Introduzione
Il Novecento è stato attraversato da conflitti di una violenza tale da spingere non solo gli studiosi di diritto, ma gli stessi governi nazionali ad interrogarsi sulle modalità attraverso cui poter contenerne la distruttività o l'occorrere stesso. Il tema del pacifismo giuridico, presente fin dalle opere di Kant, trova in questo secolo spazio per la sua ricezione da parte delle forze politiche globali trasformandosi in oggetto di discussione delle relazioni interstatali. Si è parlato, in questo senso, di un processo di giudirificazione della politica che, a partire dal termine del primo conflitto mondiale, ha condotto ad una progressiva codificazione delle norme di convivenza civile e degli stessi rapporti fra stati. La risoluzione delle controversie viene sottratta alla Politica e affidata al Diritto e la stessa gestione delle relazioni internazionali viene normata attraverso una condivisione universale di valori e principi. Assistiamo in questo secolo alla svolta teorica decisiva che condusse l'Uomo a divenire il centro nevralgico della legislazione concernente i rapporti fra Stati, limitando in nome della tutela dei Diritti Umani, il loro ricorso alla forza. Il Diritto Internazionale Umanitario, che a partire da Norimberga ebbe il sopravvento sullo ius publicum europeum, prende forma attraverso trattati, dichiarazioni e convenzioni le quali vanno a strutturare una normativa che vede nella tutela dei diritti fondamentali di ogni singolo individuo il suo nucleo originario. L'incolumità, infatti, dei singoli cittadini di tutte le nazioni era messa in dubbio dal divampare di conflitti totali, che avevano progressivamente annullato il confine fra combattenti e civili. D'altra parte, il successo della scissione dell'atomo aveva reso vulnerabile ogni cittadino del mondo. I concetti di Civiltà, Diritto e Pace si imposero in questo quadro con forza: le grandi potenze occidentali, riunitesi in organismi di coordinamento, si fecero promotrici di iniziative giuridiche (processi, corti internazionali) e politiche (trattati multilaterali, istituzioni sovranazionali) per limitare l'occorrere di conflitti e punire coloro che avevano violato quei diritti fondamentali su cui era basata la loro intesa. Contrapponendosi al processo di brutalizzazione della guerra, si impone sul piano internazionale la volontà di rispondere alla violenza attraverso la Civiltà, il nuovo ordine doveva essere fondato sul Diritto e attraverso i suoi strumenti. Dall'istituzione dei tribunali di Norimberga
e Tokyo fino a quella della Corte Penale Internazionale, l'evoluzione del Diritto Internazionale Umanitario sembrerebbe essere rappresentabile come un processo progressivo di allargamento e condivisione sempre più universale dei suoi principi.
Politica e Diritto Internazionale Umanitario, però, si confrontarono per tutto il Novecento con esiti alterni: gli interessi circostanziali delle maggiori potenze mondiali sono entrati spesso in contraddizione con questo avanzamento, congelandolo: la potenzialità d'azione del diritto internazionale è infatti strettamente vincolata alla volontà politica della comunità internazionale di supportare la propria iniziativa; basti pensare, ad esempio, al lungo periodo di stasi normativa rappresentato dalla Guerra Fredda. E' in atto, dunque, una continua tensione fra gli interessi particolari di Stati sovrani o di gruppi che rivendicano il diritto alla costituzione di una propria entità statale e la capacità della giustizia internazionale di indirizzare queste spinte in un canale di legalità e rispetto dei Diritti Umani. La mutevolezza del contesto internazionale e conseguentemente delle caratteristiche dei conflitti armati al suo interno ha portato il Diritto ad arrancare nel tentativo di sanare le proprie lacune normative: nuovi tipi di violenza, nuovi forme di conflitto, nuovi armenti e diverse strategie d'ingaggio sono solo alcuni degli ostacoli che si sono frapposti all'ideale di una pacificazione globale attraverso il diritto. Siamo di fronte, dunque, ad un processo tutt'altro che lineare che risulta essere di grande interesse per la comprensione delle dinamiche che hanno condotto alla creazione di una comunità internazionale sempre più interconnessa e al contempo regolamentata. La storia di questo processo è stata finora scritta da giuristi e filosofi del diritto i quali, necessariamente, hanno dato centralità ai momenti di avanzamento della discussione, relegando a parentesi quelle fasi storiche di stasi per il potenziamento della normativa internazionale. Si assiste poi, a partire dagli anni '90, ad un rinnovato intesse nelle scienze sociali: il crollo di dittature militari in Sud America e in Africa e la necessità per le società coinvolte di affrontare il peso delle violenze statali perpetrate negli anni di regime, nonché il moltiplicarsi di conflitti interni di natura etnica/nazionalistica ha, infatti, generato nuovi interrogativi e ispirato nuove soluzioni. Nasce, in questo contesto, il concetto di “giustizia di transizione”, termine che mira a raccogliere in sé tutte quelle pratiche
di natura giuridica, politica, economica e sociale che vengono poste in essere nel momento in cui una società affronta l'uscita da un conflitto o dal crollo di un regime.
Questo contenitore concettuale, grazie alla sua ampiezza, ha permesso alla sempre più cospicua letteratura sul tema di inglobare al suo interno fatti, politiche e teorie generatesi precedentemente e in differenti contesti risalenti fino all'Antica Grecia. Lo studio dell'evoluzione del diritto internazionale umanitario nell'età contemporanea è stato minato da questa rilettura retroattiva degli eventi, generando l'esigenza di reinserirlo all'interno di un quadro storico. Nel primo capitolo si affronterà proprio la nascita dei concetti di “transizione” e “giustizia di transizione” allo scopo di ricostruire il contesto in cui sono emersi e gli stimoli che hanno condotto alla loro definizione. Successivamente sarà possibile ripartire dal termine del primo conflitto mondiale per delineare le fasi e i momenti dirimenti della teorizzazione e codificazione del diritto internazionale nell'età contemporanea. Quali circostanze hanno reso possibile lo slittamento dalle responsabilità statali alle responsabilità individuali? In che modo il passaggio dalla guerra totale alla guerra contemporanea ha influenzato la giurisdizione del diritto internazionale? Qual'è stato il ruolo della società civile nella promozione di un allargamento del riconoscimento dei Diritti Umani?
