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Il lettore monello. Joyce, Finnegans Wake e le origini della cooperazione interpretativa

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Il lettore monello

Joyce, Finnegans Wake e le origini

della cooperazione interpretativa

VERSUS 129, 2/2019, 247-268 ISSN 0393-8255

© SOCIETÀ EDITRICE IL MULINO The Mongrel Reader: Joyce, Finnegans Wake and the origins of interpretative cooperation

The paper outlines the main semiotic characteristics of the last work by James Joyce (1882-1941), Finnegans Wake (1939), all of them being related to its linguistic peculiarities and untranslatability, and makes it explicit the deep motivations of the foundation of the semiotic theory of the interpretative cooperation of texts, as outlined by Umberto Eco (1932-2016) since The Open Work (1962), within this unique work of art, whose fundamental role has been historically neglected by the semiotic community.

Keywords: Finnegans Wake; Interpretative Cooperation; Mongrel Reader; Semiotics; Um-berto Eco.

1. Finnegans Wake

Finnegans Wake (FW) è l’ultima opera di James Joyce (Dublino, 1882 – Zu-rigo, 1941), composta a partire da singoli episodi separati («come una montagna che trivello da ogni direzione, ma non so cosa troverò»)1 in un

arco temporale di circa sedici anni dopo il suo capolavoro Ulysses (1922) e pubblicata in volume nel 1939 da Faber and Faber. Si tratta di un lavoro oltremodo travagliato, complesso, complicato, le cui caratteristiche testuali, uniche come vedremo, stanno allo slancio sperticato dell’avanguardia mo-dernista come le Colonne d’Ercole all’esplorazione del mondo conosciuto e la cui storia esterna racconta la tragedia di quel dover-fare, contro tutto e tutti, che è proprio dell’artista bruciato dalla propria missione: Joyce scrive FW – la cui stesura, sfinito, più volte minaccerà di abbandonare o, cosa ancor più strana, di affidare ad altri – negli anni del nazifascismo che preludono alla Grande Guerra, assediato da preoccupazioni economiche, 1 «It’s like a mountain that I tunnel into from every direction, but I don’t know what

I will find», in Ellmann (1982: 543). Tutte le traduzioni dei testi in lingua sono, salvo ove diversamente specificato, mie.

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fiaccato dall’alcolismo, mentre la figlia prediletta, Lucia, sta perdendo il senno e lui la vista. Oggetto semiotico non meglio identificato (romanzo? Poema in prosa? Prosa poetica? Grande parodia? Flusso di coscienza? Opera già intermediale? Acme e punto di non ritorno del modernismo? Primo manifesto del postmodernismo?), FW fu incapace di farsi capire o, se si preferisce, fu capace di farsi non-capire anche dai suoi lettori più vicini, precoci e attenti: Ezra Pound, il più grande sponsor di Joyce fino ad allora, lo giudicherà un fallimento (Samuel Beckett ne sarà invece, da subito e per sempre, entusiasta).

Il testo è scritto in un pastiche poliglotta basato su uno strato primario d’inglese (con spiccate influenze gaeliche-irlandesi)2 e utilizza

sistematica-mente parole-macedonia (o parole-valigia; portmanteau) e giochi di parole (puns)3 intrecciando una rete di allusioni intertestuali più o meno criptiche

con l’obiettivo di simulare il confuso e proteiforme linguaggio del sonno e del sogno; se Ulysses era la storia del picaresco viaggio diurno di un uomo qualunque, sulla scia di quello dell’eroe omerico, FW è la storia di un viaggio notturno (un viaggio incessante ma da fermi, come vedremo), ispirato tanto da leggende di epoca già cristiana ma di sapore ancora pa-gano (il gigante buono Finn MacCool o MacCumhaill), quanto dalle più radicate tradizioni dell’Irlanda cattolica (il Book of Kells o Libro di San

Co-lumba, evangeliario del IX secolo custodito al Trinity College, capolavoro di miniatura in cui il testo si perde nell’intrico delle decorazioni, perfetta visualizzazione dell’estetica isperica)4, oltre che dalla grande tradizione del

romanzo sperimentale britannico, profondamente ludico, divertito, paro-dico (Jonathan Swift, Lewis Carroll), nonché indefinitamente centrifugo, digressivo, dispersivo, inconcludente (Lawrence Sterne).

Se nelle intenzioni di Joyce Ulysses doveva rappresentare il modello di una nuova epica totale improntata a un nuovo tipo di realismo, definendo l’enciclopedia antropologica del Novecento, FW doveva esserne il nuovo testo di fondazione mitica, una rappresentazione della vita secondo il paradigma della ciclicità reso attraverso «gli unici elementi discernibili in ogni storia» (Melchiori 1982: XVIII): nascita, crescita, morte, ri-nascita. Al 2 Negli apparati a corredo della traduzione dei primi quattro capitoli dell’opera,

pubblicati nel 1982 (si veda Melchiori 1982), Luigi Schenoni propone un elenco di parole appartenenti ad almeno 45 lingue diverse.

3 Più in dettaglio, riprendendo le categorie del Groupe µ: «All the puns in Finnegans

Wake are cases of metaplasm with a meta-sememic effect, where the structure of the linguistic expression is acted upon in order to produce alterations at the level of content as well, similar to those which operate in metaphors» (Eco 1992: 22).

4 L’estetica isperica è uno stile neoasiano caratterizzato da uno spiccato gusto per

l’immenso e lo sproporzionato, ricolmo di peculiari neologismi dovuti al contatto lin-guistico (con l’ebraico, il celtico e altri idiomi “barbari”), «sviluppatosi dalla Spagna alle isole britanniche, toccando anche le Gallie [...] particolarmente tra il settimo e il decimo secolo» (Eco 2002: 105).

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centro del libro stanno le diverse manifestazioni di un insieme ristretto di temi fondamentali e archetipici, presentati nella loro contrapposizione e reciproca presupposizionalità (secondo il principio della coincidentia

opposito-rum propugnato da Giordano Bruno)5: mascolinità vs. femminilità, peccato

vs. perdono, singolo vs. doppio ecc. I personaggi principali, dai nomi chi più chi meno parlanti, il pater familias Humphrey Chimpden Earwicker, sua moglie Anna Livia Plurabelle, i loro figli Shaun e Shem, gemelli6, e Issy, si

sciolgono in una pluralità di figure o, meglio, risultano dalla agglutinazione momentanea, fissata in un dato momento storico, dei tratti fondamentali rintracciabili in uomini, donne e bambini dall’alba dell’uomo al tempo presente, fungendo da perno per quello che non è che un unico lungo racconto (monomyth, III.4, 581)7; la sigla HCE, derivata dalle iniziali di

Earwicker, ricorre, tra le altre forme, come Here Comes Everybody (“ecco ognuno”) e Haveth Childers Everywhere (“andate e moltiplicatevi”)8. L’idea

centrale di FW, manifestata attraverso il suo lessico e le sue strutture nar-rative, è che la complessità della vita e della storia non sia che il prodotto di un insieme limitato di elementi universali; proprio come accade con il linguaggio e il suo paradigma chiuso di foni e morfemi, linguaggio di cui FW, world (word + world, “parolmondo” nella traduzione di Luigi Schenoni)9,

mondo di parole, parole che sono mondi, rivelazione non già del quotidiano come Dubliners (1914) ma epifania totale (panepiphanal, IV, 611), dovrebbe fungere da allegoria. FW è un chaosmos (I.5, 118), un’ecologia di senso il cui disordine superficiale (chaos) è il frutto di un principio organizzatore soggiacente (cosmos).

