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Federico Valacchi, Archivio: concetti e parole, Milano, Editrice Bibliografica, 2017

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Bibliothecae.it, 7 (2018), 1, 464-466 DOI <10.6092/issn.2283-9364/8492>

Federico Valacchi, Archivio: concetti e parole, Milano, Editrice Biblio-grafica, 2017, 143 p., 978-88-707-5995-2, € 13.

«La memoria non è ciò che ricordiamo, ma ciò che ci ricorda». Di fronte a questa citazione di Octavio Paz, ben incorniciata sulla mensola di una libreria indipendente di Pistoia, è nata una discussione dagli esiti interes-santi. Significativa lo era, a dire il vero, sin dalla platea partecipe che coin-volgeva colleghi archivisti, lettori curiosi, editori e librai intraprendenti, semplici passanti capitati di lì per caso che si interrogavano con dubbi e risposte diverse, quanto complementari, sul concetto di archivio.

Trascorsa qualche ora abbondante nella quale avevamo passato in rasse-gna molti manuali, scomodato Derrida e Rovelli, tirato in ballo Croce fino alle RIC e, soprattutto, dopo aver raggiunto un accaloramento tra gli archi-visti, inversamente proporzionale alla noia del resto degli astanti, mi viene in mente di aver in borsa l’ultimo libro di Federico Valacchi.

Archivio: concetti e parole, un agile formato tascabile, dalla copertina così

fosforescente da attirare subito l’attenzione dei presenti che, stavolta all’u-nanimità, mi chiedono una lettura ‘spot’ ad alta voce. L’opera si presta, data la conformazione glossaristica che squaderna lemmi (concetti e parole) che in qualche modo hanno a che fare con l’archivistica. Sì, perché il vocabo-larietto proposto presenta alcune atipicità che, come tenteremo di spiegare tra poco, non possono lasciare indifferenti: le ‘voci’ disposte non in ordine alfabetico, le illustrazioni spiritose e accattivanti, le parole apparentemente del tutto decontestualizzate da un canonico sistema archivio (astronave, big

bang, coraggio, elettroni, nudo... solo per citarne alcune) risvegliano subito

l’entusiasmo. Mi aiuto con l’indice dei nomi (concetti e parole) posto a chiu-sura del volume e procedo con una lettura ad alta voce delle definizioni più

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richieste, accorgendomi che, così come fanno i cerchi concentrici generati dal tipico sasso lanciato nello stagno, anche la conversazione sta prendendo una piega virale. Ogni concetto (e parola) e ogni parola (e concetto) se ne tira dietro un altro e così via.

109 pagine, al netto del succitato indice, di un’introduzione dell’autore e di una intrigante postfazione di Ilaria Pescini, durante le quali si destruttura (proprio nel senso latino di superare gli schemi) il manualistico modo di scrivere di archivi: è come se la comunicazione tradizionale fosse ormai così permeata di tassonomie e classificazioni da perdere, talvolta, la sua valenza intensiva e lasciare, così, a scapito del significante, un po’ di significato per strada. In questo senso, il “paroliberismo” che dispone i lemmi secondo aggregazioni di pensieri in libertà, accostando per simpatia, e non per siste-maticità catene semantiche interiori, sembra esplicitare, in metafora, quella nota impossibilità di imbrigliare un archivio.

In altri termini, una provocazione che costringe (invita?) gli archivisti a riflettere su se stessi in modo che anche il piano dell’utenza, per esem-pio, riconquisti una propria centralità. Per chi è scritto allora questo libro? Abbiamo già detto come la comunicazione si ponga al centro: necessario ripartire dalle parole concedendo però anche al segno di potersi avvalere della frammentazione come momento creativo. E la riflessione porta nuo-ve domande: come si comunica l’archivio? Come lo si insegna? Dobbiamo spiegare l’archivio a tutti o portare l’archivio a tutti? La sensibilizzazio-ne parte da qui, dalla curiosità di un glossario che fa seguire a tecnicismi come inventario o iperfondo, lemmi quali ippogrifi e latteria. È il momento di dubbio che spingerà il lettore, l’archivista o l’utente a riferirsi alla voce di riferimento e a leggerla con occhi e sensibilità diverse: per il primo po-trà costituire un approfondimento potenziale, per il secondo un sorriso o una differente visione, per il terzo la scoperta che dietro ogni latteria può esserci un archivio. Il mondo che ruota intorno agli archivi manifesta infatti sempre più frequentemente l’esigenza di contaminazioni descrittive capaci di restituire la multidimensionalità di sistemi di fonti che possano risultare realmente integrati in contesti interculturali. A questo proposito, sempre Valacchi, in un recente articolo: «Tali contaminazioni passano per un pro-cesso di destrutturazione della descrizione archivistica quale noi oggi siamo abituati a pensarla. Una descrizione incapsulata cioè dentro a un sistema di relazioni che vincola le “cose” archivistiche le une con le altre, limitandone

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paradossalmente il valore autoesplicativo e la possibilità di spendere quel valore in termini di integrazione» (Pezzi di cose di cose nel mondo. Il

proces-so di integrazione delle descrizioni archivistiche nei sistemi interculturali, in

«Jlis», vol. 7 (2016), n. 2, p. 1).

Queste definizioni acquisiscono un significato nuovo e differente pro-prio grazie alla modalità dispositiva operata dall’autore: esattamente come avviene con i nostri ricordi, con la nostra memoria, questa sedimentazione non volontaria, che Agostino avrebbe chiamato ‘stanza delle meraviglie’, riflette la fluidità dell’archivio. E come spesso accade nella realtà, però, gli affastellamenti casuali sono comunque legati tra loro da un vincolo, un fil

rouge più o meno prestabilito, cifra stilistica dell’autore, che giustamente la

Pescini individua come la dimensione poetica della narrazione.

Concludendo, non saprei dire se i partecipanti di quella animata serata siano usciti dalla libreria pistoiese con più o meno consapevolezza rispet-to a quando siano entrati, ma so con certezza una cosa: riuscire a portare nell’opinione pubblica concetti e parole, normalmente così lontani (in una neanche tanto apparente perdita di consapevolezza sociale) è una frontiera dell’archivistica attiva, militante, di cui il libro di Valacchi si fa piacevole vessillo.

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