Il secondo capitolo analizzerà nel dettaglio uno dei momenti decisivi nell'evoluzione del diritto internazionale: la creazione del Tribunale ad hoc per l'ex Jugoslavia. Come vedremo, infatti, la sua istituzione rappresenta la prima iniziativa giudiziaria promossa direttamente della comunità internazionale dopo il '45 e attraverso la stesura della sua giurisdizione si andranno a definire i principi che caratterizzeranno la Corte Penale Internazionale; in un contesto geopolitico profondamente mutato questo organo provvisorio era chiamato quindi a riattualizzare la normativa internazionale e a creare un precedente solido su cui fondare un organismo di giustizia permanente. Si darà forma, così, a quel dibattito fra Pace e Giustizia che ha caratterizzato tutti i contesti di azione della giustizia internazionale: attraverso una ricostruzione dei dibattiti e delle circostanze che hanno reso possibile l'istituzione di questo organismo si vuole restituire nel dettaglio in che modo entrano in contraddizione la giustizia internazionale e la
volontà politica delle nazioni coinvolte nel conflitto o nel tentativo di porgli fine. Verrà poi fatta una rassegna di quelle che sono state le principali critiche mosse alla creazione dell'ICTY quale strumento di pacificazione e ai suoi processi quali mezzi per riconciliare una società divisa dalla violenza. L'illustrazione dei limiti del lavoro del Tribunale Internazionale è necessaria per poi analizzare nel dettaglio quali sono state le proposte alternative portate avanti dalla società civile della regione e da quella comunità di organizzazioni non governative che era fortemente presente nel territorio a partire dallo scoppio del conflitto. La maggiore centralità acquisita dalle ONG in campo globale e il loro interesse per strumenti di giustizia alternativi a quelli giudiziari, ha condotto anche nell'exJugoslavia ad avviare un dibattito intorno a forme di restorative justice rivolte principalmente alla riconciliazione della società. Quali strumenti sono stati messi a disposizione di questa finalità da parte dei governi nazionali usciti dal conflitto? Quale ruolo ha avuto la società civile internazionale e locale nel promuoverle?
Col terzo capitolo, infine, si entra ancor più nel dettaglio analizzando uno dei processi condotti dall'ICTY, nel particolare quello contro il comandante di Srebrenica Naser Orić. L'analisi della documentazione concernente il suo caso e le scelte retoriche con cui questo processo è stato portato avanti ci permettono di mostrare in che modo la giustizia internazionale ha affrontato la ricostruzione di fatti di violenza avvenuti all'interno di un conflitto etnico quale quello che ha interessato la Bosnia a partire dal 1992. L'utilizzo diffuso della violenza, il coinvolgimento in essa di soggetti irregolari e l'ampio coinvolgimento di civili nelle operazioni ha imposto alla Corte giudicante di allargare il proprio naturale spettro di competenze per interessarsi anche al contesto che aveva reso possibili i crimini di cui era chiamata a individuare i responsabili. Scorrendo le trascrizioni del processo emergono quelli che abbiamo individuato essere i limiti di un procedimento legale, vedremo le parallele richieste della società civile della regione che ne segue gli sviluppi attraverso la stampa e il continuo confrontarsi della Corte e delle parti con le accuse di parzialità e politicizzazione.
Capitolo I 1.1 Il concetto di giustizia di transizione Si è imposta diffusamente negli ultimi decenni, prima nelle scienze sociali e sempre più anche in campo storico, la categoria di “transizione1” nel tentativo di sistematizzare attraverso un concetto comune il mutamento di regime politico che hanno conosciuto numerosi paesi a partire dagli anni '70 del Novecento. Il termine “transizione” è stato fin dal principio utilizzato in senso politicamente orientato; rientravano infatti in questa locuzione unicamente i cambiamenti politici che comportavano un passaggio da un regime di tipo dittatoriale/autocratico ad un processo di democratizzazione e liberalizzazione della società. Diretta era la connessione fra l'intraprendere un processo di transizione e il progresso, inteso fermamente con l'ingresso in ordinamenti democratici. All'interno di un contesto globale che vedeva il moltiplicarsi di crisi nazionali, dalla caduta dei regimi militari in America Latina al crollo del blocco socialista ad est, si fecero spazio studi comparatistici che posero l'accento sugli elementi comuni di queste differenti esperienze. Prese forma, così, il concetto di transition to democracy, definizione questa che accomunava tutte le società che uscivano da un regime autoritario2. All'interno delle discussioni riguardo questo fenomeno di carattere globale si inseriscono le voci di quelle organizzazioni e quegli attivisti dei diritti umani che avevano lavorato proprio nei paesi che stavano ora attraversando la transizione. Negli anni la loro azione di denuncia della violenza statale, delle violazioni dei diritti perpetrate e rimaste impunite e delle discriminazioni condotte da quegli apparati statali che ora conoscevano la loro fine li aveva resi una realtà influente nel dibattito pubblico nazionale. Fu proprio questa costellazione di organizzazioni ad affiancare al processo di transition to democracy il tema della giustizia: perseguendo il loro obiettivo di portare alla luce le violenze condotte nel recente passato, pongono come determinante in un processo di cambiamento del paese la
1 Sul concetto di transizione cfr. Nicolas Guilhot, The Transition to the Human World of Democracy: Notes for a History of the Concept of Transition, from Early Marxism to 1989 in European Journal of Social Theory, vol. 5, n. 2 2002, pp. 219-242.
2 Cfr. G. O'Donnell e P.C. Schmitter, Transition from Authoritarian Rule: Tentative Conclusion about Uncertain Democracies, Johns Hopkins University Press, Baltimore and London, 1986.
resa dei conti e la necessità di fare chiarezza su quanto avvenuto in anni di silenzio statale. Paige Arthur parla di un «international web of individuals and institutions»3 in particolare le ONG e gli attivisti dei diritti umani insieme con i professionisti del diritto e delle scienze sociali chiamato a confrontarsi con i nuovi problemi posti dalle richieste della popolazione dei vari paesi e dalla comunità internazionale nel tentativo di sistematizzarli e trovare pratiche comuni per risolverli. Quali erano i nuovi problemi a cui si fa riferimento? In Sud America4, in Sud Africa5 e nell'Est Europa6 i regimi al potere fino a quel momento avevano avuto in comune il sistematico utilizzo di una violenza statale che aveva coinvolto grosse fette della popolazione. Il silenzio in cui tali azioni venivano perseguite e l'impossibilità di ottenere informazioni riguardo propri cari scomparsi e/o assassinati rappresentava una delle più grandi ferite delle società civili che avevano subito tali violenze. Iniziato, dunque, il processo di transizione verso la democrazia non stupisce che questo abbia avuto tra le sue leve principali il desiderio di giustizia e la volontà di far emergere la verità su quanto accaduto. Le richieste di procedimenti giudiziari, riparazioni, inchieste ed epurazioni furono trasversali ai vari contesti e da ciò nacque la necessità di condividere le pratiche in atto nei singoli paesi per tentare di rispondere al meglio a questa richiesta trasnazionale di verità e giustizia. Soddisfare le richieste delle vittime delle violenze statali e la volontà di farlo individuando strumenti consoni allo sviluppo di uno spirito democratico all'interno della società diviene l'obiettivo di questi momenti di confronto. L'interscambio di pratiche ed esperienze nasce dalla consapevolezza che
3 A. Paige, How “transition” reshaped Human Rights: a conceptual history of transitional justice in Human Rights Quarterly, vol. 31, n.2, 2009, pp. 321-367.