Un riferimento chiave per la struttura del libro, assieme alla filosofia di Edgar Quinet (che vuole la storia come continuo fluire), è la teoria dei corsi e ricorsi di Giambattista Vico; tanto che l’ultimo verso del libro è idealmente completato dal suo incipit (che a Vico criptoallude), a creare una Ringkomposition, un uroboro:

We pass through grass behush the bush to. Whish! A gull. Gulls. Far calls. Coming, far! End here. Us then. Finn, again! Take. Bussoftlhee, mememormee! Till thousendsthee. Lps. The keys to. Given! A way a lone a last a loved along the [IV, 628] riverrun, past Eve and Adam’s, from swerve of shore to bend of bay, brings us by a commodius vicus of recirculation back to Howth Castle and Environs [I.1, 3].

Passiamo attraversa silendietro il roveto verso. Desitti! Un gabbiano. Par lungi richiami. Pa’rrivo, lontano! Fin qui. Noi allì. Finn, ancor! Tieni. Mamolcemente, me-memoriamee! Fin a millanimitè. Lps. Le chiavi a. Date! L’a via l’una al fin amata lungo

5 Bruno riprese a sua volta tale principio da Nicola Cusano.

6 Da alcuni interpretati, scorrettamente (Eckley 1974), come siamesi. 7 Utilizzo il seguente sistema di riferimento per FW: “libro, capitolo, pagina”. 8 Letteralmente, “abbiate figli dappertutto”; si veda Praz (1966: 67).

9 Il termine “world” appare nel libro più di centotrenta volte, ma la prima occorrenza

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’l10 fluidofiume, passato Eva ed Adamo, da spiaggia sinuosa a baia biancheggiante, ci

conduce con un più commodus vicus di ricircolo di nuovo a Howth Castle Edintorni11. Il titolo stesso dell’opera, Finnegans Wake (senza apostrofo), un riferi-mento alla dissacrante ballata irlandese di metà Ottocento (Lots of fun at)

Finnegan’s Wake (con il genitivo sassone; la veglia di, nel senso de la veglia

per), in cui il muratore Tim Finnegan cade da una scala, si spacca la testa, viene creduto morto e viene vegliato, ma si risveglia, suggerisce l’idea di ciclicità: Finnegans (soggetto; i Finnegan, coloro che erano creduti morti)

wake (predicato; scivolano fuori dalle tombe, si destano).

Quello che secondo molti è il libro più studiato del ventesimo secolo («la bibliografia su FW supera ormai le possibilità umane di assorbimento»)12,

nell’accezione filologica di annotato e glossato, è generalmente considerato anche il testo intraducibile e persino illeggibile per eccellenza: il meandertale (I.1, 18; meander + Neanderthal + tale, “meandertalstoria” nella traduzione di Schenoni, “labiracconto” per Eco), il racconto primitivo e labirintico. I termini “intraducibile” e “illeggibile” non sono affatto scorretti (FW è intraducibile, e leggerlo, nel senso di cominciare dalla prima pagina e fini-re all’ultima, è una sfida; a cui, peraltro, probabilmente il testo non invita neppure)13, ma necessitano almeno di qualche precisazione. Soprattutto, va

precisato come FW sia in buona sostanza – anzi: in ottima forma – e costitu-tivamente una incompiuta (Fin negans wake, “una veglia che nega la fine”)14.

2. La lingua di Finnegans Wake, il problema del significato e del-la traduzione

Se per “lingua” intendiamo un «insieme (cui spesso si attribuisce carattere di sistema) di morfi, il cui significante è costituito adoperando un insieme finito e poco numeroso di unità distintive asemantiche, dette fonemi» (la 10 Fin qui la traduzione è di Enrico Terrinoni e Fabio Pedone (pubblicata nel 2019). 11 Questi i primi versi di FW tradotti da Schenoni (pubblicati nel 1982). Rodolfo Wilcock

(1961: 1129) traduce riverrun come “corso del fiume”, Burgess (1975) come “filafiume”.

12 Eco citato in Marino (2016).

13 «Nessuno può dire onestamente se ha letto tutto il FW perché è come la Bibbia,

che non si legge tutta dall’inizio alla fine, ma ci accompagna durante tutta la vita, così alla fine uno può aver letto più volte il Deuteronomio e nessuna Giona, ma non lo sa», Eco in Marino (2016).

14 Si veda Melchiori (1982: XII). Per questo brevissimo profilo dell’opera, oltre al

confronto diretto con il testo, le mie fonti principali sono Wilson (1931), Beach (1956), Melchiori (1982), Bollettieri Bosinelli (1990; 1996), Eco (1966; 1983; 1992; 1996; 2002), McCourt (2000). Si vedano anche Camurri (2016) e Bartezzaghi (2017); di grande interes-se i saggi di Terrinoni e Pedone a corredo delle loro traduzioni dei libri terzo e quarto, pubblicate da Mondadori, a integrazione del lavoro interrotto nel 2008 con la morte di Schenoni (che si era arrestato ai primi due libri), nel 2017 e 2019.

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definizione è tratta dal De Mauro), quella di FW non può essere definita una lingua in senso stretto, poiché non rispetta nessuno di questi criteri. Il cosiddetto Finneganian (finneganiano o finneganese), poi, non è asso-ciato ad alcuna comunità di parlanti, reale o immaginaria (nessuno parla la lingua di FW); caratteristica questa spesso inclusa nelle definizioni formali di lingua. Non si tratta di un grammelot (pseudo-parole la cui struttura e il cui suono mimano quelle di una lingua realmente esistente, come nel

Mistero buffo di Dario Fo o nelle opere “metasemantiche” di Fosco Maraini), né tantomeno di gibberish (puro farneticante non-sense); ma, semmai, di un caso particolare di glossolalia (termine di conio psichiatrico utilizzato per indicare un linguaggio sconnesso e incoerente, tipicamente associato a stati psicopatici come la schizofrenia)15 o, meglio ancora, verbigerazione

