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il disturbo da deficit di attenzione e iperattivita'(ADHD) nel paziente bipolare: rassegna critica della letteratura e contributo clinico.

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FACOLTA’ DI MEDICINA E CHIRURGIA

Corso di Laurea Specialistica in Medicina e Chirurgia

DISTURBO DA DEFICIT DI ATTENZIONE E

IPERATTIVITA’ (ADHD) NEL PAZIENTE BIPOLARE:

RASSEGNA CRITICA DELLA LETTERATURA E

CONTRIBUTO CLINICO

Relatore Candidato

Dott. Giulio Perugi Tommaso Centoni

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INDICE

PARTE PRIMA: RASSEGNNA CRITICA DELLA LETTERATURA

Introduzione pag 3 Cenni storici pag 8 Epidemiologia pag 16 Nosografia e Diagnosi pag 19 Comorbidità pag 24 ADHD e Disturbo Bipolare pag 29 ADHD e disturbo da uso di sostanze pag 33 Trattamento pag 38 Trattamento e gestione del paziente con ADHD e DUS pag 49

PARTE SECONDA: CONTRIBUTO CLINICO

Obiettivi dello studio pag 53 Metodo pag 54 Analisi statistica pag 57 Risultati pag 58 Discussione pag 65 Conclusioni pag 71 Bibliografia pag 73 Tabelle pag 82

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INTRODUZIONE

Il disturbo da deficit dell'attenzione ed iperattività (ADHD) è definibile come uno stato persistente di disattenzione e/o iperattività-impulsività, più frequente e più grave di quanto si osservi tipicamente in soggetti dello stesso livello di sviluppo. E’ storicamente conosciuto come un disturbo esclusivo dell'età infantile ed adolescenziale, che coinvolge la sfera emozionale, cognitiva e comportamentale, e che tende a risolversi con l’approssimarsi alla maggiore età. Tuttavia, sono sempre più numerose le ricerche scientifiche che documentano la persistenza e l’evoluzione dell’ADHD in età adulta, osservando un conseguente elevato grado di disabilità nei vari ambiti della vita quotidiana. L’impatto di questa condizione psicopatologica sulla qualità di vita è di notevole entità ad ogni età. Se nell'adolescenza il disturbo si associa ad un rischio elevato di traumi ed incidenti, di abuso di sostanze e di disturbi dell’umore e della condotta, in soggetti adulti è frequente il riscontro di difficoltà nella guida, di malattie sessualmente trasmesse, di gravidanze precoci, di scarse abilità sociali, di una precoce interruzione degli studi, di scarso successo lavorativo, di problemi coniugali (Barkley, 2006). Ad incrementare la criticità del quadro clinico gioca poi un ruolo di primaria importanza la comorbidità con altri disturbi mentali.

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La prevalenza di ADHD nella popolazione infantile varia dal 3 al 12% (Tamam et al., 2008; Kent e Craddock 2003; Wingo e Ghaemi, 2007) mentre in età adulta è stimata intorno al 4-5% (Tamam et al., 2008; Wingo e Ghaemi, 2007; Sobanski et al. 2007; Fisher et al., 2007). Numerosi studi clinici ed epidemiologici documentano la persistenza dell’ADHD in età adulta in una percentuale di casi che va dal 10 al 60 % (Zametkin 1995, Torralva et al 2010).

È interessante osservare come l’espressione sintomatologica dell’ADHD si modifichi nel bambino rispetto all’adulto, in cui l’iperattività e l’impulsività tendono ad attenuarsi e il deficit di attenzione e la difficoltà a rilassarsi a persistere (Sentissi et al., 2008; Wilens et al., 2009). Molti sintomi di ADHD sono spesso erroneamente attribuiti ad altre disturbi mentali quali: i disturbi dell’umore, di ansia e d’uso di sostanze (Klassen et al. 2010). Ciò è dovuto ad una sovrapposizione sintomatologica ai vari quadri clinici che contribuisce a sottostimare la prevalenza e a sottodiagnosticare l’ADHD nell’adulto (Fischer et al. 2007; Kessler et al., 2006; Klassen et al., 2010).

Una trattazione esaustiva dell’ADHD non può prescindere dalle comorbidità che nell’80% dei casi accompagnano la diagnosi. Per l’ADHD la comorbidità è la regola, non l’eccezione (Masi 2006). Si riscontrano, per frequenza ed impatto sulla qualità di vita, il Disturbo da uso di sostanze (DUS) e Il Disturbo Bipolare

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(BD) (Halmoy, 2010). Alcuni autori sottolineano come la frequente associazione tra BD ed ADHD ponga particolari problematiche diagnostiche già nel bambino (Zimerman, 2008).

Esistono tuttora alcune difficoltà nel formulare diagnosi di ADHD nell’adulto. Le problematiche sono da ricondurre ai criteri diagnostici attualmente vigenti (DSM-IV-TR), sviluppati secondo studi condotti su campioni di popolazione in età infantile e adolescenziale. E che non tengono di conto dell’evoluzione delle manifestazioni sintomatologiche in età adulta e delle problematiche ad esse relative.

Gli elementi di criticità sono il limite di età entro la quale debbono esordire i sintomi (7 anni) e la mancanza di considerazione per l’evoluzione clinico-sintomatologica nel soggetto adulto. I medici spesso non indagano con attenzione la storia anamnestica del paziente affetto da ADHD, non riconoscono i sintomi caratteristici e li confondono con quelli dei disturbi concomitanti (Goldstein 2009).

Nella comorbidità con il BD, importante fattore di confondimento sono i numerosi punti di somiglianza e sovrapposizione tra i sintomi delle due patologie. Il BD è caratterizzato da episodi ricorrenti di mania/ipomania e depressione maggiore e/o stati misti. La fase espansiva (mania/ipomania) è

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connotata da labilità affettiva, logorrea, distraibilità, eccentricità, irrequietezza e disinibizione (Wingo e Ghaemi, 2007). A distinguere il BD di tipo I dal tipo II è la maggior gravità dell’elevazione dell’umore e la disabilità (quantificabile in episodi psicotici, necessità di un’urgente ospedalizzazione o marcato danneggiamento) che vi si associa. Al contrario dei pazienti con mania quelli con ipomania infrequentemente si sottopongono a valutazione specialistica per la scarsa consapevolezza di malattia e aderenza ai trattamenti. E’ utile sottolineare che sebbene la gravità della fase maniacale sia evidente, molte disabilità associate al BD si verificano durante la fase depressiva. Dopo circa un trentennio, il gold standard per il trattamento del BD rimangono i Sali di Litio sebbene sia il Valproato, le Benzodiazepine e gli Antipsicotici di nuova generazione si siano dimostrati efficaci nel trattamento della mania. Il BD presenta molte comorbidità come il disturbo d’ansia, l’ADHD e l’abuso di sostanze, che incidono nel ridurre le capacità funzionali dei pazienti, peggiorandone marcatamente la qualità della vita e la prognosi. La principale problematica nella gestione terapeutica delle comorbidità è l’impiego di antidepressivi (SSRI, SNRI e TCA) che possono indurre viraggi maniacali, accelerazione della ciclicità del disturbo e/o favorire l’instaurarsi di stati misti cronici attenuati, così come può peggiorare l’esito della malattia.

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Porre diagnosi differenziale fra BD e ADHD è una sfida (Klassen et al., 2010). Tuttavia i pazienti affetti da BD si distinguono per la presenza di sintomi caratteristici quali: ridotto bisogno di sonno, sintomi psicotici, e autostima ipertrofica che sono generalmente assenti nei pazienti con ADHD (Wingo e Ghaemi, 2007). Inoltre è dirimente osservare la natura episodica del BD in contrapposizione al tratto costante che si ravvisa nell’ADHD. (Chokka, 2010; Halmoy, 2010).

Questa tesi si propone di analizzare le caratteristiche cliniche e epidemiologiche dell’ ADHD nell’adulto con particolare attenzione alla condizione di comorbidità con il BD. Verranno prese in considerazione le implicazioni cliniche, prognostiche e terapeutiche di tale condizione comorbile attraverso la presentazione di uno studio di ricerca eseguito presso gli Ambulatori e il Day-Hospital della Clinica Psichiatrica di Pisa.

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CENNI STORICI

La storia dell’ADHD ha inizio agli albori del XX secolo quando venne riscontrata in alcuni bambini una sindrome comportamentale come esito della pandemia di encefalite di Von Economo. La fenomenica comprendeva sintomi di agitazione, difficoltà nell’apprendimento, incoordinazione, aggressività ed impulsività.

