Platone 3
I filosofi nello Stato
Una riforma politica non può prescindere dalla
virtù e dal bene. Compito della comunità politica
è infatti orientare i suoi componenti al bene. Gli
esperti in questa materia sono ovviamente i
filosofi cioè coloro che esercitano quella
disciplina che consente di contemplare la verità
e il bene stesso. Dunque i filosofi devono essere
i reggitori dello Stato.
La giustizia
Affinché gli uomini appartenenti ad una data
comunità possano contemplare la verità e
comunque vivere secondo verità è necessario che la
comunità sia ordinata secondo giustizia. Qual è la
natura della giustizia? Essa è quella virtù che
consente agli uomini di collocare tutti gli enti di
questo mondo e loro stessi nell’ordine corretto, in
modo che il ruolo di ciascuno corrisponda
esattamente alla sua identità, al suo essere
profondo. Insomma, la giustizia è fondamento di
uno Stato che rispecchia l’ordine dell’essere.
L’anima e lo Stato
• Per far capire di quale ordine si tratti quando si parla di
giustizia dello Stato, Platone istituisce un’analogia tra
l’individuo umano e la comunità politica.
L’anima dell’individuo umano consta di diverse facoltà o
parti, in una specifica gerarchia, anche se di fatto
questa gerarchia può essere violata, nel senso che in
diversi individui possono prevalere diverse parti
dell’anima e non, come dovrebbe, la parte razionale.
L’ordine dello Stato compensa tale disfunzione,
assegnando uno specifico ruolo agli uomini a seconda
del tipo di anima che prevale in loro e prevedendo al
vertice dello Stato stesso la presenza di coloro in cui
prevale la parte più nobile.
Le facoltà o parti dell’anima
Le facoltà o parti dell’anima sono le seguenti:
L’anima razionale: deputata all’esercizio del logos e al dominio degli impulsi, è la parte
più nobile dell’anima stessa. La virtù specifica di quest’anima è la sapienza.
L’anima irascibile: tipica degli uomini impetuosi, combattivi e tenaci, la cui virtù
principale è il coraggio.
L’anima concupiscibile: tipica degli uomini rivolti ai beni sensibili. Essi non hanno una
virtù propria, ma condividono una virtù comune a tutte e tre, la temperanza. La temperanza è quella virtù che possiamo individuare nell’autodominio, nella capacità di compiere un’azione superando gli ostacoli fisici, materiali e spirituali che si frappongono. Si tratta di una virtù che nella parte concupiscibile dell’anima porta a sopportare le fatiche del lavoro e delle imprese economiche che richiedono dispendio di energia fisica.
Essa appartiene a tutta l’anima in quanto, proprio in virtù della temperanza, ogni parte dell’anima reprime la tentazione di scompaginare la gerarchia affermando i propri diritti contro le altre parti.
Quindi la temperanza è in funzione della giustizia, cioè dell’ordine complessivo delle facoltà umane.
La diversità degli uomini
Cionondimeno è un dato di fatto, non ulteriormente
spiegato, che in molti uomini possa prevalere
l’anima concupiscibile e/o irascibile piuttosto che
l’anima razionale. Tale problema è al tempo stesso
una risorsa in quanto permette di assegnare agli
uomini compiti diversi all’interno della società
coprendo tutto lo spettro dei bisogni umani che la
società deve soddisfare. Quindi, poiché gli uomini
sono diversi devono compiere lavori diversi, in un
sistema di ruoli che funziona grazie all’apporto di
tutti e alla fine soddisfa tutti.
La struttura dello Stato
Quindi in analogia con l’anima umana, all’interno dello Stato saranno collocati
ai suoi vertici coloro in cui prevale l’anima razionale, con il compito di
organizzare l’intera comunità in vista del Bene assoluto, che è anche il bene collettivo.
Ad un gradino gerarchico immediatamente inferiore saranno collocati coloro
in cui prevale l’anima irascibile, con il compito di difendere con la loro forza e il loro coraggio la comunità.
Infine vi saranno i lavoratori, coloro che sono dediti alle attività economiche,
con il compito di fornire il sostentamento materiale per tutta la comunità.
Qui si ripeterà anche lo schema relativo alla virtù. I primi sono i sapienti, i secondi i coraggiosi, mentre di tutti e anche dei terzi è la temperanza. La sintesi di tutte queste virtù sarà la giustizia che presiede all’ordine stesso dello Stato.