(«disturbo del linguaggio che si manifesta con la formulazione di discorsi intessuti di parole slegate e improntati a particolare vivacità», secondo la Treccani). La lingua di FW, il “libro dell’oscurità” per Bishop (1986), è la forma linguistica della perennemente mutevole dimensione onirica, giacché una narrazione onirica costituirebbe non solo la materia principale ma anche la cornice enunciativa del libro16. Un tanto famoso, quanto fumoso

passaggio di Ellmann (1982: 544), il maggiore biografo di Joyce fino a McCourt (2000), recita: «Come Joyce ha poi rivelato a un amico, egli ha concepito il suo libro come il sogno del vecchio Finn, che giace morto accanto al fiume Liffey e osserva la storia d’Irlanda e del mondo – passata e futura – fluire nella sua mente come relitti sul fiume della vita»17. Il Liffey

è il fiume che divide in due Dublino e il vecchio Finn è il saggio MacColl, la cui progenie, gli irlandesi, si risveglia e torna nuovamente alla vita (Finns 15 Dopo aver letto Ulysses, Jung (1932) ne scrisse una lunga, scandalizzata e

persona-lissima recensione in cui diagnosticò questa patologia a Joyce, a cui scrisse poi anche una lettera personale. Due anni dopo (1934), ne avrebbe preso in cura, per un breve periodo, la figlia Lucia.

16 In tal senso, per quanto pure citato solo indirettamente e fugacemente nella

ras-segna stilata da Caterina Marrone (2004), il Finneganian presenta dei tratti utopici. Non si tratta, però, di una delle “lingue perfette” la storia della cui ricerca secolare, a opera di filosofi, mistici, linguisti, scrittori, è ricostruita da Eco (1993); anche se Joyce ha, in effetti, «dedicato gran parte della sua vita all’invenzione di una nuova grammatica e la ricerca della verità è diventata per lui la ricerca di una lingua perfetta» (Eco 2002: 95).

17 Le vicende di HCE sarebbero quindi annidate nel sogno del gigante. Per Melchiori

(1982: XXIV-XXV): «La fabula è inestricabilmente legata al metodo narrativo seguito da Joyce, che è a sua volta condizionato dal tutto dalle scelte linguistiche. [...] Che cosa accade in Finnegans Wake? Tutto e nulla [...] come tutto e nulla accade in ogni attimo dell’infinito flusso del tempo agli occhi di un Demiurgo in grado di osservare l’universo intero. H.C.E., un taverniere di Chapelizod, villaggio che confina con il Phoenix Park di Dublino vive con la moglie A.L.P., due figli gemelli e una figlia e, come tutte le notti, va a letto con la moglie, ha con lei un rapporto sessuale, dorme e sogna, viene svegliato dal pianto di uno dei bambini, si riaddormenta; al mattino seguente i due riprendono la vita consueta. Su questo schema essenziale si innesta però un così fitto gioco di analessi e prolessi narrative, a livello di racconto, da cancellarne le tracce».

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again wake). Scritto in molte lingue, attraverso molte lingue, salpando dal porto sicuro della lingua madre («Sono arrivato ai confini dell’inglese», dirà Joyce all’amico Auguste Suter)18, il Finneganian in realtà non è scritto in

nessuna di esse. Sulla scia delle osservazioni di Eco (1996), insomma, la lingua di FW si potrebbe definire come un linguaggio poliglotta inventato, di natura non sistematica.

Tale natura – plurilingue e asistemica – rappresenta l’ovvia e principale sfida per chi volesse cimentarsi nella traduzione dell’opera (FW intraducibile); ma rappresenta una sfida anche per chi volesse leggerla in lingua originale (FW illeggibile). Secondo Bollettieri Bosinelli (1990: 143), anzi, FW «non è scritto in alcuna sorta di ‘originale’, ma è esso stesso il risultato di un

processo di traduzione» (enfasi nel testo), così che la sua lettura, faticosa quanto il suo sviluppo, dovrebbe essere concepita più correttamente come una forma di “lettura in guisa di traduzione”. In altri termini, anche il lettore madrelingua inglese è costretto a impegnarsi in uno sforzo di traduzione; più precisamente, in una traduzione di natura intralinguistica, una riformu-lazione o parafrasi nei termini di Jakobson (1959; ammesso che si consideri il Finneganian come una variante peculiarissima dell’inglese). Il testo deve essere tradotto in inglese-inglese per essere compreso da un anglofono, e questa traduzione è necessariamente in sovrapposizione e circuitazione con la sua interpretazione. Polimorfismo, polisemia e programmatica ambiguità costituiscono i principali meccanismi di funzionamento di FW come testo, cosicché il risultato di questa traduzione non potrà mai essere lo stesso per tutti i suoi lettori e non potrà mai essere definitivo per nessuno di essi: «Ogni fruizione è così una interpretazione ed una esecuzione, poiché in ogni fruizione l’opera rivive in una prospettiva originale» (Eco 1962: 34; enfasi nel testo)19. Qualsiasi tentativo di traduzione interlinguistica (per esempio,

dal Finneganian all’italiano), poi, a sua volta, non potrà che prendere in carico e fare i conti con tali caratteristiche.

Ogni volta che si intende tradurre una poesia, bisogna essere consapevoli che si va incontro alla perdita di qualcosa; di solito, le specificità più fini della dimensione sonora, a vantaggio dei fondamentali della dimensione semantica. In FW, questa prima dimensione è difficilmente sacrificabile, in quanto rappresenta il livello del testo che veicola le diverse associazioni che il lettore è autorizzato ad attivare, secondo la logica musicale di ciò che Joyce chiamava soundense, capace di “far cantare i segni” (wanamade singsigns

to soundsense, I.6, 138), al fine di costruire una costellazione di significati, di possibili per ogni singola parola. FW è un lavoro che non è esagerato definire frattale, perché intimamente ricorsivo, potremmo dire deuterosico

18 «Je suis au bout de l’anglais», in Melchiori (1982: XIII).

19 I numeri di pagina di Opera aperta si riferiscono all’edizione pubblicata nei Tascabili

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(«ogni passo del romanzo è anche una sintesi del tutto», Melchiori 1982: XXIII)20, e che si mette continuamente in cornice, metareferenzialmente,

dandosi al lettore in forma indiziaria attraverso lessicalizzazioni metaforiche che ne rappresentano una chiave di lettura suggerita, come nei casi di

chao-smos e meandertale. È possibile rintracciare indizi simili, autodescrizioni che sono prescrizioni, anche per quanto riguarda la questione della traduzione, esplicitamente affrontata attraverso almeno tre token metamorfosizzati del lessema translate, a suggerire una particolare modalità di traduzione per FW:

– Translace (II.1, 233): translate (tradurre) + lace (laccio, stringa, merletto). Le parole possono essere tradotte solo se legate tra loro.

– Translout (II.2, 281, nota 2): translate + lout (lout significa “rozzone”, ma anche “inchinarsi”; il contesto dell’occorrenza è scurrile) + out (fuori). La traduzione deve piegarsi al lettore e deve essere centrifuga rispetto al testo.

