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Diritto e guerra L'evoluzione del diritto internazionale umanitario e il caso dell'ex-Jugoslavia.

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Academic year: 2021

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Introduzione

Il Novecento è stato attraversato da conflitti di una violenza tale da spingere non solo   gli   studiosi   di   diritto,   ma   gli   stessi   governi   nazionali   ad   interrogarsi   sulle modalità attraverso cui poter contenerne la distruttività o l'occorrere stesso. Il tema del pacifismo giuridico, presente fin dalle opere di Kant, trova in questo secolo spazio per la sua ricezione da parte delle forze politiche globali trasformandosi in oggetto di discussione delle relazioni interstatali. Si è parlato, in questo senso, di un processo di giudirificazione della politica che, a partire dal termine del primo conflitto mondiale, ha condotto ad una progressiva codificazione delle norme di convivenza civile e degli stessi rapporti fra stati. La risoluzione delle controversie viene sottratta alla Politica e affidata al Diritto e la stessa gestione delle relazioni internazionali   viene   normata   attraverso   una   condivisione   universale   di  valori   e principi.   Assistiamo   in   questo   secolo   alla   svolta   teorica   decisiva   che   condusse l'Uomo a divenire il centro nevralgico della legislazione concernente i rapporti fra Stati, limitando in nome della tutela dei Diritti Umani, il loro ricorso alla forza. Il Diritto Internazionale Umanitario, che a partire da Norimberga ebbe il sopravvento sullo  ius   publicum   europeum,  prende   forma   attraverso   trattati,   dichiarazioni   e convenzioni le quali vanno a strutturare una normativa che vede nella tutela dei diritti fondamentali di ogni singolo individuo il suo nucleo originario.  L'incolumità, infatti, dei singoli cittadini di tutte le nazioni era messa in dubbio dal divampare di conflitti totali, che avevano progressivamente annullato il confine fra combattenti e civili. D'altra parte, il successo della scissione dell'atomo aveva reso vulnerabile ogni cittadino del mondo. I concetti di Civiltà, Diritto e Pace si imposero in questo quadro con forza: le grandi potenze occidentali, riunitesi in organismi di coordinamento, si fecero promotrici di iniziative giuridiche (processi, corti internazionali) e politiche (trattati multilaterali, istituzioni sovranazionali) per limitare   l'occorrere   di   conflitti   e   punire   coloro   che   avevano   violato   quei   diritti fondamentali  su  cui era basata la loro  intesa.  Contrapponendosi al processo di brutalizzazione   della   guerra,   si   impone   sul   piano   internazionale   la   volontà   di rispondere alla violenza attraverso la Civiltà, il nuovo ordine doveva essere fondato sul Diritto e attraverso i suoi strumenti. Dall'istituzione dei tribunali di Norimberga

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e Tokyo fino a quella della Corte Penale Internazionale, l'evoluzione del Diritto Internazionale Umanitario sembrerebbe essere rappresentabile come un processo progressivo di allargamento e condivisione sempre più universale dei suoi principi.

Politica e Diritto Internazionale Umanitario, però, si confrontarono per tutto il Novecento   con   esiti   alterni:   gli   interessi   circostanziali   delle   maggiori   potenze mondiali   sono   entrati   spesso   in   contraddizione   con   questo   avanzamento, congelandolo:   la   potenzialità   d'azione   del   diritto   internazionale   è   infatti strettamente   vincolata   alla   volontà   politica   della   comunità   internazionale   di supportare la propria iniziativa; basti pensare, ad esempio, al lungo periodo di stasi normativa rappresentato dalla Guerra Fredda. E' in atto, dunque, una continua tensione fra gli interessi particolari di Stati sovrani o di gruppi che rivendicano il diritto alla costituzione di una propria entità statale e la capacità della giustizia internazionale di indirizzare queste spinte in un canale di legalità e rispetto dei Diritti   Umani.   La   mutevolezza   del   contesto   internazionale   e   conseguentemente delle   caratteristiche   dei   conflitti   armati   al   suo   interno   ha   portato   il   Diritto   ad arrancare   nel   tentativo   di   sanare   le   proprie   lacune   normative:   nuovi   tipi   di violenza, nuovi forme di conflitto, nuovi armenti e diverse strategie d'ingaggio sono solo alcuni degli ostacoli che si sono frapposti all'ideale di una pacificazione globale attraverso il diritto.   Siamo di fronte, dunque, ad un processo tutt'altro che lineare che risulta essere di grande interesse per la comprensione delle dinamiche che hanno condotto alla creazione di una comunità internazionale sempre più interconnessa e al contempo regolamentata.    La  storia di questo processo  è stata finora scritta da giuristi e filosofi del diritto i quali, necessariamente, hanno dato centralità ai momenti di avanzamento della discussione, relegando a parentesi quelle fasi storiche di stasi per il potenziamento della normativa internazionale. Si assiste poi, a partire dagli anni '90, ad un rinnovato intesse nelle scienze sociali: il crollo di dittature militari in Sud America e in Africa e la necessità per le società coinvolte di affrontare il peso delle violenze statali perpetrate negli anni di regime, nonché il moltiplicarsi di conflitti   interni   di   natura   etnica/nazionalistica   ha,   infatti,   generato   nuovi interrogativi e ispirato nuove soluzioni. Nasce, in questo contesto, il concetto di “giustizia di transizione”, termine che mira a raccogliere in sé tutte quelle pratiche

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di natura giuridica, politica, economica e sociale che vengono poste in essere nel momento in cui una società affronta l'uscita da un conflitto o dal crollo di un regime. 

Questo   contenitore   concettuale,   grazie   alla   sua   ampiezza,   ha   permesso   alla sempre più cospicua letteratura sul tema di inglobare al suo interno fatti, politiche e teorie generatesi precedentemente e in differenti contesti risalenti fino all'Antica Grecia.   Lo   studio   dell'evoluzione   del   diritto   internazionale   umanitario   nell'età contemporanea   è   stato   minato   da   questa   rilettura   retroattiva   degli   eventi, generando   l'esigenza   di   reinserirlo   all'interno   di   un   quadro   storico.   Nel   primo capitolo si affronterà proprio la nascita dei concetti di “transizione” e “giustizia di transizione” allo scopo di ricostruire il contesto in cui sono emersi e gli stimoli che hanno condotto alla loro definizione. Successivamente sarà possibile ripartire dal termine del primo conflitto mondiale per delineare le fasi e i momenti dirimenti della   teorizzazione   e   codificazione   del   diritto   internazionale   nell'età contemporanea.   Quali   circostanze   hanno   reso   possibile   lo   slittamento   dalle responsabilità statali alle responsabilità individuali? In che modo il passaggio dalla guerra totale alla guerra contemporanea ha influenzato la giurisdizione del diritto internazionale? Qual'è stato il ruolo della società civile nella promozione di un allargamento del riconoscimento dei Diritti Umani? 

Il   secondo   capitolo   analizzerà   nel   dettaglio   uno   dei   momenti   decisivi nell'evoluzione del diritto internazionale: la creazione del Tribunale ad hoc per l'ex­ Jugoslavia. Come vedremo, infatti, la sua istituzione rappresenta la prima iniziativa giudiziaria   promossa   direttamente   della   comunità   internazionale   dopo   il   '45   e attraverso la stesura della sua giurisdizione si andranno a definire i principi che caratterizzeranno   la   Corte   Penale   Internazionale;   in   un   contesto   geo­politico profondamente   mutato   questo   organo   provvisorio   era   chiamato   quindi   a riattualizzare la normativa internazionale e a creare un precedente solido su cui fondare un organismo di giustizia permanente. Si darà forma, così, a quel dibattito fra Pace e Giustizia che ha caratterizzato tutti i contesti di azione della giustizia internazionale: attraverso una ricostruzione dei  dibattiti  e  delle  circostanze  che hanno   reso   possibile   l'istituzione   di   questo   organismo   si   vuole   restituire   nel dettaglio in che modo entrano in contraddizione la giustizia internazionale e la

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volontà politica delle nazioni coinvolte nel conflitto o nel tentativo di porgli fine.  Verrà poi fatta una rassegna di quelle che sono state le principali critiche mosse alla creazione dell'ICTY quale strumento di pacificazione e ai suoi processi quali mezzi per riconciliare una società divisa dalla violenza. L'illustrazione dei limiti del lavoro del Tribunale Internazionale è necessaria per poi analizzare nel dettaglio quali  sono   state  le  proposte   alternative  portate  avanti  dalla   società   civile   della regione e da quella comunità di organizzazioni non governative che era fortemente presente nel territorio a partire dallo scoppio del conflitto. La maggiore centralità acquisita dalle ONG in campo globale e il loro interesse per strumenti di giustizia alternativi a quelli giudiziari, ha condotto anche nell'ex­Jugoslavia ad avviare un dibattito   intorno   a   forme   di  restorative   justice  rivolte   principalmente   alla riconciliazione  della  società.   Quali  strumenti  sono   stati   messi  a  disposizione  di questa finalità da parte dei governi nazionali usciti dal conflitto? Quale ruolo ha avuto la società civile internazionale e locale nel promuoverle?