L’unità
Come il senso della vita umana è dato dal
raggiungimento
dell’unica
virtù,
la
sapienza, che permette di conseguire
l’unico Bene, così il senso dello Stato
risiede nella possibilità di ricondurre la
molteplicità dispersa dei cittadini ad un
unico fine, l’unico Bene e l’unica verità
Gli organi della società
Il modello platonico risulta così essere un modello
organicistico. Le parti dello Stato e della società sono
viste cioè in analogia con le parti di un organismo
vivente in cui ciascun elemento svolge un ruolo ben
preciso a beneficio del tutto. I diversi organi hanno
diversa importanza e una specializzazione nel
collaborare alla vita dell’organismo stesso, ma quello
che conta è la totalità e il suo bene, che è individuato
dall’organo più importante, il cervello (cioè in termini al
tempo stesso anatomici e politici, il capo).
I membri degli organi della società
Nella struttura politica ogni organo - reggitori, guerrieri, lavoratori – è
composto da un certo numero di cittadini, lì collocati a seconda della
loro identità psicologica profonda e della loro vocazione interiore.
Ebbene, ci si domanda, la collocazione è valida una volta per tutte o è
possibile una certa mobilità sociale? In realtà la collocazione appare
vitalizia ma non ereditaria. Cioè se una persona ha in sé la prevalenza
dell’anima razionale, sembra destinato a vita nella classe di cittadini
corrispondente, ma non è detto che le sue caratteristiche si
trasmettano alla prole. Spesso, dice Platone, accade così, ma è compito
dei reggitori della città esercitare un’attenta selezione affinché nei
bambini vengano riconosciute le attitudini naturali che li destinano ad
una classe piuttosto che ad un’altra. Ciò comporta una certa apertura
del sistema e una certa mobilità.
Il compito e la vita dei reggitori
Compito dei reggitori-sapienti-filosofi è gestire l’intera vita della comunità. Ovviamente essi devono con il loro stile di vita rappresentare un esempio di esistenza virtuosa e di esercizio efficace della sapienza. Per tale motivo Platone prevede per loro una serie di regole e di comportamenti da mantenere in ogni caso.
1)Tra i reggitori è eliminata la proprietà privata: ogni atto della loro vita deve avere come obiettivo il bene e non l’interesse personale. I beni materiali posseduti devono perciò essere posseduti in comune. Questo è ciò che viene chiamato comunismo platonico
2)La sobrietà è altresì importantissima: i custodi vivranno in case semplici, condivideranno i pasti, non riceveranno alcun compenso per la loro opera; nel loro ambiente sarà proibito l’oro e l’argento, anche se saranno loro garantiti i mezzi di sussistenza ordinari.
3)Non ci sarà famiglia tra i reggitori. Le donne vivranno tra loro in perfetta parità e le unioni tra uomo e donna saranno momentanee e finalizzate alla prole. I figli saranno educati in comune, saranno cioè figli di tutti e non di un singolo padre e di una singola madre. Ancora una volta questi provvedimenti sono orientati a distogliere il reggitore da ogni interesse individuale perché si concentri solo sul bene comune. Questo è l’aspetto sessuale-famigliare del cosiddetto
La felicità dei custodi
Tali
regole,
finalizzate
a
facilitare
la
predisposizione del reggitore a perseguire un
bene non solo suo, ma oggettivo e di tutti, non
contrastano con la vocazione umana alla felicità,
che per Platone è il risultato di colui che
raggiunge la sapienza. Il percorso filosofico di
ogni reggitore è garanzia di virtù e quindi di
felicità, non lo sono i piaceri sensibili, le
Le forme di governo
• Il modello platonico è eminentemente aristocratico, cioè fondato
sull’idea che a governare debbano essere i migliori per virtù.
• Accanto a questa forma corretta di governo si danno delle forme
degeneri:
1)La timocrazia, cioè il governo fondato sull’ambizione e sulla ricerca
della gloria e dell’onore personale, ma diffidente verso i sapienti;
2)l’oligarchia, il governo di pochi, ma dei più ricchi, a difesa dei loro
privilegi di classe;
3) La democrazia il regno della libertà disordinata, in cui il popolo
governa nella licenza cioè autorizzandosi a fare quello che vuole in
spregio alla verità e alla giustizia.
La tirannide come degenerazione
della democrazia
4) La democrazia spesso degenera ulteriormente in tirannide.
Infatti continue lotte tra gruppi sociali, dovute all’eccessiva
libertà, condurranno il popolo a farsi proteggere da un uomo
forte che lo blandirà per ottenere potere e ricchezza contro i suoi
avversari. Per eliminarli non esiterà a provocare guerre. Sarà
nemico dei sapienti per non avere rivali e quindi si circonderà di
uomini mediocri e si avvarrà di poeti abili nel parlare per
convincere e manipolare l’opinione pubblica. L’esito di tutto ciò è
la rovina dello Stato, non più guidato da uomini sensibili al
richiamo della verità, ma solo a quello dell’interesse personale.