– Trasluding (III.1, 419): translate + ludus (gioco, in latino) e Ludic (una lingua finnica). Per tradurre il testo, il lettore deve stare alle regole del gioco, anche a rischio di ottenere un’interpretazione off the top of one’s head, ossia off topic, estemporanea (la frase completa recita transluding from the

Otherman of off the Toptic).

È possibile trovare molti indizi a livello testuale, paratestuale e meta-testuale relativi a ciò che Joyce intendeva per “traduzione” riguardo a FW. Una delle fonti più preziose a questo proposito è la serie di conversazioni che il poeta e artista ceco Adolf Hoffmeister intrattenne con Joyce a Parigi tra il 1929 e il 1930, incentrate proprio su FW e sui tentativi di tradurlo21.

Le affermazioni di Joyce appaiono molto chiare:

Qualsiasi lettore intelligente può leggere e capire, se torna al testo più e più volte. S’imbarca in un’avventura con le parole. In realtà [FW] è più appagante di altri libri perché offro al lettore l’opportunità di completare quello che legge con la sua immaginazione. Alcuni si interesseranno all’origine delle parole, ai giochi tecnici, agli esperimenti filologici in ogni verso. Ogni parola possiede la magia di una cosa vivente. Ogni cosa vivente può assumere una forma [p. 18].

[FW] trascende la realtà, gli individui, l’eternità e il pensiero ed entra nella sfera dell’astrazione assoluta. Anna e Humphrey sono la città e il suo fondatore, il fiume e la montagna, maschile e femminile. Non esiste un’azione lineare del tempo... Da qualunque parte il libro cominci, lì anche finisce [pp. 19-20].

20 Deuterosi è un termine proposto dal biblista gesuita Paul Beauchamp (1977: 136-199)

per definire le specificità della testualità biblica, ossia la poetica di una continua ri-scrittura, di una continua ripetizione in guisa di continua ricapitolazione.

21 Proprio nel 1930 viene pubblicata la traduzione ceca di Ulysses, a cui Hoffmeister

lavorava dal 1928. Le conversazioni con Joyce, che si svolsero in francese, furono pub-blicate per la prima volta in ceco sulla rivista Rozpravy Aventina (1930-1931) e furono poi parzialmente tradotte in francese, italiano e inglese durante gli anni Sessanta. La prima traduzione integrale dal ceco in inglese (pubblicata su Granta n. 89, nel 2005) ha fornito le basi per una nuova versione italiana (2007).

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Non volevo essere coinvolto nella decisione della pubblicazione e traduzione del libro, specialmente perché non si tratta di una traduzione normale, ma della creazione di una nuova poesia in cecoslovacco [p. 21].

[...] lo sapete che è impossibile tradurre. [...] È possibile trasformare il testo in poesia, poeticizzarlo con la più grande libertà poetica di cui sarete capaci. [FW] non è scritto in inglese o francese o ceco o irlandese. Anna Livia non parla nessuna di queste lingue, parla la parola del fiume [p. 31].

Non voglio essere tradotto, devo restare come sono, semplicemente spiegato nella vostra lingua. Vi lascio ogni possibile libertà nella trasformazione delle parole. Mi affido a voi. Nel vostro paese ci sono tanti fiumi. Prendete i vostri fiumi: Vltava, Váha, Úslava e Nežárka [p. 33].

Una lingua può essere creata da uno scrittore. In questo caso anche da un tra-duttore [p. 34].

Penso che le servirebbe più di una vita per questo. Per favore, signori, traducete un pezzo per me, così saremo in grado di capire se è possibile far navigare Anna Livia in un’altra lingua [p. 36].

Come testimoniato anche dal suo oculatissimo titolo di lavorazione,

Work in Progress (gioco di parole con i “lavori in corso” dei cantieri), con cui veniva presentato in quadretti separati sulle maggiori riviste del moder-nismo letterario (come Transition o Le navir d’argent) o in piccoli volumetti autoconclusivi (in alcuni casi illustrati dalla figlia di Joyce, Lucia), FW sembra proporsi non tanto come un’opera scritta fatta e finita (e che, quindi, si può anche provare a tradurre), quanto piuttosto come un’operazione di lettura potenzialmente infinita, in forma di gioco ri-creativo: il “gioco della sera”, come lo aveva chiamato Hoffmeister (2007: 38). Se, facendo appello ai classici della teoria della traduzione, come Catford (1965) o Popovič (1976), appare piuttosto scontato come FW sia linguisticamente intraducibile stricto

sensu, l’unico spiraglio residuo per un possibile gesto traduttivo parrebbe essere quello che Jakobson (1959) ha definito traduzione intersemiotica o trasmutazione; vale a dire, la traduzione da un sistema semiotico (nota bene: non necessariamente un linguaggio naturale e, quindi, per esempio, anche la lingua non sistematica di FW) a un altro (per esempio, il sistema della lingua italiana). Genette (1982) parlerebbe di un caso di ipertestualità che non opera attraverso la trasformazione diretta della fonte, per cui si avrebbe una trasposizione, ma piuttosto mediante imitazione, per cui si avrebbe una

forgerie; in altre parole, rendendo giustizia all’antico adagio per cui tradurre è tradire, FW sembra ammettere come unica possibile una traduzione che sia il suo consapevole travisamento, la sua fertile dislettura22. Ma soltanto

del suo livello più superficiale.

22 Per Bloom (1975), la creazione poetica ha spesso preso la strada della variazione e

dell’innovazione grazie al meccanismo della dislettura (misreading), ossia il gesto del disce-polo che, per allontanarsi dal maestro precursore, ne opera una “lettura forte”, orientata, piegandone il testo ai propri fini.

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3. Attraverso gli strata di Finnegans Wake

Proviamo a calare queste considerazioni all’interno del modello del segno proposto da Hjelmslev (1961). Il significato preciso delle parole di FW non può essere tradotto perché risiede nella sua manifestazione, nella sua Sostanza, che è di natura instabile, fibrillante: le parole di FW non hanno un significato preciso, non vogliono dire qualcosa, una cosa sola. Al contrario, il suo senso, la dimensione più profonda del testo può essere resa attraverso altre Sostanze, in altre lingue. Sviluppando le considerazioni di Eco, avremo, quindi, “l’estetica del chaosmos” (1989) sul versante delle Forme del conte-nuto e “la poetica del pun e dell’agglutinazione” (1996), ossia del soundsense, su quello delle Forme dell’espressione. La Sostanza di FW, sul piano tanto del Contenuto, quanto della Forma, ossia la sua “dublinesità mitica” (che si dà attraverso storie, personaggi, luoghi, connotazioni diatopiche ecc.), non è che la figurativizzazione di un Tema profondo che propone l’esplorazione di un ambiente ben diverso da quello della città irlandese: il linguaggio e le sue epifanie attraverso la storia e la vita dell’uomo.