Col terzo capitolo, infine, si entra ancor più nel dettaglio analizzando uno dei processi   condotti   dall'ICTY,   nel   particolare   quello   contro   il   comandante   di Srebrenica Naser Orić. L'analisi della documentazione concernente il suo caso e le scelte retoriche con cui questo processo  è stato portato avanti ci permettono di mostrare in che modo la giustizia internazionale ha affrontato la ricostruzione di fatti   di  violenza  avvenuti   all'interno   di  un   conflitto  etnico   quale  quello  che  ha interessato   la   Bosnia   a   partire   dal   1992.   L'utilizzo   diffuso   della   violenza,   il coinvolgimento in essa di soggetti irregolari e l'ampio coinvolgimento di civili nelle operazioni ha imposto alla Corte giudicante di allargare il proprio naturale spettro di competenze per interessarsi anche al contesto che aveva reso possibili i crimini di cui era chiamata a individuare i responsabili. Scorrendo le trascrizioni del processo emergono quelli che abbiamo individuato essere i limiti di un procedimento legale, vedremo le parallele richieste della società civile della regione che ne segue gli sviluppi attraverso la stampa e il continuo confrontarsi della Corte e delle parti con le accuse di parzialità e  politicizzazione.

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Capitolo I 1.1 Il concetto di giustizia di transizione Si è imposta diffusamente negli ultimi decenni, prima nelle scienze sociali e sempre più anche in campo storico, la categoria di “transizione1” nel tentativo di sistematizzare attraverso un concetto comune il mutamento di regime politico che hanno conosciuto numerosi paesi a partire dagli anni '70 del Novecento. Il termine “transizione” è stato fin dal principio utilizzato in senso politicamente orientato; rientravano   infatti   in   questa   locuzione   unicamente   i   cambiamenti   politici   che comportavano un passaggio da un regime di tipo dittatoriale/autocratico ad un processo   di   democratizzazione   e   liberalizzazione   della   società.   Diretta   era   la connessione fra l'intraprendere un processo di transizione e il progresso, inteso fermamente con l'ingresso in ordinamenti democratici. All'interno di un contesto globale che vedeva il moltiplicarsi di crisi nazionali, dalla caduta dei regimi militari in   America   Latina   al   crollo   del   blocco   socialista   ad   est,   si   fecero   spazio   studi comparatistici   che   posero   l'accento   sugli   elementi   comuni   di   queste   differenti esperienze. Prese forma, così, il concetto di  transition to democracy, definizione questa che accomunava tutte le società che uscivano da un regime autoritario2. All'interno   delle   discussioni   riguardo   questo   fenomeno   di   carattere   globale   si inseriscono le voci di quelle organizzazioni e quegli attivisti dei diritti umani che avevano lavorato proprio nei paesi che stavano ora attraversando la transizione. Negli anni la loro azione di denuncia della violenza statale, delle violazioni dei diritti  perpetrate  e  rimaste  impunite  e  delle  discriminazioni  condotte  da  quegli apparati statali che ora conoscevano la loro fine li aveva resi una realtà influente nel dibattito pubblico nazionale. Fu proprio questa costellazione di organizzazioni ad   affiancare   al   processo   di  transition   to   democracy  il   tema   della   giustizia: perseguendo il loro obiettivo di portare alla  luce le violenze condotte nel recente passato, pongono come determinante in un processo di cambiamento del paese la

1 Sul concetto di transizione cfr. Nicolas Guilhot, The Transition to the Human World of Democracy: Notes for a History of the Concept of Transition, from Early Marxism to 1989 in European Journal of Social Theory, vol. 5, n. 2 2002, pp. 219-242.

2 Cfr. G. O'Donnell e P.C. Schmitter, Transition from Authoritarian Rule: Tentative Conclusion about Uncertain Democracies, Johns Hopkins University Press, Baltimore and London, 1986.

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resa dei conti e la necessità di fare chiarezza su quanto avvenuto in anni di silenzio statale. Paige Arthur parla di un «international web of individuals and institutions»3 ­ in particolare le ONG e gli attivisti dei diritti umani insieme con i professionisti del diritto e delle scienze sociali ­ chiamato a confrontarsi con i nuovi problemi posti dalle richieste della popolazione dei vari paesi e dalla comunità internazionale nel tentativo di sistematizzarli e trovare pratiche comuni per risolverli.  Quali erano i nuovi problemi a cui si fa riferimento? In Sud America4, in Sud Africa5 e nell'Est Europa6 i regimi al potere fino a quel momento avevano avuto in comune il sistematico utilizzo di una violenza statale che aveva coinvolto grosse fette   della   popolazione.   Il   silenzio   in   cui   tali   azioni   venivano   perseguite   e l'impossibilità   di   ottenere   informazioni   riguardo   propri   cari   scomparsi   e/o assassinati rappresentava una delle più grandi ferite delle società civili che avevano subito tali violenze. Iniziato, dunque, il processo di transizione verso la democrazia non stupisce che questo abbia avuto tra le sue leve principali il desiderio di giustizia e   la   volontà   di   far   emergere   la   verità   su   quanto   accaduto.   Le   richieste   di procedimenti giudiziari, riparazioni, inchieste ed epurazioni furono trasversali ai vari contesti e da ciò nacque la necessità di condividere le pratiche in atto nei singoli paesi per tentare di rispondere al meglio a questa richiesta trasnazionale di verità e giustizia. Soddisfare le richieste delle vittime delle violenze statali e la volontà   di   farlo   individuando   strumenti   consoni   allo   sviluppo   di   uno   spirito democratico   all'interno   della   società   diviene   l'obiettivo   di   questi   momenti   di confronto. L'interscambio di pratiche ed esperienze nasce dalla consapevolezza che

3 A. Paige, How “transition” reshaped Human Rights: a conceptual history of transitional justice in Human Rights Quarterly, vol. 31, n.2, 2009, pp. 321-367.

4 Sulle transizioni in Sud America vd. R.G. Teitel, How are the New democracies of the Southern Cone dealing with the Legacy of Past Human Right Abuses? in N. Kritz, Transitional justice : how emerging democracies reckon with former regimes, United States Institute of Peace Press, Washington, D.C., 1995; C.S. Nino, The Duty to Punish Pass Abuses of Human Right Put into context: The Case of Argentina in Yale Law Journal, n.100, 1991.

5 Sulla transizione in Sud Africa vd. J. Gibson, Overcoming Apartheid: Can Truth Reconcile a Divided Nation?, Russell Sage Foundation, New York, 2003; J. Gibson and A.Gouws, Truth and Reconciliation in South Africa: Attributions of Blame and the Struggle over Apartheid, American Political Science Review, vol. 93, n.3, 1999, pp. 501-17; P. Van Zyl, Dilemmas of Transitional Justice: The Case of South Africa's Truth and Reconciliation Commission, Journal of International Affairs, vol.52, n.2, 1999, pp. 647-67.

6 Sul caso dell'Est Europa vd. N. Calhoun, Dilemmas of Justice in Eastern Europe’s Democratic

Transitions. Palgrave Macmillan, Houndmills, Basingstoke, Hampshire, 2004; A. Czarnota, Transitional Justice in Post-Communist Central Eastern Europe: Decommunisation and the Rule of Law in Critical Perspectives in Transitional Justice, N. F. Palmer, P. Clark, e D. Granville (a cura di), Intersentia, Cambridge, 2012.