Da allora questi bambini impulsivi vennero ritenuti affetti da “ danno cerebrale minimo ” (anche in assenza di comprovato danno cerebrale), da “ disfunzione cerebrale minima ” ( benchè un’anomalia neurologica conclamata produca disfunzioni simili), da “sindrome ipercinetica “ (DSM-II, 1968) (sebbene non siano coinvolti i soli sistemi motori), e da “ sindrome da iperattività “ (sebbene il 50% di tutti i maschi “ normali ” sia considerato iperattivo da genitori ed insegnanti). Sono stati anche utilizzati termini quali "deficit percentuale", "deficit d'integrazione psiconeurologica", "disturbo dell'impulso dell'iperattività" e "sindrome del bambino iperattivo” (Arnold e Jensen, 1995).

Per quanto riguarda la storia dell'ADHD in quanto “disturbo dell'età adulta”, esistono meno riferimenti (Barkley, 2008). Anche se l'interesse collettivo sul disturbo in età adulta è stato richiamato dal bestseller “Driven to Distraction”

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(Hallowell e Ratey, 1994), lavori clinici e scientifici supportano l'esistenza di una “ versione adulta” dell' ADHD da almeno 40 anni, per non dire da almeno un secolo (Barkley, 2008). E' stato George Still a formulare per primo l'ipotesi che gli adulti possano essere affetti da ADHD come conseguenza di una cronicizzazione della sintomatologia disattentiva ed iperattivo-impulsiva presente sin dall'infanzia (Barkley, 2008). I primi importanti dati a sostegno dell'ipotesi di Still risalgono alla fine degli anni sessanta, ovvero a studi che dimostravano la persistenza dei sintomi di iperattività e di “minimal brain damage” in molti soggetti adulti (Mendelson et al., 1971).

Successivamente altri autori hanno dimostrato come i genitori di bambini iperattivi fossero stati a loro volta iperattivi in età infantile. Da adulti erano più spesso affetti da sociopatia, isteria e alcolismo (Cantwell, 1975; Stewart e Morrison, 1973).

Harticollis (1968) ha sostenuto come l'ADHD possa essere il risultato dell'interazione tra un difetto cognitivo congenito ed un'educazione particolarmente esigente e perfezionista da parte dei genitori. Circa un anno dopo, Quitkin and Klein (1969) reclutarono 105 pazienti presso l'Hillside Hospital di New York per valutare i sintomi comportamentali da danno cerebrale.

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Shelley e Reister, negli anni settanta (1972), hanno evidenziato in un gruppo di pazienti affetti da ADHD la presenza di deboli segni di disturbi neurointegrativi quali goffaggine motoria, difficoltà nel mantenere l'equilibrio, lateralità confusa, e problematiche di coordinazione. Nello stesso periodo, Anneliese Pontius (Pontius, 1973), propose una disfunzione del lobo frontale e del caudato alla base del disturbo e Morrison e Minkoff (Morrison e Minkoff, 1975)osservarono la persistenza del disturbo nell'età adulta.

Risale al 1976 la prima osservazione sull'efficacia degli psicostimolanti (metilfenidato) nel trattamento dell'ADHD nell' adulto (Wood, et al., 1976). La scoperta venne realizzata attraverso uno studio a doppio cieco controllato con placebo. Altre indagini condotte negli anni settanta e nelle decadi successive hanno confermato l'efficacia di psicostimolanti e antidepressivi.

A Paul Wender (Wender, 1995) si deve lo sviluppo dei criteri diagnostici dell'ADHD nell'adulto. È stato il primo ad evidenziare come i criteri del DSM-II prima (1968) e del DSM-III poi (1980) non fossero appropriati per i pazienti adulti. Sviluppò i criteri di UTAH per la diagnosi. Anche i criteri elaborati da Wender mostravano elementi di criticità dal momento che escludevano dalla diagnosi di ADHD le comorbidità con depressione maggiore, psicosi, o gravi disturbi di personalità. Seguendo detti criteri l’ADHD non verrebbe

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diagnosticato in un numero significativo di pazienti, che invece trae beneficio dal trattamento (Barkley, 2008). Altri studi (Barkley et al., 2006; Fischer et al., 2002; Murphy e Barkley, 1996) indicano come una percentuale significativa di bambini e di adulti con ADHD sia affetta da depressione maggiore o distimia (22-27%) e disturbi di personalità (11-24%) sin dall'infanzia (Barkley, 2008). Per questo, i criteri di UTAH sono sottoutilizzati a favore del DSM-IV.

Il primo studio di neuro-imaging in soggetti adulti con ADHD, condotto da Zamektin (Zametkin et al., 1990) ebbe importanza storica. Dai risultati emergeva una riduzione globale del metabolismo cerebrale negli adulti iperattivi, in particolare a carico della corteccia premotoria e prefrontale superiore. Grazie a questo lavoro, a partire dai primi anni ’90, l'ADHD è stato riconosciuto come un disturbo psichiatrico dell'adulto (Spencer et al., 1994).

È da tenere in considerazione inoltre l’evoluzione dei trattamenti del disturbo. La terapia non-stimolante a base di atomoxetina, è stata studiata in migliaia di adulti in trials clinici randomizzati e controllati contro placebo (Spencer et al., 1998). Successivamente il metilfenidato e i sali misti di amfetamine si sono dimostrati efficaci negli adulti (Spencer et al., 2001; Spencer et al., 2005). Questi farmaci, al pari dell'atomoxetina, hanno ricevuto l'approvazione nel trattamento dell'adulto dalla Food and Drug Administration.

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Per quanto riguarda i trattamenti psicologici, Safren e colleghi prima (Safren et al., 2005) e Ramsey e Rothstein poi (2007) hanno proposto un programma cognitivo comportamentale specifico per gli adulti con ADHD.

Molto di più si conosce circa il BD. Oggi il BD rappresenta una problematica di salute pubblica di notevole entità: la prevalenza si attesta intorno all'1 % per il BD di tipo I fino al 5 % del BD tipo II e più ancora se si considera lo spettro del disturbo (Kent, and Craddok, 2003; Wingo and Ghaemi, 2007; Akiskal et al. 2000). La malattia ha un considerevole impatto su funzionamento e qualità della vita del paziente (Nieremberg et al.,2005; Sentissi et al., 2008; Biederman et al., 1997; Brown, 2006). Tradizionalmente il BD è stato descritto come una condizione a carattere episodico. L’aggettivo bipolare suggerisce la presenza di due fasi: la depressiva e la maniacale. La fase espansiva (maniacale) è caratterizzata da labilità emotiva, spiccata loquacità e spinta a parlare, distraibilità, aumento delle attività finalizzate, agitazione psicomotoria, e perdita delle normali inibizioni sociali. Nondimeno, i pazienti affetti da BD, possono sperimentare una riduzione del bisogno di sonno, sintomi psicotici, allucinazioni ed una esagerata autostima, sintomi che peraltro non sono caratteristici dei soggetti affetti da ADHD.

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La diagnosi di BD nell’infanzia è controversa: alcuni autori sostengono l’estrema rarità della diagnosi nel bambino, altri sostengono come questa condizione sia sotto diagnosticata e misconosciuta in età infantile (Kent and Costello et al., 1996). La forma ad esordio nell’infanzia e quella adulta differiscono sul piano clinico, evidenziando nei bambini umore costantemente e non ciclicamente irritabile, come accade nell’adulto. Quando i sintomi sono accettati come segno di BD nel bambino e nell’adolescente la prevalenza raggiunge lo 0.3 % (Kent and Craddok, 2003).

A partire dalla decade passata è cominciata un’accesa discussione circa l’associazione di ADHD e BD e da allora la loro potenziale relazione negli adulti e nei bambini è stata abbondantemente discussa in letteratura. La radice di tale interesse è consiste nell’elevato tasso di associazione tra i due disturbi. Sachs et al. (2000) hanno proposto quattro ipotesi che possono aiutare a spiegare la coesistenza dei sintomi di mania e di ADHD:

La comorbidità è un fenomeno fortuito.

La comorbidità è un artefatto imputabile alla sovrapponibilità dei criteri.

La comorbidità è dovuta ad una comune diatesi che rende i pazienti vulnerabili ad entrambe le malattie.

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I sintomi di ADHD che precedono l’esordio di BD rappresentano un espressione pre-puberale di malattia, antecedente all’insorgenza di un vero e proprio episodio affettivo.

Nel DSM-IV i sintomi più gravi di ADHD e BD si sovrappongono e ciò ovviamente complica la diagnosi nei soggetti che presentano entrambi i disturbi (Kent and Craddok, 2003; Wingo and Ghaemi, 2007). Un unico studio ha valutato che l’alta percentuale di correlazione fosse dovuta alla sovrapposizione dei sintomi. Milberger et al. (1995) hanno utilizzato due differenti metodi per studiare la corretta percentuale di comorbidità. Essi tengono conto della sovrapponibilità di alcuni criteri diagnostici: il metodo della sottrazione e quello della proporzione. Il primo propone di rimuovere tutti i sintomi comuni. Utilizzando questo nuovo strumento, il 79 % ed il 64 % dei soggetti ADHD/BD mantiene la propria diagnosi di ADHD e BD rispettivamente. Il metodo proporzionale invece è meno conservativo e rispettivamente l’86 % e 93 % dei pazienti mantiene una diagnosi esclusivamente di ADHD o BD. Questi dati confermano che la sovrapponibilità dei sintomi all’interno del DSM-IV non è responsabile dell’elevata percentuale di comorbidità descritta in letteratura.