«Per il fatto stesso di essere teoricamente intraducibile, Finnegans Wake è anche – tra tutti – il testo più facile da tradurre perché consente il mas-simo di libertà inventiva e non lega a doveri di fedeltà in qualsiasi modo computabili» (Eco 1996: XI); il tentativo traduttivo in cui Joyce fu più attivamente e direttamente coinvolto seguì scrupolosamente questo princi-pio. Si tratta della versione italiana di due frammenti – le pagine iniziali e finali – della sezione nota come Anna Livia Plurabelle (libro I, capitolo 8); Joyce la realizzò in collaborazione con l’amico Nino Frank, intellettuale e critico cinematografico ebreo inviso al regime fascista ed esule a Parigi, tra il 1937 e il 1940, con le interpolazioni censorie di un secondo collaboratore, Ettore Settanni. Il risultato di questi due esperimenti fu pubblicato con il titolo rispettivamente di Anna Livia Plurabella e I fiumi scorrono sulla rivista

Prospettive, diretta da Curzio Malaparte. Questa autotraduzione joyceana è, per usare una terminologia considerata oggi desueta in ambito traduttologico, pesantemente target oriented, ossia propone un adattamento del testo fonte nella chiave della lingua e della cultura di destinazione: Joyce riscrive e, a monte, ripensa Anna Livia Plurabelle per l’occhio e l’orecchio del lettore italiano23. Elimina deliberatamente molti dei giochi di parole a tema

flu-viale – il capitolo è un’apoteosi dell’eterno femmineo inteso come eterno mutamento, eterna trasformazione e, quindi, generatività, fertilità – basati sull’inglese e ne inserisce molti basati sull’italiano24. Vediamo due

microe-23 Seguendo Popovič (1976) ogni traduzione source oriented di FW non potrebbe che

essere una sotto-interpretazione.

24 «Quel che gli interessava era mostrare cosa si potesse fare con l’italiano [...]. Il tema,

era pretesto» (Eco 1996: XIX), tanto che il disegno di FW «sembra fornito di un senso ma privo di significato» (Eco 1966: 115).

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sempi di interpolazioni italianizzanti (per un’analisi più dettagliata, si veda Eco 1996). «Latin me that, my trinity scholard» diventa «Latinami ciò, laureata di Cuneo», sacrificando il riferimento alla santissima trinità e al dublinesissimo Trinity College a vantaggio, probabilmente, di un cunnilingus dalla connotazione piemontese. «For coxyt sake» diventa «Ostrigotta, ora capesco», passando, quindi, da un “per l’amor del cielo” in cui fa capolino la coda – cox, slang per “pene” – del diavolo (il Cocito è il fiume infernale della mitologia classica, ripresa da Dante) a un’interiezione di sapore tutto veneziano e che apre a un intero nuovo insieme di inferenze semantiche (gli Ostrogoti, Dio, l’ostrica, “capire”, ma anche “uscire, venir fuori”)25.

4. Finnegans Wake, la semiotica e Umberto Eco

Il semiologo non è particolarmente interessato alla – pur affascinante e avvincente – questione della (in)traducibilità di FW in sé e per sé, ma piuttosto alle sue conseguenze, a ciò che essa può dirci sui meccanismi della significazione. Generalmente siamo portati a considerare il significato come qualcosa che è da qualche parte là fuori, nascosto dentro gli strati profondi del testo, qualcosa che deve essere scoperto e che, una volta rivelato, è qui, più o meno, una volta per tutte. Potrà poi essere spiegato, parafrasato, tradotto, ridotto, manipolato, portato a nuova vita attraverso nuovi testi ecc. Tutto ciò non vale per un testo come FW che, programma-ticamente, fa esplodere i suoi significati in modo prismatico e rizomatico, essendo un testo le cui parole causano quelle che Fritz Senn ha definito “dislocazioni”: «trasformazioni che brillano, che esplodono nella moltipli-cazione parallela delle proprie fonti» (in Waisman 2005: 196). Le parole di FW sono strutture viventi, esseri simbiotici, che cambiano il proprio volto, le proprie affordances26, le proprie ergonomie di senso a seconda di

chi si trovi a fronteggiarle, a seconda del lettore che le affronta, lettore il cui sguardo e il cui udito trasformano, rimodulano il testo, ogni volta, in modo nuovo e diverso; le regole del “gioco delle sera”, insomma, sono tante quanti sono i suoi partecipanti, tante quanti sono i turni o le partite da giocare. Leggere e interpretare FW non può essere altro che un lavoro di cooperazione, negoziazione e, se il caso, lotta tra il lettore e il testo; 25 Un’operazione simile è tentata da Gianni Celati (1972), che riscrive in un

acconcia-mente scurrile dialetto veneto il passaggio relativo alla visita al museo Wellington (sempre I.1, 8).

26 Eco (1997) riprende la nozione di affordance dalla psicologia della visione di Gibson

(1979), sovrapponendola a quella di pertinenza di Prieto (1975), onde strapparla dal do-minio della percezione bruta e semiotizzarla. L’idea che il testo si dia al lettore attraverso delle sue “disponibilità” è presente in Eco, sulla scia di Barthes, già in Opera aperta (1962: 34-35, nota 2).

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tra il Soggetto attivo – l’Eroe impegnato nella ricerca del significato – e l’Aiutante, che è, allo stesso tempo, come nel caso degli oracoli ermetici, l’Opponente.

Umberto Eco non poteva che restare stregato da FW. Perché rappresen-tava il non plus ultra delle sue predilezioni erudite, delle ossessioni teoriche che aveva già e di quelle che avrebbe avuto per tutta la vita: la creatività antiretoricamente intesa come combinatoria, la ludicità come forma massima di sperimentazione, la parodia come chiave di accesso al senso delle cose (e cardine del sentire postmoderno inteso come strategia estetica meta-storica, «ripensamento ironico del già detto», si legge nelle Postille 1983)27,

il Medioevo più oscuro e negletto (l’estetica isperica, rimediata da Joyce). Soprattutto, più in generale, l’indagine stessa sulle modalità di costruzione, assegnazione e accesso al senso dei testi. È noto, ma mai sufficientemente sottolineato28, come il crescente interesse dell’Eco estetologo e medievista per

linguistica e semiotica sia seguente e conseguente a Opera aperta (1962; alla sua edizione francese, in particolare, datata 1965), e che quest’opera chiave nella sua produzione, generalmente definita come “pre-semiotica” eppure assolutamente fondativa del suo sentire semiotico, trovasse originariamente in FW il suo cuore pulsante, con una lunga trattazione – inclusa subito dopo quella che oggi appare la parte conclusiva, dedicata al successo dello Zen in Occidente – che poi sarebbe stata espunta, accresciuta e pubblicata in forma autonoma, con il titolo Le poetiche di Joyce (1966; unanimemente considerato uno dei migliori studi sull’argomento). Di Joyce e FW Opera

aperta conserva ancora poche, localizzate ma fondamentali tracce: se ne parla nella duplice introduzione (pp. 4-5, p. 15), nel saggio con valore di manifesto teorico generale “La poetica dell’opera aperta” (pp. 42-44) e in un passaggio della “Analisi del linguaggio poetico” in cui un lacerto del testo joyceano è messo a confronto con una terzina dantesca (pp. 90-92; testi “aperti” entrambi, sottolinea Eco, ma con la differenza chiave che se Dante rimanda a un messaggio ortodossamente conchiuso, Joyce ne allude a uno che è di per sé plurivoco)29.

