p. 101. no, in ogni città del mondo, le varie Chinatown etc.

Nel frattempo i vecchi proprietari si trasferiscono o all’interno dei nuovi luoghi, i centri commerciali, o nelle zone deputate allo shopping, le vie “in” dei centri storici. Ma se giriamo l’angolo ci accorgiamo di una trasformazio-ne della città. Da un lato abbiamo le nuove realtà con vetritrasformazio-ne iper-tecnolo-giche, schermi al plasma, luci, soluzioni di interni di grande qualità, e in molti casi firmate dai grandi dell’architettura mondiale. Dall’altro abbiamo, dietro l’angolo, non molto distante, un’inversione, un impoverimento del linguaggio e della tecnologia.

La città diventa come un luogo alieno, straniero, dove le informazioni esterne, segno di identità, si fondono dalla interferenza alla comunione.

Quindi una città, dal basso, capace di riorientare e captare continua-mente, in funzione dei flussi creati dai cambiamenti (costituendo una nuova relazione con lo spazio), i nuovi significati del dominio pubblico.

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Osservare camminando, in effetti, permette di percepire le linee che definiscono il paesaggio della città in maniera dinamica. A tal proposito potremmo portare come esempio l’esperimento che Wim Wenders1

realiz-za nel film Lisbon story2. Egli fa camminare, l’attore protagonista, con una

videocamera legata alle spalle per riuscire a vedere quello che tutti noi, camminando, non riusciamo a vedere.

La metodologia proposta, ha un principale obiettivo: accrescere e svi-luppare la sensibilità verso quelle zone inesplorate, dove i rapporti tra i fenomeni assumono nuove forme all’interno dello scenario progettuale.

Si sente oggi il bisogno di dilatare i nostri orizzonti esplorando e speri-mentando attraverso le differenze e le incongruità dei sistemi culturali.

Nel trattare di queste materie, sopra descritte, eviteremo di utilizzare il termine rapida oscillazione e ci serviremo invece del termine impact (influsso)più semplice e più facilmente comprensibile.

Alle rapide oscillazioni, ai continui cambiamenti imposti dalla odierna società, tutti registrano una risposta alle impressioni che questi causano sulle persone e sulle cose. Per esempio se facciamo oscillare un pendolo, e al di sotto poniamo della sabbia, il pendolo lascerà le tracce della sua oscillazione, descrivendo dei tracciati netti e precisi. In questo caso la risposta ai cambiamenti, alle trasformazioni è automatica. Oggi, si sente l’esigenza di andare oltre alla semplice risposta registrata dalle oscillazio-ni. Si ha la necessità di mettersi in contatto con un’ulteriore conoscenza che aprirà ad un campo di intercomunicazioni.

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condizioni che sono dettate da due termini: contatto e impatto (influsso). Per una maggiore comprensione è importante capire quale significato può essere attribuito ai due termini:

il contatto può essere definito come il riconoscimento di un ambiente, di una zona prima ignota [...] di un «qualcos’altro» che si è reso sensibile. Questo qualche cosa di diverso da Colui che percepisce è stato di solito presentito, prospettato quale una possibilità teorica; è stato poi invocato dall’attenzione diretta e cosciente di colui che ne ha sentita la presenza; e infine il contatto ha luogo3.

Mentre per il termine impatto o influsso possiamo dire che «è qualche cosa di più della semplice registrazione di contatto. Si sviluppa in una cosciente azione reciproca; fornisce ulteriori informazioni; è di natura rive-latrice e si può dire che nei suoi stadi iniziali esso garantisca a colui che vi risponde, l’esistenza di un nuovo campo di esplorazione e di avventura»4.

L’avventura comincia dal basso, dai luoghi dove i fenomeni generano dinamiche che modificano radicalmente la collettività,

in questo trapasso di civiltà e soprattutto in questa trasformazione di società che apre una nuova possibilità per l’architettura a scala urbanisti-ca, nuove tipologie architettoniche, nuove invenzioni spaziali e formali. Questo, se la programmazione prenderà una piega giusta, non idealistica, non dominata da regole, non dall’alto, ma al contrario relazionale, speri-mentale, dal basso5.

La città dal basso, luogo dove si sperimentano le potenzialità di un dia-logo aperto, tra la comunità e lo spazio, di comunicazione e di azione comune mediante attrito.

Le città del nostro tempo sono diventate così articolate che per capire tale complessità è ormai necessario ricorrere a nuovi modi di osservare. Essi richiedono nuovi approcci ai processi di trasformazione. Entro il con-testo di città in rapido mutamento e scenari di contrazione sempre più

dif-24 Impact zone

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ficili da governare, i fenomeni in atto, assumono una particolare rilevanza. Su come osservare i fenomeni ci viene in aiuto Italo Calvino6, che in

Palomar7 ci fa notare, ma soprattutto si chiede come si può osservare

un’evento senza tenere conto degli aspetti complessi che concorrono a formularlo, e di quelli altrettanto complessi a cui esso dà luogo. Innanzitutto gli aspetti variano ed è per questo che un fenomeno è sempre diverso da un altro. Esistono però delle forme e delle sequenze che si ripe-tono, sia pur distribuite irregolarmente nello spazio e nel tempo. Potremmo parlare di divergenza o convergenza ma le difficoltà principali nascono nel fissare i confini del campo di osservazione, perché, cambiando i confini, lo spazio preso in esame si ribalta e nello stesso tempo si comprime.

In questo quadro di riferimento potremmo costruire un modello o siste-ma complesso di lettura del progetto e della città contemporanei, attraver-so la ricerca di un equilibrio tra i principi e l’esperienza dei fenomeni in atto. In secondo luogo verificare se il modello, prodotto dalla somma di azioni ed esperienze, che non ricorrono a modelli fissi e soluzioni prevedibili, ma simultanee e a volte contraddittorie, si adatta ai casi pratici osservabili nell’esperienza di progetti realizzati e non. Alla fine, apportare delle corre-zioni necessarie perché modello e realtà coincidano.

Ed è proprio dalla realtà, dalla città reale, che bisogna partire. Made in

Tokyo, progetto di ricerca poi pubblicato dai Tsukamoto e Momoyo Kaijima,

esalta le virtù di ciò che essi chiamano “città reale”. Essi partono descri-vendo i fenomeni attuali che coinvolgono tutte le grandi metropoli. Città in cui si rimane bloccati nel traffico perché sono piene di cantieri che le modi-ficano e le rendono appetibili ad un pubblico più ampio: potremmo dire che si stanno trasformando in prodotto di consumo. Se guardiamo alla storia comunque, una delle cose più interessanti della città è proprio il suo costante ricostruire se stessa.