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ogni comunità politica e società parte da concezioni di diritto e richieste particolari. Non   stupisce,   di   conseguenza   che   le   soluzioni   individuate   come   consone   alla transizione in questi paesi siano state di natura locale: orientate principalmente a legittimare e a consolidare le democrazie nascenti. 

Il termine giustizia di transizione è figlio di questo contesto: prima di entrare quale termine consolidato nella letteratura, il riferimento alla  Justice in time of transition  viene infatti utilizzato proprio all'interno delle conferenze promosse da quel   circuito   di   organizzazioni   non   governative   che   avevano   l'obiettivo   di   far confrontare soggetti provenienti da discipline e nazioni differenti sui temi a cui facevamo   riferimento.   Ad   esempio   leggendo   gli   obiettivi   della   conferenza dell'Aspen Institute7 del 1988 si profilano i primi tentativi di definizione del termine quale volontà di ricercare strumenti atti a rendere giustizia in contesti investiti da una transizione: «to discuss the moral, political, and jurisprudential issues that arise when   a   government   that   has   engaged   in  gross   violations   of   human   rights   is succeeded   by   a   regime   more   inclined   to  respect   those   rights»8.   Durante   la conferenza promossa dalla fondazione Charter 77 nel 1992 il titolo stesso dei lavori è   “Justice   in   time   of   transition”9.   Utilizzato   sporadicamente   e   con   accezioni differenti in base a chi ne parlava, il termine assume un suo significato specifico solamente   con   la   pubblicazione   nel   1995   dei   tre   volumi   di   Kritz  Transitional Justice:   how   emerging   democracies   reckon   with   former   regimes10.   I   volumi

7 Il Justice and Society Program dell'Aspen Institute, con il supporto della Ford Foundation, promosse all'interno della sua conferenza annuale una discussione dal titolo: “State Crimes: Punishment or Pardon”. L'obiettivo del programma è quello di mettere insieme individui di diversa formazione «to discuss the meaning of justice and how a just society ought to balance fundamental rights with the exigencies of public policy, in order to meet contemporary social challenges and strengthen the rule of law».

8 Alice H. Henkin, Conference Report in Justice and Society Program of The Aspen Institute (a cura di), State Crimes: Punishment or Pardon, 1989.

9 La Fondazione Charter 77 nasce come movimento impegnato nella promozione della democrazia e il potenziamento della società civile in Cecoslovacchia. Negli anni ha costruito un impegno su scala globale, che l'ha condotta nel 1992 a promuovere una conferenza a Salisburgo come «opportunity to help the new leaders of post-communist Europe figure out how to address the painful legacy of their past, which threatened to undermine the democratization process, by introducing them to the transition experiences of other countries in all their legal, political and moral dimensions—and as told by political leaders and other individuals who had been directly involved in those transitions». Cit. in T. Philip, The project in Justice in time of transition, disposibile al link: http://www.beyondconflictint.org/2014/wp-content/uploads/2014/01/The-New-Humanitarians-PJTT-chapter.pdf

10 N. Kritz, Transitional justice : how emerging democracies reckon with former regimes, United States Institute of Peace Press, Washington, D.C., 1995.

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rispettavano   quella   lente   comparatistica11  che   aveva   caratterizzato   gli   studi   del settore e presenta un insieme di contributi che vanno ad analizzare i vari contesti in cui si è posto il problema di “fare giustizia” a seguito della caduta di un regime. Al suo   interno   si   sistematizzano   quelli   che   erano   stati   gli   strumenti   individuati   e discussi   nelle  varie  conferenze   che   avevano   avuto  luogo  negli   anni  precedenti: riparazioni, restituzioni di proprietà, commissioni di verità, epurazioni, processi, amnistie, definizione di una memoria collettiva. 

Il concetto di giustizia di transizione al momento della sua definizione, dunque, assume   un   significato   che   travalica   il   mero   riferimento   alla   punizione   dei responsabili   di   violazioni   del   diritto   internazionale.   Si   attesta   come   un   vero   e proprio   contenitore   di   pratiche   tenute   insieme   dal   loro   essere   rivolte   al consolidamento del regime democratico nascente, ma fortemente contestualizzate e quindi   flessibili   nella   loro   applicazione   nei   vari   contesti.   La   pubblicazione   di quest'opera   collettanea   ha   un   impatto   decisivo   nella   diffusione   del   concetto   di giustizia di transizione, che viene recepito in maniera quasi del tutto unilaterale dai successivi   studiosi   che   hanno   scritto   di   questi   temi.   Data   l'origine   del   dibattito intorno   a   queste   tematiche   non   stupisce   vedere   come   sia   del   tutto   assente   la prospettiva storica nella costruzione di questa grande opera collettiva: i contributi che   troviamo   al   suo   interno,   infatti,   rispecchiano   la   partecipazione   ai   dibattiti contemporanei   rispetto   alla   transizione:   attivisti   dei   diritti   umani,   giuristi   e scienziati politici (comparatistici) sono i principali interlocutori. Porre al centro della discussione il carattere transitorio di questi fenomeni porta infatti ad una riflessione   sull'immediato   che   lascia   in   secondo   piano   la   prospettiva   di   lungo periodo necessaria affinché possa essere fruttuoso un contributo di tipo storico. Il tentativo, inoltre, di collocare in un singolo contenitore fenomeni tanto differenti per contesto nazionale e panorama geopolitico di riferimento crea forti difficoltà nell'utilizzare   la   categoria   di   transizione   all'interno   di   una   ricerca   che   voglia mettere   a   fuoco   le   condizioni   che   hanno   determinato   il   passaggio   di   regime

11 Tutti i volumi contengono saggi concernenti differenti nazioni, mentre il II volume è interamente dedicato alla presentazione dei casi nazionali analizzando nel particolare: Germania, Francia, Danimarca, Belgio, Italia, corea del Sud, Grecia, Portogallo, Spagna, Argentina, Uruguay, Brasile, Cile, Uganda, Cecoslovacchia, Ungheria, Bulgaria, Albania, Russia.

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politico12.   Il   termine   infatti,   per   come   è   stato   utilizzato,   all'interno   di   questi momenti di crisi politica concentra l'attenzione unicamente sulla loro capacità di creare   una   rottura   netta   col   regime   precedente   e   generare   le   condizioni   per l'avvento   di   un   ordinamento   fondato   su   presupposti   completamente   nuovi. Focalizzandosi sui fattori di discontinuità e rottura con il passato di dittatura mette in secondo piano le continuità con esso, che rappresentano al contrario un fattore determinante nella definizione di un nuovo ordine e di cui si inizierà a discutere solamente in una seconda fase di riflessione intorno a queste tematiche.

Con   l'opera  di   Kritz,   inoltre,   ha  origine   anche   un   ulteriore   fenomeno   che caratterizzerà l'evoluzione del concetto di giustizia di transizione all'interno della letteratura:   l'utilizzo   di   un   termine,   le   cui   origini   sono   essere   profondamente radicate nella contemporaneità, in riferimento ad eventi appartenenti ad un passato sempre più remoto. Partendo dalla definizione di transizione quale momento di uscita da un regime dittatoriale verso una prospettiva democratica, si guarda al passato   per   individuare  momenti   di   frattura   storica   che   possano   essere anacronisticamente inseriti in tale categoria. In primo luogo si guarda alla caduta dei fascismi in Europa Occidentale e in Giappone al termine del secondo conflitto mondiale e ai conseguenti processi di democratizzazione avviatisi dal '45, per poi arrivare alle transizioni di Portogallo, Spagna e Grecia degli anni '70. Il rischio di decontestualizzare   e   forzare   avvenimenti   passati   per   restituire   una   continuità storica ad un concetto che non ne possiede è elevato: si pensi ai testi di Elter13 o Teitel14  che   rispettivamente   risalgono   all'antica   Grecia   e   al   secondo   conflitto mondiale   nel   tentativo   dichiarato   di   storicizzare   e   individuare   le   origini   della giustizia di transizione. L'articolo della stessa Teitel sulla genealogia del concetto15 ci aiuta a comprendere questa prospettiva e a individuarne i limiti. Partendo dal presupposto per cui l'evoluzione della giustizia di transizione è intimamente legato al contesto politico con cui si è dovuta confrontare, arriva a dividere la sua storia in tre fasi distinte: quella successiva al 1945, quella seguita alla fine della guerra

12 Per una riflessione sulla categoria di transizione applicata alla storia vd. L. Baldissara e G. Ruocco (a cura di) La democrazia: retoriche della crisi e modelli di transizione in 900. Per una storia del tempo recente, n. 14-15, 2006.