4 Sulle transizioni in Sud America vd. R.G. Teitel, How are the New democracies of the Southern Cone dealing with the Legacy of Past Human Right Abuses? in N. Kritz, Transitional justice : how emerging democracies reckon with former regimes, United States Institute of Peace Press, Washington, D.C., 1995; C.S. Nino, The Duty to Punish Pass Abuses of Human Right Put into context: The Case of Argentina in Yale Law Journal, n.100, 1991.
5 Sulla transizione in Sud Africa vd. J. Gibson, Overcoming Apartheid: Can Truth Reconcile a Divided Nation?, Russell Sage Foundation, New York, 2003; J. Gibson and A.Gouws, Truth and Reconciliation in South Africa: Attributions of Blame and the Struggle over Apartheid, American Political Science Review, vol. 93, n.3, 1999, pp. 501-17; P. Van Zyl, Dilemmas of Transitional Justice: The Case of South Africa's Truth and Reconciliation Commission, Journal of International Affairs, vol.52, n.2, 1999, pp. 647-67.
6 Sul caso dell'Est Europa vd. N. Calhoun, Dilemmas of Justice in Eastern Europe’s Democratic
Transitions. Palgrave Macmillan, Houndmills, Basingstoke, Hampshire, 2004; A. Czarnota, Transitional Justice in Post-Communist Central Eastern Europe: Decommunisation and the Rule of Law in Critical Perspectives in Transitional Justice, N. F. Palmer, P. Clark, e D. Granville (a cura di), Intersentia, Cambridge, 2012.
ogni comunità politica e società parte da concezioni di diritto e richieste particolari. Non stupisce, di conseguenza che le soluzioni individuate come consone alla transizione in questi paesi siano state di natura locale: orientate principalmente a legittimare e a consolidare le democrazie nascenti.
Il termine giustizia di transizione è figlio di questo contesto: prima di entrare quale termine consolidato nella letteratura, il riferimento alla Justice in time of transition viene infatti utilizzato proprio all'interno delle conferenze promosse da quel circuito di organizzazioni non governative che avevano l'obiettivo di far confrontare soggetti provenienti da discipline e nazioni differenti sui temi a cui facevamo riferimento. Ad esempio leggendo gli obiettivi della conferenza dell'Aspen Institute7 del 1988 si profilano i primi tentativi di definizione del termine quale volontà di ricercare strumenti atti a rendere giustizia in contesti investiti da una transizione: «to discuss the moral, political, and jurisprudential issues that arise when a government that has engaged in gross violations of human rights is succeeded by a regime more inclined to respect those rights»8. Durante la conferenza promossa dalla fondazione Charter 77 nel 1992 il titolo stesso dei lavori è “Justice in time of transition”9. Utilizzato sporadicamente e con accezioni differenti in base a chi ne parlava, il termine assume un suo significato specifico solamente con la pubblicazione nel 1995 dei tre volumi di Kritz Transitional Justice: how emerging democracies reckon with former regimes10. I volumi
7 Il Justice and Society Program dell'Aspen Institute, con il supporto della Ford Foundation, promosse all'interno della sua conferenza annuale una discussione dal titolo: “State Crimes: Punishment or Pardon”. L'obiettivo del programma è quello di mettere insieme individui di diversa formazione «to discuss the meaning of justice and how a just society ought to balance fundamental rights with the exigencies of public policy, in order to meet contemporary social challenges and strengthen the rule of law».
8 Alice H. Henkin, Conference Report in Justice and Society Program of The Aspen Institute (a cura di), State Crimes: Punishment or Pardon, 1989.
9 La Fondazione Charter 77 nasce come movimento impegnato nella promozione della democrazia e il potenziamento della società civile in Cecoslovacchia. Negli anni ha costruito un impegno su scala globale, che l'ha condotta nel 1992 a promuovere una conferenza a Salisburgo come «opportunity to help the new leaders of post-communist Europe figure out how to address the painful legacy of their past, which threatened to undermine the democratization process, by introducing them to the transition experiences of other countries in all their legal, political and moral dimensions—and as told by political leaders and other individuals who had been directly involved in those transitions». Cit. in T. Philip, The project in Justice in time of transition, disposibile al link: http://www.beyondconflictint.org/2014/wp-content/uploads/2014/01/The-New-Humanitarians-PJTT-chapter.pdf
10 N. Kritz, Transitional justice : how emerging democracies reckon with former regimes, United States Institute of Peace Press, Washington, D.C., 1995.
rispettavano quella lente comparatistica11 che aveva caratterizzato gli studi del settore e presenta un insieme di contributi che vanno ad analizzare i vari contesti in cui si è posto il problema di “fare giustizia” a seguito della caduta di un regime. Al suo interno si sistematizzano quelli che erano stati gli strumenti individuati e discussi nelle varie conferenze che avevano avuto luogo negli anni precedenti: riparazioni, restituzioni di proprietà, commissioni di verità, epurazioni, processi, amnistie, definizione di una memoria collettiva.