Sorgono inoltre perplessità riguardo la metodologia utilizzata negli studi. Pochi hanno esaminato entrambe le condizioni simultaneamente. Inoltre gli strumenti

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con cui viene posta diagnosi ADHD sono eterogenei. Alcuni utilizzano l’autovalutazione, altri diagnosticano retrospettivamente l’ADHD dell’infanzia nell’adulto. In secondo luogo i criteri diagnostici per l’ADHD sono basati sui sintomi presenti nell’infanzia, mentre il BD è maggiormente conosciuto nell’età adulta. Ciò rende difficoltoso stabilire un legame tra due condizioni descritte in differenti stadi di sviluppo.

In terzo luogo, la maggior parte degli studi si basa su indagini cliniche. Conseguentemente, è da tenere presente il bias di Berkson per il quale i pazienti treatement-seeking tendono a presentare più comorbidità rispetto alla popolazione generale affetta (Nieremberg et al.,2005;Berkson, 1946).

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EPIDEMIOLOGIA

La prevalenza di ADHD nei paesi occidentali appare eterogenea, in relazione alla differente modalità di indagine eseguita in USA ed Europa. Malgrado l’ipotesi secondo cui una più elevata prevalenza del disturbo negli Stati uniti sia dovuta all’esposizione a prodotti di tecnologie avanzate (additivi alimentari sintetici, benzina contenente piombo, coloranti ) è assai probabile che sia attribuibile ad una differente sensibilità diagnostica.

L’ADHD ha una prevalenza elevata. Si ritiene che ne sia affetto il 3-7% dei soggetti in età scolare con un rapporto 4:1 tra sesso maschile e femminile (10% vs 2%); la prevalenza osservata nei bambini in età prescolare è del 2-8%, e sale al 4-12% nei soggetti delle scuole elementari. Si riduce nell’adolescenza a circa il 6% (Kessler et al., 2006). Numerose evidenze suggeriscono una prevalenza maggiore delle forme inattentive nelle femmine e di quelle iperattive ed impulsive nei maschi, nei qual si riscontrerebbe una comorbidità più frequente con disturbi esternalizzanti (Disturbo oppositivo-provocatorio, Disturbi della condotta).

L’ADHD negli USA costituisce circa il 30-40% dell’utenza dei servizi ambulatoriali di psichiatria dell’età evolutiva, ed è presente nel 40-70% dei

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soggetti psichiatrici ricoverati. Alla metà degli anni ’80 il 2-4% circa della popolazione scolare americana riceveva cure psichiatriche con psicostimolanti, mentre alla fine degli anni ’80 le campagne pubbliche ad opera della Chiesa Scientista avevano causato una riduzione dell’uso clinico di questa categoria di farmaci (Safer e Krager, 1992). Tra il 1990 e il 1995 vi è stato poi un nuovo aumento di 2,5 volte dell’uso di stimolanti negli Stati Uniti (Valentine et al., 1997).

Per quanto riguarda la popolazione adulta fino a qualche anno fa ci si limitava ad una stima grossolana utilizzando le informazioni sulla prevalenza dell’ADHD nell’infanzia e sulla prognosi della malattia. Tenendo conto che la sintomatologia persiste nel 50% dei casi e che il disturbo non compare ex-novo negli adulti. (Harpin, 2005; Hechtman, 2000; Mannuzza et al., 1993). Recentemente indagini epidemiologiche come il National Comorbidity Survey, condotto su una popolazione adulta di 10.000 soggetti, indicano una prevalenza del 4,4% con una maggior frequenza del tipo con disattenzione prevalente rispetto agli altri due (Kessler et al., 2006); dati confermati in studi successivi (Klassen, 2010; Wilens, 2009).

In uno studio condotto su un campione di 102 soggetti reclusi in un penitenziario, il 25,5% rispondeva ai criteri diagnostici per l’ADHD. Questo

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dato rispecchia la maggiore incidenza di psicopatologia e comorbidità psichiatrica presente nella popolazione carceraria.

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NOSOGRAFIA E DIAGNOSI

Prima dell'avvento dei criteri operativi del DSM III (1980), la sindrome era considerata come composta da deficit comportamentali, motori, cognitivi e senso-percettivi, includenti una grande varietà di sintomi come iperattività, disattenzione, distraibilità, impulsività, labilità dell'umore, irritabilità, immaturità, disobbedienza, ostilità, dislessia o altri disturbi dell'apprendimento. Con il DSM III si cessa di considerare l'iperattività come l'elemento cardine della sindrome e si pone la disattenzione, o deficit dell'attenzione, quale elemento centrale, con l'impulsività e l'iperattività come accessori. Per questi motivi il DSM III adotta la definizione di disturbo da deficit dell'attenzione (ADD). Nella terza edizione riveduta del DSM III-R, (1987), viene nuovamente dato risalto diagnostico all'iperattività e si definisce la sindrome "Disturbo da deficit dell'attenzione e iperattività". Con la pubblicazione del DSM IV (1994), è ridata importanza al deficit dell’attenzione. Impulsività ed iperattività rimangono inclusi nella lista dei criteri.

Il DSM IV inquadra l'ADHD nell'ambito dei disturbi dell'infanzia e dell'adolescenza, e ne prevede tre tipi:

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con iperattività-impulsività predominanti, combinato.

Nel DSM III-R non sono presenti i criteri per la diagnosi della forma residua o persistente nell'età adulta, mentre il DSM IV specifica la definizione di “ADHD in remissione parziale” in adolescenti e adulti che non soddisfano più pienamente i criteri. L'ICD 10, invece, offre una diagnosi di "sindrome ipercinetica" caratterizzata da impulsività, aggressività e disattenzione, accompagnate spesso da una storia di danno perinatale o neonatale.

I criteri del DSM-IV-TR (Tabella 1) per la diagnosi di ADHD sono validati unicamente su bambini ed adolescenti e quando estesi agli adulti mostrano alcuni limiti di sensibilità e specificità.

Il Criterio A impone la persistenza di almeno 6 sintomi di disattenzione e/o di iperattività-impulsività per almeno 6 mesi, con un'intensità che provoca disadattamento e che contrasta con il livello di sviluppo. Il Criterio B colloca l’età di esordio di alcuni dei sintomi che causano compromissione al di sotto dei 7 anni. Il Criterio C indica la presenza di malfunzionamento in due o più contesti (lavoro, scuola, famiglia). Diversi Autori (Heiligenstein et al., 1998; Barkley, 2006) sottolineano che il pattern sintomatologico dell’adulto affetto da ADHD spesso si modifica nel tempo ed è per lo più caratterizzato dall’attenuazione di

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alcuni sintomi (iperattività ad impulsività) e dalla cronicizzazione e persistenza di altri (disattenzione). Inoltre la sovrapposizione di altre patologie psichiatriche come disturbi dell'umore, d'ansia e da uso di sostanze, può mascherare il deficit di attenzione e l’impulsività, favorendo una sottostima del disturbo. Infine le problematiche che i pazienti incontrano in età adulta riguardano contesti e situazioni (matrimonio, figli, lavoro) diversi da quelli dell’età evolutiva, con un impatto emotivo e pratico differente. Gli studi di ricerca che adottano i criteri del DSM-IV-TR escludono dei potenziali casi di ADHD che non soddisfano pienamente i criteri, pur manifestando disadattamento in vari ambiti. E’ stato osservato, infatti, come la presenza di almeno 6 sintomi di inattenzione e/o iperattività-impulsività, sia un criterio eccessivamente restrittivo e scarsamente realistico nella popolazione adulta. Per tale motivo in letteratura si trovano molti studi che adottano sistemi diagnostici alternativi quali gli Utah criteria for adult

ADHD proposti da Wender (Tabella 2).

Diversi autori, inoltre, hanno messo in evidenza la necessità di criteri diagnostici specifici in base all’età del soggetto, validati da studi eseguiti esclusivamente su adulti (Murphy and Barkley 1996; Faraone et al., 2000).

Nell’adulto possono essere somministrate scale di autovalutazione, quali la

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(WURS) o altre che necessitano della presenza di un familiare come la ADHD Rating Scales-IV. L’uso di test neuropsicologici (Stroop tasks e Continous performance tests) è volto alla valutazione delle funzioni cognitive e possono

risultare utili anche nel monitoraggio dell’efficacia dei trattamenti.