Ciò provocherà una situazione di violenza e instabilità esiziali per
lo Stato e per i cittadini.
Platone antidemocratico?
Come ben si sarà potuto vedere, Platone è profondamente
critico nei confronti delle forme di governo democratiche che
egli stesso ebbe modo di valutare dall’interno, nei loro difetti e
nelle loro degenerazioni. Ovviamente Platone non ha
conosciuto altra forma di democrazia che quella greca, quindi la
sua opposizione alla democrazia va contestualizzata nel suo
tempo. Porre l’accento su un Platone come se fosse complice di
un delitto di lesa maestà nei confronti della forma di governo
considerata oggi più giusta ed efficiente costituisce pertanto un
grave anacronismo. In tale errore sono incorsi numerosi filosofi
contemporanei: da B. Russell a K. Popper a…Nicola Abbagnano.
Platone antiegalitario
Sicuramente si può dire che, in sede di opzione antropologica, Platone non credesse nell’uguaglianza e nell’uniformità degli uomini e ritenesse fosse profondamente ingiusto trattare in modo uguale uomini e situazioni diverse. Si tratta certo di un atteggiamento che contrasta con alcune credenze oggi ben diffuse, soprattutto a partire dalla Rivoluzione francese. Ma ancora il complesso delle dottrine di Platone, con i loro corollari a volte sorprendenti (nella Repubblica si parla anche di una selezione eugenetica dei migliori attraverso opportuni accoppiamenti), va visto alla luce della mentalità greca, da un lato, e dei valori di fondo della sua filosofia, dall’altro. La prima ci serve a vedere singole prese di posizione e le descrizioni più particolareggiate come omaggi ad una tradizione di pensiero aristocratica consolidata nell’entourage sociale del filosofo; i secondi veramente trascendono i tempi, facendo del testo platonico un punto di riferimento ancora obbligato per chiunque voglia pensare la giustizia e la virtù politica.
Chi controlla i custodi-reggitori
dello Stato?
Escludendo a priori un controllo dal basso, poiché
evidentemente coloro che hanno meno saggezza non
possono controllare coloro che ne hanno di più, sorge la
domanda: «Chi è che garantisce che i custodi facciano
veramente il loro dovere?». La risposta è: «Essi stessi».
Con un solo elemento di garanzia, diremmo, oggettivo:
l’educazione. E’ l’educazione che essi hanno ricevuto e
che a loro volta impartiscono permettere loro di
rispettare i rigidi canoni etico-comportamentali propri
della loro funzione.
La selezione dei candidati al ruolo
di reggitori
La virtù in senso filosofico richiede, secondo quanto sostenuto nella Repubblica una certa predisposizione naturale che comporta negli uomini e nei giovani soprattutto:
•Amore per la verità e avversione per la falsità
•Disprezzo delle soddisfazioni solo sensibili e dei beni materiali che giunge fino al disprezzo della vita
•Orrore per l’ingiustizia
•Una certa facilità nell’apprendimento
•Una certa capacità di ritenzione mnemonica
Queste sono doti che vanno valorizzate attraverso la pratica della filosofia.
Dunque la selezione di coloro che, tramite l’educazione, verranno instradati al ruolo di reggitori punta anzitutto a rilevare nei giovani alcune doti, diremmo, innate, e in secondo luogo a coltivarle attraverso un preciso programma di studi e di esercizi di autodisciplina etica.
L’educazione alla conoscenza
L’autodisciplina etica, cioè la capacità di autodominio
delle proprie passioni e dei propri immediati istinti,
presuppone,
coerentemente
con
il
fondamento
intellettualistico dell’etica platonica, la
sapienza-conoscenza. Il processo di incremento e raffinamento di
quest’ultima segue diverse tappe.
Abbiamo già visto che la conoscenza può essere di due
tipi:
- inferiore e non sicura è la conoscenza sensibile;
- superiore e certa è quella razionale.
I gradi della conoscenza
Ma all’interno di ciascuna delle due categorie è possibile distinguere livelli diversi: •Nella conoscenza sensibile si distingue un grado inferiore, la immaginazione o
congettura (eikasìa) che ha per oggetto le immagini superficiali degli oggetti, da
uno superiore, la credenza (pìstis) che riguarda la percezione chiara degli oggetti nei loro mutui rapporti.
•Nella conoscenza razionale si distingue un grado inferiore, la ragione discorsiva o
matematica (diànoia) che conosce con precisione il mondo attraverso la misura
che essa può dare tramite le idee matematiche. Le idee matematiche permettono di giungere a un rigore esatto nella determinazione della realtà. La conoscenza da queste fornita viene infine ulteriormente arricchita dalla filosofia
(noesis=conoscenza profonda dell’essenza delle cose) che si richiama alle idee-valori nella loro gerarchia che conduce all’Uno-Bene cioè a quell’assoluto totalmente autonomo rispetto alla realtà sensibile, pieno di essere, eterno, stabile e incorruttibile dal quale tutto il resto dipende.