Il concetto di giustizia di transizione al momento della sua definizione, dunque, assume un significato che travalica il mero riferimento alla punizione dei responsabili di violazioni del diritto internazionale. Si attesta come un vero e proprio contenitore di pratiche tenute insieme dal loro essere rivolte al consolidamento del regime democratico nascente, ma fortemente contestualizzate e quindi flessibili nella loro applicazione nei vari contesti. La pubblicazione di quest'opera collettanea ha un impatto decisivo nella diffusione del concetto di giustizia di transizione, che viene recepito in maniera quasi del tutto unilaterale dai successivi studiosi che hanno scritto di questi temi. Data l'origine del dibattito intorno a queste tematiche non stupisce vedere come sia del tutto assente la prospettiva storica nella costruzione di questa grande opera collettiva: i contributi che troviamo al suo interno, infatti, rispecchiano la partecipazione ai dibattiti contemporanei rispetto alla transizione: attivisti dei diritti umani, giuristi e scienziati politici (comparatistici) sono i principali interlocutori. Porre al centro della discussione il carattere transitorio di questi fenomeni porta infatti ad una riflessione sull'immediato che lascia in secondo piano la prospettiva di lungo periodo necessaria affinché possa essere fruttuoso un contributo di tipo storico. Il tentativo, inoltre, di collocare in un singolo contenitore fenomeni tanto differenti per contesto nazionale e panorama geopolitico di riferimento crea forti difficoltà nell'utilizzare la categoria di transizione all'interno di una ricerca che voglia mettere a fuoco le condizioni che hanno determinato il passaggio di regime
11 Tutti i volumi contengono saggi concernenti differenti nazioni, mentre il II volume è interamente dedicato alla presentazione dei casi nazionali analizzando nel particolare: Germania, Francia, Danimarca, Belgio, Italia, corea del Sud, Grecia, Portogallo, Spagna, Argentina, Uruguay, Brasile, Cile, Uganda, Cecoslovacchia, Ungheria, Bulgaria, Albania, Russia.
politico12. Il termine infatti, per come è stato utilizzato, all'interno di questi momenti di crisi politica concentra l'attenzione unicamente sulla loro capacità di creare una rottura netta col regime precedente e generare le condizioni per l'avvento di un ordinamento fondato su presupposti completamente nuovi. Focalizzandosi sui fattori di discontinuità e rottura con il passato di dittatura mette in secondo piano le continuità con esso, che rappresentano al contrario un fattore determinante nella definizione di un nuovo ordine e di cui si inizierà a discutere solamente in una seconda fase di riflessione intorno a queste tematiche.
Con l'opera di Kritz, inoltre, ha origine anche un ulteriore fenomeno che caratterizzerà l'evoluzione del concetto di giustizia di transizione all'interno della letteratura: l'utilizzo di un termine, le cui origini sono essere profondamente radicate nella contemporaneità, in riferimento ad eventi appartenenti ad un passato sempre più remoto. Partendo dalla definizione di transizione quale momento di uscita da un regime dittatoriale verso una prospettiva democratica, si guarda al passato per individuare momenti di frattura storica che possano essere anacronisticamente inseriti in tale categoria. In primo luogo si guarda alla caduta dei fascismi in Europa Occidentale e in Giappone al termine del secondo conflitto mondiale e ai conseguenti processi di democratizzazione avviatisi dal '45, per poi arrivare alle transizioni di Portogallo, Spagna e Grecia degli anni '70. Il rischio di decontestualizzare e forzare avvenimenti passati per restituire una continuità storica ad un concetto che non ne possiede è elevato: si pensi ai testi di Elter13 o Teitel14 che rispettivamente risalgono all'antica Grecia e al secondo conflitto mondiale nel tentativo dichiarato di storicizzare e individuare le origini della giustizia di transizione. L'articolo della stessa Teitel sulla genealogia del concetto15 ci aiuta a comprendere questa prospettiva e a individuarne i limiti. Partendo dal presupposto per cui l'evoluzione della giustizia di transizione è intimamente legato al contesto politico con cui si è dovuta confrontare, arriva a dividere la sua storia in tre fasi distinte: quella successiva al 1945, quella seguita alla fine della guerra
12 Per una riflessione sulla categoria di transizione applicata alla storia vd. L. Baldissara e G. Ruocco (a cura di) La democrazia: retoriche della crisi e modelli di transizione in 900. Per una storia del tempo recente, n. 14-15, 2006.
13 J. Elster, Chiudere i conti, Bologna, Il Mulino, 2008.
14 R. Teitel, Transitional Justice, Oxford University Press, Oxford, 2000.
fredda e la contemporaneità a partire dagli anni '90. In questo modo guarda alla giustizia di transizione come a qualcosa di preesistente la sua sistematizzazione e legittima la rilettura di quegli eventi secondo parametri propri ad un concetto estraneo a coloro che concretamente portarono avanti le rivendicazioni di cui si prova ad analizzare le ragioni. I movimenti di democratizzazione e le richieste di giustizia che sono seguite alla caduta dei fascismi originavano da un quadro di riferimento concettuale e politico, che proveremo a ricostruire nel prossimo paragrafo, naturalmente non assimilabile a quello presente al crollo dei regimi sudamericani. Utilizzando tale metro di giudizio, inoltre, i problemi del concetto di giustizia di transizione non si limitano al passato, ma guardano anche alle sue successive applicazioni nei contesti di transizione più recenti. I dubbi di applicabilità emergono anche in questo caso in quanto assistiamo fra gli anni '70 e gli anni '90 del Novecento ad un mutamento radicale del concetto di guerra che modifica radicalmente le richieste di giustizia delle popolazioni coinvolte. Pensando, infatti, ai casi del Rwanda e dell'exJugoslavia la violenza è pubblica, lo sterminio non è celato, ma gridato in pubblica piazza e attraverso tutti i media; non è più necessario portare alla luce la verità, ma diviene necessario stabilire quale verità sia quella più fedele ai fatti. Il carattere etnico e la presenza sempre più diffusa di gruppi paramilitari e irregolari all'interno dei conflitti moltiplica le narrazioni e i confini di legittimità: in che misura è possibile inserire questi scontri all'interno del paradigma della transizione? Quali sono i soggetti promotori di un processo democratizzante? E' la democrazia ancora l'obiettivo primario di questi movimenti che hanno portato alla rottura col regime precedente e hanno dato avvio a conflitti? Ancora una volta la complessità dei singoli casi e l'evolversi del quadro geopolitico internazionale sembra essere contenuto malvolentieri all'interno di questo paradigma. Porre sotto uno stesso ombrello interpretativo fatti avvenuti dal primo conflitto mondiale ai contemporanei scontri in medio oriente sembra sorvolare con troppa semplicità un'evoluzione radicale del diritto internazionale avvenuta dalla firma del Trattato di Versailles alla costituzione della Corte Penale Internazionale, nonché un cambiamento altrettanto deciso del concetto di guerra a partire dal quale dovrebbero nascere le richieste di giustizia. Queste ultime mutano necessariamente di contesto in contesto, assunto ciò il concetto di giustizia di