Da un lato abbiamo la città come prodotto di consumo, fatta da gratta-cieli, grandi edifici per il consumo (alimentare e culturale) e dall’altro la città reale, costruita da piccoli edifici bassi: potremmo definirlo «luogo basso»8. La città reale continua a riempire gli spazi vuoti, continua a dare

priorità a un’ostinata onestà architettonica in risposta all’ambiente e alle esigenze di programmazione, senza insistere sull’ estetica e la forma.

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I progetti di grandi dimensioni sono piuttosto controversi, dice Oshima, osservando che la maggior parte delle persone sono estasiate dai gratta-cieli, perché cambiano completamente il carattere dei loro quartieri. Le città stanno ribaltando la loro naturale dimensione da orizzontale, fatta da edifici di tre o al massimo quattro piani, ad una verticale, ma se il terreno e le infrastrutture siano in grado di sostenere tale densità è un’altra questio-ne. E se rendono una città migliore questo è tutto da discutere. Tutto è legato a fenomeni di consumo. Sono proprio questi che stanno determi-nando la completa trasformazione della città dal basso.

Per capire come questo tipo di sviluppo rompe con la tradizione tipolo-gica della città dobbiamo guardare alla storia.

Le nostre città, soprattutto gli edifici che la configurano, derivano dall’Insula9romana, dove al piano terra si trovavano le tabernae10cioè le

botteghe. Questa tipologia si è configurata, con le modifiche del caso, fino ad oggi come frutto della trasformazione diretta nel sito del tipo.

Esempio chiarificatore di questo concetto di trasformazione, è una sin-golare piazza dalla forma ellittica, chiusa da case medievali che si trova nella città di Lucca, oggi chiamata piazza del Mercato.

Questa fu creata per spettacoli ed era l'anfiteatro di Lucca, una struttu-ra imponente. Nel Medioevo, questo luogo divenne una piazza, dove si tenevano le assemblee popolari.

Nei secoli fu trasformato, prima in fortezza. Poi divenne uno spazio fon-damentale per l’assetto della città, fino a diventare il mercato cittadino.

Quest’esempio chiarisce come il tipo ha subito delle trasformazioni: da anfiteatro a mercato cittadino. Bisogna precisare che la trasformazione subita ha modificato la funzione all’interno della città, ma non ne ha tra-sformato il tipo, la sua forma nella città.

Oggi, accade un fatto importante, a causa dell’apertura dei grandi cen-tri commerciali e dei villaggi per lo shopping, questi luoghi deputati al com-mercio, come il mercato cittadino di Lucca, non hanno più quella funzione di luoghi relazionali per la vendita. Questo fenomeno tende a spostare la vendita di beni di consumo, dalla città, dai suoi luoghi storici, ai nuovi cen-tri per il commercio nelle periferie della città.

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spazio, o meglio quello che era disseminato in parcelle private, le insule dentro lo spazio pubblico, ora si raggruppa in un nuovo ambito che non è né pubblico e neanche privato nel modo classico11.

Sono i piani terra, le tabernae che stanno perdendo la loro funzione sociale e commerciale. Sembrerebbe un dato poco evidente, ma il continuo abbassare la saracinesca sta causando la totale chiusura della maggior parte delle botteghe, che esse siano in centro o in periferia. Tutto questo comporta dei fenomeni che determinano una completa trasformazione della città. La sicurezza delle nostre città non esiste più. La città sta attra-versando una profonda crisi. Da quartiere a quartiere, dalle arterie princi-pali ai borghi, porte sigillate, vetrine con la scritta “vendesi” e “affittasi” ben in vista. E la cosa più preoccupante è che molti di quei cartelli sono lì da mesi perché sulla piccola bottegha nessuno scommette più.

Perché, se è ormai un fenomeno datato quello che vede soppiantato il piccolo commercio di periferia a favore dei centri commerciali, in pochi avrebbero scommesso che la crisi si sarebbe insinuata nelle vie più ele-ganti della città. Invece qualcosa è cambiato. In luoghi dove anni fa si face-va a gara per aprire una bottega, ora ci sono locali con le serrande abbas-sate. Alla chiusura di negozi storici spesso subentrano punti vendita di abbigliamento o pizze al taglio e distributori di altri cibi veloci per la pausa pranzo o ancora provvisorie attività di extracomunitari.

In realtà, la nostra è un’epoca, una cultura, che richiede un costante cambiamento; la città non può essere privata del suo spazio più vivo, più diretto con il fruitore. Non si può continuare a pensare di cambiare la città con interventi di grandi dimensioni o di restiling. Situazioni di privazione vanno reinterpretate riconoscendo lo spazio pubblico come potenzialità, cercando nuovi o perduti collegamenti a livelli speciali e sociali. Spazi respinti vengono riportati dentro il campo della visione in relazione al frui-tore. Non si tratta di una necessità di uniformità di stile ma di qualcosa di molto più profondo. Si tratta di capire secondo quali principi orientare la trasformazione di qualcosa (il nostro spazio), che è un bene comune non più rappresentativo, come nel Rinascimento, ma relazionale.

In definitiva, quello che proponiamo, è un quadro di riferimento, reale e proiettivo, che rivelerà combinazioni, configurazioni e nuove

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organizzazio-ni, che non provengono da abitudiorganizzazio-ni, ma da quella zona di confluenza delle esperienze.

In questo momento siamo abituati a leggere i fenomeni attraverso il

rigido metamondo dell’idealismo, dal presuntuoso (ingenuo) meccanismo e da una defunta geometria. Questo mondo bloccato, cieco davanti alle dimensioni del tempo, produce un’architettura altrettanto cieca, un’archi-tettura spostata dal metamondo a quello reale. Come uno stivale di piombo in un fiume in piena, non c’è modo di farlo galleggiare.

Mentre le cose di tutti i giorni (anche mediocri) sono applicabili a questo schema, le cose eccezionali, le vere innovazioni, vengono da un’altra parte12.