13 J. Elster, Chiudere i conti, Bologna, Il Mulino, 2008.

14 R. Teitel, Transitional Justice, Oxford University Press, Oxford, 2000.

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fredda e la contemporaneità a partire dagli anni '90. In questo modo guarda alla giustizia di transizione come a qualcosa di preesistente la sua sistematizzazione e legittima   la   rilettura   di  quegli   eventi   secondo   parametri   propri   ad   un   concetto estraneo a coloro che concretamente portarono avanti le rivendicazioni di cui si prova ad analizzare le ragioni. I movimenti di democratizzazione e le richieste di giustizia che sono seguite alla caduta dei fascismi originavano da un quadro di riferimento   concettuale   e   politico,   che   proveremo   a   ricostruire   nel   prossimo paragrafo,   naturalmente   non  assimilabile  a  quello  presente  al  crollo  dei regimi sudamericani. Utilizzando tale metro di giudizio, inoltre, i problemi del concetto di giustizia di transizione non si limitano al passato, ma guardano anche alle sue successive   applicazioni   nei   contesti   di   transizione   più   recenti.   I   dubbi   di applicabilità emergono anche in questo caso in quanto assistiamo fra gli anni '70 e gli anni '90 del Novecento ad un mutamento radicale del concetto di guerra che modifica   radicalmente   le   richieste   di   giustizia   delle   popolazioni   coinvolte. Pensando, infatti, ai casi del Rwanda e dell'ex­Jugoslavia la violenza è pubblica, lo sterminio non è celato, ma gridato in pubblica piazza e attraverso tutti i media; non è più necessario portare alla luce la verità, ma diviene necessario stabilire quale verità sia quella più fedele ai fatti. Il carattere etnico e la presenza sempre più diffusa   di   gruppi   paramilitari   e   irregolari   all'interno   dei   conflitti   moltiplica   le narrazioni e i confini di legittimità: in che misura è possibile inserire questi scontri all'interno del paradigma della transizione? Quali sono i soggetti promotori di un processo democratizzante? E' la democrazia ancora l'obiettivo primario di questi movimenti che  hanno portato alla  rottura  col regime precedente  e hanno dato avvio a conflitti? Ancora una volta la complessità dei singoli casi e l'evolversi del quadro geopolitico internazionale sembra essere contenuto malvolentieri all'interno di questo paradigma. Porre sotto uno stesso ombrello interpretativo fatti avvenuti dal primo conflitto mondiale ai contemporanei scontri in medio oriente sembra sorvolare con troppa semplicità un'evoluzione radicale del diritto internazionale avvenuta dalla firma del Trattato di Versailles alla costituzione della Corte Penale Internazionale, nonché un cambiamento altrettanto deciso del concetto di guerra a partire dal quale dovrebbero nascere le richieste di giustizia. Queste ultime mutano necessariamente   di   contesto   in   contesto,   assunto   ciò   il   concetto   di   giustizia   di

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transizione può essere solamente utilizzato in senso debole: inteso come la somma di tutte quelle pratiche attivate durante un cambiamento politico per fare i conti col proprio passato. Le ragioni e i riferimenti teorici che conducono differenti nazioni e culture a scegliere alcuni di questi strumenti sono lasciate in secondo piano, dando priorità al fatto che questi vengano utilizzati. Nel paragrafo successivo si vuole indagare in prospettiva storica proprio come sono nate queste richieste di giustizia e da che cosa sono state determinate: attraverso l'analisi del rapporto fra Diritto e guerra e delle conseguenze generatesi dalle loro influenze reciproche, proveremo a ricostruire i momenti salienti e il retroterra culturale che hanno condotto ad una sempre   più   accentuata   centralità   del   tema   della   giustizia   nelle   relazioni internazionali,   tentando   di   ancorare   in   questo   modo   i   vari   passaggi   di   regime politico e la nascita del concetto di giustizia di transizione nel loro contesto storico di appartenenza. Lasceremo, di conseguenza, alle conclusioni del lavoro un giudizio complessivo sulla pregnanza e l'utilità del riferimento alla giustizia di transizione quale chiave di lettura degli eventi che hanno attraversato l'ultimo secolo. 1.2 Diritto internazionale umanitario e giustizia di transizione Nell'ultimo secolo, in un contesto globale sempre più interconnesso, le società nazionali e la comunità internazionale si sono dovute confrontare con conflitti di natura sempre più distruttiva, dovendo affrontare di conseguenza il problema di come e attraverso quali strumenti contenere le violenze all'interno degli scontri armati e di come limitarne allo stesso tempo il numero. Per tutto il '900 si assiste ad una progressiva codificazione dei rapporti interstatali e dei momenti di conflitto, nel tentativo di limitare prima ed eliminare poi dal panorama internazionale la guerra   in   nome   della   tutela,   sempre   più   centrale,   dei   diritti   di   ogni   singolo individuo. Si palesa, così, lo stretto legame esistente fra l'evoluzione del Diritto Internazionale in senso umanitario e quella del concetto di guerra. La volontà di creare   un   sistema   di   valori   universalmente   garantiti   va   di   pari   passo   con l'ambizione di sostituire agli interessi particolaristici della giustizia nazionale, una giustizia   internazionale   che   avesse   l'ideale   del   “pacifismo   giuridico”   quale riferimento teorico. La pace globale diviene il fine ultimo e il principio ispiratore

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dei   rapporti   interstatali.   L'impianto   fortemente   ideale   di   tale   obiettivo   non   è sfuggito a critiche da parte di quella corrente teorica, definita poi come “realista”, la quale riportava l'attenzione sull'inalienabilità della volontà statale quale principio regolatore dell'ordine mondiale e sull'impossibilità, di conseguenza, di abolire uno dei suoi strumenti fondamentali: l'utilizzo della forza. Nel concreto, infatti, questa prospettiva universalistica era ostacolata dalla supremazia esercitata dalle super potenze globali sul resto del mondo, la quale rendeva ogni ideale ugualitario in termini internazionali un esercizio retorico nella pratica. Proviamo ad analizzare, nel contesto in cui sono emerse, l'evoluzione di queste posizioni ricostruendone l'effettiva traduzione in provvedimenti e istituzioni.

Il   1945   è   universalmente   riconosciuto   come   uno   dei   momenti   decisivi   di svolta   nella   teorizzazione   di   un   diritto   internazionale   umanitario   grazie   alle discussioni   intorno   alla   creazione   dei   tribunali   internazionali   di   Norimberga   e Tokyo  e  alla  costituzione   delle   Nazioni  Unite  quale  organo  sovranazionale   con ambizioni   universalistiche.   In   molti   nella   letteratura   hanno   rivolto   indietro   lo sguardo,   però,   al  termine   del  primo   conflitto  mondiale  individuato   sempre   più quale un precedente fallimentare, ma centrale, per l'evoluzione di questo percorso teorico. Nel momento in cui gli Alleati, a partire dai negoziati di pace, palesarono la volontà di intensificare il sistema di giudizio delle responsabilità per i crimini di guerra, si andavano costruendo le premesse di quello scontro fra giustizia nazionale e   giustizia  internazionale   che   attraverserà   tutto   il  secolo.   Conclusasi  la   Grande Guerra, le nazioni uscite vincitrici dovettero confrontarsi per la prima volta con un conflitto di natura totale, che in termini di uomini e nazioni coinvolte e rispettive perdite non aveva precedenti nella storia. Già nel 1919 una commissione speciale fu incaricata di individuare strumenti adeguati per sanzionare le terribili atrocità commesse durante il conflitto. Si fece allora spazio la proposta di fondazione di una high court  chiamata a giudicare intorno ai «barbarous or illegitimate methods in violation of the established laws and customs of war and the elementary laws of humanity»16, la quale avrebbe dovuto fondare la sua giurisdizione sulla base della legislazione allora vigente: principalmente la Convezione di Ginevra del 1864 e le

16 Report on the Responsibility of the Authors of the War and on Enforcement of Penalties to the Preliminary Peace Conference, 29 Marzo 1919.