transizione può essere solamente utilizzato in senso debole: inteso come la somma di tutte quelle pratiche attivate durante un cambiamento politico per fare i conti col proprio passato. Le ragioni e i riferimenti teorici che conducono differenti nazioni e culture a scegliere alcuni di questi strumenti sono lasciate in secondo piano, dando priorità al fatto che questi vengano utilizzati. Nel paragrafo successivo si vuole indagare in prospettiva storica proprio come sono nate queste richieste di giustizia e da che cosa sono state determinate: attraverso l'analisi del rapporto fra Diritto e guerra e delle conseguenze generatesi dalle loro influenze reciproche, proveremo a ricostruire i momenti salienti e il retroterra culturale che hanno condotto ad una sempre più accentuata centralità del tema della giustizia nelle relazioni internazionali, tentando di ancorare in questo modo i vari passaggi di regime politico e la nascita del concetto di giustizia di transizione nel loro contesto storico di appartenenza. Lasceremo, di conseguenza, alle conclusioni del lavoro un giudizio complessivo sulla pregnanza e l'utilità del riferimento alla giustizia di transizione quale chiave di lettura degli eventi che hanno attraversato l'ultimo secolo. 1.2 Diritto internazionale umanitario e giustizia di transizione Nell'ultimo secolo, in un contesto globale sempre più interconnesso, le società nazionali e la comunità internazionale si sono dovute confrontare con conflitti di natura sempre più distruttiva, dovendo affrontare di conseguenza il problema di come e attraverso quali strumenti contenere le violenze all'interno degli scontri armati e di come limitarne allo stesso tempo il numero. Per tutto il '900 si assiste ad una progressiva codificazione dei rapporti interstatali e dei momenti di conflitto, nel tentativo di limitare prima ed eliminare poi dal panorama internazionale la guerra in nome della tutela, sempre più centrale, dei diritti di ogni singolo individuo. Si palesa, così, lo stretto legame esistente fra l'evoluzione del Diritto Internazionale in senso umanitario e quella del concetto di guerra. La volontà di creare un sistema di valori universalmente garantiti va di pari passo con l'ambizione di sostituire agli interessi particolaristici della giustizia nazionale, una giustizia internazionale che avesse l'ideale del “pacifismo giuridico” quale riferimento teorico. La pace globale diviene il fine ultimo e il principio ispiratore
dei rapporti interstatali. L'impianto fortemente ideale di tale obiettivo non è sfuggito a critiche da parte di quella corrente teorica, definita poi come “realista”, la quale riportava l'attenzione sull'inalienabilità della volontà statale quale principio regolatore dell'ordine mondiale e sull'impossibilità, di conseguenza, di abolire uno dei suoi strumenti fondamentali: l'utilizzo della forza. Nel concreto, infatti, questa prospettiva universalistica era ostacolata dalla supremazia esercitata dalle super potenze globali sul resto del mondo, la quale rendeva ogni ideale ugualitario in termini internazionali un esercizio retorico nella pratica. Proviamo ad analizzare, nel contesto in cui sono emerse, l'evoluzione di queste posizioni ricostruendone l'effettiva traduzione in provvedimenti e istituzioni.
Il 1945 è universalmente riconosciuto come uno dei momenti decisivi di svolta nella teorizzazione di un diritto internazionale umanitario grazie alle discussioni intorno alla creazione dei tribunali internazionali di Norimberga e Tokyo e alla costituzione delle Nazioni Unite quale organo sovranazionale con ambizioni universalistiche. In molti nella letteratura hanno rivolto indietro lo sguardo, però, al termine del primo conflitto mondiale individuato sempre più quale un precedente fallimentare, ma centrale, per l'evoluzione di questo percorso teorico. Nel momento in cui gli Alleati, a partire dai negoziati di pace, palesarono la volontà di intensificare il sistema di giudizio delle responsabilità per i crimini di guerra, si andavano costruendo le premesse di quello scontro fra giustizia nazionale e giustizia internazionale che attraverserà tutto il secolo. Conclusasi la Grande Guerra, le nazioni uscite vincitrici dovettero confrontarsi per la prima volta con un conflitto di natura totale, che in termini di uomini e nazioni coinvolte e rispettive perdite non aveva precedenti nella storia. Già nel 1919 una commissione speciale fu incaricata di individuare strumenti adeguati per sanzionare le terribili atrocità commesse durante il conflitto. Si fece allora spazio la proposta di fondazione di una high court chiamata a giudicare intorno ai «barbarous or illegitimate methods in violation of the established laws and customs of war and the elementary laws of humanity»16, la quale avrebbe dovuto fondare la sua giurisdizione sulla base della legislazione allora vigente: principalmente la Convezione di Ginevra del 1864 e le
16 Report on the Responsibility of the Authors of the War and on Enforcement of Penalties to the Preliminary Peace Conference, 29 Marzo 1919.
Convenzioni dell'Aja del 1899 e 1907. Le potenze vincitrici si trovarono in accordo nella volontà di non lasciare impunite le efferatezze commesse dall'esercito tedesco, la cui inumanità è stata ampiamente riportata nei numerosi report stilati dalle commissioni d'inchiesta create dalle singole nazioni per dimostrare l'entità della distruzione sul proprio territorio con la speranza di ottenere consone riparazioni.
Le potenze vincitrici avevano basato la condanna degli orrori della guerra sull'immoralità e l'inumanità della stessa, di conseguenza l'azione punitiva rivolta a coloro che si erano macchiati di tali crimini avrebbero dovuto necessariamente distanziarsi da questi atti di violenza. Si fa spazio così una retorica della legittimità, che ritroveremo ampiamente sviluppata dopo il secondo conflitto mondiale, la quale vede la comunità internazionale farsi promotrice di un sistema di sanzioni giusto in nome della superiorità morale delle sue finalità. Le forze alleate divengono così depositarie del diritto: Sir Frederick E. Smith, Attorney General britannico, nel 1918 parla, ad esempio, dell'utilizzo di un tribunale internazionale come di un «high exercise of executive»17, ribadendo come «conquering force submitting itself to the judgment of history»18 senza cedere a sentimenti di vendetta.
