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Laboratorio di fisiopatologia cardiovascolare integrata: risultati preliminari dello studio per l'identificazione precoce della disfunzione ventricolare sinistra in un gruppo di pazienti affetti da diabete mellito di tipo 2

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PISA

Dipartimento di Ricerca Traslazionale e delle Nuove Tecnologie in Medicina e Chirurgia

Dipartimento di Patologia Chirurgica, Medica, Molecolare e dell’Area Critica Dipartimento di Medicina Clinica e Sperimentale

Corso di Laurea in Medicina e Chirurgia

Tesi di Laurea

Laboratorio di fisiopatologia cardiovascolare integrata: risultati

preliminari dello studio per l'identificazione precoce della

disfunzione ventricolare sinistra in un gruppo di pazienti affetti da

diabete mellito di tipo 2

RELATORE: CANDIDATO:

Prof. Andrea Natali

Cristian Lazzari

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INDICE

Abbreviazioni

Abstract

PARTE 1. Introduzione

1. Diabete e cuore: dati epidemiologici

2. Dalla cardiomiopatia diabetica allo scompenso cardiaco 2.1. Definizione e fisiopatologia

2.2. Presentazione clinica e approccio diagnostico 2.3. Strategie terapeutiche

3. Identificazione precoce della disfunzione ventricolare sinistra asintomatica 3.1. Test da sforzo cardiopolmonare (CPET)

3.2. Ecocardiografia: dalla tecnica tradizionale alla tecnologia speckle tracking (STI)

PARTE 2. Studio per l'identificazione precoce della disfunzione

ventricolare sinistra in un gruppo di pazienti affetti da

diabete mellito di tipo 2

1. Razionale ed obiettivi dello studio 2. Materiali e metodi

2.1. Selezione dei pazienti

2.2. Integrazione tra test da sforzo cardiopolmonare ed ecocardiografia speckle tracking

3. Risultati preliminari 4. Discussione

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ABBREVIAZIONI

AGE = advanced glycation end-product AVC = aortic valve closure

AT = anaerobic threshold BMI = body mass index BNP = B-natriuretic peptide

CPET = cardiopulmonary excercise test DCM = diabetic cardiomyopathy DDP4 = dipeptidil-peptidasi 4 DM = diabete mellito

DM2 = diabete melliti di tipo 2 DT = deceleration time

ECG = elettrocardiogramma eGFT = estimated Glomerular

Filtration Rate

ESC = European Society of Cardiolgy FC = frequenza cardiaca

FDA = Food and Drug Administration FE = frazione di eiezione

GC = gittata cardiaca

GIP = gastric inhibitory polypeptide GLP-1 = glucagon-like peptide 1 GLS = global longitudinal strain GLPS = global longitudinal peak strain GS = gittata sistolica

HbA1c = emogobina glicata

IVT = integrale velocità-tempo NP = natriuretic peptid

PAPs (systolic pulmonary arterial

pressure)

RAGE = receptor for AGE

RER = respiratory exchange ratio ROI = region of interest

RPM = revolutions per minute SLS = segmental longitudinal strain SRAA = sitema renina-angiotensina-aldosterone

STI = speckle tracking imaging SV = stroke volume

TAPSE (tricuspid annular plane

systolic excursion)

TDI = tissue doppler imaging TE = tratto di efflusso

TGF-β = transforming growth factor-β Ve = ventilazione polmonare

VS = ventricolo sinistro

Δ(a-v)O2 = differenza artero-venosa di

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ABSTRACT

Introduzione.

Il diabete mellito di tipo 2 (DM2) costituisce una malattia metabolica cronica di grande impatto epidemiologico a livello mondiale, gravata da elevata mortalità e morbilità e per la quale si registra un costante aumento di incidenza, specie nei Paesi industrializzati. L’interessamento cardiovascolare rappresenta la maggiore complicanza associata alla malattia, che si caratterizza per una graduale progressione verso lo scompenso cardiaco. Una frequente, ma ancora poco conosciuta, forma di interessamento cardiaco in corso di DM è costituita dalla cardiomiopatia diabetica (DCM), caratterizzata da un danno anatomo-funzionale a livello miocardico, che decorre per lungo tempo in forma asintomatica, prima di sconfinare in uno scompenso d’organo conclamato.

Obiettivi.

Lo scopo del presente studio è stato quello di mettere a punto un protocollo diagnostico dotato di una sensibilità tale da evidenziare il danno miocardico, e l’impairment funzionale associato, che occorre nella DCM, al fine di porre una diagnosi precoce, quando il paziente si presenta ancora asintomatico.

Metodi.

Lo studio si è proposto di analizzare una popolazione di pazienti affetti da DM2, tra i 40 e gli 80 anni, selezionati in base a specifiche caratteristiche cliniche. In primis sono stati reclutati anche un paziente con scompenso cardiaco e uno sano, per effettuare un’analisi comparativa preliminare, che potesse evidenziare la validità del metodo. Tutti i soggetti si sono sottoposto indistintamente ad uno studio che combina il test da sforzo cardiopolmonare (CPET) con l’esame ecocardiografico, condotto in fase basale (di riposo) e al picco dello sforzo. Il CPET è stato eseguito su cicloergometro, con protocollo rampa e contemporanea misurazione dei gas espirati. L’esame ecografico eseguito contestualmente si è articolato in diverse acquisizioni nell’ambito di ecocardiografia tradizionale, TDI (tissue doppler imaging) e STI (speckle tracking

imaging), allo scopo di analizzare la funzione sistolica del VS

Risultati.

I risultati ottenuti dal CPET, relativi alla capacità di esercizio dei pazienti e alla loro risposta cardiovascolare, uniti a quelli derivati dall’analisi ecocardiografica (in particolare dal TDI e dallo STI) si sono dimostrati in accordo con i dati presenti in letteratura per quanto riguarda il paziente sano e quello scompensato; nel soggetto diabetico si evidenzia, invece, una situazione intermedia tra i due, confermata praticamente da tutti gli indici presi in esame, seppur con livelli di sensibilità differenti.

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In particolare il CPET ha evidenziato, nel paziente diabetico, una funzione cardiovascolare nella norma, ma con performance evidentemente inferiori a quelle osservate nel soggetto sano, sulle quali comunque occorre considerare l’influenza di altre variabili, tra cui il condizionamento fisico, nonché la presenza di bias correlati alla complessità della tecnica. Sempre nel diabetico, per quanto concerne l’analisi ecocardiografica emergono aspetti interessanti: a fronte di un’attesa bassa sensibilità degli indici tradizionali (FE, frazione di eiezione e SV, stroke volume), i risultati del TDI e dello STI hanno sottolineato rispettivamente una condizione di funzione ventricolare sinistra sistolica compromessa (velocità S’in range patologico) o ai limiti bassi della norma (GLPSm borderline).

Conclusioni.

Nonostante le notevoli difficoltà diagnostiche che si associano alla cardiomiopatia diabetica, in gran parte connesse alle conoscenze non conclusive riguardo la sua patogenesi, la storia naturale e il decorso asintomatico, i dati ricavati da questo studio hanno dimostrato che un’analisi strumentale combinata e multiparametrica rappresenta probabilmente la strategia vincente. Lo sforzo si è dimostrato l’elemento cruciale in tutte le tecniche utilizzate, quale stimolo in grado di fornire informazioni aggiuntive rispetto alla valutazione a riposo, ed offrendosi come base per nuove prospettive diagnostiche.

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PARTE 1. INTRODUZIONE

1. DIABETE E CUORE: DATI EPIDEMIOLOGICI

La prevalenza mondiale del diabete mellito (DM) è aumentata drammaticamente negli ultimi due decenni, da una stima di 30 milioni di casi nel 1985 a 285 milioni nel 2010. Sulla base dell’attuale tendenza, l’International Diabetes Federation ritiene che 438 milioni di individui saranno diabetici nell’anno 20301. In particolare, a causa dell’incremento dell’obesità, dei ridotti livelli di attività fisica associati all’industrializzazione e dell’invecchiamento della popolazione, il DM di tipo 2 (DM2) ha raggiunto proporzioni epidemiche2. Infatti, in una più recente stima eseguita negli Stati Uniti, i Centers for Disease Control and Prevention hanno calcolato che 25.8 milioni di persone, ossia l’8.3% della popolazione, aveva il diabete3. Nel 2010 è stata posta la diagnosi di diabete in circa 1.6 milioni di individui di età superiore ai 20 anni.