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Convenzioni dell'Aja del 1899 e 1907. Le potenze vincitrici si trovarono in accordo nella volontà di non lasciare impunite le efferatezze commesse dall'esercito tedesco, la cui inumanità è stata ampiamente riportata  nei  numerosi  report stilati  dalle commissioni d'inchiesta create dalle singole nazioni per dimostrare l'entità della distruzione sul proprio territorio con la speranza di ottenere consone riparazioni. 

Le   potenze   vincitrici   avevano   basato   la   condanna   degli   orrori   della   guerra sull'immoralità e l'inumanità della stessa, di conseguenza l'azione punitiva rivolta a coloro che si  erano macchiati di  tali crimini avrebbero  dovuto necessariamente distanziarsi da questi atti di violenza. Si fa spazio così una retorica della legittimità, che   ritroveremo   ampiamente   sviluppata   dopo   il   secondo   conflitto   mondiale,   la quale vede la comunità internazionale farsi promotrice di un sistema di sanzioni giusto   in   nome   della   superiorità   morale   delle   sue   finalità.   Le   forze   alleate divengono   così   depositarie   del   diritto:   Sir   Frederick   E.   Smith,  Attorney   General britannico, nel 1918 parla, ad esempio, dell'utilizzo di un tribunale internazionale come   di   un  «high   exercise   of   executive»17,   ribadendo   come   «conquering   force submitting   itself   to   the   judgment   of   history»18  senza   cedere   a   sentimenti   di vendetta. 

Fu durante le trattative per la firma del Trattato di pace a Versailles che la questione della responsabilità nei confronti di un simile abominio emerse con forza: in particolare Francia e Inghilterra si fecero portatrici dell'istanza di non lasciare impunito colui che aveva dato avvio alla guerra e coloro che si erano macchiati dei più   efferati   crimini;   motivati   dal   numero   di   perdite   subite   sul   territorio   e dall'opinione   pubblica   interna   che   fece   pressione   sui   rispettivi   governi   affinché venisse fatta giustizia per i caduti e affinché ci fosse una condanna esemplare di quanto   accaduto19.   L'immagine   di   Guglielmo   II   in   esilio,   nel   lusso   della   sua condizione di rifugiato, non rendeva giustizia ai milioni di morti e alla distruzione globale di cui egli, in quanto Imperatore della nazione che ha avviato il primo conflitto di natura mondiale, era responsabile. La legislazione del diritto delle genti aveva   a   sua   disposizione   delle   basi   sulle   quali   costruire   una   condanna:   le

17 CAB 23/43, Imperial War Cabinet 39, 28 November 1918, pp. 3-4. 18 Ibidem.

19 Sulle posizioni dei governi e dell'opinione pubblica di Francia e Inghilterra riguardo la punizione dei criminali di guerra cfr. Bass p.80 e p.88.

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Convenzioni   dell'Aja   contenevano,   infatti,   il   principio   della   responsabilità   di comando, imputatazione necessaria per condannare l'imperatore. In base all'art.3 egli era infatti responsabile di «tutti gli atti commessi da persone che fanno parte delle sue forze armate»20 non conformi alla legislazione vigente. Ciò che mancherà nelle trattative per sostenere una traduzione effettiva di queste norme in sanzioni fu il sostegno politico degli Stati coinvolti. Nel Trattato di Sèvres la proposta di condannare   l'Impero   Ottomano   per   crimini   contro   i   propri   cittadini   venne surclassata e nel Trattato di Losanna venne sostituita con una dichiarazione di amnistia.   Solamente   nel   Trattato   di   Versailles   il   principio   trovò   spazio,   grazie proprio   all'insistenza   di   Francia   e   Inghilterra.   Negli   articoli   227,   228,   22921  fu inserita, infatti, la chiamata in giudizio del kaiser tedesco Guglielmo II, accusato di essere responsabile di offese alla moralità internazionale e di aver violato quanto sancito dai trattati vigenti. Per la prima volta nella storia l'aggressione ad uno Stato veniva considerata in sé un crimine, scardinando il principio per cui il diritto di guerra   sanzionava   unicamente   la   condotta  in   bello.  Se   infatti   gli   art.   228­229 miravano a condannare coloro che avevano commesso violazioni delle leggi e dei costumi di guerra in senso classico, l'assoluta novità si trova nella condanna della guerra quale strumento legittimo di confronto fra stati. Porre sotto accusa il kaiser

20 Art. 3 Convenzione dell'Aja concernente le leggi e gli usi della guerra per terra, 1907.

21 Art. 227 «The Allied and Associeted Powers publicly arraign William II of Hohenzollern, formerly German Emperor, for a supreme offence against international morality and the sancity of treaties. A special tribunal will be costituted to try the accused, thereby assuring him the guarantees essential to the right of defence. It will be composed by five judges, one appointed by each of the following Powers: namely, the United States of America, Great Britain, France, Italy and Japan. In its decision the Tribunal will be guided by the highest motives of international policy, with a view to vindicating the solemn obligations of international undertakings and validity of international morality. It will be its duty to fix the punishment which it considers should be imposed. The Allied and Associeted Powers will address a request to the Government of the Netherlands for the surrender to them of the ex Emperor in order that he may be put on trial».

Art. 228 The German Government recognises the right of the Allied and Associated Powers to bring before military tribunals persons accused of having committed acts in violation of the laws and customs of war. Such persons shall, if found guilty, be sentenced to punishments laid down by law. This provision will apply notwithstanding any proceedings or prosecution before a tribunal in Germany or in the territory of her allies.

The German Government shall hand over to the Allied and Associated Powers, or to such one of them as shall so request, all persons accused of having committed an act in violation of the laws and customs of war, who are specified either by name or by the rank, office or employment which they held under the German authorities.

Art. 229: Persons guilty of criminal acts against the nationals of one of the Allied and Associated Powers will be brought before the military tribunals of that Power.

Persons guilty of criminal acts against the nationals of more than one of the Allied and Associated Powers will be brought before military tribunals composed of members of the military tribunals of the Powers concerned.

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per «supreme offence against international morality» si traduce nel dare priorità al carattere morale e di necessità di una sentenza per la quale non esisteva fino a quel momento una normativa di riferimento: lunga sarà infatti la strada per arrivare alla codificazione del crimine d'aggressione22.  Sancire, però, la responsabilità diretta delle massime autorità statali rappresentava il pilastro teorico su cui poggeranno i tentativi   di   incriminazione   futuri,   nonché   il   tentativo   di   mettere   in   campo   un deterrente   verso   l'utilizzo   della   guerra   come   strumento   di   risoluzione   di   affari politici.   Se   ai   governanti   non   è   più   garantita   l'impunità,   condurre   la   propria nazione in guerra significava assumersi un rischio personale.

La   novità,   però,   introdotta   dall'art.   227   del   trattato   non   poté   trovare applicazione  in quanto l'Olanda, dove il kaiser trovò rifugio,  rifiutò il  sostegno diplomatico alla decisione di processarlo e si rifiutò di estradarlo per poter prender parte   al   processo;   allo   stesso   tempo   la   Germania   si   avvalse   di   un   escamotage giuridico,   rifacendosi   al   fatto   che   il   proprio   codice   penale   nazionale   non contemplava la consegna di cittadini a paesi nemici per la loro messa a giudizio. Si palesava, così, l'inapplicabilità dei contenuti del trattato rispetto ad un sistema di governo  europeo  ancora   incardinato   attorno   allo   ius   publicum   europaeum   e  la supremazia   del   diritto   statale.   Lo   stesso   tentativo   tedesco   di   processare   i responsabili di crimini di guerra, all'interno dei confini nazionali attraverso la Corte Suprema   dell'Impero   a   Lipsia23,   non   ottenne   che   esigue   sentenze,   infine   non applicate, di un numero fortemente limitato di accusati: gli alleati fornirono al governo   tedesco   un   elenco   di   896   nominativi   di   presunti   criminali   di   guerra, redatto dalla  Commission on the Responsibilities of the Authors of the War and on Enforcement of Penalties, chiedendone la loro estradizione per dare luogo a processi. Il   rifiuto   dell'estradizione,   sempre   fondato   su   quanto   sancito   dal   codice   penale nazionale,   condusse   all'istituzione   di   un   tribunale   militare   nazionale   a   Lipsia. Operativo fra il Maggio e il Giugno del 1921 si fece carico di soli 45 dei casi indicati

22 Cfr. F. Pietropaoli, Definire il male. La guerra di aggressione e il diritto internazionale, Jura gentium, 2001, disponibile al link: http://www.juragentium.org/topics/wlgo/cortona/it/pietropa.htm#*.