Il cursus studiorum dei reggitori
Coerentemente con questo schema conoscitivo, viene da
Platone redatto il cursus studiorum del reggitore. Le prime
materie studiate saranno la ginnastica per la disciplina del corpo
e la musica, cioè quella scienza che attraverso l’armonia
introduce ai rapporti numerici fra le cose. Poi si studieranno le
discipline matematiche propedeutiche alla filosofia. Con queste
si imparerà a non farsi ingannare dalle apparenze sensibili e
mutevoli, sottoponendole al criterio della misura e dell’esattezza
numerica. Infine tra i 30 e i 35 anni si studieranno la dialettica o
la filosofia. Fino ai 50 anni vi sarà un tirocinio nelle cariche
militari e civili della città e dopo i 50 anni si potrà partecipare al
Il mito della caverna 1
In una caverna oscura vi sono delle persone incatenate che guardano delle ombre proiettate sulla la parete di fondo (livello di conoscenza corrispondente all’immaginazione, eikasìa). Incamminandosi verso l’uscita, dietro alle persone, alle loro spalle vi è, a qualche distanza un muro, dietro al quale altri uomini portano delle statue, in modo che il muro copra gli uomini ma non le statue. Ancora dietro, vi è un fuoco. Questo fuoco produce la luce che, incontrando le statue fa in modo che la loro ombra sia proiettata sulla parete di fondo. Dopodiché si incontra l’uscita. All’uscita della caverna vi è uno stagno e splende il sole. Gli uomini che guardano le ombre vedono solo le copie immagini delle statue. Ad un certo punto uno di loro (il filosofo) riesce a liberarsi dalle catene e a dirigersi verso l’uscita. Egli, passando oltre il muro vedrà le statue, cioè le cose del mondo sensibile in modo più chiaro (credenza-pìstis).
Il mito della caverna 2
Proseguendo giungerà all’uscita della caverna, ma abbagliato dalla
luce, sarà costretto a guardare le cose riflesse nello stagno
(conoscenza equivalente al livello della matematica, diànoia), fino
a che la sua vista si abituerà e, non solo potrà guardare le cose
direttamente, ma anche il sole (metafora dell’Uno bene, conosciuto
all’ultimo livello della nòesis). A questo punto deciderà di rientrare
nella caverna per comunicare anche agli altri ciò che ha visto
(immagine, questa, dell’impegno politico del filosofo nella sua
comunità). Ma una volta entrato gli occhi, abituatisi alla luce, non
gli permetteranno di vedere bene le ombre. Per tale motivo egli
sarà deriso dai compagni che non gli crederanno (il filosofo e la sua
Il mito della caverna: il suo
significato
Il mito della caverna nella Repubblica rappresenta una grande
immagine della vita filosofica, che percorre un cammino di
liberazione dalle catene dell’ignoranza per guadagnare la
conoscenza della verità. Ma tale conoscenza non rimane mai
un possesso privato. Infatti il filosofo decide di rientrare nella
caverna, cioè di impegnarsi nella politica, affinché tutto lo
Stato sia reso partecipe dell’esperienza filosofica di
liberazione. Questo avviene non senza difficoltà e fallimenti
(cfr. la derisione di cui è fatto oggetto dai compagni ancora
incatenati), ma appare un dovere ineliminabile, cui lo stesso
Platone ha consacrato buona parte della sua vita.
L’arte
Nella Repubblica non vi è un cenno all’arte e alla sua funzione educativa. Infatti secondo Platone tale funzione le manca del tutto. L’arte imita la natura, la quale è a sua volta imitazione della vera realtà ideale. Dunque rispetto all’essere vero, l’arte risulta essere la copia della copia, priva pertanto di un valore intrinseco. Anzi Platone le riserva un ruolo negativo perché induce in qualche modo ad affezionarsi a questo mondo e a rinunciare al cammino di liberazione. In questo senso, dal punto di vista pedagogico e politico, l’arte corrompe invece di elevare. In particolare tale effetto negativo è conseguito dalla tragedia che, nel suo ruolo pubblico, abitua la cittadinanza ad un atteggiamento di passività di fronte ad un fato percepito come destino ineludibile che incombe sugli uomini e frustra ogni loro iniziativa. Da tale condanna dell’espressione artistica e poetica viene esclusa solo la musica per il suo valore «matematico» e l’utilizzo del racconto mitico, forma d’arte direttamente funzionale all’esposizione dei concetti filosofici, abbondantemente impiegata da Platone stesso.