L’incidenza e la prevalenza del DM2 aumentano con l’età, con prevalenza simile nei maschi e nelle femmine (11.8% e 10.8% rispettivamente, negli individui di età superiore ai 20 anni). Si stima che nel 2030, a livello mondiale, la maggior parte degli individui con diabete avrà un’età compresa tra 45 e 64 anni1.

Le complicanze del diabete lo rendono una delle principali cause di mortalità, ma diversi studi indicano che esso è probabilmente sottostimato come causa di morte. Una stima recete ha suggerito che esso sia la quinta causa principale di morte nel mondo e che sia stato responsabile di quasi 4 milioni di morti nel 2010 (6.8% delle morti nel mondo sono state attribuite al diabete).

Le complicanze del DM possono essere suddivise in complicanze vascolari (ulteriormente classificate in microvascolari e macrovascolari) e non vascolari. Nel complesso, il rischio di complicanze aumenta in funzione della durata e dell’entità della malattia; solitamente non diventano manifeste fino alla prima/seconda decade di condizione iperglicemica, ma spesso sono già presenti al momento della diagnosi4.

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La principale causa di morte per i pazienti diabetici è rappresentata dalla malattia cardiovascolare. Mentre in passato si considerava esclusivamente la patologia macrovascolare e quindi eventi ischemici cardiaci e cerebrovascolari, è ormai ampiamente documentato che i soggetti diabetici sviluppano scompenso cardiaco con un rischio 2,4 volte superiore per i maschi e 5 volte superiore per le femmine, rispetto a soggetti non diabetici5. Inoltre, presentano una ridotta risposta alla terapia standard e una prognosi decisamente peggiore rispetto ai controlli non diabetici6.

Nichols GA et al. mostrano che negli Stati Uniti il 12% di 10000 pazienti diabetici presenta uno scompenso cardiaco, mentre l’incidenza di nuovi casi ogni anno raggiunge il 3.3%7. Altri studi mostrano una prevalenza di scompenso tra i diabetici che va dal 25%

al 40%, a seconda della popolazione esaminata8 confermandosi come uno dei maggiori

contribuenti alla morbilità e mortalità cardiovascolare in soggetti affetti da DM2.

Queste osservazioni hanno posto il sospetto che il diabete possa determinare una disfunzione miocardica primitiva indipendentemente dalla presenza di comorbidità (coronaropatia, ipertensione, valvulopatie) tali da giustificare lo sviluppo di scompenso cardiaco, portando all’introduzione del concetto di “cardiomiopatia diabetica” nel 1972 da Rubler et al.9 Sebbene da allora sia stata prodotta ed accumulata una notevole quantità di letteratura scientifica, le cause e i meccanismi della disfunzione miocardica nel paziente diabetico sono ancora dibattute; addirittura viene discusso se la cardiomiopatia diabetica esista o meno come specifica entità nosologica10. In questo scenario, ulteriori studi sono intensamente desiderati.

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2. DALLA CARDIOMIOPATIA DIABETICA ALLO SCOMPENSO

CARDIACO

2.1. DEFINIZIONE E FISIOPATOLOGIA

La cardiomiopatia diabetica (DCM; diabetic cardiomyopathy) fu descritta per la prima volta negli anni ‘70, sulla base dell’osservazione post-mortem della presenza di ipertrofia ventricolare sinistra, associata a fibrosi miocardica, in quattro pazienti diabetici con insufficienza cardiaca (insorta in assenza di coronaropatie o altre condizioni favorenti)9. Cinque anni dopo, Regan et al., confermarono risultati analoghi su pazienti diabetici con scompenso cardiaco, evidenziando inoltre la presenza di un maggior contenuto miocardico di collagene e lipidi, rispetto ai controlli11. Pertanto, a partire da questi studi iniziali, la DCM è stata definita come il rilievo di una disfunzione ventricolare sinistra in pazienti diabetici in assenza di patologia coronarica, ipertensione o altre condizioni patologiche potenzialmente causative.10

Si sono successi, dunque, numerosi studi sperimentali, principalmente basati su modelli murini, che hanno rafforzato l’idea che nell’ambito del DM possa svilupparsi una disfunzione miocardica primitiva. I meccanismi fisiopatologici includono alterazioni metaboliche quali: compromessa omeostasi del calcio, alterato utilizzo dei substrati (aumento del metabolismo lipidico e ridotta ossidazione del glucosio), lipotossicità, glucotossicità con l’intervento dei prodotti finali di glicosilazione avanzata (AGEs,

advanced glycation end-products), disfunzione mitocondriale, aumentato stress

ossidativo, attivazione del sistema renina-angiotensina-aldosterone (SRAA) e disautonomia cardiaca12,13.

Tali meccanismi agirebbero sinergicamente nella determinazione di quelle alterazioni strutturali e funzionali cardiache asintomatiche caratteristiche della DCM, che possono progredire, secondariamente a fattori non ancora univocamente caratterizzati, verso lo scompenso cardiaco conclamato. In particolare la DCM si caratterizzerebbe per alterazioni metaboliche e funzionali cardiache che attivano i meccanismi neuro-ormonali classici dello scompenso e che conducono al rimodellamento del ventricolo sinistro (VS). Tra queste va innanzitutto considerato il rimodellamento della matrice extracellulare, in particolare la fibrosi cardiaca, processo che vede chiamati in gioco meccanismi simili a

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quelli osservati nella nefropatia diabetica14,15, ovvero (1) contributo del SRAA all’attivazione della via del Trasforming Growth Factor β (TGF-β)14; (2) attivazione

dell’asse AGE-RAGE (Receptor for advanced glycation end-product) che determina un abnorme cross-linking delle molecole di collagene sopprimendone il turnover16; (3) iperinsulinemia, che altera il differenziamento cellulare dei precursori fibroblastici17. Sono vari gli studi che si sono proposti di evidenziare il processo di fibrosi cardiaca nei pazienti diabetici10, e a tale scopo sono state utilizzate diverse tecniche che vanno dallo studio ecografico con analisi della retrodiffusione (backscattering) degli ultrasuoni per l’identificazione del contenuto di collagene nel miocardio18, alla valutazione di biomarkers di sintesi del collagene (propeptidi aimino- e carbossi-terminali del

procollagene di tipo I e III) come anche di marcatori del turnover della matrice extracellulare (tra cui le metalloproteinasi della matrice ed inibitori tissutali delle stesse)19.

Un altro aspetto caratteristico della DCM è la presenza di gradi variabili di ipertrofia miocardica alla cui determinazione concorrono diversi fattori: (1) l’iperinsulinemia, correlata alla resistenza insulinica tipica dei pazienti affetti da DM di tipo 2, che pare abbia un effetto mitogenico diretto sui cardiomiociti e ne promuove l’ipertrofia20,21; (2) il processo di fibrosi prima descritto che determina un incremento del volume extracellulare, costituendo in tal modo un fattore predittivo di mortalità e scompenso cardiaco22,23; (3) l’accumulo miocardico di trigliceridi e ceramidi, secondari alla condizione dislipidemica del paziente diabetico, che va a definire un quadro di steatosi cardiaca21,24,25. L’aumento del contenuto lipidico del miocardio è stato quantificato nei pazienti diabetici utilizzando la spettroscopia protonica di risonanza magnetica10.

Il Cardiovascular Health Study ha evidenziato come l’aumento della massa ventricolare sinistra fosse associato in maniera indipendente al DM anche dopo aggiustamenti per peso corporeo, pressione arteriosa, frequenza cardiaca e presenza di patologia coronarica o cerebrovascolare26. Lo Strong Heart Study ha confermato questi risultati in un’ampia coorte di pazienti (1810 soggetti con diabete mellito e 944 controlli), evidenziando che l’incremento dello spessore di parete e della massa ventricolare sinistra erano associate ad una lieve riduzione dell’accorciamento frazionale della parete del VS e del setto nei pazienti diabetici27.

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Infine, a livello di questo rimodellamento miocardico su base multifattoriale, incide anche una componente microvasculopatica, che determina un’ischemia miocardica cronica non compensata da un’opportuna risposta angiogenetica21,28. Alla base di ciò si evidenziano

la flogosi cronica e lo stress ossidativo legati alla lipotossicità e glucotossicità; in particolare, studi più recenti, vedono l’asse AGE-RAGE, di cui si è già accennato, come promotore della disfunzione microcirolatoria dei soggetti diabetici in associazione con l’aumentata attività della dipeptidil-peptidasi 4 (DDP4), noto mediatore infiammatorio, che si osserva in questi pazienti21,29. Queste evidenze costituiscono il razionale per l’utilizzo degli inibitori della DDP4 per contrastare il danno microvascolare30,31.