23 Sulla creazione e sulla rilettura critica dei processi di Lipsia vd. C. Mullins, The Leipizig Trials: An Account of the War Criminals’ Trials and a Study of German Mentality, London, Witherby, 1921; J. Willis. Prologue to Nuremberg: The Politics and Diplomacy of Punishing War Criminals of the First World War, Greenwood, 1982; G.J. Bass, Stay the hand of vengeance, the politics of war crime trials, Princeton University Press, 2000, pp. 58-105.

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dalla commissione, i quali si tramutarono in 16 imputazioni. Al termine dei suoi lavori il tribunale aveva formulato sei sentenze, le quali comunque non conobbero mai un'applicazione effettiva24. Risulta, di conseguenza, palese il fallimento delle misure di giustizia effettivamente promosse a seguito della Prima Guerra Mondiale, ma il dibattito teorico che ha portato alla loro definizione ha posto le basi affinché si   affermassero   due   principi   fondanti   per   i   successivi   sviluppi   del   diritto internazionale umanitario: il principio di responsabilità di comando per i crimini di guerra e il porre il rispetto della legislazione vigente e delle norme “di civiltà” quale elemento   di   discussione   negli   affari   internazionali.   L'affrontare   durante   le negoziazioni di pace e gli incontri interstatali questioni di legittimità dell'intervento militare e delle responsabilità avute in guerra rappresentava un primo tentativo di limitare la discrezionalità nell'uso della forza da parte delle nazioni.

Nelle premesse al Trattato di Versailles trova spazio, insieme alla volontà di sanzionare la guerra di carattere aggressivo, la presa d'atto della necessità da parte della   comunità   internazionale   di   ergersi   a   responsabile   del   mantenimento dell'ordine globale attraverso l'imposizione del rispetto del diritto internazionale di cui è depositaria: «THE HIGH CONTRACTING PARTIES, In order to promote international co­operation and to achieve international peace and security by the acceptance of obligations not to resort to war by the prescription of open, just and honourable relations between nations by  the firm establishment of the understandings of international law as the actual rule of conduct among Governments, and by the maintenance of justice and a scrupulous respect for all treaty obligations in the dealings of organised peoples with one another Agree to this Covenant of the League of Nations»25.

Con   la   definizione   della   Carta   della   Lega   delle   Nazioni   si   stabilirono   le modalità attraverso cui la comunità internazionale è chiamata a mantenere la pace e la sicurezza globale. Ancora una volta emergono i limiti di un principio che mira ad essere universalistico, ma che è ancora schiacciato sulla volontà delle potenze che lo promuovono: al suo interno, infatti, il concetto di aggressione viene legato a

24 Cfr. M.C.Bassiouni, Crimes Against Humanity in International Criminal Law, Dordrech, Nijhof, 1992. 25 Trattato di Versailles, 28 Giugno 1919, Parte I, The covenant of the League of Nation.

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quello di integrità territoriale26, incarnando la garanzia armata dello status quo definito nel Trattato di Versailles. L'ordine globale si tramutava nella sanzione dei confini territoriali emersi da un conflitto. La centralità di giudizio e di volontà di potenza delle singole nazioni emerge negli anni successivi al conflitto dalla volontà di   Francia   e   Usa   di   sottoscrivere   un   accordo   bilaterale,   il   patto  Briand­Kellog, aperto poi alla sottoscrizione da parte di altre nazioni, pensato per creare una rete di   protezione   internazionale   contro   ogni   tentativo   di   rivalsa   della   Germania. Quest'ultimo lasciava completamente da parte la Società delle Nazioni per riportare il tema del ripudio della guerra da un piano ideale a quello tattico tramite un accordo   fra   Stati   sovrani.     Al   suo   interno,   infatti,   ritroviamo   un'esplicita dichiarazione in linea coi principi della Lega, ma si ritiene necessario per renderla efficace ricorrere a strumenti classici dei rapporti interstatali. I firmatari «persuasi che è venuto il momento di compiere un atto di aperta rinunzia alla guerra in quanto   strumento   di   politica   nazionale,   affinché   possano   essere   perpetuate   le relazioni   pacifiche   ed   amichevoli   esistenti   presentemente   tra   i   loro   popoli» ribadirono all'articolo 1 che:  «Le alte parti contraenti dichiarano solennemente in nome dei loro popoli rispettivi di condannare il ricorso alla guerra per la risoluzione delle divergenze internazionali e di rinunziare a usarne come strumento di politica nazionale nelle loro relazioni reciproche»27 La fondazione della Società delle Nazioni e l'abbandono della dottrina Monroe da   parte   degli   Stati   Uniti   rappresentano   gli   eventi   di   rottura   nella   storia dell'evoluzione del diritto internazionale, che conducono alla fine della centralità politica e giuridica europea, verso una concezione universalistica della gestione dell'ordine globale. La linea di demarcazione con il passato è stata dunque tracciata sulle basi di un nascente diritto internazionale che alla discrezionalità dei passati regimi contrappone, nei suoi intenti, la trasparenza di principi condivisi e la messa a giudizio di chiunque li violi. Sono infatti gli individui e non più gli stati nazionali

26 Art. 10, Statuto Società delle Nazioni, «I Membri della Società si impegnano a rispettare, e a proteggere contro ogni aggressione esterna, l'integrità territoriale e l'attuale indipendenza politica di tutti i Membri della Società. In caso di aggressione, minaccia o pericolo di aggressione, il Consiglio avviserà ai modi nei quali quest'obbligo dovrà essere adempito».

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a   divenire   i   soggetti   di   riferimento   della   legislazione   internazionale:   la responsabilità giuridica in questo senso non è più delimitata da confini nazionali, né temporali e di conseguenza ai capi di stato e ai governi non  è più possibile difendere la propria condotta e sfuggire alle proprie responsabilità in nome del principio della sovranità nazionale.

Il   dibattito   teorico   fra   le   due   guerre   intorno   al   principio   del   pacifismo giuridico e i suoi strumenti.

Già, dunque, a partire dal termine del primo conflitto mondiale la comunità internazionale si interroga su quei concetti di legittimità e necessità di condanna che caratterizzeranno tutto il secolo. Il contenuto delle premesse del Trattato di Versailles   e   del   Patto   di   Briand­Kellog   è   un   esempio   lampante   di   quanto   la riflessione in campo internazionale sia connessa alla corrente di pensiero legata all'idea   del   “pacifismo   giuridico”.   Il   dibattito   intorno   al   ruolo   della   comunità internazionale nella creazione e condivisione di un sistema di diritto universale ha coinvolto   al   suo   interno   pensatori   del   diritto   che   si   rifacevano   proprio   all'idea kantiana della necessità di creare i presupposti per una pace perpetua in ambito globale28. L'obiettivo della tutela dell'ordine globale e di conseguenza dell'umanità poteva essere raggiunto solamente tramite una risoluzione delle controversie che superasse   la  barbarie  della  guerra.   L'eliminazione   dell'utilizzo  della  forza   quale strumento risolutore delle controversie divenne una sorta di jus cogens. Il diritto dei popoli,   antesignano   del   diritto   internazionale,   viene   così   declinato   secondo   un orientamento pacifista: «il diritto alla guerra, il diritto nella guerra e il diritto di costringersi   reciprocamente   ad   uscire   da   questo   stato,   e   quindi   il   compito   di stabilire una costituzione che fondi una pace duratura, vale a dire, il diritto dopo la guerra»29. Si procede teoricamente da un Diritto con al centro lo Stato ad un Diritto che parte dall'Uomo: se il diritto statale è necessariamente legato alla guerra quale strumento di applicazione della forza di uno stato sull'altro, la pace garantisce una

28 Cfr. I. Kant, Per la pace perpetua. Un progetto filosofico di Immanuel Kant in Scritti di storia, politica e diritto, Laterza, Roma – Bari, 1995.