La tendenza a credere che sia possibile vivere dentro gli schemi e le immagini del passato è uno dei problemi fondamentali connaturati nei pro-cessi che compongono il rapporto con tutto quello che non appartiene più ad esso. Oggi, dobbiamo liberarci dagli schemi e dalle convenzioni per poter comprendere il “nuovo”13. Esso non è altro che frutto dell’instabilità

creativa e dei materiali, reali e virtuali, dell’architettura. Non facciamo altro che descrivere il nuovo come qualcosa al di “fuori” dalle nostre competen-ze, come qualcosa di estraneo dal nostro modo di operare. Dobbiamo, però, riconoscere che questo “fuori” è dappertutto, ne siamo circondati, ed è dentro di noi, dentro la nostra immaginazione. Il segreto sta nel liberare «la vista da oggetti e abitudini che derivano da una visione troppo concen-trata sull’oggetto»14.

Smettiamo di descrivere per chiarire. Una domanda, una risposta possi-bile. Cerchiamo di occupare lo spazio, in modo che l’azione dinamica predo-mini sulla continuità dei tracciati prevedibili. In questo modo, lo spazio è generato, e non ordinato dal movimento. Uno spazio che sia il segno istan-taneo dell’uso.

Oggi, dobbiamo puntare l’attenzione, non sulle immagini familiari, ma su quelle strutture che rappresentano una realtà smembrata, approfittan-done ed esaltanapprofittan-done, allo stesso tempo, la frammentazione attraverso la cultura delle differenze15.

30 Impact zone

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NOTE

1- Regista, sceneggiatore e produttore cinematografico tedesco.

2- Commissionato dalla città come un semplice documentario su Lisbona, il regista durante le riprese deci-de di trasformarlo in un film.

3- A. BAILEY, Telepatia e il veicolo eterico, Editrice Nuova Era, Roma, p.98. 4- Ibidem.

5- M. COSTANZO, Leonardo Ricci e il Villaggio Monte degli Ulivi a Riesi, Metamorfosi n. 64 gennaio/febbraio, 2007.

6- Giornalista e scrittore di racconti e romanzi.

7- Personaggio del testo Palomar fa considerazioni filosofiche sul mondo che lo circonda. Calvino ci mostra un uomo in missione per quantificare i fenomeni complessi, in una ricerca di verità fondamentali sulla natu-ra dell’essere. La prima sezione si occupa principalmente con l’esperienza visiva, la seconda con i temi antropologici e culturali, la terza con le speculazioni su questioni più generali, come il cosmo, il tempo e l’in-finito.

8- Il termine “luogo basso”, nel contesto del testo è stato definito da Ken Oshima professore alla Columbia University.

9- Insula fu il nome dato alle abitazioni popolari (simili ai nostri condomini); potevano arrivare fino all’ altez-za di tre piani e ad ogni finestra corrispondeva un appartamento.

10- Tabernae, cioè le botteghe: il fornaio (pistrinum), la bottega dei cereali e dei legumi, la bottega in cui si vendevano vino e bevande calde (thermopolium), la lavanderia (fullonica), la bottega del fabbro, la bottega del calderaio (che costruiva pentole per la cucina), il calzolaio (sutrinum).

11- AAVV, Crisis, Actar, Barcelona 2009, p. 34.

12- S. KWINTER(edited by), Rem Koolhaas: Conversations with Students, Princeton Architectural Press, New York 1996, trad. it a cura di Sanford Kwinter e Marco Rainò, Rem Koolhaas, Verso un’architettura estrema, Postmedia, Milano 2002, p. 33.

13- Ciò che diverge dal già avvenuto.

14- S. KWINTER(edited by), Rem Koolhaas: Conversations ..., cit., p. 38.

15- B. TSCHUMI, M. BERMAN(a cura di), Index Architecture. A Columbia Book of Architecture, MIT Press edition, New York 2003, trad. it. di L. Poncellini e M.Robilant, Index Architettura. Archivio dell’architettura contempo-ranea, postmedia books, Milano 2004, p. 186.

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Fin dall’antichità è possibile identificare, in ogni città, in ogni piccolo insediamento umano, dei luoghi specifici destinati alle svariate forme di consumo, adibiti al commercio. Infatti, come afferma Roberto Aguiari1«il

tessuto urbano nasce e si sviluppa non tanto a causa della concentrazio-ne della popolazioconcentrazio-ne o di attività di produzioconcentrazio-ne fisica dei beni, quanto in funzione della quantità e delle varietà degli scambi commerciali»2. Questi

luoghi del commercio spaziano dalla bottega artigiana, al negozio, ai

pas-sages, ai grandi magazzini e alle esposizioni universali, fino ad arrivare agli

odierni centri commerciali che, negli ultimi decenni hanno subito rilevanti trasformazioni; sia da un punto di vista progettuale sia da un punto di vista socio-culturale. Questi cambiamenti diventano sempre più rapidi e, come conseguenza, generano forti trasformazioni nei modi di produrre, di comu-nicare e, più in generale, nei comportamenti e nelle pratiche quotidiane, di uso di questi spazi da parte degli individui.

In questo capitolo si propone la comprensione delle modificazioni e delle innovazioni che i luoghi del commercio e, in particolare la bottega, madre di tutti gli spazi commerciali, ha registrato dall’antichità a oggi, nel più ampio proposito di cogliere il complesso sistema di fasi e di trasforma-zioni che caratterizza questa tipologia3.

Ma prima di capire il senso della trasformazione tipologica dobbiamo indagarne le cause. Queste vanno sicuramente ricondotte alle nuove forme di consumo. Si assiste, sempre più, «all’esaurirsi di un tipo di offer-ta commerciale che ha radici antiche e che è soffer-taoffer-ta, per secoli, struttura portante delle città europee e forse soprattutto italiane»4.

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Mercati Traianei, Roma (da www.flickr.com). Agorà greca fonde spazio pubblico e mercato, 400 a.c. (da Guide to Shopping, p. 30).

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Negli ultimi decenni, gradualmente, si assiste alla scomparsa di miglia-ia di negozi. La città dal “basso” in pochissimo tempo si è modificata «[...] da un brulicare di botteghe commerciali e artigiane, in media di ridotte dimensioni, si è trasformata in un grande “vuoto” costruito, su cui poggia la città intera»5. Essa sembra poggiarsi su uno zoccolo senza più vita.

Bisogna precisare che non si tratta di un fenomeno che investe tutta la città ma, in molte zone rivalutate dei centri storici, si assiste al fenomeno inverso, dove molti negozi sono specializzati e all’interno della città è ripor-tata la logica del centro commerciale.