Le problematiche principali nel formulare diagnosi di ADHD nell’adulto includono: piena rispondenza ai criteri diagnostici del DSM-IV, appropriatezza dell’evolutività dei sintomi, criterio dell’età, validità della diagnosi di ADHD non altrimenti specificato (NOS), comorbidità con altri disturbi mentali.

Attualmente la diagnosi nell’adulto può essere formulata soltanto se sono rispettati tutti i criteri dell’ADHD nel bambino. Se questa condizione non è soddisfatta i soggetti con diagnosi di ADHD vengono classificati come ADHD NOS. Tale categoria, nella maggior parte dei casi, comprende ADHD a esordio

tardivo e ADHD sottosoglia. Nel primo caso il paziente soddisfa tutti i criteri

dell’ADHD nel bambino eccetto l’esordio prima dei 7 anni; nel secondo caso il paziente non ha mai ricevuto diagnosi di ADHD da bambino, ma si riscontrano comunque sintomi persistenti e invalidanti.

La maggior parte dei soggetti con ADHD a esordio tardivo (83%) riferisce l’inizio dei sintomi prima dei 12 anni (Faraone et al., 2006). Questo

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suggerirebbe che il criterio dell’età attualmente in uso nel DSM-IV sia eccessivamente restrittivo.

La presenza di una comorbidità psichiatrica può complicare la diagnosi perché ci può essere sovrapposizione tra i sintomi dei vari disturbi. Ad esempio nel BD si riscontrano frequentemente iperattività, disattenzione, loquacità, malfunzionamento lavorativo e impulsività, sintomi propri anche dell’ADHD (Klassen, 2010).

Per i pazienti che presentano anche un DUS esistono ulteriori problematiche specifiche: l’abuso di alcol e sostanze può simulare i sintomi dell’ADHD, i dati complessivi necessari per la diagnosi possono risultare più difficili da reperire, infine, la diagnosi di ADHD è scarsamente conosciuta e raramente formulata dagli operatori sanitari deputati al trattamento dell’abuso di sostanze.

Di per sé molte sostanze d’abuso possono determinare la comparsa di sintomi che mimano l’ADHD. La cocaina causa agitazione e irrequietezza psicomotoria e fenomeni simili possono verificarsi anche nelle sindromi astinenziali.

I pazienti con DUS più spesso incontrano difficoltà nel rammentare i sintomi dell’infanzia a causa del deterioramento cognitivo legato all’uso cronico e continuativo di alcol e sostanze quali oppioidi, marijuana e metamfetamine.

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COMORBIDITA’

Un’alta percentuale di soggetti con ADHD ha un altro disturbo psichiatrico associato. Tale percentuale sarebbe 80% nell’adulto (Klassen at al, 2010). La letteratura riporta comorbidità con molte condizioni quali disturbo oppositivo-provocatorio, disturbo della condotta, disturbo ossessivo-compulsivo, disturbo da uso di sostanze, disturbi dell'umore, disturbi d'ansia, disturbo di Tourette, disturbi dell'apprendimento, ritardo mentale, e disturbo borderline di personalità. Si stima che il 25-75% degli adolescenti con ADHD soddisfi anche i criteri per il Disturbo Oppositivo e per i Disturbi della Condotta (Barkley, 2006), e che tale condizione si associ ad una prognosi peggiore in termini di adattamento e di risposta ai trattamenti. In una ampia casistica di soggetti tra i 9 e i 16 anni con ADHD si riscontrava un Disturbo dell'Umore nel 48% dei casi, nel 36% un Disturbo Oppositivo-Disturbo della Condotta e nel 36% un Disturbo d’Ansia (Bird et al., 1993). In uno studio condotto dal 1988 al 2003 sono stati confrontati 280 pazienti con diagnosi di ADHD e 142 pazienti negativi a tale diagnosi tutti di età compresa all’arruolamento tra 6 e 18 anni. I soggetti con ADHD avevano riportato alla fine dello studio un rischio significativamente aumentato di

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sviluppare un BD, un disturbo depressivo maggiore o un disturbo della condotta. (Biederman, 2009).

Per alcuni autori l'ADHD e il disturbo della condotta sono entità cliniche indistinguibili con una completa sovrapposizione sintomatologica, per altri sono parzialmente o completamente indipendenti. Questa seconda ipotesi è supportata da ricerche che confrontano modelli di aggregazione familiare e prestazioni cognitive. Loney e coll. hanno osservato che la copresenza nell'infanzia dell'ADHD e del disturbo della condotta evolve, nell'adolescenza, verso comportamenti aggressivi e tendenza a delinquere; viceversa, l'ADHD senza disturbo della condotta può residuare in deficit cognitivi e scolastici (Loney, 1980; Mc Gee et al., 1984). Altre indagini hanno dimostrato che bambini con ADHD in comorbidità con disturbo della condotta hanno un decorso peggiore e minore risposta terapeutica dei bambini con ADHD senza disturbo della condotta (Biederman et al., 1991). È interessante fare un’ osservazione riguardo la differenza di genere esistente in questi disturbi. I Disturbi della Condotta hanno una prevalenza doppia nel sesso maschile rispetto a quello femminile. Inoltre, essi costituiscono spesso il motivo principale per cui i bambini affetti da ADHD vengono identificati e sottoposti a trattamento. È probabile, quindi, che in alcune bambine non venga diagnosticato il disturbo. Considerando che i tassi

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di prevalenza dell’ADHD in età pediatrica per sesso variano tra 3:1 e 10:1, è facile sospettare che questa differenza possa almeno in parte essere giustificata dalla mancata identificazione di una certa quota di casi in soggetti di sesso femminile (Biederman, 2004).

Una differenza simile è riscontrabile nel Disturbo di Personalità Antisociale (diagnosi dell’età adulta); uomini con ADHD ricevono questa diagnosi più frequentemente delle donne. Per quanto riguarda la prevalenza di Disturbo Oppositivo-Provocatorio i tassi sono quasi identici nei due sessi, sia in età pediatrica sia in età adulta (Biederman, 2004).

Una sovrapposizione fra ADHD e disturbi dell'apprendimento è ampiamente riportata nella letteratura. Il ridotto rendimento scolastico dei bambini con ADHD può essere correlato alla disattenzione e all'impulsività caratteristiche del disturbo, ai deficit cognitivi o ad altri fattori come lo svantaggio sociale e la demoralizzazione. Probabilmente l'ADHD e i disturbi dell'apprendimento rappresentano entità separate, dato che il primo è un disturbo comportamentale, mentre i secondi includono deficit di vari processi cognitivi come linguaggio, lettura, scrittura, calcolo. Inoltre molti bambini con ADHD non hanno problemi di apprendimento e non tutti i bambini con disturbi dell'apprendimento hanno l' ADHD.

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Diversi studi sottolineano una forte comorbidità tra ADHD nell'adulto e disturbi d' ansia, evidenziando una prevalenza del Disturbo da Ansia Generalizzata nel 24-43% di pazienti (Barkley et al., 1996; Minde et al., 2003; Shekim et al., 1990). Togersen e coll. (2006) hanno rilevato nei loro soggetti con ADHD una prevalenza life-time del disturbo di panico del 13%, e della fobia sociale del 18%. Ma vi sono anche studi che non hanno riscontrato una significativa comorbidità tra ADHD nell' adulto e disturbi d' ansia (Murphy e Barkley, 1996; Barkley et al., 2001).

I dati sulla comorbidità fra ADHD e Disturbo Ossessivo Compulsivo sono controversi. Si possono riscontrare, in un certo numero di pazienti, tratti di personalità ossessivo-compulsiva (Nadeau 2005). Tuttavia molti adulti con ADHD sentono la necessità di essere rigidi e inflessibili in modo da inibire i sottostanti tratti di impulsività, oppure diventano indecisi, incapaci di prendere decisioni che, quando prese, risultano impulsive e disastrose.

Il Disturbo di Tourette è caratterizzato dalla presenza di tic motori multipli con esordio prima dei 18 anni. Pazienti con questo disturbo mostrano nel 50% dei casi sintomi di ADHD (Comings and Comings 1990). Tipicamente i sintomi della malattia compaiono tra i 2 ed i 15 anni. Studi su bambini con una storia clinica sia di ADHD che di Disturbo di Tourette hanno evidenziato che i sintomi

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di ADHD compaiono prima rispetto a quelli del Disturbo di Tourette (Comings, Comings et al. 1989).

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ADHD E DISTURBO BIPOLARE

Per quanto riguarda la comorbidità con i disturbi dell’umore, la depressione maggiore sembra avere una prevalenza elevata nei bambini affetti da ADHD, soprattutto in quelli con disturbo della condotta (Angold et al., 1999). Per gli adulti, diverse ricerche riportano comorbidità tra depressione maggiore ed ADHD tra il 16 - 31% (Barkley et al., 2006; Biederman et al., 1993; Schubiner et al., 1995). Vi sono però alcuni studi di follow-up che non hanno documentato un aumentato rischio di depressione in bambini iperattivi monitorati sino all'età adulta (Weiss et al., 1993).