2.2. PRESENTAZIONE CLINICA E APPROCCIO DIAGNOSTICO

Nelle fasi iniziali della DCM le alterazioni cardiache restano asintomatiche grazie all’attivazione di meccanismi neuro-ormonali controregolatori profibrotici, proapoptotici e tachicardizzanti che inizialmente permettono il compenso di tali alterazioni, ma che con il passare del tempo diventano maladattativi, determinando un avanzamento verso lo scompenso cardiaco conclamato. È a questo punto che i pazienti sviluppano i sintomi tipici della patologia, quindi di insufficienza anterograda (debolezza, faticabilità, angina, sincope), e di insufficienza retrograda (dispnea, turgore delle vene giugulari, edema degli arti inferiori, epatomegalia)32,33.

In questi pazienti, l’approccio diagnostico prevede6:

• Anamnesi, esame obiettivo ed elettrocardiogramma (ECG);

Se la clinica è compatibile, dosaggio dei peptidi natriuretici (natriuretic peptides, NPs), in particolare il B-type natriuretic peptide (BNP) e il N-terminal pro-BNP (NT-proBNP). NPs possono essere utilizzati come esame diagnostico iniziale, soprattutto in un setting non acuto, dal momento che valori bassi di questi ultimi escludono un’importante disfunzione cardiaca e la necessità di sottoporre i pazienti ad uno studio ecoardiografico6. I limiti superiori di normalità per gli NPs, definiti dalle linee guida della European Society of Cardiology (ESC) 2016 per la diagnosi e trattamento dello scompenso cardiaco6, sono 35pg/ml per il BNP e 125pg/ml per il NT-proBNP (in relazione ad un setting non-acuto, quale può essere definito quello di un paziente con DCM). Tuttavia, esistono diverse cause,

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di ordine cardiovascolare e non, che determinano un’elevazione dei livelli di NPs riducendone l’utilità diagnostica: tra queste vanno considerate la fibrillazione atriale, l’età avanzata e l’insufficienza renale34. Inoltre, con riferimento specifico

alla DCM, va sottolineato un ulteriore limite intrinseco all’utilizzo del BNP quale marker diagnostico: studi clinici hanno infatti dimostrato che individui con sindrome metabolica, obesità e insulino-resistenza presentano valori plasmatici di BNP più bassi rispetto alla popolazione generale21,35.

• Ecocardiografia tradizionale. Costituisce l’esame strumentale diagnostico imprescindibile per caratterizzare il tipo di scompenso cardiaco sulla base del valore di frazione di eiezione (FE) del VS e per ricercarne le cause, combinando informazioni anatomiche (spessore delle pareti, volume delle camere cardiache) e funzionali (funzione ventricolare sistolica e diastolica, funzione valvolare, stima della pressione polmonare)6. Sebbene, secondo alcuni studi, il più frequente rilievo ecocardiografico in pazienti con DM sia costituito da una disfunzione diastolica del VS (dunque con FE conservata, >50%)32,36, la DCM può anche evolvere verso un quadro di scompenso cardiaco sistolico (con FE ridotta, <40%)37.

2.3. STRATEGIE TERAPEUTICHE

I pilastri dell’approccio terapeutico dello scompenso cardiaco cronico sono costituiti da quei farmaci in grado di bloccare o modulare i sistemi neurormonali, come i beta-bloccanti o gli inibitori del SRAA, raccomandati anche dalle linee guida ESC6. Tale approccio, peraltro, ha dimostrato di essere in grado di migliorare la prognosi nei soggetti affetti da DM di tipo 2. Ad ogni modo la gestione dello scompenso cardiaco in questi pazienti dovrebbe tener conto anche della malattia diabetica sottostante, dei fattori di rischio e delle comorbidità concomitanti38. Si evince che la strategia più efficace debba quindi basarsi su un approccio articolato ed eterogeneo, che veda l’azione sinergica di numerosi presidi farmacologici e non:

• Stile di vita. È ben noto come l’esercizio fisico sia in grado di influenzare positivamente aspetti correlati alla malattia diabetica, quali l’insulino-resistenza, il controllo glicemico, i livelli plasmatici di lipidi e lo stato infiammatorio, espletando in questo modo il suo effetto benefico sui cardiomiociti, come

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dimostrato da Hafstad et al39. È stato inoltre evidenziato che l’incidenza della DCM si riduce significativamente nei pazienti affetti da DM di tipo 2 che, all’attività fisica aerobica, associano anche la perdita di peso40.

• Controllo glico-metabolico. Il raggiungimento dell’euglicemia, oltre a ridurre l’incidenza di eventi cardiovascolari maggiori come infarto miocardico e stroke, riduce anche il rischio di sviluppare una DCM32,41. È ancora molto dibattuto se sia

opportuno ottenere o meno un controllo glicemico intensivo: le evidenze più recenti sembrano confermare che un controllo stretto, a fronte di una modesta riduzione dell’incidenza di infarto miocardico, non dimostri invece alcun vantaggio in termini di mortalità cardiovascolare o di ospedalizzazione per scompenso cardiaco e, anzi, predisponga a più frequenti episodi di ipoglicemia22,42. Analizziamo ora, più dettagliatamente, le possibilità terapeutiche di ordine metabolico in rapporto alle loro implicazioni cardiovascolari:

o Metformina. Questo farmaco è stato per lungo tempo evitato nei pazienti con scompenso cardiaco per via del suo raro potenziale di causare acidosi lattica in condizioni emodinamicamente instabili. Tuttavia, in seguito ad una serie di studi che hanno evidenziato una riduzione di mortalità in pazienti con scompenso cardiaco che assumevano metformina43, la Food

and Drug Administration (FDA) ha deciso di rimuovere quella

controindicazione nel 200644.

o Tiazolidindioni (es. Pioglitazone). Sono farmaci controindicati nei pazienti con DCM dal momento che determinano una ritenzione di liquidi con aumento del peso corporeo nel 5-10% dei casi e, di conseguenza, un peggioramento dello scompenso cardiaco, aumentando il numero di ospedalizzazioni45.

o Inibitori di DDP4 (o gliptine). Aumentano la biodisponibilità di ormoni incretinici tra cui il glucagon-like peptide 1 (GLP-1) e il gastric inhibitory

polypeptide (GIP) favorendo la secerzione insuinica glucosio dipendente,

ma agiscono anche su uno dei momenti patogenetici dello sviluppo della DCM, come già accennato. La sicurezza cardiovascolare di questi farmaci è stata analizzata da 3 studi indipendenti; SAVOR-TIMI 53 per il saxagliptin46, EXAMINE per l’alogliptin47 e TECOS per il sitagliptin48, con una nota inaspettata a carico del saxagliptin, che sembra aumentare l’incidenza di ospedalizzazione per scompenso cardiaco46,49.

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o Agonisti del recettore del GLP-1. Se da un lato lo studio ELIXA ha dimostrato che il lixisenatide (un short-acting), per quanto sia un farmaco sicuro nei pazienti diabetici con sindrome coronarica acuta, non appaia superiore al placebo50; dall’altro è stato evidenziato come i long-acting, quali liraglutide e semaglutide, riducano significativamente gli eventi cardiovascolari in pazienti diabetici ad alto rischio mediante meccanismi primariamente vasoprotettivi (secondo gli studi LEADER e SUSTAIN-6)51,52.

o Inibitori di SGLT2. Questi farmaci bloccando il co-trasporto di glucosio e sodio al livello del tubulo contorto prossimale, determinano un’aumentata escrezione renale di queste molecole. Lo studio EMPA-REG OUTCOME ha dapprima sottolineato l’efficacia dell’empagliflozin nella riduzione della mortalità cardiovascolare in una popolazione di 7020 pazienti affetti da DM di tipo 2 e con patologia cardiaca nota53. Inoltre, in una seconda analisi, l’empagliflozin si è dimostrato in grado di ridurre del 35% il rischio relativo delle ospedalizzazioni per scompenso cardiaco, con risultati evidenti già dalle prime fasi dei trials osservazionali, a testimonianza degli effetti emodinamici precoci del farmaco53,54. I potenziali meccanismi tramite i quali l’empagliflozin espleta il suo ruolo protettivo a livello cardiovascolare sono molteplici e costituiscono ancora oggi ampio oggetto di studio; essi includerebbero: perdita di peso corporeo, deplezione di sodio, riduzione della pressione arteriosa e della rigidità vascolare, riduzione dello stress ossidativo e dell’attivazione del tono simatico a carico del sistema cardiovascolare55. Infine, in relazione ad effetti più propriamente di ordine metabolico, è stato recentemente dimostrato che l’inibizione di SGLT2 porta ad un’aumentata concentrazione di corpi chetonici circolanti, che potrebbero rappresentare una fonte energetica alternativa al cuore diabetico, in presenza di insulino-resistenza56.