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maggiore tutela ed è legata alla realtà morale dell'uomo.

L'evoluzione   del   diritto   internazionale   nel   ventesimo   secolo   ha   seguito   tali dettami ed è stata caratterizzata dal ripetuto tentativo di slegare il nesso esistente tra sovranità statale e  utilizzo della forza: jus ad bellum. La chiave per arrivare a tale scopo era l'accettazione da parte di tutti gli stati nazionali di una legislazione internazionale condivisa, posta al di sopra dei loro singoli interessi: il primato del diritto internazionale si traduce per Kelsen nell'inclusione degli stessi ordinamenti statali   al   suo   interno.   In   quanto   ordinamento   giuridico   originario   e   universale, nonché sovraordinato,  il diritto internazionale deve  essere accolto in  toto nelle legislazioni nazionali. A partire dall'unità d'intenti, diviene necessario per le singole entità  statali trovare una forma di coalizione globale che abbia  quale obiettivo quello di una mutua protezione in nome della pace: in questo senso iniziano a profilarsi le prospettive di federazioni fra stati, uniti dallo spirito democratico e dai suoi fondamenti morali. Siamo di fronte ad un modello individualistico, che guarda all'uomo   quale   suo   principale   destinatario   e   insieme   universalistico   in   quanto attraverso la tutela del singolo si tutela l'umanità intera. Per costruire una società morale e civilizzata è necessario “detronizzare” lo stato, privato di uno dei principi fondanti della sovranità, il monopolio della forza: la guerra condotta da un singolo stato   diviene   crimine   d'aggressione   e   in   quanto   tale   è   considerata   "crimine internazionale supremo".

Per   far   rispettare   un   ordine   e   un   sistema   di   valori   ritenuto   universalmente condiviso   emergeva   la   necessità   di   creare   strutture   di   coordinamento   e   mutua protezione fra Stati più incisive del fallimentare esperimento della Società delle Nazioni. In questo senso si inserisce il contributo teorico di Kelsen, il quale si fece portavoce   dell'ideale   dell'unitarietà   del   diritto.   In   particolare   teorizza   come   la legislazione   internazionale   non   debba   essere   distinta   e   non   possa   essere   in contraddizione con quella statale, ma deve configurarsi come una normativa di ordine superiore e quindi fondante il diritto interno dei singoli Stati. Il diritto e la norma   divengono   sovrane   e   la   guida   e   la   sovranità   di   uno   stato   è   garantita unicamente   dalla   sovranità   della   norma   che   lo   regge.   Nel   suo   testo   “La   pace attraverso il diritto”30, Kelsen dà forma al suo progetto di ordine globale indicando

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lo  Stato federale mondiale  quale soggetto promotore e a tutela dell'ordinamento giuridico internazionale31.

Le grandi sfide imposte dalla contemporaneità a questi pensatori conducono ad una riflessione in fieri estremamente calata nel tempo presente: cosciente della difficile   traduzione   pratica   del   suo   ideale   di   federazione   globale   e   dovendo confrontarsi con la necessità attuale di proposte, teorizza una soluzione intermedia di transizione che permetta gradualmente all'obiettivo. i sentimenti nazionalistici e le differenze esistenti fra i vari paesi. Avvicinandosi la fine del secondo conflitto mondiale,   Kelsen   scrive   nel   '44,   teorizza   la   creazione   di   una   organizzazione mondiale   creata   allo   scopo   di   mantenere   la   pace:   “La   lega   permanente   per   il mantenimento della pace” è pensata come una federazione di stati che pone al centro delle sue competenze quello di fondare una Corte di Giustizia internazionale in grado di assolvere in sé la competenza di discutere le controversie fra Stati sottraendo così tale compito alla politica e, secondo l'interpretazione di Kelsen, alla guerra. In caso di conflitti o violazioni delle norme internazionali la Corte sarà chiamata a giudicare i singoli individui ritenuti responsabili dei crimini e per fare ciò,   gli   Stati  saranno  obbligati   a   consegnare  i   propri  cittadini   al  giudizio  della stessa. Il fallimento, infatti, della Lega delle Nazioni sarebbe stato causato, secondo la lettura di Kelsen, dalla centralità data non alla funzione giuridica, ma a quella politica dell'istituzione internazionale.  La priorità in contesti di guerra totale diveniva quella di assicurare giustizia e costruire strumenti in grado di dissuadere l'incorrere di un nuovo conflitto. Per raggiungere tale scopo, la sua idea di pacifismo giuridico non esclude fra i suoi strumenti d'intervento la guerra intesa come “guerra giusta” o sanzione rivolta alla tutela di una pace stabile e universale basata su principi universalmente condivisi32. Proprio da tale definizione hanno avuto origine le maggiori critiche nei confronti dell'ideale universalistico proposto da Kelsen. Schmitt, principale interlocutore di questo dibattito, interpretando questa ridefinizione della guerra come una semplice giustificazione   sotto   spoglie   legali   da   parte   delle   grandi   potenze   mondiali   per

31 L'approdo a questo strumento sarebbe stato preceduto da fasi di transizioni intermedie caratterizzate dalla creazione di unioni strumentali alla pace fra singoli o più stati.

32 Per un approfondimento delle posizioni vd. H. Kelsen, Peace through Law, Univeristy of North Carolina Press, Chapel Hill, 1994. Per un approccio critico a queste posizioni vd. D. Zolo, Il globalismo giuridico in Jura Gentium, 2008.

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riaffermare   il   proprio   diritto   ad   eliminare   l'avversario.   Paradossalmente,   infatti, attraverso la guerra giusta si va a creare una dicotomia buono/cattivo che permette di giustificare la volontà di annientamento di un gruppo di Stati aggrappandosi a principi morali. Schmitt vede nel tentativo di arrogare a sé il concetto di umanità, monopolizzandolo, il rischio di giungere alla «terribile pretesa che al nemico va tolta la qualità di uomo, che esso dev'essere dichiarato hors­la­loi e hors­l'humanité e quindi che la guerra dev'essere portata fino all'estrema inumanità»33. Attraverso questa operazione si andrebbero paradossalmente ad eliminare quelle limitazioni politiche proprie dei conflitti quali ad esempio la possibilità di dichiarare la propria neutralità nel momento in cui non si vuole intervenire direttamente in uno scontro tra nazioni. Siamo di fronte, secondo Schmitt, a un semplice mascheramento degli interessi di Stati Nazionali, che devia da quella dicotomia amico/nemico che deve rimanere al centro delle relazioni interstatali: ritenuta illegittima ogni connotazione morale dello scontro, la guerra rimane uno strumento politico insostituibile di gestione degli intessi statali non criminalizzabile in sé. Schmitt insiste sulla legittimità dello strumento   della   guerra,   ma   al   contempo   sulla   parallela   necessità   per   il   diritto internazionale   di   continuare   a   codificarne   i   limiti.   Eliminare   la   guerra   dalle discussioni e dalle produzioni normative, ma non nella pratica, la guerra conduce ad  una   rinuncia  unicamente   teorica   della  stessa,   ma  che   in   termini  concreti  si traduce in una liberalizzazione dei suoi mezzi. Se la guerra  è giusta o criminale unicamente   in   base   alla   fazione   di   appartenenza,   gli   strumenti   che   vengono utilizzati durante questo scontro morale passano in secondo piano. D'altra parte i tentativi   di   federalismo   e   di   aggregazione   di   stati   concretizzatesi   attraverso   la fondazione della Società delle Nazioni che avrebbero dovuto farsi promotori di questa guerra giusta erano fortemente limitati e allo stesso tempo, a suo avviso, limitata era la loro legittimità di arrogarsi il diritto di perseguire gli interessi di una globalità che ne trascendeva i confini. Di conseguenza viene meno, a suo avviso, la legittimazione di un diritto globale basato sulla condivisione di principi. Cadeva, dunque,   in   base   a   questa   lettura   del   presente   la   possibilità   di   perseguire

33 C. Schmitt, Il concetto di 'politico', in C. Schmitt, Le categorie del 'politico', Il Mulino, Bologna, 1972, p. 139.

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legittimamente il crimine d'aggressione: quest'ultimo infatti implicava la distinzione fra stati legittimati ad utilizzare la forza e non. 