In numerosi casi, gli spazi del commercio della città, sono occupati da sportelli bancari, call center, phone center, uffici pubblici e privati, agenzie immobiliari, di viaggio e in molti casi si trasformano anche in abitazioni (mentre prima succedeva il contrario).

Quello che va precisato è che questo fenomeno di trasformazione del piano terra della città, va analizzato secondo due punti fondamentali che sono: la merce, che dopo l’invenzione della vetrina, intorno al settecento, assume un ruolo fondamentale nel rapporto che esiste tra venditore e con-sumatore; i luoghi del commercio che, attraverso la vetrina assumono dei ruoli molto diversi. Nell’epoca moderna un antropologo francese, Marc Augè ci fa notare che esistono dei luoghi che sono diversi da quelli legati alla tradizione: i “nonluoghi”6. Questi sono l’espressione della

contempora-neità: in essi l’individuo perde la sua identità assumendone una nuova che è determinata dal tipo di luogo e di merce che gli viene proposta.

Questi nuovi luoghi non possiedono la storicità posseduta dai luoghi antropizzati, anche perché la loro nascita è recente, quindi non sono stori-cizzati come i vecchi luoghi. Altri elementi dei luoghi antropizzati sono l’identità e la relazione. L’identità è riconoscibile nei percorsi, studiati in questi spazi del consumo, in quanto luoghi aperti. Le relazioni sono indivi-duabili nello svago che gli individui trovano nei fine settimana usufruendo di questi spazi. Lo shopping è una maniera economica per stare insieme.

Quello in precedenza detto ci fa capire come

le merci dal momento che sono uscite dall’ambito della produzione artigia-nale, soprattutto a partire dalla Rivoluzione Industriale hanno evidenziato

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di essere soggette a un processo di progressiva spettacolarizzazione. Per far questo le merci hanno avuto bisogno di luoghi particolari che funziona-no come veri e propri palcoscenici teatrali7.

Dopo questa breve premessa, si ritiene indispensabile approfondire il rapporto che esiste tra edificio, bottega e strada. Le attività commerciali hanno, da sempre, assunto un ruolo importante all’interno della città. Per l’appunto, mercati e negozi hanno condizionato fortemente il tessuto urbano, a prescindere dall’importanza architettonica.

Difatti è possibile dire che i negozi hanno sempre avuto un forte ruolo comunicativo all’interno della strada, per descrivere il tipo di merce in ven-dita, che dalla bottega romana a oggi è variato. La vetrina, elemento di comunicazione tra la strada e la bottega, diviene interfaccia di comunica-zione, non si espone più la merce ma si mostra una prestazione.

Per approfondire il rapporto edificio, bottega e strada, ma soprattutto per comprendere come si è trasformata la città in relazione alle nuove forme di consumo, bisogna avviare la ricerca attraverso un breve excursus storico partendo dal periodo romano per arrivare a Internet.

Le botteghe romane si aprivano sulla via e occupavano il piano terra della loro insula. La strada era spesso caratterizzata da portici affiancata da botteghe al piano terra. Gli edifici privati, si alternavano a edifici pubblici.

Questa tipologia, della bottega romana, è definita taberna8, ed è

situa-ta al piano terreno della domus9, in genere con un banco in muratura per

l’esposizione della merce. Nella parte più interna vi sono uno o più retro-bottega separati da pareti divisorie. Inoltre la taberna è divisa in due parti; sotto la bottega vera e propria, sopra un mezzanino, pergula10, che funge

da abitazione e cui si accede dall’interno della bottega, mediante una scala, o anche dall’esterno.

L’esistenza di questo tipo edilizio è documentata fin dal secolo III a. C. e in generale è costituito da monocellule poste su di un percorso in cui è privi-legiata la funzione specifica della bottega al piano terreno, strettamente connessa con il percorso. Già in età imperiale questi edifici sono composti da due solari, più raramente da tre (terzo piano in elevazione e/o cantina)

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ciascuno dei quali è raggiungibile per mezzo di una rampa di legno. Il piano terra è adibito all’attività mercantile mentre il primo piano o il mezzanino sono lo spazio della casa. La taberna è quindi la somma degli spazi dedi-cati al commercio, di quello abitativo e comprensivo anche di quello desti-nato al deposito delle mercanzie11.

Le taberne, erano costituite da un banco in legno, o in muratura, che serviva per esporre la merce, questo in quasi tutti i casi aveva una forma ad “L”, un lato quello sulla strada serviva per esporre la merce, l’altro che entrava all’interno della bottega serviva per la vendita.

L’ingresso principale della taberna si trovava generalmente su una piazza o su una strada urbana popolare. L’ingresso alla scala, che porta all’abitazione, era posto in posizione antinodale o sul retro dell’edificio.

Questo tipo edilizio mantiene, quasi intatti, per secoli, gli elementi distintivi, e solo in età moderna che si separa l’ingresso della bottega da quello dello spazio residenziale dell’edificio12.

La taberna non è l’unico spazio destinato al commercio, si susseguono ai mercati le piazze, i Fori. L’esempio più importante è quello dei Mercati Traianei, che rappresentano l’anticipazione dell’odierno centro commerciale13.

Il rapporto tra artigiano e consumatore che, fino a tutto il Medioevo, rimane invariato, rappresenta l’elemento che esprime a pieno la relazione che si stabilisce tra venditore e compratore.

Nei secoli, la tipologia non subisce grandi variazioni, per esempio: nel Medioevo la bottega si apriva sulla strada con un arco e non con una piat-tabanda, e venne introdotto un muretto che divide lo spazio interno da quello esterno. Lo scambio, la trattativa avviene sulla strada, davanti alla bottega. Le costruzioni medioevali non cancellarono mai completamente l’impianto urbano di epoca romana, perché i Romani avevano sfruttato razionalmente tutti gli spazi disponibili. La differenza sostanziale sta nel nuovo rapporto fra «vita domestica e vita collettiva»14, espresso in

manie-ra evidente dalle aperture verso la stmanie-rada che diventano sempre più gmanie-randi.

nell’epoca gotica, diviene determinante l’interazione fra casa e strada come luogo di scambio e di lavoro. [...] Anche dopo la scomparsa della casa concepita allo stesso tempo come unità residenziale e produttiva –il

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L’aumento del commercio provoca un significativo aumento dei negozi. In alto, a sinistra: negozio, sco-nosciuto, 1.100-1.300. In alto, a destra: botteghe, sconosciuto, 1.100-1.300. (da Guide to Shopping, p. 31). In basso, a sinistra: sezione di un edificio della Ripa dei Peciari, Genova fine del secolo XVI (da A. NASERESLAMI, p. 195).

locale di lavoro al piano terra, l’abitazione e il magazzino nei piani superio-ri- il principio della casa gotico-mercantile continua ad essere il referente inevitabile, diventando essenziale in molte elaborazioni della cultura moderna15.