Fu durante le trattative per la firma del Trattato di pace a Versailles che la questione della responsabilità nei confronti di un simile abominio emerse con forza: in particolare Francia e Inghilterra si fecero portatrici dell'istanza di non lasciare impunito colui che aveva dato avvio alla guerra e coloro che si erano macchiati dei più efferati crimini; motivati dal numero di perdite subite sul territorio e dall'opinione pubblica interna che fece pressione sui rispettivi governi affinché venisse fatta giustizia per i caduti e affinché ci fosse una condanna esemplare di quanto accaduto19. L'immagine di Guglielmo II in esilio, nel lusso della sua condizione di rifugiato, non rendeva giustizia ai milioni di morti e alla distruzione globale di cui egli, in quanto Imperatore della nazione che ha avviato il primo conflitto di natura mondiale, era responsabile. La legislazione del diritto delle genti aveva a sua disposizione delle basi sulle quali costruire una condanna: le
17 CAB 23/43, Imperial War Cabinet 39, 28 November 1918, pp. 3-4. 18 Ibidem.
19 Sulle posizioni dei governi e dell'opinione pubblica di Francia e Inghilterra riguardo la punizione dei criminali di guerra cfr. Bass p.80 e p.88.
Convenzioni dell'Aja contenevano, infatti, il principio della responsabilità di comando, imputatazione necessaria per condannare l'imperatore. In base all'art.3 egli era infatti responsabile di «tutti gli atti commessi da persone che fanno parte delle sue forze armate»20 non conformi alla legislazione vigente. Ciò che mancherà nelle trattative per sostenere una traduzione effettiva di queste norme in sanzioni fu il sostegno politico degli Stati coinvolti. Nel Trattato di Sèvres la proposta di condannare l'Impero Ottomano per crimini contro i propri cittadini venne surclassata e nel Trattato di Losanna venne sostituita con una dichiarazione di amnistia. Solamente nel Trattato di Versailles il principio trovò spazio, grazie proprio all'insistenza di Francia e Inghilterra. Negli articoli 227, 228, 22921 fu inserita, infatti, la chiamata in giudizio del kaiser tedesco Guglielmo II, accusato di essere responsabile di offese alla moralità internazionale e di aver violato quanto sancito dai trattati vigenti. Per la prima volta nella storia l'aggressione ad uno Stato veniva considerata in sé un crimine, scardinando il principio per cui il diritto di guerra sanzionava unicamente la condotta in bello. Se infatti gli art. 228229 miravano a condannare coloro che avevano commesso violazioni delle leggi e dei costumi di guerra in senso classico, l'assoluta novità si trova nella condanna della guerra quale strumento legittimo di confronto fra stati. Porre sotto accusa il kaiser
20 Art. 3 Convenzione dell'Aja concernente le leggi e gli usi della guerra per terra, 1907.
21 Art. 227 «The Allied and Associeted Powers publicly arraign William II of Hohenzollern, formerly German Emperor, for a supreme offence against international morality and the sancity of treaties. A special tribunal will be costituted to try the accused, thereby assuring him the guarantees essential to the right of defence. It will be composed by five judges, one appointed by each of the following Powers: namely, the United States of America, Great Britain, France, Italy and Japan. In its decision the Tribunal will be guided by the highest motives of international policy, with a view to vindicating the solemn obligations of international undertakings and validity of international morality. It will be its duty to fix the punishment which it considers should be imposed. The Allied and Associeted Powers will address a request to the Government of the Netherlands for the surrender to them of the ex Emperor in order that he may be put on trial».
Art. 228 The German Government recognises the right of the Allied and Associated Powers to bring before military tribunals persons accused of having committed acts in violation of the laws and customs of war. Such persons shall, if found guilty, be sentenced to punishments laid down by law. This provision will apply notwithstanding any proceedings or prosecution before a tribunal in Germany or in the territory of her allies.
The German Government shall hand over to the Allied and Associated Powers, or to such one of them as shall so request, all persons accused of having committed an act in violation of the laws and customs of war, who are specified either by name or by the rank, office or employment which they held under the German authorities.
Art. 229: Persons guilty of criminal acts against the nationals of one of the Allied and Associated Powers will be brought before the military tribunals of that Power.
Persons guilty of criminal acts against the nationals of more than one of the Allied and Associated Powers will be brought before military tribunals composed of members of the military tribunals of the Powers concerned.
per «supreme offence against international morality» si traduce nel dare priorità al carattere morale e di necessità di una sentenza per la quale non esisteva fino a quel momento una normativa di riferimento: lunga sarà infatti la strada per arrivare alla codificazione del crimine d'aggressione22. Sancire, però, la responsabilità diretta delle massime autorità statali rappresentava il pilastro teorico su cui poggeranno i tentativi di incriminazione futuri, nonché il tentativo di mettere in campo un deterrente verso l'utilizzo della guerra come strumento di risoluzione di affari politici. Se ai governanti non è più garantita l'impunità, condurre la propria nazione in guerra significava assumersi un rischio personale.
La novità, però, introdotta dall'art. 227 del trattato non poté trovare applicazione in quanto l'Olanda, dove il kaiser trovò rifugio, rifiutò il sostegno diplomatico alla decisione di processarlo e si rifiutò di estradarlo per poter prender parte al processo; allo stesso tempo la Germania si avvalse di un escamotage giuridico, rifacendosi al fatto che il proprio codice penale nazionale non contemplava la consegna di cittadini a paesi nemici per la loro messa a giudizio. Si palesava, così, l'inapplicabilità dei contenuti del trattato rispetto ad un sistema di governo europeo ancora incardinato attorno allo ius publicum europaeum e la supremazia del diritto statale. Lo stesso tentativo tedesco di processare i responsabili di crimini di guerra, all'interno dei confini nazionali attraverso la Corte Suprema dell'Impero a Lipsia23, non ottenne che esigue sentenze, infine non applicate, di un numero fortemente limitato di accusati: gli alleati fornirono al governo tedesco un elenco di 896 nominativi di presunti criminali di guerra, redatto dalla Commission on the Responsibilities of the Authors of the War and on Enforcement of Penalties, chiedendone la loro estradizione per dare luogo a processi. Il rifiuto dell'estradizione, sempre fondato su quanto sancito dal codice penale nazionale, condusse all'istituzione di un tribunale militare nazionale a Lipsia. Operativo fra il Maggio e il Giugno del 1921 si fece carico di soli 45 dei casi indicati
22 Cfr. F. Pietropaoli, Definire il male. La guerra di aggressione e il diritto internazionale, Jura gentium, 2001, disponibile al link: http://www.juragentium.org/topics/wlgo/cortona/it/pietropa.htm#*.