• Trattamento dello scompenso cardiaco sintomatico con ridotta FE secondo le linee guida ESC 20166 (come già anticipato)

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3.

IDENTIFICAZIONE

PRECOCE

DELLA

DISFUNZIONE

VENTRICOLARE SINISRA ASINTOMATICA

Le modificazioni anatomo-funzionali cui va incontro il VS nel contesto della DCM rientrano in un lento processo di deterioramento della funzione cardiaca, che necessita di anni per manifestarsi nella forma di uno scompenso d’organo manifesto. Da qui scaturisce, dunque, la necessità di un’identificazione precoce della disfunzione ventricolare sinistra, obiettivo difficile da realizzare, dal momento che presuppone di avere a disposizione mezzi diagnostici dotati di alta sensibilità e specificità. Come in parte già chiarito, gli strumenti che vengono utilizzati routinariamente presentano delle limitazioni evidenti:

• I NPs si sono dimostrati subottimali per la rilevazione di ipertrofia e disfunzione ventricolare sinistra pre-clinica, come dimostrato da diversi studi57-59, per via della ridotta affidabilità attribuibile alla presenza di cofattori in grado di elevarne le concentrazioni plasmatiche (età avanzata, insufficienza renale, fibrillazione atriale)34 o di ridurle (obesità, insulino-resistenza)60.

• L’ecocardiografia tradizionale, a fronte della sua indiscussa utilità nella diagnosi e follow-up dello scompenso cardiaco, non ha una sensibilità tale da evidenziare disfunzioni pre-cliniche del VS nel paziente diabetico. Al di là della valutazione della FE (che può risultare nella norma in una fase precoce, con compenso emodinamico), l’ecocardiografia può fornire importanti dati strutturali: infatti nella DCM la geometria del VS si modifica progressivamente tendendo al rimodellamento concentrico attraverso un aumento dello spessore delle pareti27,61 e spesso anche della massa cardiaca. Questa condizione, tuttavia, oltre ad essere influenzata da altre comorbidità del paziente, prima fra tutte l’ipertensione, è evidenziabile in fasi più avanzate.

• Un ECG completamente normale, sebbene sia di improbabile riscontro in un paziente con scompenso cardiaco (avendo una sensibilità dell’89%)6,62, non è in grado di rilevare le disfunzioni precoci della DCM, e in più è gravato da una bassa specificità63.

In ragione di queste limitazioni, nell’ambito sperimentale si sono cercate metodiche alternative che consentissero di individuare precocemente le alterazioni funzionali del VS; tra queste tecniche trovano spazio in particolare il test da sforzo cardiopolmonare

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15

(CPET, CardioPulmonary Excercise Test) e l’ecocardiografia speckle tracking (STI,

Speckle Tracking Imaging).

3.1 TEST DA SFORZO CARDIOPOLMONARE (CPET)

Il CPET è una prova da sforzo con contemporanea misurazione dei gas espirati che permette di indagare simultaneamente e in maniera non invasiva la risposta dell’apparato cardiovascolare, respiratorio e neuro-muscolare all’esercizio fisico, nonché la funzione di trasporto dell’ossigeno (O2) ai tessuti e di eliminazione dell’anidride carbonica (CO2). La

valutazione dello scambio O2/CO2, inoltre, fornisce informazioni non solo sulla performance di questi apparati, ma anche sulla respirazione cellulare. Di conseguenza si

configura come un test di valutazione funzionale integrato perché riesce a tracciare un profilo fisiologico completo di un soggetto sotto sforzo, fornendo una molteplicità di informazioni che ne giustificano le varie possibilità di impiego: questo test viene infatti utilizzato nella valutazione di pazienti cardiopatici, broncopneumopatici (con enfisema o bronchite cronica, per studiarne la gravità, l’evoluzione e la riposta a presidi terapeutico-riabilitativi), sportivi in fase di valutazione diagnostica, ed in patologie particolari, come quelle che interessano l’unità neuromuscolare, dovute a danno mitocondriale determinato su base genetica.

Dal punto di vista metodologico il CPET comprende un cicloergometro o un treadmill, cui si associa un sistema di registrazione dell’ECG, della pressione arteriosa e uno di misurazione della ventilazione dei gas espirati (O2 e CO2). Il tutto è gestito, attraverso un

computer, da un opportuno software valutativo.

Per quanto concerne la rilevazione dei gas espirati, questa può essere effettuata nella cosiddetta “camera di miscelazione” (con acquisizione dei parametri ogni 30 secondi) o più frequentemente “respiro per respiro” (breath-by-breath, tecnica preferita perché fornisce dati migliori riguardo alla risposta metabolica all’esercizio64); questa modalità

consente quindi la misurazione istantanea delle concentrazioni di O2 e CO2 nel volume di

aria espirata, mediante appositi analizzatori di gas: i più comunemente usati sono i sensori ad infrarossi per la CO2 e i sensori paramagnetici per l’O2. Entrambi misurano la pressione

parziale dei gas, e come tali sono influenzati dal vapor acqueo, dalla pressione nei sistemi di campionatura e dall’altitudine.

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Il flusso respiratorio viene misurato mediante uno pneumotacografo (che si caratterizza per un sistema di tubi paralleli, con bassa resistenza al flusso aereo) oppure attraverso dei sistemi a turbina, che registrano i flussi con buona accuratezza. La valutazione dei volumi è invece affidata ad uno spirometro.

Il paziente respira attraverso una valvola, caratterizzata da piccole dimensioni e da una bassa resistenza, che separa il flusso inspirato da quello espirato, e risulta connessa ad un boccaglio oppure inserita in una maschera (detta “maschera di Rudolph”). Generalmente si preferisce quest’ultima perché, a differenza del boccaglio, non induce un aumento di salivazione o il riflesso del vomito; tuttavia, specie nei soggetti ansiosi o che non tollerano costrizioni al volto, il fatto che debba essere perfettamente adattata al viso del paziente per evitare problemi di tenuta, può determinare claustrofobia o accentuare la ventilazione (col rischio di inficiare i risultati del test).

Il test viene effettuato su cicloergometro o su treadmill, con monitoraggio della frequenza cardiaca e della pressione arteriosa, e registrazione dell’ECG a 12 derivazioni. Entrambe le tecniche presentano vantaggi e limitazioni differenti legate in parte alla modalità di esecuzione dell’esercizio (rispettivamente la pedalata o la corsa su tappeto rotante), in parte legate all’impegno complessivamente richiesto al paziente al fine del raggiungimento di uno sforzo massimale. Infatti, se per certi aspetti il treadmill (che rappresenta la tecnica di prima scelta negli Stati Uniti) offre il vantaggio di una minore elevazione della pressione arteriosa sistemica e conduca ad un maggiore dispendio energetico, che si traduce in valori di VO2 al picco superiori del 10-15% rispetto al

cicloergometro65, quest’ultimo è preferibile nei soggetti poco allenati, che per via della fatica muscolare sono inclini, con una maggior frequenza, alla sospensione precoce dell’esercizio66; quest’ultimo è poi indicato anche in pazienti con obesità grave, problemi

nella marcia o nel controllo posturale, in presenza di limitazioni ortopediche (che impediscano la corsa, ma non la pedalata) ed infine anche in quei soggetti che si prestano ad esami diagnostici contestuali che richiedano una posizione stabile e quanto più fissa possibile del torace, come nel caso dell’esame ecocardiografico. Nella tabella seguente sono riassunte le principali differenze tra cicloergometro e treadmill con particolare riferimento ai rispettivi vantaggi/svantaggi.