27 Eco (1983: 530). Come noto, il testo delle Postille è stato pubblicato

originaria-mente sulla rivista Alfabeta, poi in un volumetto a sé stante (1984) e infine incluso come appendice in tutte le successive edizioni del romanzo; il numero della pagina si riferisce a una ristampa del 1996.

28 Nella sua rassegna sulle predilezioni letterarie echiane, Pozzato (2016) non cita FW

(né Borges). Rimette definitivamente in prospettiva la questione Paolucci (2017), che a FW (e Borges) assegna un ruolo centrale nella “teodicea” teorica echiana.

29 Nella terzina presa in esame, Dante fornisce una definizione poetica della Trinità.

Il passaggio di FW è invece tratto dalla descrizione del Mamafesta di ALP (Anna Livia Plurabelle), una misteriosa lettera ritrovata da una gallina in un letamaio (e che si scoprirà essere stata scritta da Shem), il cui significato è «indecifrabile, oscuro perché multiforme; la lettera è lo stesso Finnegans e in definitiva è un’immagine dell’universo che il Finnegans rispecchia sotto specie linguistica». Ma se «della Trinità si dà una sola nozione», il cosmo

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Tutta la teoria della cooperazione interpretativa, inaugurata da Opera

aperta e la cui sistematizzazione viene dettagliata e prende definitivamente consistenza con Lector in fabula (1979a)30, e nozioni ormai parte della

wit-tgensteiniana cassetta degli attrezzi di ogni studioso della letteratura e dei media che si rispetti provengono, promanano dalla suggestione semiotica di FW: “opera aperta” (quella che promuove nell’interprete “atti di libertà cosciente”, ponendolo come centro attivo di una rete di relazioni inesau-ribili)31, “semiosi illimitata” (per cui il significato di una rappresentazione,

ossia di un segno, non è che un’altra rappresentazione), “enciclopedia” (il modello semantico aperto, relazionale e non gerarchico che si oppone a quello dizionariale o a tratti, che vorrebbe che ciascun elemento possa darsi secondo una definizione concisa e univoca), “lettore modello” (il lettore che il testo, nel suo dispiegarsi, definisce implicitamente come destinatario). Ecco, anche un’opera apparentemente dissennata come l’ultimo romanzo joyceano si disegna addosso un enunciatario dotato di caratteristiche precise: «Dovrà avere come competenza fondamentale il possesso dell’inglese [...]; e non potrà essere un lettore ellenistico del secondo secolo dopo Cristo che ignori l’esistenza di Dublino, come non potrà essere un illetterato dal lessico di duemila parole» (Eco 1979a: 58)32.

L’influenza filosofica e prima ancora epistemologica di FW è ricordata dallo stesso Eco in un saggio fondamentale tanto per i joyceani, quanto per i semiologi intitolato Joyce, Semiosis and Semiotics (1992), dimenticatissimo e che andrebbe invece reintegrato nel suo canone propriamente semiotico: «My semiotic theories have been profoundly influenced by my previous Joycean adventure [...]: without my Joycean journey, I would probably not have been seized by semiotic vertigo» (p. 19)33. È a partire dalla “veglia dei Finnegan”

finneganiano «è un ‘chaosmos’ e definirlo vuol dire indicarne, suggerirne la sostanziale ambiguità», dice Eco (1962: 91). La distinzione tra una «collaborazione teoretica, mentale, del fruitore, che deve liberamente interpretare un fatto d’arte già prodotto» e il diretto coinvolgimento poietico del fruitore, per cui egli «collabora a fare l’opera», è proposta da Eco già in un passaggio precedente (p. 45), attraverso l’opposizione, rispettivamente, tra un’opera di Webern e una di Pousseur.

30 L’edizione inglese (Eco 1979b) rende ancora più espliciti il percorso diacronico e

i richiami intertestuali che delineano gli elementi focali di questa teoria, includendo come cap. 2 (pp. 67-89) il saggio sulla “semantica della metafora” originariamente apparso in Eco (1971) e incentrato sulla discussione del modello – enciclopedico – che rende possibile tanto la creazione, quanto la decodifica di un neologismo come meandertale.

31 Si tratta di una parafrasi del quinto paragrafo de “La poetica dell’opera aperta”,

in Eco (1962: 35).

32 Per l’opera aperta si veda, ovviamente, Eco (1962); per la nozione di semiosi

illi-mitata, Eco (1990); per quella di enciclopedia, anticipata dalla nozione di “codice” così come presentata in Eco (1975), si veda Eco (1984); la teoria del lettore modello è esposta in Eco (1979a).

33 Il saggio è forse più noto presso il pubblico anglofono, poiché è stato ripubblicato,

con piccole interpolazioni, come il cap. 9 di Eco (1994: 137-151). Sulla relazione Joyce-E-co-semiotica, si veda anche Heide (1992).

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e dalla veglia coatta cui il lettore deve sottoporsi a sua volta per districarsi tra le loro – sostanzialmente inutili, come visto e come vedremo – vicende che Eco invita a pensare la relazione testo-lettore come dispositivo dialetti-co-interpretativo in una prospettiva che è tanto cognitiva (e gnoseologica), quanto strettamente pragmatica; invita a pensare, cioè, il lettore, quale che sia, di fronte a qualsiasi testo, come simulacro potenzialmente affetto da una ideal insomnia (I.5, 120), una insonnia dalla gradualità locale e relativa, commisurata alle esigenze dettate dal testo stesso: “ideale” perché delle

idee e perché impraticabile fino in fondo nella sua potenziale inesauribilità. Joyce anticipa, dandone esempio concreto, colato in parole, quanto Borges (che con le opere di Joyce intrattenne un rapporto di amore/odio, ma da cui fu profondamente influenzato) avrebbe immaginato lavorando sull’idea di infinito combinatorio ne La biblioteca di Babele (1941)34. FW e il

suo meccanismo di funzionamento sono così l’immagine primigenia della semiosi peirceana filtrata, attraverso Joyce, da Eco; una semiosi sì illimita-ta, ma non indiscriminaillimita-ta, secondo il principio – molto di buon senso – per cui ai testi possiamo far dire tutto quello che vogliamo (è questa l’intentio

lectoris), seguendo il fascino dei loro significanti eccedenti (secondo la de-finizione di decostruzione data di Derrida, totem polemico di Eco)35, ma

non quello che essi non ci autorizzano a dire (è l’intentio operis a fissare, per quanto elastici, i rigidi limiti di ogni possibile esegesi)36. In altre parole:

laddove il sogno dell’interpretazione può generare mondi, letterari e di vita, come accade in quello vigile di FW, il suo sonno ottuso genera certamente mostri, ideologiche decodifiche aberranti. Non è un caso, insomma, che il testo joyceano abbia rappresentato per Eco una sorta di coperta di Linus, un memento, un tutto fuorché rassicurante monito alla veglia interpretati-va da portarsi appresso il più spesso possibile: dalle bagatelle intellettuali (“esercizi di falsificazione letteraria”) pubblicate a partire dal 1959 su Il

Verri e altre riviste letterarie e poi raccolte in Diario minimo (1963), fino all’autobiografia intellettuale scritta per il volume della serie The Library of

Living Philosophers, che avrebbe visto la luce solo postuma (2017).