In questo periodo, la piazza assume un ruolo importante divenendo il ful-cro della vita economica e culturale. Perfino il mercato, in epoca comunale, divenne una struttura stabile. Non più con bancarelle temporanee, ma con strutture ben progettate che garantivano la sicurezza ai commercianti.

Andando avanti per i secoli, le botteghe cominciarono a specializzarsi, a vendere un solo prodotto, per esempio vi era quella specializzata nella vendita di spezie ecc. Quindi, è stato indispensabile, attraverso delle deco-razioni, e non più soltanto con le insegne pubblicizzare il prodotto. A que-sto punto la nostra attenzione si deve focalizzare sull’aspetto estetico della bottega che comincia ad avere, all’esterno, degli elementi nuovi che

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Casa di Raffaello, Bramante, Roma, 1514 (da Guide to Shopping, p. 31).

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rendono più spettacolare la merce. In questo momento storico, le strade vengono dedicate, assumono il nome delle mercanzie che si vendono in quella strada. Ad esempio esisteva la strada delle spezie, quella dei tessu-ti, dei coltellieri, degli argentieri, dei pellai, ecc.

Dal Rinascimento, il negozio sostanzialmente non muta le proprietà compositive della bottega ma, diviene più accogliente, più spazioso, ma ancora privo della vetrina.

Altro luogo del commercio che viene rivalutato con il Rinascimento è la fiera. Essa oltre ad avere una funzione per la città, diviene canale di colle-gamento tra la stessa, la campagna aprendo nuovi canali di scambio anche con luoghi lontani.

Nei secoli a venire la situazione non muta molto, le merci continuano, come nel Rinascimento, a essere esposte o all’interno di piccole scatole di vetro poste all’esterno o dentro nicchie ricavate all’interno della muratura, ma sempre all’esterno della bottega.

Nel Settecento la bottega si chiude alla strada attraverso la nascita di un elemento che diverrà in seguito importante cioè una forma primitiva della vetrina. Essa avrà un’evoluzione più sostanziale nel secolo successi-vo, sebbene sarà costituita da lastre di vetro di piccole dimensioni. Nasce da questo momento il negozio moderno, e lo spazio interno si allontana da quello esterno, sparendo cosi quell’invasione e quell’attività di relazione che esistevano tra la strada e la bottega, tipici dei secoli precedenti.

Nell’Ottocento, grazie alla scoperta dalle nuove tecniche di lavorazione del vetro, nasce la vetrina. Questa è costituita da una superficie di grandi lastre di vetro situate davanti l’ingresso della bottega. È da questo momen-to che le merci entrano dentro lo spazio dell’edificio, nasce quello che ancora oggi identifichiamo come negozio.

Allora come oggi, l’attenzione per il negozio era più funzionale che deco-rativa: lo spazio commerciale deve integrarsi perfettamente con l’architet-tura che lo ospita e deve rispettare le relazioni con la strada attraverso la vetrina.

Continuando l’excursus storico, uno dei momenti che determina un cambiamento radicale della tipologia casa-bottega avviene con la rivolu-zione industriale. Il cambiamento va inteso, per il nostro discorso, dal

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punto di vista del rapporto che esiste tra bottega e strada, tra bene di con-sumo e consumatore, dal punto di vista della trasformazione della città.

La rivoluzione industriale trasformò l’intero aspetto del mondo16.

L’industrializzazione generò una nuova cultura che fu capace di riorganiz-zare la società, le forme della città e dell’architettura. In questo periodo vi è un grande fermento che, dato dalle possibilità tecniche e della macchina, spinse tutti gli uomini, indipendentemente dalla classe sociale, a inventa-re macchine moderne e nuove possibilità tecniche per l’architettura. L’innovazione non va di certo ricercata nelle grandi architetture degli edifi-ci pubbliedifi-ci, ma in quelle più modeste che servivano per motivi pratiedifi-ci.

Queste nuove architetture sono: i luoghi per il commercio e le grandi esposizioni, capaci di esprimere il potere d’acquisto che l’industrializzazio-ne aveva portato ad aumentare. Nasce così un tipo di architettura che è capace di adulare, trasformare i passanti in visitatori e a sua volta in com-pratori. Questi luoghi erano capaci di esprimere ed esibire la ricchezza della borghesia. Diviene forte, in questo periodo, il rapporto tra «commer-cio, pratiche di consumo e organizzazione dello spazio urbano che, dall’Ottocento, costituisce uno dei principali assi lungo il quale si è snoda-to la vicenda della città moderna»17. Infatti, sono proprio i negozi,

attraver-so le vetrine, ad aver dato un nuovo imprinting alla città. Ed è proprio in questo periodo che i luoghi del commercio divengono, per la città, dei nuovi poli che riescono a reincantare la città moderna.

Il rapporto tra commercio e città esprime egregiamente il suo valore attraverso la nascita di una nuova tipologia edilizia, potremmo dire anche urbana con la nascita dei passages parigini. Essi «sono i primi luoghi nuovi del commercio e della socialità, spazi di incontro e di auto rappresentazione»18.

Parigi, nell’Ottocento, possedeva una struttura urbana risalente al periodo medievale e, nel momento in cui nacquero i passages, non esiste-vano i grandi boulevards haussmanniani. I passages, all’inizio possedeva-no il carattere della strada, sopossedeva-no, infatti, considerate «strada tra le stra-de»19. Infatti, essi erano un luogo ambiguo, lo spazio esterno si fondeva

con quello interno e viceversa. Costituivano una continuità architettonica con le piazze, le vie con i palazzi ma contemporaneamente erano uno spa-zio chiuso in cui

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il pedone può passare dall’esterno all’interno della città. Questo gioco di altalena tra fuori e dentro è uno dei motivi del fascino dei passages, perché esprime tutta l’opacità e la profondità della città, mentre, al contrario, la città del XX secolo si sogna trasparente e immateriale. I passages giocano sul mistero, sul gioco del mostrato e del nascosto, del chiaro e dello scuro20.

Lo spazio si espande, non ha confini, è una dilatazione dall’esterno all’interno e viceversa.