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17 Cicloergometro Treadmill Costo ++ - Trasportabilità ++ - Necessità di spazio + - Posizione supina ++ --

Possibilità di effettuare prelievi ematici

++ --

Misurazione PA al braccio + -

Capacità di misurare la potenza (W)

++ --

Artefatti all’ECG + -

Frequenza cardiaca al picco = =

Valori più elevati di VO2 al picco - +

Sicurezza ++ +

Tabella I: differenze tra cicloergometro e tradmill; ++ vantaggio importante; + vantaggio lieve; = non differenze; - svantaggio lieve; --svantaggio importante

Indipendentemente dallo strumento scelto, l’esecuzione del test prevede la selezione di un determinato protocollo sulla base del quale si realizzerà un aumento graduale dello sforzo richiesto al paziente; si tratta di una scelta importante dal momento che può condizionare notevolmente la valutazione funzionale del soggetto. Più in dettaglio, si possono distinguere protocolli rampa (caratterizzati da incrementi molto piccoli di carico in tempi brevi, ad esempio 2W ogni 6 sec) e protocolli scalari (con larghi incrementi del carico in tempi brevi). Questi ultimi tendono ad aumentare velocemente i livelli muscolari ed ematici di acido lattico che, insieme ad altri fattori tra cui l’ergoriflesso ed il reclutamento di unità motorie, induce precocemente fatica, limitando la capacità di lavoro e determinando false sottostime della capacità funzionale. Pertanto, si preferisce la

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modalità di incremento “rampa” che, oltre a contenere queste limitazioni, consente anche di ottenere misure più precise di alcuni parametri, tra cui la soglia anaerobica (AT,

anaerobic threshold), dato che l’incremento di VO2 (ossigeno consumato) e VCO2

(anidride carbonica prodotta) è più lineare e di conseguenza l’interpolazione dei dati è più accurata.

A prescindere dal tipo di protocollo che si intende applicare, occorre preventivamente definire il rate incrementale del lavoro richiesto: non ci sono linee guida definite in questo senso e occorre, quindi, personalizzare questo parametro in base al singolo paziente esaminato; di estrema importanza saranno pertanto l’esperienza dell’operatore che effettuerà una stima del possibile livello di tolleranza all’esercizio in base a dati antropometrici (altezza, peso, BMI) e soprattutto alla rilevazione anamnestica della presenza di possibili limitazioni di ordine ortopedico, come anche dell’attitudine ed abitudine del soggetto all’attività fisica.

La scelta del protocollo e del carico incrementale adeguato è quella che consente con maggiore probabilità l’esecuzione di un test massimale, definito da un esercizio limitato dalla fatica, e che abbia una durata che vada dagli 8min ai 12min circa67, in quanto è stato dimostrato che se il picco di esercizio viene raggiunto troppo precocemente (prima dei 6 min), perché è stato scelto un incremento di carico più intenso, i risultati finali mostreranno valori inferiori alle possibilità del paziente. Se invece si è scelto un incremento di carico troppo basso, la durata del test sarà variabilmente maggiore di 12 min e di conseguenza sarà possibile che il paziente possa interrompere l’esercizio per una limitazione ortopedica o per un senso di fatica selettivamente muscolare piuttosto che per il raggiungimento di un end-point cardiopolmonare67.

Il CPET, come altre tecniche diagnostiche, non è un test privo di rischi: tra le maggiori complicanze vanno annoverati i possibili disturbi o danni muscolo-osteo-articolari, l’infarto miocardico, l’insorgenza di aritmie, fino all’instabilità emodinamica e alla morte. Fortunatamente questi eventi sono rari, grazie soprattutto alla modalità di esecuzione del test, che implica la supervisione continua del paziente da parte dell’operatore per tutta la durata dell’esercizio e nella fase di recupero, in associazione al monitoraggio elettrocardiografico continuo e alla misurazione automatica della pressione arteriosa almeno ogni 2-3 min (o con una frequenza ancora maggiore nei pazienti ad alto rischio)68. Studi condotti su ampie popolazioni di soggetti sottoposti a CPET, con o senza patologia cardiovascolare nota, riportano che la comparsa di gravi complicanze (che

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includono l’infarto miocardico o comunque altri eventi responsabili di ospedalizzazione) si verificano da 1 fino a 5 casi su 10.000 test, mentre l’exitus occorre in meno di 0,5 pazienti su 10.00069-71. Per tali motivi sono state formalizzate delle indicazioni alla sospensione del test d parte dell’American Thoracic Society / American College of Chest

Physicians72 che includono:

• Dolore toracico suggestivo di ischemia e/o alterazioni ECG correlabili

• Comparsa di complessi ectopici

• Comparsa di un blocco atrio-ventricolare di secondo o terzo grado

• Caduta della pressione sistolica >20mmHg rispetto al più alto valore registrato

• Ipertensione arteriosa con pressione sistolica >250mmHg o diastolica >120mmHg

• Grave desaturazione (<80%) o segni di insufficienza respiratoria

• Improvviso pallore

• Perdita di coordinazione

• Confusione mentale, capogiro, senso di svenimento

Con specifico riferimento riguardo i pazienti cardiopatici, il CPET è indicato nei casi di scompenso cardiaco più o meno grave (tanto da esser considerato oggi un esame fondamentale nella valutazione del paziente da candidare al trapianto cardiaco). Un secondo gruppo di pazienti che può giovare delle potenzialità diagnostiche di questo test è rappresentato dai pazienti ischemici, ad esempio quelli operati di by-pass coronarico, per i quali è necessario verificare la riserva coronarica e la sua risposta durante l’esercizio fisico, come anche dai cardiopatici cronici che stanno svolgendo un programma riabilitativo, del quale si intende valutare l’efficacia.

Inoltre, in pazienti con una cardiopatia nota o sospetta, includendo il caso della DCM, la possibilità di ricorrere ad un test di stimolo come il CPET, rappresenterebbe l’opportunità di slatentizzare quel deficit funzionale ventricolare sinistro che altrimenti non sarebbe evidenziabile in condizioni di riposo, e che si manifesta con i caratteri di una intolleranza all’esercizio.

Studiare la funzione cardiaca tramite il CPET è molto complesso, prevalentemente per via della grande varietà di parametri che questa tecnica è in grado di fornire, nonché della

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loro integrazione e rielaborazione che ne consente la derivazione di nuovi, come illustrato nella figura seguente.

Fig. 1. Parametri valutabili durante un CPET.

Nell’ambito della disfunzione ventricolare sinistra, i parametri che assumono maggior rilevanza (e che verranno tra breve analizzati) si indentificano in quegli indici tradizionalmente utilizzati nello studio della gravità dello scompenso cardiaco e nella stratificazione prognostica dei pazienti affetti. Infatti, la ridotta capacità di esercizio è un sintomo cardinale dello scompenso cardiaco cronico che viene routinariamente valutato dal punto di vista clinico mediante la classificazione NYHA (New York Heart

Association): questa tuttavia presenta diverse limitazioni, tra cui la bassa sensibilità e

soprattutto obiettività64. Il CPET può rappresentare quindi la possibilità di superare tali

vincoli, grazie alla valutazione e quantificazione dei seguenti parametri: 1. VO2 max e VO2 al picco.

Il consumo di ossigeno (VO2) è uno dei parametri fondamentali del CPET, e si

correla con altre variabili della funzione cardiovascolare secondo l’equazione di Fick73:

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VO2 [l/min]= GC x Δ(a-v)O2 = (GS x FC) x Δ(a-v)O2

GC: gittata cardiaca; GS: gittata sistolica; FC: frequenza cardiaca; Δ(a-v)O2:

differenza arterovenosa di O2.

La VO2, risultante dall’insieme di richiesta tissutale periferica e capacità di

trasporto dell’O2, cresce gradualmente durante lo sforzo a partire dai valori di riposo (che equivalgono ad un VO2 pari a 1 MET = 3,5ml/kg/min), in virtù

dell’incremento delle variabili che la determinano (GS e FC in particolare) fino al raggiungimento ideale di un plateau, in corrispondenza del quale si parla di VO2 max, inteso come valore massimale teorico del consumo di ossigeno al

massimo sforzo. I suoi valori sono influenzati da diversi fattori: genetica, allenamento fisico, età, sesso, altezza e peso corporeo64, ma cambia anche in base allo strumento utilizzato per eseguire il test, dal momento che si possono raggiungere valori di VO2 max maggiori anche del 10-20% con treadmill

rispetto al cicloergometro66, in relazione alla maggiore massa muscolare impiegata.

Con VO2 al picco (VO2 peak) ci si riferisce invece al valore medio di VO2 calcolato

negli ultimi 15sec di un test cardiopolmonare, e viene più comunemente utilizzato in clinica per esprimere la capacità di esercizio dei pazienti73. Può essere espresso in valore assoluto, normalizzato in base al peso del paziente, in ml/kg/min, o più spesso come % della VO2 max predetto.