Esiste una comorbidità importante tra l'ADHD ed il BD ed è stato ipotizzato che il primo possa rappresentare, almeno in alcuni casi, una forma prodromica del secondo (Bizzarri, Rucci et al. 2007). Ryden e coll. hanno osservato come l’impatto clinico di una diagnosi di ADHD in età pediatrica adolescenziale sul decorso del BD permanga in senso peggiorativo nell’età adulta indipendentemente se i criteri per la diagnosi di ADHD continuino o meno ad essere soddisfatti. (Ryden, 2009).

La sovrapposizione sintomatologica tra ADHD e BD rende talora complessa la diagnosi differenziale tra le due condizioni. Nonostante vi siano diversi sintomi

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in comune quali loquacità, distraibilità, comportamento impulsivo, iperattività, ridotta capacità critica e sottovalutazione dei problemi esistenziali, clinicamente è possibile sottolineare alcune differenze. I sintomi dell'ADHD tendono ad assumere un andamento cronico, mentre nel BD il decorso è episodico. I pazienti con ADHD non hanno un incremento dell’attività finalizzata, né ridotto bisogno di sonno ed autostima ipertrofica, peculiari delle fasi maniacali del BD. Nella mania, infine, possono essere presenti sintomi psicotici, come allucinazioni e deliri, assenti nei soggetti affetti da ADHD.

Rispetto al BD, la sintomatologia dell'ADHD è quindi caratterizzata da un'insorgenza più precoce, da un andamento protratto, dall'assenza di una chiara espansività dell'umore e di fenomeni psicotici, da una iperattività ed impulsività in genere ridotte rispetto alla mania.

Nonostante ciò rimangono controversie sulla sovrapposizione sintomatologica e sulla possibile confusione diagnostica negli studi epidemiologici e nelle sperimentazioni cliniche. Se da una parte la mania nell'infanzia può essere distinta dall'ADHD sulla base della gravità dei sintomi, l'ipomania protratta, soprattutto negli adolescenti e nei giovani, non è sempre facilmente distinguibile dall’iperattività e dall’impulsività tipiche dell’ADHD.

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Per porre rimedio a questa confusione Sentissi e coll hanno ricercato la diagnosi di ADHD in pazienti bipolari in eutimia trovando una positività nel 30% di essi (Sentissi , 2008).

Sachs G.S. e coll. hanno ipotizzato l’esistenza di un sottotipo diagnostico (BD + ADHD) caratterizzato da una marcata impronta genetica e da una tendenza a sviluppare con maggior precocità un episodio di disturbo dell’umore. (Sachs et al., 2000) .

Inoltre soggetti con BD e ADHD mostrano un numero di episodi affettivi di entrambe le polarità maggiore rispetto ai soggetti con solo BD e presentano più frequentemente la diagnosi di BD I (Klassen, 2010). Ciò è in linea con l’osservazione clinica che nei soggetti con BD ed ADHD si evidenzia un

out-come peggiore in termini di qualità di vita, di adattamento globale e di rischio di

suicidio (Tamam et al., 2008; Klassen, 2010). È importante notare che questi pazienti sono meno complianti alle terapie (Klassen, 2010).

Bisogna infine sottolineare come sia possibile osservare nell'ADHD una slatentizzazione di forme bipolari, in seguito ad una destabilizzazione del tono affettivo conseguente ai trattamenti con stimolanti e antidepressivi (Faedda e Teicher, 2005; Ross, 2006), anche se altri autori non hanno rilevato nei loro studi

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un peggioramento dei sintomi maniacali in conseguenza di terapie con stimolanti.

I tassi di comorbidità di BD nei soggetti con ADHD sono estremamente variabili, dal 5,1% al 47,1%. Tale disomogeneità è da correlarsi ai criteri diagnostici utilizzati, alle differenti metodiche di selezione delle casistiche ed alla ridotta numerosità di queste ultime. Per le stesse ragioni, anche la prevalenza di ADHD nei soggetti con BD è molto variabile, dal 9,5% al 21,2%.

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ADHD E DISTURBO DA USO DI SOSTANZE

Il Disturbo da Uso di Sostanze (DUS) è ampiamente diffuso nella popolazione generale e si stima che il 27% della popolazione adulta ne sia affetto (Kandel et al., 1997). Di questi, il 15-25% mostra sintomi di ADHD (Wilens, 2004); ben tre volte superiore di quanto il disturbo non si riscontri nella popolazione generale. Analogamente, l'ADHD sembra rappresentare un fattore di rischio per lo sviluppo di DUS. Infatti il tasso di pazienti con DUS in individui adulti con ADHD è superiore al 40%, sostanzialmente il triplo rispetto al tasso di prevalenza di DUS nella popolazione generale, stimato intorno al 14,6% (Kessler, Adler et al. 2006).

Dal confronto di 120 adulti con ADHD con 268 adulti senza ADHD, con un’età media di 40 anni, è emerso che la prevalenza life-time di DUS era del 52% nei pazienti con ADHD e del 27% in quelli senza (Biederman et al., 1995). Studi ulteriori hanno indicato che adulti con ADHD in comorbidità con BD o Disturbo della Condotta hanno un rischio maggiore di andare incontro a un DUS. (Wilens et al., 1998)

In definitiva, la letteratura è concorde nell’affermare che esiste un legame reciproco tra DUS e ADHD e che i pazienti che presentano entrambe le

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condizioni sono gravati da un outcome peggiore. Arias e colleghi hanno osservato su un campione di 1761 soggetti adulti con diagnosi di dipendenza da cocaina e/o oppioidi, che nei soggetti affetti da ADHD si possono riscontrare un maggior numero di comorbidità con altri disturbi psichiatrici e un peggior decorso di malattia identificato da un numero più elevato di ricoveri, tentativi di suicidio e atti di autolesionismo (Arias et al., 2008). In questa casistica il BD tipo I si associava all’ADHD nel18.5% dei casi. In questa stessa ricerca si dimostra come l’ADHD influenza il quadro clinico del DUS determinandone un esordio più precoce (11.4 anni vs 13.2 anni) e la dipendenza da un maggior numero di sostanze (3.5 vs 2.9).

In generale il DUS è più grave nei pazienti con ADHD. Carrol e Rounsaville hanno confrontato soggetti con abuso di cocaina e ADHD con soggetti con abuso di cocaina senza il disturbo. I primi risultavano essere più giovani al momento dell’osservazione e del trattamento, avevano un esordio più precoce e più spesso andavano incontro a assunzioni più frequenti ed ingenti della sostanza (Carroll e Rounsaville, 1993). Similmente Schubiner et al. (2000) hanno riportato un maggior numero di incidenti stradali e un trattamento più precoce per DUS in adulti con ADHD rispetto ai soggetti senza ADHD.

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Nel tentativo di spiegare il legame fra questi due disturbi bisogna tener conto del fatto che, secondo una prospettiva evolutiva, l’ADHD si manifesta prima del DUS; risulta pertanto improbabile che un DUS possa costituire un fattore di rischio per l’ADHD. Non è però ancora chiaro in che misura l’ADHD possa essere considerato precursore di un DUS. Katusic e colleghi (2003) in un ampio studio caso-controllo, hanno seguito dall’età di 5 anni fino all’adolescenza 363 giovani con ADHD paragonati e appaiati con 726 controlli. I risultati ottenuti hanno dimostrato che la presenza di ADHD era associata ad un aumento di 3 volte del rischio di DUS con un esordio più precoce di tale disturbo. Da uno studio longitudinale di Molina e Pelham (2003), su 142 adolescenti confrontati con 100 controlli emerge che la gravità dei sintomi inattentivi dell’ADHD sarebbe associata con l’aumento del rischio di DUS. Il dato risulta significativo se si considera la frequente persistenza dei sintomi inattentivi nell’età giovane-adulta e il maggiore rischio per lo sviluppo di DUS in tale età.

La presenza dell’ADHD sembra influenzare anche la progressione del DUS. L’ADHD e le comorbidità ad esso correlate accelerano il passaggio dall’uso di droghe “leggere” e alcol, alla dipendenza dalle droghe “pesanti”. Infine la presenza di ADHD sembra compromettere la prognosi del DUS. Wilens e coll. hanno confrontato 130 adulti con ADHD e DUS con 71 soggetti adulti con DUS

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senza ADHD. Il tasso di remissione e la durata del DUS differivano significativamente nei due gruppi: il DUS aveva una durata media di 3 anni superiore, ed il tempo necessario per ottenere la remissione del DUS risultava maggiore del doppio nei soggetti con ADHD (Wilens, Biederman et al. 1998). Nel valutare l’associazione tra ADHD e DUS, risultano interessanti gli studi familiari che depongono a favore di una matrice genetica comune tra i due disturbi. Già da tempo è stato osservata un’aggregazione familiare fra ADHD nel bambino e DUS nei parenti di primo e secondo grado (Cantwell, 1972). Da studi controllati risulta che i figli di soggetti con DUS presenterebbero elevati tassi di ADHD e tratti cognitivi e comportamentali compatibili con il disturbo, inclusi la bassa capacità attentiva, l’impulsività, l’aggressività e l’iperattività (Stanger et al., 1999).