I passages divengono così il primo vero esempio di architettura com-merciale, infatti, questa nuova tipologia riesce a modificare sia le esigenze del negozio sia quelle della strada, modificando lo spazio urbano renden-dolo conforme alle necessità del commerciante.

Geist estendeva la definizione di questa tipologia commerciale a “strada coperta”. Sul piano architettonico la concezione di questo spazio s’inspirava ai chiostri monastici, ai mercati coperti, alle vie con i portici, alle incisioni di viaggi esotici che riproducevano i souk arabi caratterizzati dall’accumula-zione di mercati in spazi ridotti e illuminati dalla luce filtrata dai velari21.

I passages riuscirono a migliorare la circolazione all’interno degli isola-ti urbani, aumentando lo spazio commerciale e non solo. Riuscirono anche a raddoppiare i fronti stradali e quindi il ritorno economico. Potremmo affermare che essi sono il prototipo delle gallerie commerciali.

Il primo prototipo di passages fu realizzato a Parigi nel 1786 dal Duca D’Orléans all’interno del giardino di Palais Royal.

Subito dopo il 1840, le città erano state rese più sicure grazie all’intro-duzione dei marciapiedi e a una viabilità più ampia e quindi priva di perico-li. La realizzazione delle strade più ampie e più sicure, fece si che i

passa-ges, o gallerie commerciali, entrarono in crisi e, i Grandi Magazzini, posti

sulle grandi vie, assunsero un ruolo principale per il commercio. Essi, sono il risultato dell’espansione del commercio di massa22.

Questa tipologia non ha precedenti nella storia, possiamo paragonarla ai mercati coperti, alle stazioni ferroviarie e agli edifici realizzati per le esposizioni universali. Essa nasce come dice il termine, come magazzino

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In questa pagina, in basso a sini-stra: Interno della galleria del Palazzo Reale (Galerie d’Orléans): disegno da A. Pugin (Paris 1831). (da A. Stanford, p. 89).

Pagina a lato: a destra, interno durante l’innaugurazione, a sinistra sezione di progetto: L. A. Boileau, Magasin au Bon Marché, Parigi, 1887 (da A. Stanford, p. 68). Louis Victor, Giardini porticati del Palais Royal, Parigi, 1786 (da www. arsdictandi.wordpress.com).

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per le merci a buon mercato. Infatti, i primi magazzini nati a Parigi, erano conosciuti come docks à bon marché. In un primo tempo erano solo per la vendita dei tessuti o delle merci destinate alla vendita al dettaglio. L’edificio per essere adatto a questo tipo di commercio doveva essere ampio e pieno di luce.

Il modello dei grandi magazzini si diffuse nelle principali città mondiali, come Londra, Milano e negli Stati Uniti, dove ebbero un intenso sviluppo.

Come abbiamo visto, il passage era considerato un teatro, dove la scena era costituita dai negozi con le loro vetrine, e dove l’utente aveva solo il ruolo di comparsa al suo interno. Il grande magazzino diventa teatro di se stesso. Difatti le facciate dei grandi magazzini divennero monumen-tali, all’interno vi era un’atmosfera confortevole. In questo modo avviene il processo inverso, non vi è più quella fusione dello spazio, tra interno ed esterno, ma una separazione. Si cercò di enfatizzare la teatralità dell’edifi-cio attraverso la creazione di grandi scalinate, che conducevano a delle balconate che permettevano di guardare in basso e di avere una visione totale di tutto lo spazio a ogni piano.

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Joseph Paxton, navata centrale del Crystal Palace, durante il cantiere, Londra, 1851 (da Guide to Shopping, p. 235).

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Sia i passages, che i grandi magazzini erano dei luoghi del commercio stabili all’interno della città, ma manifestavano di essere inadeguati a con-tenere tutte le merci e, soprattutto, vi era la reale difficoltà di pubblicizza-re i prodotti a livello globale. Fu cosi che si spostarono al di fuori delle città creando delle strutture temporanee che permettevano di comunicare i prodotti (della tecnica e della produzione industriale) al mondo. Nacquero cosi le esposizioni universali. La prima vera esposizione che segna, sia da un punto di vista architettonico, sia da quello commerciale, un grande salto è l’esposizione tenutasi a Londra nel 1851. Per l’occasione fu costrui-to un edificio, che ha avucostrui-to delle ripercussioni e delle influenze negli odier-ni edifici per il commercio. È il Crystal Palace progettato da Joseph Paxton. Louise Wyman23, in Project on the City, considera il Crystal Palace un

edifi-cio pioneristico affermando che:

The Great Exhibition of 1851 in London’s Hyde Park, a world’s fair for the Exibition and Industry of All Nations, generated an architectural prototype. In the Crystal Palace, which exemplified structural invention and horticultu-ral experiment, the open display of commodities in a spectacular environ-ment preempted the modern shopping experience. The sheer immensity of the Crystal Palace was unprecedented and would not have been realized without the genius of its designer Joseph Paxton. The project of moderbity condensed at the Crystal Palace, as the monumentum of the industrial devolution materialized in the building’s mass-produced structure24.

Questo edificio trasforma il concetto di arcata, come soluzione spazia-le utilizzata nei grandi magazzini, da strada coperta da vetro a edificio in vetro che contiene paesaggio. Il tipo utilizzato da Paxton per il Crystal

Palace è la serra che esso stesso aveva realizzata qualche anno prima

destinata a contenere piante tropicali. In definitiva, il suddetto edificio è una mirabile sintesi di tradizione, per la forma, e di modernità per i mate-riali impiegati.

Negli anni a venire furono realizzate diverse esposizioni, ma rispetto alle prime vi è un salto di scala. Si passerà da un edificio costituito da un corpo unico a uno articolato per padiglioni, configurando cosi una vera e

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Joseph Paxton, Crystal Palace, Londra, 1851, in alto esterno, in basso interno (da Guide to Shopping, p. 235).

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propria città nella città.

Le esposizioni universali, sono state e continuano a essere organizza-te ma nessuna, fino a questo momento, è stata in grado di otorganizza-tenere lo sorganizza-tes- stes-so impatto di quelle ottocentesche.

Ritornando al nostro discorso, il Crystal Palace, come avevamo accen-nato in precedenza, è il prototipo dell’odierno centro commerciale. Lo è non solo per la sua conformazione spaziale, ma anche per la sua posizione al di fuori della città storica. Questo è un momento importante per l’urbani-stica della città. Infatti, i luoghi del commercio nascono con queste prero-gative. Anche se, in tempi recenti, il concetto del grande magazzino del centro commerciale sta ritornando nella città storica.