Se il VO2 al picco misurato corrisponde ad un valore <84% del VO2 max, significa

che esiste una riduzione della capacità funzionale, che però sarà dipendente da una o più delle seguenti condizioni: alterazioni cardiocircolatorie, respiratorie, muscolo-scheletriche, deficit di trasporto dell’O2 in periferia, ma anche scarso

allenamento. Sebbene questo parametro non dia di per sé informazioni conclusive circa la causa che conduce ad una limitazione all’esercizio, e dovrà pertanto essere integrato ad altri parametri, esso risulta comunque variabilmente ridotto (anche del 50%) nei casi di disfunzione ventricolare sinistra sia sistolica che diastolica, ad indicare una riduzione relativa del fisiologico ratedi incremento della gittata cardiaca durante il test da sforzo (come desumibile dall’equazione di Fick). Infatti, durante l’esercizio, in condizioni normali, la GC aumenta linearmente con il consumo di O2 (GC = VO2/Δ(a-v)O2 ): tale aumento dipende per circa il 65-70%

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dall’aumento della FC, e per il 30-35% dall’aumento della GS; più precisamente, il contributo della GS si esaurisce tipicamente al 40-50% del carico di lavoro totale, e a questo punto sarà la FC a determinare l’incremento della GC.

Nei pazienti con disfunzione del VS l’elemento che conduce prevalentemente alla riduzione del VO2 al picco è proprio il ridotto incremento della GS che, pur

rappresentando un elemento in comune tra quadri di disfunzione sistolica e diastolica, riconosce meccanismi patogenetici distinti: nel primo caso vi è alla base il ridotto inotropismo, mentre nel secondo, l’impossibilità di ricorrere al meccanismo di Frank-Starling che possa mantenere valori di GS accettabili, sostenendo l’aumento della GC74.

Sulla base dei valori di VO2 al picco (VO2 peak, espressi in ml/min/kg) e di quelli

della soglia anaerobica (AT, che verrà descritta nel dettaglio successivamente) è stata formulata la classificazione di Weber75, che si propone di definire un grading

dello scompenso cardiaco fondato sull’utilizzo del CPET. Classe di Weber VO2 peak (ml/min/kg) AT (ml/min/kg) Disfunzione ventricolare sinistra A >20 >14 Lieve B 16-20 11-14 Lieve-moderata C 10-15 8-10 Moderata D <10 <8 Grave

Tabella II: classificazione di Weber dello scompenso cardiaco, secondo i parametri del test da sforzo cardiopolmonare

2. Polso d’ossigeno (VO2/FC).

Questo parametro riflette la quantità di ossigeno estratta per ogni battito cardiaco, fornendo quindi, secondo l’equazione di Fick, una stima della gittata sistolica e delle sue variazioni durante l’esercizio:

VO2/FC = GS x Δ(a-v)O2

Come spiegato in precedenza, nella prima metà del CPET è proprio l’aumento della GS il principale determinante dell’incremento della GC, per cui in questa fase, la cinetica del polso d’ossigeno sarà rappresentata da un ramo d’iperbole con una rapida ascesa, seguita poi da una riduzione della pendenza in corrispondenza

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della seconda metà del test, quando il contributo fornito dall’aumento della GS si è esaurito e il lieve aumento del polso d’ossigeno rappresenta la conseguenza di una maggiore differenza artero-venosa di O2 (per maggiore estrazione periferica

di O2). Quando la Δ(a-v)O2 raggiunge il valore limite di 15ml/100ml, la curva del

polso d’ossigeno si trova nella sua parte terminale, tendendo asintoticamente ad un valore che è in diretta correlazione con la GS, che può quindi essere calcolata dividendo per 15 il valore del polso d’ossigeno misurato in questa fase.

In soggetti sani, il rapporto VO2/FC può raggiungere valori superiori all’80% del

predetto, calcolato come rapporto tra VO2 max e frequenza cardiaca massimale.

Un precoce appiattimento o una deflessione terminale della curva che descrive la cinetica del polso d’ossigeno, si evidenzia nei pazienti con disfunzione del VS sia sistolica che diastolica (indice di un ridotto incremento della GS durante lo sforzo), come si rileva nello scompenso cardiaco cronico, riflettendo una limitazione all’esercizio su base cardiogena, piuttosto che ascrivibile ad altre patologie.

Fig. 2. Polso d’ossigeno in condizioni normali e patologiche a confronto

3. Quoziente respiratorio (RQ, Respiratory Quotient e RER, Respiratory Exchange

Ratio).

Il quoziente respiratorio è uno dei principali indici della risposta metabolica all’esercizio. In accordo con la nomenclatura anglosassone, si tende a distinguere il concetto di respiratory quotient (RQ) da quello di respiratory exchage ratio (RER): con RQ si definisce il rapporto tra la CO2 prodotta e l’O2 consumato a

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livello dei tessuti, indice del metabolismo cellulare; mentre il RER, che si indentifica nel rapporto VCO2 /VO2, rappresenta la controparte ventilatoria dello

scambio dei suddetti gas, costituendo in questo modo un surrogato del RQ, valutabile mediante il CPET, sebbene una piena corrispondenza dei due parametri sia possibile solo in condizioni di steady state (ovvero quando l’apporto tissutale di ossigeno è costante e l’anidride carbonica prodotta dalle cellule e rimossa si mantiene costante). A riposo il RQ è influenzato principalmente dal tipo di substrato che viene metabolizzato; nello specifico un RQ pari a 1 indica un metabolismo essenzialmente basato sui carboidrati, mentre un RQ<1 indica un metabolismo misto con componente lipidica (RQ≈0,7) o proteica (RQ≈0,8), a conferma della richiesta di un maggior numero di moli di O2 per ossidare questi

substrati, in relazione a quelle di CO2 prodotte.

Durante il test da sforzo il RER, utilizzato come stima del RQ, ha un andamento abbastanza caratteristico: all’inizio ha valori intorno ad 1, per la maggiore quota di carboidrati metabolizzati ma anche per via del più o meno marcato stato ansioso del paziente che lo induce ad iperventilare. Successivamente la ventilazione si normalizza e iniziano ad essere metabolizzate moli crescenti di acidi grassi; di conseguenza il RER scende a valori di circa 0,8 o meno, fino a quando, per carichi di lavoro maggiori (circa al 50% del VO2 al picco), l’acidosi metabolica e

l’aumento della stimolazione adrenergica correlate allo sforzo, determinano un nuovo aumento dei valori del RER, fino anche a valori di 1,15-1,30 al picco di esercizio e nei primi due minuti di recupero.

Grazie al suo peculiare andamento nelle varie fasi del test, il RER viene anche utilizzato come indicatore di massimalità dello sforzo nel momento in cui assume valori superiori a 1,10, testimoniando così una maggiore produzione ed eliminazione di CO2 in rapporto all’O2 consumato, dovuta all’accumulo di acido

lattico prodotto durante l’esercizio73.

Per via di fattori emodinamici e metabolici l’andamento del RER si modifica in corso di scompenso cardiaco: il suo sensibile aumento che comunemente si verifica entro i primi due minuti dal picco dello sforzo, in questi pazienti invece è tanto ritardato e di minore entità quanto più severo è lo scompenso cardiocircolatorio, come illustrato dai seguenti grafici74.

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Fig. 3. Confronto tra l’andamento del RER normale e in corso di scompenso cardiaco. La freccia indica il picco dello sforzo.

4. Soglia anaerobica (AT).

Rappresenta anch’essa un parametro metabolico fondamentale utilizzato per stimare la capacità di esercizio e corrisponde al momento in cui, durante lo sforzo, il metabolismo anaerobico si aggiunge a quello aerobico, causando un significativo incremento della lattacidemia76; viene pertanto espressa come % del VO2 max o del VO2 al picco, in corrispondenza del quale si verifica questo

fenomeno.

Infatti durante la fase iniziale (aerobica) del CPET, fino al raggiungimento di circa il 50-60% della VO2 max, la ventilazione polmonare (Ve) aumenta linearmente

all’aumentare del VO2, riflettendo la maggiore produzione muscolare di CO2.

Nella seconda fase del test, invece, all’aumentare del carico di lavoro, si verifica uno squilibro tra le crescenti richieste muscolari di O2 e la possibilità di un apporto

adeguato dello stesso, come dimostrato del raggiungimento di un valore limite, detto PO2 critica, che rappresenta la minima pressione parziale di O2 raggiungibile

nel sangue capillare, indice di un’estrazione massimale a livello muscolare: il raggiungimento di questo punto indica quindi l’instaurarsi di una condizione di ipossia relativa, che costituisce il trigger per l’avvio di un metabolismo anaerobico con produzione di acido lattico da parte dei muscoli. Si è raggiunta pertanto la soglia anaerobica (AT, Anaerobic Threshold)64.