Dice bene Beckett (1929), in quello che è il primo studio in assoluto su FW (ancora Work in Progress), quando parla di “opera purgatoriale” e “regno della possibilità”; dove per “possibile” non si deve intendere 34 «Da un lato il significante, dall’altro il significato. [...] Joyce ha giocato sulle parole,

Borges sulle idee», in Eco (2002: 123). Di Borges si veda anche il saggio sulla “biblioteca definitiva” (1939).

35 Derrida, che amava profondamente lo Ulysses (1987), ha utilizzato FW come

mo-dello, anche grafico, tipografico, per il suo Glas (1974), il libro in cui ha talmudianamente (Handelman 1982: 47) messo a confronto la filosofia di Hegel e gli scritti autobiografici di Jean Genet.

36 Il modello delle tre intentio (oltre a quelle citate, anche quella auctoris) si trova

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tanto una “scelta alternativa”, quanto, al contrario, uno “sviluppo simul-taneo”, come nella “grammatica delle scelte” di M.A.K. Halliday (1978), nell’ipertesto originariamente inteso da Ted Nelson (1965) e, ancora più radicalmente, nella teoria della relatività einsteniana che, come corollario, autorizza l’esistenza di possibili mondi paralleli (Eco 1966: 138-146). Se per Schopenhauer la musica è la più vivida manifestazione della volontà di potenza, la logica semplice e fertile del soundsense joyceano fa sì che FW aggiri i vincoli altrimenti ineludibili della linearità del linguaggio, sconfinando nel terreno, inedito per la materia verbale, della stratificazione, dell’armonia e della polifonia musicali, perché le sue parole sono come accordi, sincresi di suoni diversi37, che suonano la “musica delle idee”38. Come suggerisce

Eco (1962: 44), «per definire la situazione del lettore di Finnegans Wake ci pare che possa servire a meraviglia una descrizione che Pousseur dà della situazione dell’ascoltatore di una composizione seriale postdodecafonica»39:

Giacché i fenomeni non sono più concatenati gli uni con gli altri secondo un determinismo conseguente, spetta all’ascoltatore di porsi volontariamente nel mezzo di una rete di relazioni inesauribili, di scegliere per così dire egli stesso (ma ben sapendo che la sua scelta è condizionata dall’oggetto che mira) i suoi gradi di avvicinamento, i suoi punti di ritrovo, la sua scala di riferimenti; è lui ora a tendere di utilizzare contem-poraneamente la maggior quantità di gradazioni e di dimensioni possibili, di rendere dinamici, di moltiplicare, di estendere all’estremo i suoi strumenti di assimilazione.

Alla ricerca della perfetta «metafora epistemologica» (1962: 50 ss.) per raccontare l’epoca del superamento delle grandi summae, preconizzando già la necessità di uno spazio di libertà – come visto, vigilata – da opporre all’elegante determinismo delle griglie strutturalistiche, Eco trova nell’opera con cui Joyce dismette definitivamente i panni del neoscolastico il proto-tipo di un testo estetico “in movimento”, che non si dà mai una volta e per tutte: un’opera-gioco, un puzzle sempre da ri-cominciare, che invita il lettore a completarlo per appropriarsene, sempre e comunque parzialmente, in modo sempre nuovo, diverso, idiosincratico. Ancora più radicalmente, anzi: un’opera che si nega in quanto tale e che si dà eminentemente come modello euristico, una non-opera che, come il monello per antonomasia, il Franti del libro Cuore, «mette in dubbio regole, codici e sistemi di con-venzioni» (Eco 1992: 21).

37 Riprendo il termine syncrisis dal musicologo Philip Tagg (2012), che lo utilizza per

definire globalmente (sotto il profilo melodico, armonico, dinamico, ritmico, timbrico ecc.) i suoi musemi, unità minime di espressione musicale omologhi dei morfemi di ambito linguistico.

38 Una nozione, impiegata spesso e volentieri da Eco nei suoi scritti joyceani,

origina-riamente proposta da Ivor Armstrong Richards con riferimento a The Waste Land (1922) di T.S. Eliot.

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5. Finnegans Wake da eccezione a modello

Paradigmi, teorie, metodologie e tecniche sono anche una questione di economia dei mezzi; sono, cioè, modellati addosso a un canone, un insie-me di argoinsie-menti e di oggetti dati, comuni e prevalenti. Banalinsie-mente: che si incontrano più spesso. Anche quando abbiamo a che fare con oggetti che ci appaiono peculiari, siamo comunque in grado di applicarvi le nostre griglie, in quanto quelle stesse griglie sono state ricavate, originariamente, proprio a partire da essi. Nonostante ciò, esistono, parafrasando Orwell,

oggetti più peculiari di altri, che non si adattano facilmente alle nostre cate-gorie e riescono a metterle seriamente in imbarazzo. È quello che accade con gli studi letterari, traduttologici e comunicativi a confronto con FW: studi che non possono davvero dirsi scientifici se non riescono a includere organicamente al proprio interno quelle che, diversamente, sono destinate a rimanere le eccezioni di un sistema troppo semplicistico e riduzionista. Oggetti peculiarissimi come FW possono aiutarci a rimettere in prospettiva le nostre categorie, in un’ottica a uno stesso tempo più stringente ed ela-stica: possono aiutarci a costruire teorie più generali, perché più inclusive, basate non sui casi più comuni, ma su quelli meno comuni. In particolare, FW può aiutarci a rimettere in prospettiva il pensiero consolidato attorno all’idea di traduzione; una nozione che, per quel che abbiamo visto, andrebbe considerata come un iponimo di ricreazione, con quest’ultima intesa a sua volta come iponimo di interpretazione, vero termine iperonimo della triade. In altre parole, il fatto che si riesca a riscrivere un’opera letteraria in una lingua diversa da quella originale impiegando un insieme di elementi che consente di preservare il suo significato letterale è solo una coincidenza fortunata, benché si verifichi assai di frequente. Qualsiasi opera lettera-ria – e qualsiasi testo semiotico, più in generale – si propone come un progetto comunicativo, come una «macchina per produrre interpretazioni» (Eco 1990: 106), dandoci la possibilità di ricostruire il suo idioletto, il suo codice locale e specifico, che può essere usato come modello, serie di istruzioni per costruire altre macchine simili; a seconda della complessità del progetto, della quantità di possibili interpretazioni, potremo estendere questa codifica ad altri lavori. In altre parole, il fatto che si possa conside-rare un testo come qualcosa che trasmette il contenuto di una storia che è possibile raccontare linearmente (il famoso genetteano “Marcel diventa scrittore” che riassume l’intera Recherche proustiana) è solo una coincidenza fortunata, anche se assai comune. FW suggerisce, per ogni sua parola, una serie di interpretazioni, che non sono mutualmente esclusive, ma possono co-occorrere, possono co-esistere, in quanto suggerisce una Forma, piut-tosto che una Sostanza specifica, intuibile tra le pieghe instabili della sua tessitura. Abbiamo familiarità con l’idea che il significato si manifesti solo