Questo edificio è concepito come una piccola città in cui esistono percor-si scanditi da negozi, ai margini, dove vi percor-si può trovare: la caffetteria, il cine-ma, il supermercato, il ristorante ecc. La differenza, rispetto alla città, sta nell’avere dei «percorsi obbligati e tendenzialmente unidirezionali, lo spazio è concepito come una ‘scansia continua‘, non vi sono mediazioni personali, [...] esiste una struttura coercitiva pre-condizionata dal percorso[...]»25.

Sembra entrare e uscire da luoghi unici, che presentano una struttura chiusa all’esterno e aperta all’interno come se fosse una città immagina-ria. Questi luoghi unici non sempre sono progettati da grandi nomi dell’ar-chitettura.

Difatti, se guardiamo alle opere dei grandi architetti del secolo scorso, non abbiamo una grande quantità di spazi del commercio tra i loro proget-ti. Possiamo, infatti, riportare solo alcuni esempi di grandi magazzini:

Carson Pirie Scott di Louis Sullivan (Chicago, 1903), Goldman & Salatsch di

Adolf Loos (Vienna, 1928), Shocken di Erich Mendelsohn (Stoccarda, 1928), le Sale d’Esposizione Olivetti di Scarpa.

Solo negli anni ’50, del secolo scorso, i grandi architetti saranno chia-mati solo a organizzare lo spazio interno dei negozi. La tipologia degli spazi commerciali comincerà a variare grazie a questo nuovo atteggiamento da parte dei committenti di chiamare i grandi nomi dell’architettura. Alcuni di questi negozi sono: il Morris Gift Shop di Frank Lloyd Wright (San Francisco, 1948-49), la Camiceria Knize di Adolf Loos (Vienna, 1910-13) e la

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SITE, BEST Showrooms (da Guide to Shopping, p. 397). SITE, BEST Showroom (da Guide to Shopping, p. 397).

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Ritornando al centro commerciale, il modello dello shopping center, nasce in un periodo in cui i commercianti erano pronti ad abbandonare i negozi in città, reagendo alla profonda crisi economica. Il caso è evidente, intorno agli anni Trenta del Novecento, soprattutto negli Stati Uniti, dove nasce questa tipologia.

Questi fattori determinano la necessità di realizzare nuove tipologie: grandi strutture commerciali che sono collocate in aree al di fuori e lonta-ne della città storica, a basso costo e vicilonta-ne alle grandi infrastrutture di col-legamento con il centro abitato. In molti casi, i centri commerciali sono stati in grado di diventare modello propositore capace di generare interi agglomerati urbani intorno ad esso.

In un primo momento il centro commerciale fu pensato come luogo che rifiutava il centro urbano e per questo non doveva ricordarlo ne emularlo. In un secondo momento avviene il processo inverso, questo è possibile vederlo soprattutto nei nuovi luoghi del commercio definiti outlet.

Nel corso degli anni questa tipologia entra in crisi, e a tal proposito il gruppo di architetti “radicali” SITE26si inventò una nuova strategia. Questa

consisteva nella spettacolarizzazione dell’edificio, creando cosi dei mall, per la catena BEST, che si sbriciolano, si sfogliano, si frammentano simu-lando di essere ancora in costruzione o a fondersi con la natura. In questi

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60 Impact zone

edifici la relazione tra interno ed esterno tende a sparire. L’esterno acqui-sisce una propria autonomia che è indipendente dai suoi contenuti27.

L’impianto, di molti edifici, sembra fare riferimento alla “città ideale” rinascimentale priva di problemi, pensata da pittori, letterati e filosofi e che non è mai esistita. Come detto in precedenza “uno spazio ideale” che fosse specchio, copia o simulacro della società e della politica.

A proposito dei concetti di copia e simulacro, Gilles Deleuze sostiene che

si può dire che il ‘mall‘ è simultaneamente copia e simulacro. Copia in quanto formula transazionale che rispetta una struttura architettonica di base: piazza centrale, piazza adibita alla ristorazione, parcheggio, ecc. Simulacro in quanto proposta di luogo ‘safe‘ (in quasi tutti i casi) – simula-zione della sicurezza (della città ideale) dove si possono ritrovare parec-chi aspetti tipici della convivialità urbana28.

Ed è per questo motivo, per la ritrovata convivialità, che negli ultimi anni vi è un ritorno alla città, alle strade con i suoi negozi. Questo fenome-no però avviene solo in alcune vie della città, nel resto si assiste, come dicevamo all’inizio del nostro discorso, a un abbandono e a un progressivo svuotamento dei piani terra.

Il ritorno al centro urbano, da parte dei grandi magazzini, è stato spes-so perseguito attraverspes-so la riproposizione dei Passages parigini ottocente-schi e al recupero di edifici storici, e hanno avuto la capacità di modificare anche il tessuto urbano.

Infatti, possiamo considerare lo shopping center come un grande magnete capace di attrarre e modificare a se l’ambiente circostante. I luo-ghi del commercio sono, spesso, collocati ai margini dei centri storici che hanno una forte e importante valenza storica, rappresentando un problema per il tessuto commerciale della città. In questo modo si vengono a creare delle città immaginarie che in qualche modo si sovrappongono a quelle vere, cioè:

si frappone tra il territorio e la città una quinta teatrale che simula una città, raccogliendo gente dai dintorni, e facendo capire: ‘questo è il centro,

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questa è la città’; in realtà dunque fermando la gente alle soglie della città, convincendola a non andare nella città e nel centro della città. Quasi l’ag-glomerato urbano finisce per essere, per chi si ferma qui, un’appendice sconosciuta lontana e non interessante del centro commerciale29.

Questo atteggiamento ha fatto si che i negozi tradizionali, del centro della città, sono costretti a trasferirsi, lasciando il loro spazio commerciale o a negozi di lusso, o ad agenzie o nella maggior parte dei casi ad abbandonarlo. In Italia, dove l’apparato dei piani terra del tessuto della città costitui-sce la fonte vitale e il connettivo funzionale, il problema dell’abbandono dei negozi, dalla città, è reso più grave per i motivi sovraesposti.

Altro fenomeno, attuale, che colpisce la città, e ne sta modificando il tessuto e la relazione che esiste tra strada e edificio è internet.