23 Sulla creazione e sulla rilettura critica dei processi di Lipsia vd. C. Mullins, The Leipizig Trials: An Account of the War Criminals’ Trials and a Study of German Mentality, London, Witherby, 1921; J. Willis. Prologue to Nuremberg: The Politics and Diplomacy of Punishing War Criminals of the First World War, Greenwood, 1982; G.J. Bass, Stay the hand of vengeance, the politics of war crime trials, Princeton University Press, 2000, pp. 58-105.
dalla commissione, i quali si tramutarono in 16 imputazioni. Al termine dei suoi lavori il tribunale aveva formulato sei sentenze, le quali comunque non conobbero mai un'applicazione effettiva24. Risulta, di conseguenza, palese il fallimento delle misure di giustizia effettivamente promosse a seguito della Prima Guerra Mondiale, ma il dibattito teorico che ha portato alla loro definizione ha posto le basi affinché si affermassero due principi fondanti per i successivi sviluppi del diritto internazionale umanitario: il principio di responsabilità di comando per i crimini di guerra e il porre il rispetto della legislazione vigente e delle norme “di civiltà” quale elemento di discussione negli affari internazionali. L'affrontare durante le negoziazioni di pace e gli incontri interstatali questioni di legittimità dell'intervento militare e delle responsabilità avute in guerra rappresentava un primo tentativo di limitare la discrezionalità nell'uso della forza da parte delle nazioni.
Nelle premesse al Trattato di Versailles trova spazio, insieme alla volontà di sanzionare la guerra di carattere aggressivo, la presa d'atto della necessità da parte della comunità internazionale di ergersi a responsabile del mantenimento dell'ordine globale attraverso l'imposizione del rispetto del diritto internazionale di cui è depositaria: «THE HIGH CONTRACTING PARTIES, In order to promote international cooperation and to achieve international peace and security by the acceptance of obligations not to resort to war by the prescription of open, just and honourable relations between nations by the firm establishment of the understandings of international law as the actual rule of conduct among Governments, and by the maintenance of justice and a scrupulous respect for all treaty obligations in the dealings of organised peoples with one another Agree to this Covenant of the League of Nations»25.
Con la definizione della Carta della Lega delle Nazioni si stabilirono le modalità attraverso cui la comunità internazionale è chiamata a mantenere la pace e la sicurezza globale. Ancora una volta emergono i limiti di un principio che mira ad essere universalistico, ma che è ancora schiacciato sulla volontà delle potenze che lo promuovono: al suo interno, infatti, il concetto di aggressione viene legato a
24 Cfr. M.C.Bassiouni, Crimes Against Humanity in International Criminal Law, Dordrech, Nijhof, 1992. 25 Trattato di Versailles, 28 Giugno 1919, Parte I, The covenant of the League of Nation.
quello di integrità territoriale26, incarnando la garanzia armata dello status quo definito nel Trattato di Versailles. L'ordine globale si tramutava nella sanzione dei confini territoriali emersi da un conflitto. La centralità di giudizio e di volontà di potenza delle singole nazioni emerge negli anni successivi al conflitto dalla volontà di Francia e Usa di sottoscrivere un accordo bilaterale, il patto BriandKellog, aperto poi alla sottoscrizione da parte di altre nazioni, pensato per creare una rete di protezione internazionale contro ogni tentativo di rivalsa della Germania. Quest'ultimo lasciava completamente da parte la Società delle Nazioni per riportare il tema del ripudio della guerra da un piano ideale a quello tattico tramite un accordo fra Stati sovrani. Al suo interno, infatti, ritroviamo un'esplicita dichiarazione in linea coi principi della Lega, ma si ritiene necessario per renderla efficace ricorrere a strumenti classici dei rapporti interstatali. I firmatari «persuasi che è venuto il momento di compiere un atto di aperta rinunzia alla guerra in quanto strumento di politica nazionale, affinché possano essere perpetuate le relazioni pacifiche ed amichevoli esistenti presentemente tra i loro popoli» ribadirono all'articolo 1 che: «Le alte parti contraenti dichiarano solennemente in nome dei loro popoli rispettivi di condannare il ricorso alla guerra per la risoluzione delle divergenze internazionali e di rinunziare a usarne come strumento di politica nazionale nelle loro relazioni reciproche»27. La fondazione della Società delle Nazioni e l'abbandono della dottrina Monroe da parte degli Stati Uniti rappresentano gli eventi di rottura nella storia dell'evoluzione del diritto internazionale, che conducono alla fine della centralità politica e giuridica europea, verso una concezione universalistica della gestione dell'ordine globale. La linea di demarcazione con il passato è stata dunque tracciata sulle basi di un nascente diritto internazionale che alla discrezionalità dei passati regimi contrappone, nei suoi intenti, la trasparenza di principi condivisi e la messa a giudizio di chiunque li violi. Sono infatti gli individui e non più gli stati nazionali
26 Art. 10, Statuto Società delle Nazioni, «I Membri della Società si impegnano a rispettare, e a proteggere contro ogni aggressione esterna, l'integrità territoriale e l'attuale indipendenza politica di tutti i Membri della Società. In caso di aggressione, minaccia o pericolo di aggressione, il Consiglio avviserà ai modi nei quali quest'obbligo dovrà essere adempito».
a divenire i soggetti di riferimento della legislazione internazionale: la responsabilità giuridica in questo senso non è più delimitata da confini nazionali, né temporali e di conseguenza ai capi di stato e ai governi non è più possibile difendere la propria condotta e sfuggire alle proprie responsabilità in nome del principio della sovranità nazionale.
Il dibattito teorico fra le due guerre intorno al principio del pacifismo giuridico e i suoi strumenti.
Già, dunque, a partire dal termine del primo conflitto mondiale la comunità internazionale si interroga su quei concetti di legittimità e necessità di condanna che caratterizzeranno tutto il secolo. Il contenuto delle premesse del Trattato di Versailles e del Patto di BriandKellog è un esempio lampante di quanto la riflessione in campo internazionale sia connessa alla corrente di pensiero legata all'idea del “pacifismo giuridico”. Il dibattito intorno al ruolo della comunità internazionale nella creazione e condivisione di un sistema di diritto universale ha coinvolto al suo interno pensatori del diritto che si rifacevano proprio all'idea kantiana della necessità di creare i presupposti per una pace perpetua in ambito globale28. L'obiettivo della tutela dell'ordine globale e di conseguenza dell'umanità poteva essere raggiunto solamente tramite una risoluzione delle controversie che superasse la barbarie della guerra. L'eliminazione dell'utilizzo della forza quale strumento risolutore delle controversie divenne una sorta di jus cogens. Il diritto dei popoli, antesignano del diritto internazionale, viene così declinato secondo un orientamento pacifista: «il diritto alla guerra, il diritto nella guerra e il diritto di costringersi reciprocamente ad uscire da questo stato, e quindi il compito di stabilire una costituzione che fondi una pace duratura, vale a dire, il diritto dopo la guerra»29. Si procede teoricamente da un Diritto con al centro lo Stato ad un Diritto che parte dall'Uomo: se il diritto statale è necessariamente legato alla guerra quale strumento di applicazione della forza di uno stato sull'altro, la pace garantisce una
28 Cfr. I. Kant, Per la pace perpetua. Un progetto filosofico di Immanuel Kant in Scritti di storia, politica e diritto, Laterza, Roma – Bari, 1995.
maggiore tutela ed è legata alla realtà morale dell'uomo.