Dai dati disponibili, i meccanismi mediante i quali la presenza di ADHD favorirebbe lo sviluppo di DUS sono sicuramente molteplici e molto rimane da comprendere. Arias et al. ipotizzano che l’ADHD potrebbe essere associato a un’espressione fenotipica più severa del DUS a causa della presenza di livelli più elevati di impulsività e novelty-seeking negli individui affetti rispetto a quelli non affetti (Arias et al., 2008). Esistono alcune ricerche che individuano come possibile spiegazione del DUS l’automedicazione di sintomi depressivi, ansiosi e

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aggressivi. Uno studio recente di Wilens e colleghi ha preso in considerazione una popolazione di soggetti con ADHD, sia adolescenti sia adulti, confrontandoli con dei controlli, per comprendere le motivazioni all’uso delle droghe. L’automedicazione svolge un ruolo di primo piano. La maggioranza dei soggetti utilizzava la sostanza con il proposito di controllare il proprio umore, di dormire, o senza una ragione precisa. Non sono state rilevate tuttavia differenze tra soggetti con ADHD e controlli, né sono state trovate differenze nella scelta di una specifica droga (Wilens et al., 2008).

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TRATTAMENTO

La terapia dell'ADHD è multimodale, e si avvale di approcci farmacologici, psicoterapeutici, e di supporto.

I farmaci studiati negli anni per il trattamento dell'ADHD comprendono 2 grandi famiglie :

gli stimolanti, quali Metilfenidato (MPH), desmetilfenidato, dextroamfetamina (DEX), sali misti di amfetamina (MAS), pemolina, ed il recentissimo modafinil. i farmaci non stimolanti, che include antidepressivi triciclici (desipramina, imipramina, nortriptillina), Inibitori delle monoaminossidasi, agonisti alfa2-adrenergici, buproprione, inibitori del reuptake della serotonina, antipsicotici atipici, atomoxetina.

I farmaci psicostimolanti

Gli psicostimolanti rappresentano la classe farmacologica più utilizzata in assoluto. Da tutte le ricerche emergono risultati di efficacia clinica e tollerabilità sovrapponibili (James et al., 2001). A differenza dei non stimolanti sono in grado di migliorare non solo i sintomi comportamentali, ma anche la disattenzione e la sintomatologia cognitiva.

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Determinare quale classe e quale formulazione è più indicata per il singolo paziente dipende spesso dalla valutazione della natura della compromissione funzionale, da quanto deve durare la copertura farmacologica, e dalla variabilità della risposta individuale. Il problema correlato alle somministrazioni multiple di psicostimolanti a rilascio immediato è stato in gran parte superato grazie allo sviluppo di formulazioni a rilascio prolungato, tuttavia, spesso è necessario controllare i sintomi per tempi più lunghi rispetto alla durata d'azione del farmaco, specialmente negli adulti, e il tipo e la gravità dei sintomi possono variare nel corso della giornata. Si tende, perciò ad utilizzare contemporaneamente formulazioni a rilascio immediato e formazioni a rilascio prolungato.

I più comuni effetti collaterali comprendono cefalea, dolori addominali, diminuzione dell'appetito con o senza perdita di peso, insonnia iniziale, nonché un lieve aumento della pressione arteriosa e della frequenza cardiaca. Inoltre possono manifestarsi alterazioni dell'umore come affettività appiattita, irritabilità, labilità emotiva non legati ai livelli ematici del farmaco. Condizioni mediche come l’ipertensione grave, tachicardia, aritmia e anomalie cardiache congenite pongono serie limitazioni all’impiego di questi farmaci.

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Alcuni soggetti vanno incontro a un “effetto rimbalzo” (re-bound), diventando lievemente irritabili ed iperattivi per un breve periodo, quando l'effetto del farmaco viene a mancare.

Sono stati riportati, nei bambini, casi di riduzione del peso e soprattutto dell'accrescimento. Lo studio MTA ha rilevato che l'uso di psicostimolanti a rilascio immediato per tre volte al giorno per sette giorni a settimana determina un rallentamento della crescita di un centimetro l'anno per i primi 24 mesi di trattamento. Altri autori hanno riportato che l'accrescimento successivamente si stabilizza, e riprende normalmente. Con le nuove formulazioni a rilascio prolungato un minor appiattimento della curva di accrescimento. Un'altra problematica è la possibilità di abuso, nonché di uso scorretto o a scopo voluttuario. Dati longitudinali indicano che l'11% dei giovani affetti da ADHD vende i farmaci che dovrebbe assumere, e che il 22% dei pazienti con Disturbo della condotta e disturbo da uso di sostanze li utilizza in modo scorretto (Wilens et al., 2006). Va precisato che l'abuso o la dipendenza da psicostimolanti si manifesta generalmente in concomitanza di altre condizioni di addiction. Ad ogni modo non si colgono differenze tra metilfenidato e sali misti di amfetamina per quello che riguarda la possibilità di abuso; entrambi i farmaci producono effetti soggettivi associati ai meccanismi di rinforzo e di ricompensa.

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Per quanto riguarda il metilfenidato, Spencer e coll. (Spencer et al., 2005) hanno riportato i risultati di uno studio in doppio cieco con MPH (1,1 mg/kg/die) versus placebo su 146 pazienti adulti affetti da ADHD, mostrando una maggiore efficacia a vantaggio dello stimolante (responders 76% vs 4%, p<.0001). Una meta-analisi sull’efficacia del metilfenidato negli adulti indica la necessità di utilizzare dosi elevate (70 mg/die) per ottenere una risposta clinica adeguata (Faraone et al., 2004). Esistono 3 formulazioni farmaceutiche di metilfenidato: short-acting, a rilascio immediato (Ritalin 5,10,20 mg)

intermediate-acting, a rilascio sostenuto (Ritalin SR 10,20 mg) long-acting, a rilascio prolungato (Concerta 18,54 mg).

Quet’ultimo si avvale di un oral osmotic system release (OROS), che permette una disponibilità immediata del 20% del contenuto della capsula, e un rilascio più lento del rimanente 80%, assicurando un rapido contenimento dei sintomi mattutini ed una copertura di 10-12 ore. Tale formulazione assunta in unica somministrazione risulta efficace, ben tollerata e riduce i fenomeni di rebound (Biederman et al., 2006).

Anche per le dextroamfetamine esistono 3 formulazioni farmaceutiche: short-acting (Dexedrine 5 mg)

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long-acting, D- e L- amfetamine (Adderall XR 5,10,15,20,25,30 mg), in cui la disponibilità immediata del principio attivo è pari al 50% del contenuto della capsula con netto miglioramento dei sintomi mattutini.

L’efficacia di adderall è stata riportata in uno studio in doppio-cieco vs placebo su 223 adulti con ADHD; gli effetti collaterali più comuni erano insonnia, calo ponderale, cefalea, secchezza delle fauci e nervosismo (Biederman et al., 2005). Un trial clinico recente ha dimostrato un buon profilo di tollerabilità cardiovascolare di adderall e la possibilità di combinazione con antipertensivi in caso di ipertensione di grado moderato (Wilens et al., 2006).

- La pemolina è uno psicostimolante a lunga durata d'azione e ha il vantaggio di garantire effetti duraturi per tutta la giornata attraverso una monosomministrazione, ma il 3% dei pazienti trattati va incontro a gravi epatopatie. Recentemente, a seguito di 11 decessi dovuti ad epatite acuta fulminante negli ultimi 25 anni, la Food and Drug Administration statunitense ne ha scoraggiato l'utilizzo.

- Il modafinil è un nuovo farmaco stimolante che potenzia l'attività cognitiva, è strutturalmente e chimicamente diverso da tutti gli altri farmaci utilizzati nel trattamento dell'ADHD. Attiva selettivamente la corteccia cerebrale, e modula l'attività di numerosi neurotrasmettitori come ipocretina, istamina, norepinefrina,

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acido gamma-aminobutirrico e glutammato. E' stato approvato dal FDA per il trattamento della narcolessia e di altri disturbi del sonno, e pur essendo uno stimolante presenta una bassa potenzialità di abuso.

Numerosi trial clinici hanno valutato l'efficacia e la tollerabilità di una nuova formazione di modafinil, dimostrando un significativo miglioramento dei sintomi sia a casa che a nelle prestazioni scolastiche (Swanson et al., 2006). L'assenza di effetti collaterali cardiovascolari indica che il farmaco potrebbe essere utile nel trattamento di adulti con ADHD, e forse anche di bambini più grandi, che non rispondono o non tollerano altri farmaci approvati.