Infatti, nuove tecnologie e innovazione consentono di lavorare in modo più efficiente rispetto al passato. Internet non è solo uno strumento di ricerca, e di lavoro, utilizzato solo da grandi aziende, ma è uno strumento di utilizzo quotidiano. Chiunque, comodamente da casa può acquistare, in ogni parte del mondo, qualsiasi merce che si tratti di alimentari, tecnolo-gia, libri ecc. Internet è uno strumento di comunicazione che consente di operare qualsiasi operazione.

Internet modifica i luoghi, perché vi è un diverso sistema tra produttore

e consumatore. Ad esempio, un tipo di merce è prodotta in Brasile, la si ordina tramite internet, successivamente il produttore la spedisce dentro

container e viaggia attraverso navi o aerei. Arrivata a destinazione, è

smi-stata e trasferita in magazzini, anche di piccole dimensioni, dove in segui-to, chi di dovere, provvederà a consegnarla al consumatore. Esso non ha più nessun tipo di relazione con i luoghi della città per i propri acquisti. Forse, i luoghi del consumo virtuali, non sostituiranno completamente il negozio in città, ma in questo momento è solo una integrazione ad esso.

Potremmo dire che internet è un nuovo spazio sociale, che permette di vivere i luoghi e le persone come se fossero presenti fisicamente. Per assurdo internet ricorda le grandi esposizioni universali ottocentesche. Pare, «infatti, una sorta di esposizione universale assolutamente “deloca-lizzata”, ma che nelle sue forme più riuscite, esattamente come le

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esposi-zioni del passato, attribuisce ai beni di consumo la fascinazione propria del gioco e dello spettacolo»30.

Il concetto di delocalizzazione ci fa comprendere come, i luoghi del commercio, perdono, dal centro commerciale fuori città, il rapporto con il luogo, con la strada che la bottega romana possedeva. Questo rapporto, costruito attraverso scambi reali ed emozioni, avveniva, ma ancora oggi avviene, attraverso il rapporto diretto con i luoghi della città.

In internet, è possibile trovarsi in piazze di ritrovo, dove è possibile incontrare, virtualmente, individui con interessi comuni. È possibile scor-rere, o meglio farsi trascinare dai flussi virtuali da un luogo a un altro, in parti diverse del mondo. Proprio questo scorrere, condiziona fortemente le metropoli, che non sono più delle grandi sorgenti che stimolano, ma assol-vono la pura funzione di scorrimento. Esse non deassol-vono più trattenere l’in-dividuo nei luoghi di interesse, ma devono invece accompagnare, attraver-so schermi e oggetti interattivi, esattraver-so, rapidamente da un posto ad un altro, il più velocemente possibile.

Per assurdo, internet, consente di creare dei nuovi luoghi, degli avatar, dove l’individuo può indossare una maschera e avere delle relazioni che non sono dirette come quelle vissute nello spazio relazionale della città. In questa, le superfici e i materiali hanno solo un valore simbolico nelle costruzioni virtuali, e l’informazione conta più della funzione, non più spazi vissuti, dove avviene lo scambio ma spazi percettivi e sensoriali, un avatar. Uno degli avatar più famosi è il progetto denominato Second Life. In questo tipo di spazio, virtuale, non si dorme, non si mangia, non fa freddo, le architetture sono come quelle del mondo reale.

Nelle città presenti in Second Life si ha la sensazione che lo spazio vis-suto è staccato dalle esigenze dell’abitare. Le architetture, che definisco-no le città, sodefinisco-no private del loro valore funzionale tradizionale. In questi progetti troviamo la soluzione di come concepire e progettare i mondi vir-tuali. In questo modo si ha l’esigenza di progettare quei luoghi che quoti-dianamente visitiamo on line, senza che questi siano più brutti di quelli che viviamo quotidianamente.

Riconosciamo di vivere una nuova realtà, dove le tecnologie dell’infor-mazione incoraggiano una forma dell’abitare come rete, connessa ad altre

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reti e in continua trasformazione, e in quella dove l’architettura e le città devono essere pensate in maniera totalmente nuova e innovativa.

La tecnologia digitale, tra cui internet, non solo sta modificando il modo di relazionarsi con i luoghi del commercio, ma sta modificando quell’ele-mento di mediazione, tra la bottega e la strada, che è la vetrina. Anch’essa diventa interattiva, comunica e interagisce direttamente con il passante, che acquisisce un valore diverso rispetto al passato. Sicuramente una maggiore spettacolarizzazione della merce, della città, dello spazio pubbli-co che diviene relazionale. Difatti, la vetrina, elemento d’informazione, oggi, diviene interfaccia di comunicazione, non si espone più la merce ma una prestazione.

Il commercio, nel passato ha mutato, e ancora oggi sta modificando la città. Non solo riesce a trasformare e informare la città ma anche lo spirito, trasformando un’attività economica in pratica collettiva piena di significa-ti sociali e culturali.

I luoghi del commercio –nelle loro diverse tipologie ed articolazioni- da almeno due secoli non sono più solo ed essenzialmente spazi dello scam-bio ma piuttosto luoghi urbani a tutti gli effetti, dove si concentrano una vasta gamma di funzioni e di pratiche urbane delle quali lo shopping ed il consumo in senso stretto sono una parte tutto sommato ridotta. Sin dal-l’inizio dell’ottocento i luoghi del commercio della città moderna, prima i passages, parigini, poi in successione cumulativa, i grandi magazzini, le strade del commercio, i centri commerciali, gli shopping mall suburbani, le strade a tema, gli outlet sono le tappe di una progressiva incorporazione dell’agorà e delle sue funzioni (incontro, socializzazione, costruzioni di identità, ecc.) nei luoghi dello scambio. [...] I luoghi del commercio indi-pendentemente dal loro status giuridico sono da considerarsi spazi di rile-vanza pubblica e snodi essenziali della vita della città31.

La città, attraverso degli elementi che la costituiscono che sono: i palazzi e le strade, non è solo piena di merci ai piani terra, ma è satura di significati e di parole. Come abbiamo visto l’elemento che unisce il palazzo alla strada, è il negozio attraverso la vetrina che è l’elemento di mediazio-ne tra i due. Grazie ad essa, la capacità semantica della città si diffonde dai

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Figura

Foto aerea del Maeklong Market.Pianta e sezione del Maeklong Market.
Foto aerea del mercato dell’Alcaicerìa.In questo schema si evidenzia la sovrapposizione e dilatazione tra lo spazio pubblico e privato.

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