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Pietro Crescenzi, Libro dell'utilità della villa, Primi studi sul volgarizzamento

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Academic year: 2021

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Relazione finale dottorato 8.02.2012

Affrontare lo studio del Libro dell’utilità della villa, altrimenti Liber ruralium commodorum, significa accostarsi all’origine stessa di un genere letterario, quello agronomico, nella sua dimensione italiana ed europea. La preminenza del magistero di Crescenzi si registra, per l’Italia, dalla fortuna editoriale dell'opera, durata per quattro secoli senza soluzione di continuità; mentre in Europa, il Liber ha letteralmente inibito la stesura di opere agronimiche originali almeno fino al XVI secolo. Tale imponenza culturale è accompagna anche dal continuo interesse da parte di linguisti e storici, contribuendo a formare una triplice tratificazione di lettura (tecnica, linguistica e storica) che ha prodotto numerose pubblicazioni, oggi sparse in estratti, voci, articoli, saggi, introduzioni, interventi, assai dismogenei per obiettivi d’indagine e ambiti d’interesse. Questo carattere, tendenzialmente dispersivo e disorientante, ha suggerito di concentrare l’indagine sui due versanti prevalenti, quello storico e quello linguistico, che meglio riescono a percorrere il testo. Alla storia si riconducono, da un lato, le articolate fisionomie della storia agraria, nell’Italia di XIII-XIV secolo e, nella fattispecie, dell’agricoltura padana; dall'altro, si ritrovano gli elementi più strettamente collegati alla biografia, alla società e al contesto dell’autore. Alla lingua, invece, si ricollegano gli itinerari che portano ai volgarizzamenti e alle loro caratteristiche (dinamiche, produzione, pubblico, scopi…), alla nascita e alla formazione dellla lingua italiana, alla lessicografia e, più in alto, grazie all’analisi di fonti e modelli, all'anima culturale profonda del volgare italiano. Il primo intervento operato ha riacquisito e rinobilitato, all’interno di varianti e rielaborazioni prossime all’arbitrio, il titolo originale dell’opera latina, riconoscibile nella dicitura

Liber ruralium commodorum. Identico problema si poneva anche per il titolo volgare, esso pure

ricondotto alla formulazione Libro dell’utilità della villa, che ha il pregio, non secondario, di conservare l’ambivalenza singolare/plurale (utilità) e lo stampo lessicale (villa) di ascendenza ancora classica. Richiamato brevemente il contenuto dei XII libri, è da considerare la fortuna dell’opera, con speciale riguardo per le edizioni volgari, dai primi incunaboli fino alle numerosissime stampe del primo Cinquecento. L’interesse di Pietro Bembo, che volle farlo rientrare nel corpus delle sue Prose della volgar lingua, suggella la parabola del volgarizzamento e, riconoscendone il valore oltre il mero interesse tecnico-agronomico, lo innalza, a pieno titolo, nel cuore del dibattito sulla questione della lingua. Mancava però, e già Bembo ne avvertiva l’esigenza, un’edizione ripulita da errori, sviste e manomissioni. Nel 1605 fu Bartolomeo De Rossi, segretario dell'Accademia della Crusca, a tentare di rispondere a questa esigenza, costruendo una fondamentale edizione su criteri filologicamente esibiti. Se all'opera di De Rossi va il merito di includere il volgarizzamento nel Dizionario della Crusca, ad essa si deve anche imputare la diffusione di una redazione viziata ab origine da profondi difetti testuali, che, cionostante, assunse