Dai tribunali di Norimberga e Tokyo alle Nazioni Unite.

La debolezza  e gli evidenti limiti dei tentativi di  applicazione della  giustizia internazionale   a   seguito   della   Grande   Guerra   hanno   avuto   un   forte   peso   nelle prime fasi di contrattazione al termine del secondo conflitto mondiale. Il sistema di Versailles   e   della   Lega   delle   Nazioni   non   aveva   reso   giustizia   alle   popolazioni colpite dal conflitto precedente e non era stato in grado di far dialogare le nazioni all'interno delle sue istituzioni sovranazionali, non opponendo alcuna coordinata resistenza   allo   scoppio   della   seconda   guerra   mondiale.   Profilandosi   la   sconfitta dell'asse, le potenze alleate si interrogarono, dunque, sul come sancire la disfatta dell'ideologia nazionalsocialista agli occhi del mondo: le dimensioni dei crimini commessi e l'irrisorio impatto della corte di Lipsia, quale precedente di punizione dei criminali di guerra, hanno generato forti dubbi sulla percorribilità della via giudiziaria una volta conclusosi il conflitto. Il carattere inumano e distruttivo della guerra, che ancora una volta aveva superato le aspettative dell'intera comunità internazionale, sfidava i vincitori a costruire un sistema di sanzioni in grado di riparare ai torti causati. L'enormità delle perdite e del piano criminale messo in atto dai regimi fascisti e nazisti spinsero Stalin e Churchill in un primo momento a dichiararsi contrari a sottoporre a processo i capi nazisti e i principali responsabili dei crimini: il governo inglese propose l'esecuzione immediata di una cinquantina o di un centinaio di criminali di guerra tedeschi di alto rango come atto simbolico, d'altra parte Stalin propose di moltiplicare per mille la proposta avanzata dagli inglesi34. L'entità delle distruzioni   necessitava una risposta netta ed esemplare che sancisse il radicale rifiuto   da   parte   della   comunità   internazionale   di   venire   a   patti   con   chi   aveva generato   tali   orrori.   Lo   stesso   fronte   americano   era   diviso   rispetto   al   tipo   di

34 Cfr. G.J. Bass, Stay the Hand of Vengeance, the politics of war crime trials, Princeton University Press, 2000, p.181-182.

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soluzione   da   applicare:   se   da  una  parte  il  ministro  del   tesoro   Morghentau   era propenso per l'esecuzione sommaria di 2500 individui35, il ministro della guerra Stimson era uno strenuo sostenitore della via giudiziaria e la promuoveva, quale unica punizione che potesse essere inflitta al popolo tedesco senza incorrere nel rischio   di   animare   un   nuovo   conflitto36.   Memori   dell'effetto   avuto   dalle   rigide sanzioni che avevano indistintamente colpito tutta la popolazione tedesca a seguito della prima guerra mondiale, che ne avevano alimentato il malcontento e lo spirito di rivalsa, si optò per un approccio orientato a giudicare e punire le responsabilità individuali.  Solamente nel 1943 la linea processuale ebbe la meglio e attraverso la Dichiarazione   di   Mosca   Stalin,   Churchill   e   Roosevelt   concordarono   sul trasferimento dei criminali di guerra nei paesi in cui avevano commesso crimini per essere perseguiti penalmente:

«Il Regno Unito, gli Stati Uniti e l'Unione Sovietica dichiarano di aver ricevuto da molte parti prove di atrocità, massacri ed esecuzioni di massa a sangue freddo, che vengono perpetrati dalle forze naziste in molti dei paesi che hanno occupato e dai quali   attualmente   stanno   per   essere   inevitabilmente   cacciati.   La  brutalità  della dominazione nazista non è cosa nuova, tutti i popoli o territori da loro sottomessi hanno sofferto della peggiore forma di governo di terrore. La novità è che in molti dei   territori   che   sono   ora   in   fase   di   liberazione   con   l'avanzata   degli   eserciti   di liberazione, i nazisti nella loro disperazione stanno raddoppiando la loro spietata crudeltà. […]

In   seguito   a   questi   recenti   avvenimenti,   le   tre   potenze   Alleate,   nell'interesse   di trentadue Nazioni Unite, dichiarano solennemente quanto segue:

Al momento della concessione di qualsiasi armistizio a qualsiasi governo, che può essere istituito in Germania,  quegli ufficiali tedeschi e uomini e membri del partito

nazista   che   sono   stati   responsabili   o   hanno   preso   parte   a   qualcuna   delle   suddette atrocità, massacri ed esecuzioni saranno rinviati nei paesi dove i loro atti abominevoli sono accaduti in modo che possano essere giudicati e puniti secondo le leggi di questi paesi liberati e dai governi liberi che saranno costituiti in essi.

35 Il Piano Morgenthau prevedeva l'identificazione e l'esecuzione sommaria da parte di truppe delle Nazioni Unite dei principali ufficiali delle milizie tedesche, definiti come «arch criminals of this war whose obvious guilt has generally been recognized by the United Nation». Vd. Morgenthau Diary, vol. 1, pp. 508-9.

36 Cfr. B. F. Smith, The American Road to Nuremberg. Documentary record: 1944-1945, Hoover Inst Press, 1982.

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Stiano attenti coloro che hanno finora non insanguinato le loro mani con del sangue innocente ad unirsi alle fila dei colpevoli, le Tre Potenze Alleate li perseguiranno più che mai fino ai confini della terra per consegnarli ai loro accusatori in modo che la giustizia sia fatta. La dichiarazione di cui sopra riguarda i criminali tedeschi le quali offese non hanno una particolare localizzazione geografica e saranno puniti con decisione congiunta dei governi degli alleati»37. La discussione intorno al come giudicare chi aveva commesso crimini di guerra fu animata dal tentativo da un lato di soddisfare la volontà di rottura radicale col passato violento e dall'altro di evitare che si ripetesse l'errore di Versailles di una resa   dei   conti   totale,   evidenziando   la   necessità   di   concludere   il   conflitto   con   i presupposti per una pace duratura. Nuovamente si focalizzò l'attenzione sul dovere della   comunità   internazionale   di   farsi   promotrice   di   pace   e   stabilità   e   non   di vendetta sommaria. In nome del ritorno alla civiltà attraverso il diritto, le potenze vincitrici assunsero le redini del meccanismo sanzionatorio dotandosi di strumenti giuridici aggiornati rispetto ai nuovi crimini che la guerra aveva posto in essere. Rigettando le esecuzioni sommarie e l'arbitrarietà di una decisione unilateralmente presa da singoli governi, si gettano le fondamenta di un sistema che andasse a punire   sì   le   violazioni,   ma   sulla   base   di   una   solida   e   condivisa   legislazione internazionale. I codici esistenti, però, non erano in grado di contenere al proprio interno le atrocità del conflitto appena conclusosi, obbligando i promotori della giustizia   internazionale   a   ricorrere   alla   moralità   e   ai   principi   basilari   della convivenza   umana   per   poter   costruire   un   impianto   sanzionatorio   in   grado   di perseguire i criminali di questa nuova guerra totale. 

La razionalità e la moralità, dunque, furono dunque poste al centro, e il Diritto fu   incoronato   loro   strumento   principale   in   ferma   opposizione   all'irrazionalità rappresentata dalla brutalizzazione della guerra totale. Se la scelta di una risposta internazionale alla crisi era dettata dalla volontà di garantire lo Stato di Diritto, le difficoltà  normative  che  abbiamo  descritto  portano  al  paradosso  per  cui  la sua applicazione ha generato essa stessa delle irregolarità. I crimini contro l'umanità,

37 Estratto dalle dichiarazioni conclusive della Conferenza di Mosca dell'Ottobre 1943, Stato delle atrocità. (corsivo aggiunto)

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