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Per il calcolo di questo parametro sono stati considerati diversi metodi, ma i più utilizzati sfruttano proprio il CPET e sono i seguenti:

Metodo V-slope. Si basa sul principio secondo il quale la AT può essere individuata, in un grafico cartesiano che riporta la relazione tra il consumo di O2 in ascissa e la produzione di CO2 in ordinata, come quel punto in cui la

VCO2 aumenta in modo più accentuato rispetto all’aumento graduale del VO2.

Quindi con il passaggio ad un metabolismo anaerobico, la pendenza (slope) della retta di regressione relativa al grafico passa da valori di circa 1 (pendenza prima della AT) a valori >1 (pendenza dopo la AT).

Fig. 4. Determinazione della soglia anaerobica col metodo V-slope.

Questo fenomeno è spiegabile con quanto in parte già detto parlando del RER: l’aumento più marcato della VCO2 al raggiungimento della AT,

infatti, riflette l’accumulo plasmatico di CO2 derivante dalla produzione

muscolare di acido lattico e in particolare dalla sua conversione in lattato, grazie all’effetto tampone degli ioni bicarbonato, con liberazione di CO2.

Metodo degli equivalenti respiratori. In questo caso, invece, viene preso in considerazione l’andamento contestuale degli equivalenti respiratori per l’O2

e per la CO2, definiti rispettivamente dai rapporti Ve/VO2 e Ve/VCO2, in

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Fig. 5. Determinazione della soglia anaerobica col metodo degli equivalenti ventilatori.

Quando viene raggiunta la AT, come detto precedentemente, si ha un sensibile incremento della VCO2 e questo costituisce per il paziente uno

stimolo all’iperventilazione; tuttavia, la risposta dei due equivalenti respiratori è differente e caratteristica: infatti, mentre il Ve/VO2 cresce

rapidamente, per un significativo aumento del numeratore cui si accompagna un aumento meno marcato del denominatore, nel caso del rapporto Ve/VCO2 invece, i due termini crescono contestualmente e ciò fa

sì che l’equivalente ventilatorio per la CO2 si mantenga costante (se non

addirittura lievemente ridotto) per un tempo variabile di 30-60 sec, che definisce la fase di tamponamento isocapnico. In questo modo, l’analisi comparata dei due grafici ci permette di identificare i valori di VO2 in

corrispondenza della AT.

In soggetti sani, ma non allenati, la AT viene raggiunta approssimativamente per valori di VO2 che oscillano tra il 45% ed il 65%

rispetto al VO2 al picco77, con valori generalmente più elevati nei soggetti

allenati e con elevata resistenza all’esercizio78.

Non sempre i pazienti testati sono in grado di raggiungere la AT, specialmente quelli che conducono una vita sedentaria, sono poco allentai

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o in sovrappeso, in quanto gli eventi clinici che rappresentano le più comuni indicazioni alla sospensione del test, ossia fatica o dispnea, insorgono precocemente. Ad ogni modo, nei pazienti con disfunzione ventricolare sistolica, quando valutabile, la AT risulta classicamente ridotta e per questo motivo può essere utilizzata come parametro stadiativo nello scompenso cardiaco, secondo la classificazione di Weber (vedi

Tabella II).

5. Ve/VCO2 slope.

L’efficienza ventilatoria può essere studiata valutando l’incremento della ventilazione polmonare (Ve) in relazione al WR, al VO2 o alla VCO2. Tuttavia,

l’indice più ampiamente utilizzato a tale scopo, è rappresentato dalla pendenza della retta di regressione che correla i valori di Ve e VCO2, ossia il Ve/VCO2

slope. Questi due parametri sono, infatti, strettamente accoppiati durante l’esercizio, dal momento che il primo è modulato dall’entità del secondo.

Il Ve/VCO2 slope è generalmente calcolato tra il 40% e l’80% del carico totale, al

fine di evitare i valori di ventilazione iniziali e finali che sono particolarmente influenzati da fattori non legati all’aumento del carico lavorativo di per sé. In condizioni di normalità, la pendenza della retta di regressione è <30; se >35-40 indica che l’efficienza della ventilazione è moderatamente o gravemente ridotta, ed è utilizzata come indice prognostico nei pazienti con scompenso cardiocircolatorio.

Fig. 6. Relazione tra Ve e VCO2 in condizioni di normalità,

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Studi sul meccanismo responsabile dell’elevazione del Ve/VCO2 slope in pazienti

con insufficienza cardiaca, ne hanno evidenziato la multifattorialità73: se da un

lato è stato considerato di centrale importanza il mismatch ventilazione-perfusione (ovvero un’adeguata ventilazione associata ad una perfusione insufficiente)79,80,

dall’altro è anche stato dimostrato come possa esserci un’esagerata risposta ventilatoria all’esercizio, secondaria all’ipersensibilità di chemo- ed ergorecettori in questo tipo di pazienti81.

Infine, pur riconoscendo un importante ruolo al Ve/VCO2 slope, quale indice

dell’eccessiva risposta ventilatoria all’esercizio che si osserva nei pazienti con scompenso cardiaco, è stato dimostrato da Guazzi et al. che l’affidabilità di questo parametro può essere aumentata (conferendogli inoltre un maggiore potere prognostico nell’ambito dello scompenso cardiaco) previa normalizzazione per il valore di VO2 di picco82. Questo è il razionale che incoraggia all’utilizzo del più

recente indice Ve/VCO2/VO2p che distingue soggetti ad alto rischio

(Ve/VCO2/VO2p>2.4) e a basso rischio (Ve/VCO2/VO2p<2,4) di mortalità

cardiovascolare.

Sebbene il VO2 al picco abbia costituito per lungo tempo il parametro prognostico

più ampiamente utilizzato nello studio dei pazienti con scompenso cardiaco, evidenze recenti sembrano confermare una sua ridotta affidabilità nei pazienti con scompenso di grado lieve-moderato (per valori di VO2 al picco che oscillano tra i

14 e i 18 ml/min/kg). È proprio il tentativo di superare questo limite che ha portato a considerare l’utilizzo del parametro ventilatorio Ve/VCO2 slope nei pazienti

cardiopatici che si pongono in questa zona grigia: l’iperventilazione abnorme che occorre in questi pazienti e che può essere quantificata sulla base del grado di incremento del suddetto slope, ha rappresentato infatti un importante fattore discriminante in questo tipo di soggetti.

Dal momento che entrambi i parametri, VO2 e Ve/VCO2 slope, sono stati proposti

per il loro valore prognostico, ma non riflettono necessariamente le stesse alterazioni fisiopatologiche, il parametro individuato da Guazzi (Ve/VCO2/VO2

al picco)potrebbe rappresentare quel passo avanti verso una maggiore definizione della risposta iperventilatoria all’esercizio, specie nei pazienti con scompenso cardiaco82. Questo indice inoltre, grazie alla sua capacità di stabilire un matching tra la valutazione cardiaca e quella polmonare, è stato anche proposto, secondo un

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recente articolo pubblicato su CHEST83, per differenziare il paziente cardiopatico da quello decondizionato, non abituato all’esercizio fisico.

3.2 ECOCARDIOGRAFIA: DALLA TECNICA TRADIZIONLE ALLA TECNOLOGIA SPECKLE TRACKING (STI)

L’ecocardiografia ha da sempre rappresentato uno strumento di elevata utilità diagnostica per la sua capacità di coniugare informazioni strutturali e funzionali; è infatti in grado di fornire parametri fondamentali per lo studio della funzione ventricolare sinistra, sia sistolica che diastolica. Questo assume grande importanza, alla luce di quanto detto, anche nello studio della DCM che può esprimersi come alterazione di entrambe le funzioni.

Per quanto concerne la funzione sistolica del VS, il principale indice che può essere ricavato dall’ecocardiografia tradizionale è, come detto in precedenza, la FE: parametro molto utile in caso di scompenso conclamato, ma privo di quella sensibilità e specificità84 tale da conferirgli un ruolo nella diagnosi precoce della disfunzione ventricolare sinistra. Oltre alla FE, vi sono altri indici di funzionalità sistolica del VS valutabili in ecocardiografia: in particolare, quelli che trovano più ampio impiego nella pratica clinica sono la GS (o SV, stroke volume) e della GC. Per il calcolo dello SV si ricorre all’ausilio della tecnica Doppler associata all’ecografia (eco-Doppler) che consente contestualmente

di calcolare l’area del tratto di efflusso (TE) aortico e l’integrale velocità-tempo (IVT) del flusso trans-aortico; è proprio il prodotto di questi due parametri a definire lo SV (vedi Fig. 785). Per calcolare la GC invece, come detto in precedenza, occorre moltiplicare il valore dello SV (GS) così ottenuto per la FC.