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chiamare la “metafisica del significato” desumibile da FW sembra suggerire proprio il contrario, ossia che possiamo avere accesso alla significazione in un modo completamente diverso, frequentando la Sostanza il giusto per poterci appropriare della Forma che vi scorgiamo dietro. E risostanziarla a nostra volta.

Decine di autori hanno speso decenni e migliaia di pagine per spiegarci di cosa tratta e a cosa si riferisce, in accordo con un approccio filologico, erudito e testualista a FW. Solo pochi hanno cercato di mettere in pratica il progetto joyceano: produrre testi finneganiani, teorie finneganiane, progetti finneganiani sulla base della propria lingua, sistema secondo da sovrapporre alle Forme finneganiane del chaosmos e del soundsense. A ben vedere, coloro i quali si sono ispirati a FW lungo tutto il XX secolo, prendendolo per il modello mitico che è, lo hanno impiegato esattamente in questo modo; come cornucopia di neologismi, chiavi di lettura del mondo, strumenti di creazione di universi personali: Joseph Campbell (1949), tra i primi e più fondamentali esegeti sistematici del libro di Joyce (1944), vi scova la parola perfetta per designare la teoria secondo cui tutte le narrazioni miti-che del mondo non sono miti-che le diverse varianti di un’unica grande storia (monomyth); nel 1964 il fisico Murray Gell-Mann (1994: 180) vi trova quella ideale per battezzare la particella elementare al centro del proprio rivolu-zionario modello subatomico (quark, II.4, 383); Marshall McLuhan (1968) scorge nei dieci tuoni che lo puntellano – il primo dei quali, quello di una humptydumptyana “caduta”, si trova già nella prima pagina – il vaticinio di altrettante rivoluzioni tecnologiche40; Anthony Burgess (1973) vi ritrova

l’idea che il linguaggio è efficace e agisce la sua azione creando mondi, belli e brutti, ma tutti degni di una propria possibilità di esistenza (semplificando molto, è questo il senso di quell’apologo che è Arancia meccanica); Wolfgang Iser (1975) disegna, come farà pochi anni dopo, come visto, lo stesso Eco, il suo implied reader addosso a quell’ideal reader joyceano cronicamente con-dannato a restare sveglio; John Cage (1978) usa FW, ipertestualmente (nel senso dell’hyperlink che fa saltare da una parte all’altra), come strumento compositivo per i propri mesostici; Felix Guattari (1992) riprende l’idea di

chaosmos per costruire un paradigma etico-estetico e metaforizzare la sua concezione multiplanare di soggettività; Terence McKenna (1995) definisce FW un manifesto ante-litteram della psichedelia, perché la sua narrazione non si fissa mai in un punto di vista stabile, né propone personaggi univo-camente individualizzati. Questi e altri filosofi, scrittori e artisti – citiamo ancora, almeno, Michel Butor, Northrop Frye, Jay David Bolter, Jean-François Lyotard, Flann O’Brien, Alan Moore – non si sono concentrati sulla storia 40 «There are ten thunders in the Wake. Each is a cryptogram or codified explanation

of the thundering and reverberating consequences of the major technological changes in all human history» (p. 5). Sull’idea di FW come “tecno-testo”, si veda anche Cramer (2005).

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e le vicissitudini di Humphrey Chimpden Earwicker, ma piuttosto su FW come palinsesto da ritramare, come tavolo di lavoro, si sono concentrati su come usare le sue strutture elastiche a proprio vantaggio: per costruire, a loro volta, il proprio world, il proprio parolmondo, mondo di parole, parole che sono mondi. Se FW «non tratta di qualcosa, ma è esso stesso qualcosa» (Eco 1966: 145; enfasi nel testo), le interpretazioni prodotte a partire da questa particolare metamacchina non sono tanto i suoi contenuti, quanto altre opere, altri progetti: apparentemente così astratto e solipsistico, FW, manuale intellettuale del secondo Novecento, è riuscito a trovare nella più pragmatica delle dimensioni la sua nuova forma di esistenza.

Dopo Eco, che vi ha fondato le idee chiave alla base della sua teoria della cooperazione interpretativa, sviluppate lungo un arco temporale di circa trent’anni, i semiologi hanno abbandonato FW («Joyce was confined to a region where only a few courageous pioneers dared to venture», Eco 1992: 20)41; cosicché le uniche opere che affrontano questo testo in una

prospettiva esplicitamente definita come semiotica sembrano essere quel-le di Norris (1974), Weir (1989) e Sawyer-Lauçanno (1993)42. Ma se una

semiotica di FW, in fondo, appare difficilmente praticabile, anche perché il testo joyceano rappresenta la scaturigine di questa disciplina per come la conosciamo oggi (e se questa disciplina vuole darsi come scienza del senso non può che espungere dal proprio orizzonte quel problema per definizione pseudoscientifico che è l’origine), è invece praticabile una semiotica con FW, se è vero come è vero che tutti i semiologi italiani, attraverso Eco, e più in generale tutti i semiologi di ispirazione echiana, ne sono, spesso incon-sapevolmente, i figli. Se FW continuerà a tenerci desti e discoli il giusto mentre cerchiamo non tanto di capirlo, quanto di capire come farne buon uso, incastrati tra i suoi tunnel e stretti, come in castigo, tra il percorso generativo, da una parte, e la «macchina allucinatoria» (Eco 1996: XVIII, nota 13) della decostruzione, dall’altra, significa che, da suoi bravi lettori, modello ed empirici, saremo ancora sulla buona strada. Come voleva Joyce, per altri duecentoventi anni almeno.

Gabriele Marino Università di Torino Dip. di Filosofia e Scienze dell’Educazione Palazzo Nuovo, via Sant’Ottavio 20 10124 Torino gabriele.marino@unito.it

41 Particolarmente alle pp. 20-21, Eco motiva con ricchezza di argomentazioni questo

“disinteresse semiotico”.

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