I farmaci non psicostimolanti

I farmaci non psicostimolanti risultano meno efficaci nel trattamento dell’ADHD, in particolar modo verso i sintomi di inattenzione.

Gli antidepressivi triciclici noradrenergici, soprattutto l'imipramina e la desipramina, sono stati i farmaci non stimolanti più studiati e i più prescritti fino alla metà degli anni 90. Uno studio in doppio cieco controllato verso placebo su 43 adulti con ADHD, reclutati secondo i criteri del DSM-III-R, ha documentato l’efficacia della desipramina con una risposta positiva nel 68% pazienti trattati rispetto a nessuno di coloro che avevano assunto placebo (Wilens et al., 1996). I Triciclici, sebbene abbiano un’efficacia paragonabile agli stimolanti nel

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trattamento dei sintomi comportamentali, sono meno efficaci sul deficit di attenzione e i sintomi cognitivi dell'ADHD. Inoltre la segnalazione di morte improvvisa in almeno 4 bambini trattati con desipramina ha reso i triciclici una scelta meno accettabile, sebbene il rischio sembra essere specifico della desipramina e alcuni dei pazienti deceduti avessero un rischio cardiovascolare significativo preesistente (Popper e Elliott, 1990; Riddle et al., 1991; Riddle et al., 1993). Pertanto gli antidepressivi triciclici diversi dalla desipramina possono essere ragionevolmente presi in considerazione solo in determinate situazioni cliniche.

Gli antidepressivi inibitori delle monoaminossidasi (IMAO) potenziano in maniera specifica la neurotrasmissione delle monoamine. La tranilcipromina è stata utilizzata con successo nel trattamento di un piccolo gruppo di pazienti con ADHD con effetti paragonabili a quelli della destramfetamina. Tuttavia in genere non sono utilizzati a causa delle restrizioni dietetiche e dei rischi potenziali.

Dati preliminari sulla venlafaxina, un antidepressivo ad azione selettiva sul reuptake di serotonina e noradrenalina, suggeriscono un possibile impiego del composto nell’ADHD dell’adulto, ma si basano su poche osservazioni non

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controllate e in aperto, mentre non sono stati ancora realizzati studi in doppio cieco, placebo controllati (Adler et al., 1995).

Il bupropione (150-450 mg/die) è un farmaco ad azione noradrenergica e dopaminergica che si è dimostrato efficace nel trattamento dell’ADHD sia in età scolare che adulta. Tuttavia rimane un farmaco di seconda scelta, in quanto vari studi clinici su adolescenti e adulti documentano la maggior efficacia degli stimolanti rispetto al bupropione nel ridurre i sintomi di ADHD. Il suo impiego può essere considerato nel caso di comorbidità con disturbi dell’umore e disturbo da abuso di sostanze. In studi condotti su adolescenti ed adulti con ADHD ed abuso di sostanze si è dimostrato efficace nel ridurre i sintomi di ADHD ed in alcuni casi ha determinato anche una riduzione del craving e/o dell'abuso di sostanze. Wilens e coll. hanno condotto uno studio in doppio cieco, bupropione versus placebo, su 162 adulti con ADHD, mostrando miglioramento clinico nei pazienti trattati con l’antidepressivo a una dose giornaliera di 300 mg. Gli effetti collaterali erano dose-dipendenti, i più comuni erano cefalea, insonnia e nausea (Wilens et al., 2005). In uno studio su bambini, nel 17% dei pazienti trattati si sono verificate eruzioni cutanee (Conners et al., 1996).

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Per quanto riguarda l'utilizzo degli SSRI, esistono pochi dati a conferma della loro efficacia nel trattamento dell'ADHD, ma data l'associazione del disturbo con depressione ed ansia, questi farmaci vengono spesso utilizzati.

I neurolettici sono stati impiegati per decenni nel trattamento di bambini con gravi disturbi del comportamento, caratterizzati fondamentalmente da aggressività, ma i loro effetti collaterali come discinesie tardive, discinesie da sospensione, sindrome maligna da neurolettici, li rendono inadatti a trattamenti a lungo termine. Recenti studi in aperto sono stati condotti sugli antipsicotici atipici. Sia l'olanzapina, il risperidone e la quetiapina sono risultati efficaci (Scure et al., 2003).

L’atomoxetina è l’unico farmaco non stimolante ad aver ottenuto l’approvazione dal FDA per il trattamento dell’ADHD, sia nei bambini che negli adulti. Si tratta di un inibitore altamente selettivo del reuptake della norepinefrina, strutturalmente distinto sia dagli stimolanti che dai triciclici; aumenta la norepinefrina sinaptica in molte aree cerebrali, e la dopamina a livello della corteccia prefrontale (Bymastere et al., 2002). Il farmaco è dosato in rapporto al peso del paziente, con un dosaggio medio di 1,2 mg/kg, e mostra la sua azione terapeutica solo dopo tre settimane dall’inizio del trattamento. Ha il vantaggio di essere assunto in unica somministrazione giornaliera per la lunga emivita,

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inducendo meno fenomeni di rebound. Presenta una scarsa possibilità di diventare sostanza di abuso dal momento che non si lega ai recettori correlati ai sistemi di reward (dopamina, GABA, oppioidi), e non aumenta i livelli di dopamina nello striato e nel nucleo accumbens. E’ particolarmente indicato nelle situazioni di comorbidità con disturbi d’ansia, tics e disturbi da uso di sostanze (Weiss e Weiss, 2004). Esistono numerosi trial clinici che dimostrano l’efficacia di atomoxetina nel ridurre sintomi di ADHD nel bambino, nell’adolescente e nell’adulto. Due studi su 536 adulti con ADHD, randomizzati in doppio-cieco e controllati verso placebo, hanno dimostrato l’efficacia di atomoxetina rispetto al placebo con riduzione significativa dei punteggi alla Conners Adult Rating Scale (Michelson et al., 2003). Anche sul lungo termine (97 settimane) atomoxetina si è dimostrata sicura, efficace e ben tollerata (Adler et al., 2005). Gli effetti collaterali più comunemente riportati sono sedazione, nausea e vomito, diminuzione dell'appetito, perdita di peso, aumento della frequenza cardiaca e della pressione arteriosa, paragonabile a quello degli psicostimolanti, irritabilità ed aumento dell'aggressività.

Nel trattamento dell’ADHD sono stati anche utilizzati antipertensivi quali clonidina (Zachor et al., 2006) e guanfacina (Lopez, 2006). La clonidina è un agonista alfa 2 adrenergico, ha suscitato notevole interesse fin dalla metà degli

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anni '80 per il trattamento di ADHD ed aggressività, è considerato un farmaco di seconda scelta perchè riduce i sintomi di impulsività-iperattività, ma non quelli di inattenzione. Produce sedazione eccessiva, e sono stati riportati casi di tossicità cardiovascolare. E’ impiegata in presenza di tics e Sindrome di Tourette. La guanfacina è un agonista dei recettori presinaptici alfa 2A, che svolgono il ruolo più importante nella regolazione dell'attenzione (Arnsten, 2006). Risulta efficace sui sintomi inattentivi e induce minori effetti sedativi rispetto alla clonidina (Biederman et al., 2006).

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TRATTAMENTO E GESTIONE DEL PAZIENTE CON ADHD E DUS

Anche l'approccio terapeutico al paziente con ADHD in comorbidità con DUS prevede un trattamento multimodale. Sebbene non esistano linee guida specifiche, si può sostenere che ai pazienti di questo tipo debbano essere riservate alcune speciali considerazioni.