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forza di vera e propria vulgata per tutti gli editori successivi almeno fino al 1851, quando Bartolomeo Sorio propone l'ultimo tentativo di restauro. A quel punto, però, i mutamenti indotti dalla rivoluzione agricola ed industriale di fine Ottocento ne esauriranno il successo e daranno avvio al ricco filone critico che, dal 1897 in poi, si dedica con intensità crescente al testo, interpretandolo come documento di pratiche definitivamente scomparse. Così, nella disuguale estensione e articolazione dei libri, vengono riconosciuti temi, soggetti e priorità tipici del XIII secolo, dipendenti dal mutato rapporto tra città e campagna e dal nuovo profilo del proprietario agrario, ben caratterizzato e molto vicino a quello, culturale ed umano, di Pietro Crescenzi. Ugualmente, vengono riconosciute le premesse dell'opera, perfettamente organiche all’ambiente bolognese: dall’università e dallo studium, frequentati da gruppi sociali compatti e omogenei, nasce originariamente l’esigenza del trattato, che viene steso per soddisfare le loro esigenze. Ed è in simili ambienti, presumibilmente toscani, che in seguito si manifesta l’esigenza delle traduzioni in volgare: il pubblico italiano del Duecento si andava progressivamente diversificando e comprendeva ormai anche chi, riconoscendo proprio nel sapere la via di accesso a posizioni sociali più stimate, ma non padroneggiando il latino con la dovuta sicurezza, intendeva accedere ad una cultura dotata della stessa dignità di quella latina pur se più adatta alle proprie caratteritiche. L’operazione più semplice si rivelò quella di traslare la tradizione culturale nella nuova lingua, dando avvio ad un movimento di editing volgare dalla fortuna sempre più ampia. A soddisfare la richiesta provvidero specialisti e semplici appassionati, notissimi (è il caso di Brunetto Latini) o assolutamente sconosciuti (come per il Liber ruralium commodorum), il cui compito fu di mediare tra due mondi e due culture, quella latina e universitaria, istituzionale e ufficiale, e quella volgare, autodidatta e mercantile, spontanea e privata. La fortuna delle traduzioni rivela, al loro interno, crescite e cambiamenti, imputabili al variare del gusto e al consolidarsi di metodi e pratiche. Il processo si attua nel costante confronto tra latino e volgare, che se, nella dimensione linguistica, soffre qualche tensione, sul piano dei modelli e delle fonti si muove in perfetta continuità: il riferimento per entrambe le lingue sono le opere latine classiche e imperiali, vagliate e consacrate dalla tradizione. Grazie alla traduzione, le auctotitates, prima non accessibili, divengono modelli di ampio riferimento per il contenuto, per l’esposizione e per la lingua. Adattata alla forma volgare, la classicità diviene un dato acquisito e la cultura può assumerla in tutto il suo portato, trasmettendo una conoscenza sostanzialmente classica, ma vissuta, ora, con un approccio logico e sistematico, in seguito tecnico-scientifico strictu sensu, tipico della cultura medievale. Il pensiero nuovo aggiungeva anche la sua attitudine pratica e sperimentale, che declinava i saperi teorico-speculativi in istruzioni, indicazioni e regole di condotta. Per quegli uomini ‘nuovi’ il sapere era utile, oltre che in sé e per le loro ambizione sociale, anche per i risvolti applicativi intrinseci. Di qui nasce la volontà, quasi la foga, di acquisire, nel più breve tempo possibile, il maggior numero di testi:

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l’oratoria, la memorialistica e la storiografia erano impiegate nella vita civile e politica; gli scritti letterari alla formazione scolastica e allo svago; i tecnici per professionisti, esperti o anche solo appassionati. Il volgare assume la tradizione latina e ne ricava sia modeli etici, utili per la rinnovata sensibilità, sia, tramite il suo caratteristico vitalismo, strutture linguistiche, ancora efficaci alla realizzazione di una conoscenza rinnovata. Nel volgere di qualche decennio, cronache, narrazioni e trattati assumono quella grandezza di tratto che nobilita i ideali e lingua. Un altro lascito del mondo classico, per certi aspetti anche più importante è costituito dal patrimonio lessicale: è l’ambito in cui le lacune del volgare sono più profonde e da cui potevano provenire anche gli sviluppi maggiori. Per reperire i corrispondenti adeguati alle parole latine, le possibilità erano o di risemantizzare termini già esistenti, o di crearne di nuovi, o di ricorrere a prestiti e calchi. Si produsse, così, un progressivo accrescimento del repertorio lessicale, fino a creare un settore specialistico riconoscibile, dedicato all’agronomia. Una simile potenzialità, a maggior pregio, si fondeva con uno stile semplice ed elegante, sempre derivato dalla originaria matrice latina del trattato ed ora replicato dal volgarizzatore nelle movenze del volgare. Dal connubio tra stile e lingua presero le mosse, appunto, gli interessi di linguisti e grammatici, che assunsero il Libro dell'utilità come campione di bello stile toscano del secolo d’oro, a fianco delle Tre Corone. Il definitivo riconoscimento di autorità è rappresentato dall'ingresso del testo nel Dizionario dell'Accademia, seguito al lungo dibattito sulla questione della lingua, aspetto che coglie, con particolare evidenza, anche le dinamiche di formazione del tesauro stesso e dei testi di supporto alla sua creazione. Ogni versante finora esplorato, dunque, nonostante culmini nell'opera di Piero Crescenzi, ha evidentemente dimostrato tali estensione e autonomia da spingere il percorso, in molti momenti e modi, verso territori altri, limitrofi rispetto agli scopi dell’indagine, oltre che reciprocamente divergenti. Per non depauperare il testo, si è scelto di dare conto delle sue imprescindibili dimensioni per quanto possibile al fine di inquadrare opportunamente il milieu del trattato, ignorando la pretesa, probabilmente utopistica, di squadrare con precisione l’agronomia medievale, di cui il Libro dell’utilità della villa rimane il testimone privilegiato.

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