Fig. 7. Calcolo dello SV e della GC tramite eco-Doppler

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L’ecocardiografia rappresenta anche un utile strumento per lo studio della funzione diastolica del VS, ovvero della sua capacità di riempirsi in assenza di un aumento della pressione atriale: infatti, quando ciò si realizza a patto di un aumento della pressione di riempimento, si determinano le alterazioni tipiche dello scompenso cardiaco, responsabili in molti casi del sintomo cardine di questa sindrome, cioè la dispnea da sforzo.

Mediante l’analisi Doppler è possibile valutare il pattern di riempimento ventricolare sinistro che, in un paziente sano, prevede una cinetica caratterizzata da una fase di influsso rapido, una di influsso lento (diastasi) e la sistole atriale: a questa sequenza si associa, dal punto di vista strumentale, la rilevazione grafica dell’alternanza di due curve velocimetriche: (1) l’onda E, che raggiunge il suo picco all’apice dell’influsso rapido, in corrispondenza del massimo gradiente pressorio atrio-ventricolare, e che poi si riduce gradualmente (includendo la diastasi) fino a raggiungere lo zero in un tempo variabile definito DT (deceleration time); (2) l’onda A, che corrisponde alla sistole atriale. In caso di disfunzione ventricolare diastolica, l’alterato rilasciamento miocardico si associa ad un

pattern di riempimento diastolico precoce anomalo (con riduzione della velocità E ed

allungamento del DT) e ad un incremento del contributo atriale al riempimento del VS: questo porta ad un aumento abnorme della velocità A, il cui picco supera quello della E; da ciò deriva il tipico reperto di un rapporto E/A<1, che si associa tradizionalmente allo scompenso cardiaco diastolico37,86.

Fig. 8. Rappresentazione delle velocità E ed A mediante flussimetria Doppler

In origine, l’uso del Doppler in ambito ecocardiografico, aveva imposto l’utilizzo di opportuni filtri per escludere il “rumore” derivante dal movimento delle pareti miocardiche, che avrebbe potuto altrimenti alterare la qualità del segnale generato dal

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flusso ematico, che si intendeva studiare. Tuttavia, l’idea che questa scelta potesse di fatto escludere informazioni potenzialmente utili, ha portato a prendere in considerazione la possibilità di utilizzare, al contrario, filtri che potessero far rilevare solo l’attività contrattile delle pareti cardiache: nasce così il TDI (Tissue Doppler Imaging).

Il TD può essere eseguito secondo due modalità: il TD ad onda pulsata e il color-TD. In quest’ultimo, una codifica a colori delle velocità miocardiche è sovrapposta alle immagini in scala di grigi, indicandone direzione e modulo; questa tecnica in pratica valuta le velocità medie. Il TD pulsato, invece, è la tecnica maggiormente utilizzata nello studio della funzionalità ventricolare sinistra, dal momento che, misurando le velocità di picco, è particolarmente adatta alla valutazione della funzione longitudinale87. Col TD pulsato,

le velocità longitudinali miocardiche possono essere registrate dall’approccio apicale (sezioni 4 camere, 2 camere, 3 camere)88, tenendo presente che il posizionamento a livello dell’anello valvolare mitralico valuta il movimento sisto-diastolico globale del ventricolo sinistro, e che quello a livello dell’anello tricuspidale è, invece, espressione dell’analogo movimento del ventricolo destro. In relazione al fatto che la velocità dei segmenti miocardici è massima all’apice (gradiente base-apice), per misurare la funzione di una parete miocardica, si considerano le velocità dei segmenti basali. Non ci sono invece accordi unanimi circa l’esatto posizionamento del volume campione a livello dell’anello mitralico, sebbene la collocazione settale rappresenti indubbiamente dei vantaggi: questa parte dell’anulus infatti si muove in direzione quanto mai parallela al fascio ultrasonoro ed è inoltre quella meno influenzata dal movimento di traslazione del cuore87.

Il TD pulsato, dunque, grazie alla sua capacità di valutare velocità e tempi del movimento del repere ecografico prescelto, è in grado di fornire informazioni sulla funzione ventricolare longitudinale sia sistolica che diastolica:

• Studio della funzione sistolica. Si basa sulla velocità miocardica sistolica (S’) che, sulla base della scelta del volume campione prima discussa, si identifica nella velocità sistolica di picco dell’anulus mitralico. L’affidabilità di questo parametro è supportata dall’evidenza della sua stretta correlazione con il numero di miociti e con la densità dei recettori β-adrenergici presenti nel segmento miocardico bioptico, corrispondente a quello in cui viene campionato il TD pulsato89. Nel patologico la riduzione di ampiezza della S’

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sua valutazione al fine di una diagnosi precoce di disfunzione sistolica del VS. Infatti, mentre una velocità S’>8cm/sec è da considerarsi normale, valori <5cm/sec indicano una compromissione importante della capacità contrattile ventricolare. Inoltre è stato evidenziato come, nello scompenso cardiaco diastolico “isolato” (e quindi con FE conservata), la velocità S’ dell’anello mitralico abbia un’ampiezza maggiore (in media circa 5cm/sec) rispetto a quella registrata nei pazienti con scompenso sistolico (in media 3cm/sec), ma allo stesso tempo appaia ridotta rispetto ai soggetti sani, a dimostrazione che un’alterazione subclinica della funzione miocardica sistolica è già presente nei pazienti con scompenso diastolico90.

• Studio della funzione diastolica. In questo caso viene valutato il movimento dell’anello mitralico in direzione opposta a quella vista per la S’, e dunque in direzione del versante atriale (si avranno onde velocimetriche di segno negativo nel tracciato del TD pulsato). In realtà, analogamente a quanto visto riguardo al Doppler del flusso ematico trans-mitralico, in questo caso sono due i segnali rilevati: il primo fa riferimento al movimento diastolico “precoce”, cui corrisponde la velocità miocardica protodiastolica (e’); questa comincia simultaneamente all’inizio dell’afflusso mitralico (velocità E), ma la sua velocità di picco precede il picco della E flussimetrica e termina prima di quest’ultima. Il secondo movimento diastolico, invece, corrisponde alla velocità a’, dovuta alla sistole atriale (analogamente alla velocità A flussimetrica). Il vantaggio che offre l’analisi delle velocità e’ ed a’ si basa sulla dimostrazione della minore precarico-dipendenza del TD pulsato rispetto al Doppler flussimetrico trans-mitralico, dimostrando una maggiore accuratezza a carico della prima tecnica91,92. Non a caso, valori di e’<8cm/sec, soprattutto se associati ad un rapporto e’/a’<1, indicano invariabilmente anomalie del rilasciamento miocardico, anche in presenza di un rapporto E/A flussimetrico >187. Infine, data la sua relativa indipendenza dal precarico, il

TD pulsato è stato proposto con successo per “correggere” il flusso trans-mitralico per l’influenza del rilasciamento miocardico: l’indice utilizzato in questo senso è il rapporto E/e’, che consente di ottenere una stima non invasiva, ma comunque attendibile, del grado delle pressioni di riempimento ventricolare93.

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Fig.9. Rappresentazione delle curve velocimetriche dell’anulus mitralico mediante TDI

Nonostante la sua indubbia utilità, il TDI presenta comunque delle limitazioni87:

• L’angolo-dipendenza, limite comune a tutte le tecniche Doppler

• La limitata risoluzione spaziale, cui consegue l’impossibilità di differenziare le velocità sub-endocardiche da quelle sub-epicardiche

• Il problema del gradiente base-apice delle velocità (più elevate alla base, e con progressiva riduzione verso l’apice), che incide sull’accuratezza della valutazione globale della funzione del VS, in virtù della scelta di un singolo volume-campione

• L’influenza esercitata sul singolo segmento miocardico, da parte del movimento cardiaco globale e dall’effetto di trascinamento (tethering) dei segmenti contigui; motivo per cui anche una parete miocardica necrotica può conservare un segnale velocimetrico in TDI

Con lo scopo di superare questi limiti si è affermato, più recentemente, lo STI

(Speckle-Tracking Imaging), una tecnica ultrasonografica non invasiva che consente di eseguire

una valutazione oggettiva e quantitativa della funzione miocardica regionale e globale. Essa vanta le seguenti caratteristiche:

• Si basa su immagini ottenute con tecnica ecografica in B-mode, in scala di grigi e con buona risoluzione spaziale: la qualità delle informazioni fornite dall’esame dipenderà essenzialmente dalla qualità delle immagini (fattore che implica la necessità di una buona finestra acustica) e dal corretto posizionamento delle regioni di interesse (ROI)

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