Il primo intervento dovrebbe essere volto alla condizione di uso-abuso o dipendenza dalla sostanza/e, e sarebbe opportuno un periodo di astinenza prima di procedere a valutazione e al trattamento dell’ADHD. Infatti, soltanto quando si sia intrapresa una terapia per il DUS, l’aderenza al trattamento dell’ADHD e l’efficacia dello stesso risultano incrementate. Questo trattamento dovrebbe basarsi sull’integrazione di approcci differenti: terapie motivazionali, psicoterapia (in particolare cognitivo-comportamentale) e farmacoterapia. Per quanto riguarda quest’ultima, numerose sono le controversie ad essa legate. Le possibili opzioni terapeutiche annoverano in primis i farmaci stimolanti, come il metilfenidato. Gli stimolanti incrementano la disponibilità di dopamina a livello sinaptico e questo si tradurrebbe in una riduzione di iperattività, impulsività e disattenzione associati all’ADHD, e migliorerebbe i comportamenti associati inclusi la capacità di eseguire compiti specifici, performance scolastiche e

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funzionamento sociale. Sebbene gli stimolanti rappresentino il gold standard della farmacoterapia dell’ADHD, ci sono da tempo numerose evidenze circa l’efficacia di alcuni farmaci non stimolanti. Questi includono antidepressivi triciclici, bupropione, SSRI, inibitori delle monoaminossidasi e atomoxetina. Gli studi che valutano le differenze nell’ efficacia dei due tipi di farmaci non hanno ancora dato risultati conclusivi. Sembra comunque che gli stimolanti siano associati a migliore risposta. Nonostante questo il loro utilizzo in pazienti con ADHD e DUS suscita perplessità per la possibile rischio che si sviluppino nel paziente condotte di abuso verso queste sostanze o che si esacerbi un DUS preesistente. Anche in questo campo i risultati degli studi sono contraddittori. Alcuni suggeriscono che gli stimolanti costituiscono un fattore di rischio per lo sviluppo di un DUS, altri che si tratta di un trattamento inutile, e altri ancora che proteggono i giovani soggetti con ADHD dallo sviluppo di un DUS. Una meta-analisi di Wilens et al. ha dimostrato chiaramente il ruolo protettivo della terapia stimolante in giovani con ADHD. Nei bambini trattati si assiste ad una riduzione di circa la metà del rischio di sviluppare un DUS (Wilens, 2003). Un dato interessante è che l’effetto della terapia stimolante sul successivo sviluppo di un DUS differisce tra adolescenza e età adulta. Se nell’adolescenza i soggetti trattati avevano una riduzione del rischio di DUS di 5.8 volte rispetto a quelli non

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trattati, negli adulti questa riduzione veniva stimata solo di 1.4 volte (Faraone e Upadhyaya, 2007). L’efficacia degli stimolanti sembra dipendere da diversi meccanismi di azione. Innanzitutto questi farmaci determinano una riduzione di alcuni sintomi dell’ADHD maggiormente legati allo sviluppo di DUS quali bassa stima di sé, demoralizzazione e fallimento sociale e scolastico. In secondo luogo è possibile che gli stimolanti abbiano un effetto diretto sui circuiti neuronali dopaminergici di rinforzo, riducendo la sensibilità dei circuiti di reward dependance.

Rimane tuttavia da verificare se, nella pratica clinica, il trattamento con stimolanti è associato a tassi più elevati di uso illegale e abuso degli stessi in adolescenti e adulti con DUS. Da uno studio longitudinale della durata di 10 anni su ragazzi con ADHD (56% del campione) confrontati con controlli senza ADHD (44% del campione), tutti trattati con stimolanti, si evidenziava che il 22% dei soggetti con ADHD faceva abuso dei trattamenti prescritti, contro il 5% dei soggetti dell’altro gruppo. L’abuso di stimolanti si riscontra più frequentemente nei soggetti che presentano comorbidità per DUS o disturbo della condotta (Wilens et al., 2006). In generale fattori di rischio per un uso illecito di stimolanti sono: disturbi della condotta, DUS, uso di stimolanti a

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rilascio immediato, sesso maschile, razza Caucasica e presenza in famiglia di fratelli o sorelle che fanno uso di sostanze.

Pertanto ad oggi si ritiene che il trattamento farmacologico di prima scelta di adulti con ADHD e DUS non dovrebbe includere gli stimolanti, e dovrebbe basarsi su: bupropione, antidepressivi triciclici e atomoxetina. Gli stimolanti dovrebbero essere presi in considerazione soltanto in un secondo momento e tra questi in particolare pemolina, metilfenidato e destro-amfetamine valutando il crescente potenziale d’abuso.

Il Bupropione ha dimostrato una discreta efficacia nei casi ADHD in comorbidità con DUS; Prince et al. (2002), in un trial in aperto della durata di 6 settimane, hanno valutato la risposta al farmaco in 32 soggetti con ADHD e DUS. Di questi un 41% ha abbandonato lo studio. Tuttavia si è riscontrata una significativa riduzione dei sintomi dell’ADHD e una, seppur minore, riduzione dell’abuso di sostanze.

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CONTRIBUTO CLINICO OBIETTIVI DELLO STUDIO

La maggior parte dei pazienti con ADHD in età adulta che si osservano in ambito psichiatrico si presenta in comorbidità con altri disturbi mentali. Il BD è tra le condizioni più frequentemente associate ad una storia di ADHD. I rapporti esistenti tra BD e ADHD non sono del tutto chiariti. A questo scopo abbiamo deciso di valutare la prevalenza di sintomi ascrivibili allo spettro ADHD in pazienti con BD e le caratteristiche cliniche ad essi associate.

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METODO

Per la ricerca abbiamo selezionato una casistica di 97 pazienti ambulatoriali consecutivi afferenti agli ambulatori ed al Day Hospital della Clinica Psichiatrica dell’Università di Pisa per un periodo di circa 12 mesi. I pazienti avevano una diagnosi di BD I o II secondo i criteri DSM-IV-TR. Tutti i pazienti hanno fornito un consenso informato per la partecipazione allo studio che era stato approvato dal comitato etico dell’Università di Pisa.

I dati clinici venivano raccolti mediante una scrupolosa intervista semi-strutturata. Per l’intervista basale occorreva approssimativamente 1 ora ed ½ ora per le visite seguenti. Le interviste sono state condotte da due psichiatri con almeno cinque anni di esperienza nella diagnosi e nel trattamento dei disturbi dell’umore. Ogni clinico aveva seguito un programma di training per l’uso degli strumenti di intervista, che includeva l’osservazione diretta di intervistatori esperti, la supervisione durante le interviste e prove di inter-rater reliability. Dato che la raccolta dei dati dipendeva ampiamente, per quanto riguardava le informazioni anamnestiche, da ciò che i pazienti erano in grado di ricordare, tutte le notizie sono state verificate dal coordinatore del progetto di ricerca allo scopo di ottenere un consensus agreement con gli psichiatri intervistatori.

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Quando sorgevano dubbi, i pazienti venivano ricontattati per ulteriori chiarimenti. In quasi tutti i casi, veniva revisionata la documentazione clinica del paziente e le informazioni mancanti recuperate da familiari o sanitari precedenti. Sono stati somministrati i seguenti strumenti di rating: ASRS-v 1.1. (Adult ADHD Self-Report Scale) e DCTC (Diagnostic, Clinical and Therapeutic Checklist). Quest’ultima è una intervista semi-strutturata sviluppata per formulare la diagnosi delle principali sindromi cliniche di Asse I e II, sulla base dei criteri previsti dal DSM-IV per le specifiche entità nosografiche. Essa permette sistematicamente informazioni demografiche, anamnestiche e cliniche. I pazienti, con varia provenienza, si dividevano pressoché equamente tra soggetti giunti spontaneamente (self-referrals), o su indicazione del medico curante o di vari specialisti tra cui specialisti psichiatri. La DCTC consente di valutare l’andamento nel tempo della sintomatologia psichiatrica tramite la CGI e dell’adattamento sociale tramite la GAF e la Sheehan Disability Scale. La DCTC permette, inoltre, di registrare le comorbidita’ Asse I del paziente e le eventuali terapie farmacologiche assunte. Vengono inoltre raccolte informazioni sui trattamenti precedenti o eventuali cambiamenti di terapia proposti in sede di valutazione.

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Per la valutazione dell’ADHD i pazienti compilavano la Adult ADHD Self-Report Scale (ASRS-v1.1). Si tratta di uno strumento di autovalutazione costituito da 18 items che esplorano la sintomatologia presentata durante gli ultimi 6 mesi. I primi 6 Items consentono di effettuare uno screening diagnostico per la presenza di ADHD nell’adulto. La diagnosi viene formulata quando si ottengono punteggi superiori ad un range prestabilito in 4 o più dei primi 6 items e l’esordio della sintomatologia è precedente i 7 anni di età.

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Analisi statistica

Le caratteristiche epidemiologiche e cliniche erano confrontate fra due gruppi: positivi alla diagnosi di Disturbo da Deficit di Attenzione ed Iperattività (ADHD) e negativi a tale diagnosi (no-ADHD). L’analisi comparativa per le caratteristiche epidemiologiche, cliniche e sintomatologiche dei diversi sottogruppi, è stata condotta utilizzando la analisi del t-test di Student per le variabili dimensionali e il chi-quadrato per le variabili categoriali. Abbiamo utilizzato livelli di significatività a doppia coda con soglia p < 0.05.

Figura

Tabella 2. Utah Criteria for Adult Attention-Deficit/Hyperactivity Disorder I. Diagnosi retrospettiva di ADHD in età scolare
Tabella 3. Aspetti demografici in pazienti affetti da BD (BD) con o senza  Disturbo da deficit di attenzione ed iperattività (ADHD).
Tabella 4. Aspetti diagnostici in pazienti affetti da Disturbo Bipolare (BD)  con o senza Disturbo da deficit di attenzione ed iperattività (ADHD).
Tabella 5. Aspetti clinici in pazienti affetti daDisturbo Bipolare(BD) con o  senza Disturbo da deficit di attenzione ed iperattività (ADHD).
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