L'evoluzione del diritto internazionale nel ventesimo secolo ha seguito tali dettami ed è stata caratterizzata dal ripetuto tentativo di slegare il nesso esistente tra sovranità statale e utilizzo della forza: jus ad bellum. La chiave per arrivare a tale scopo era l'accettazione da parte di tutti gli stati nazionali di una legislazione internazionale condivisa, posta al di sopra dei loro singoli interessi: il primato del diritto internazionale si traduce per Kelsen nell'inclusione degli stessi ordinamenti statali al suo interno. In quanto ordinamento giuridico originario e universale, nonché sovraordinato, il diritto internazionale deve essere accolto in toto nelle legislazioni nazionali. A partire dall'unità d'intenti, diviene necessario per le singole entità statali trovare una forma di coalizione globale che abbia quale obiettivo quello di una mutua protezione in nome della pace: in questo senso iniziano a profilarsi le prospettive di federazioni fra stati, uniti dallo spirito democratico e dai suoi fondamenti morali. Siamo di fronte ad un modello individualistico, che guarda all'uomo quale suo principale destinatario e insieme universalistico in quanto attraverso la tutela del singolo si tutela l'umanità intera. Per costruire una società morale e civilizzata è necessario “detronizzare” lo stato, privato di uno dei principi fondanti della sovranità, il monopolio della forza: la guerra condotta da un singolo stato diviene crimine d'aggressione e in quanto tale è considerata "crimine internazionale supremo".
Per far rispettare un ordine e un sistema di valori ritenuto universalmente condiviso emergeva la necessità di creare strutture di coordinamento e mutua protezione fra Stati più incisive del fallimentare esperimento della Società delle Nazioni. In questo senso si inserisce il contributo teorico di Kelsen, il quale si fece portavoce dell'ideale dell'unitarietà del diritto. In particolare teorizza come la legislazione internazionale non debba essere distinta e non possa essere in contraddizione con quella statale, ma deve configurarsi come una normativa di ordine superiore e quindi fondante il diritto interno dei singoli Stati. Il diritto e la norma divengono sovrane e la guida e la sovranità di uno stato è garantita unicamente dalla sovranità della norma che lo regge. Nel suo testo “La pace attraverso il diritto”30, Kelsen dà forma al suo progetto di ordine globale indicando
lo Stato federale mondiale quale soggetto promotore e a tutela dell'ordinamento giuridico internazionale31.
Le grandi sfide imposte dalla contemporaneità a questi pensatori conducono ad una riflessione in fieri estremamente calata nel tempo presente: cosciente della difficile traduzione pratica del suo ideale di federazione globale e dovendo confrontarsi con la necessità attuale di proposte, teorizza una soluzione intermedia di transizione che permetta gradualmente all'obiettivo. i sentimenti nazionalistici e le differenze esistenti fra i vari paesi. Avvicinandosi la fine del secondo conflitto mondiale, Kelsen scrive nel '44, teorizza la creazione di una organizzazione mondiale creata allo scopo di mantenere la pace: “La lega permanente per il mantenimento della pace” è pensata come una federazione di stati che pone al centro delle sue competenze quello di fondare una Corte di Giustizia internazionale in grado di assolvere in sé la competenza di discutere le controversie fra Stati sottraendo così tale compito alla politica e, secondo l'interpretazione di Kelsen, alla guerra. In caso di conflitti o violazioni delle norme internazionali la Corte sarà chiamata a giudicare i singoli individui ritenuti responsabili dei crimini e per fare ciò, gli Stati saranno obbligati a consegnare i propri cittadini al giudizio della stessa. Il fallimento, infatti, della Lega delle Nazioni sarebbe stato causato, secondo la lettura di Kelsen, dalla centralità data non alla funzione giuridica, ma a quella politica dell'istituzione internazionale. La priorità in contesti di guerra totale diveniva quella di assicurare giustizia e costruire strumenti in grado di dissuadere l'incorrere di un nuovo conflitto. Per raggiungere tale scopo, la sua idea di pacifismo giuridico non esclude fra i suoi strumenti d'intervento la guerra intesa come “guerra giusta” o sanzione rivolta alla tutela di una pace stabile e universale basata su principi universalmente condivisi32. Proprio da tale definizione hanno avuto origine le maggiori critiche nei confronti dell'ideale universalistico proposto da Kelsen. Schmitt, principale interlocutore di questo dibattito, interpretando questa ridefinizione della guerra come una semplice giustificazione sotto spoglie legali da parte delle grandi potenze mondiali per
31 L'approdo a questo strumento sarebbe stato preceduto da fasi di transizioni intermedie caratterizzate dalla creazione di unioni strumentali alla pace fra singoli o più stati.
32 Per un approfondimento delle posizioni vd. H. Kelsen, Peace through Law, Univeristy of North Carolina Press, Chapel Hill, 1994. Per un approccio critico a queste posizioni vd. D. Zolo, Il globalismo giuridico in Jura Gentium, 2008.
riaffermare il proprio diritto ad eliminare l'avversario. Paradossalmente, infatti, attraverso la guerra giusta si va a creare una dicotomia buono/cattivo che permette di giustificare la volontà di annientamento di un gruppo di Stati aggrappandosi a principi morali. Schmitt vede nel tentativo di arrogare a sé il concetto di umanità, monopolizzandolo, il rischio di giungere alla «terribile pretesa che al nemico va tolta la qualità di uomo, che esso dev'essere dichiarato horslaloi e horsl'humanité e quindi che la guerra dev'essere portata fino all'estrema inumanità»33. Attraverso questa operazione si andrebbero paradossalmente ad eliminare quelle limitazioni politiche proprie dei conflitti quali ad esempio la possibilità di dichiarare la propria neutralità nel momento in cui non si vuole intervenire direttamente in uno scontro tra nazioni. Siamo di fronte, secondo Schmitt, a un semplice mascheramento degli interessi di Stati Nazionali, che devia da quella dicotomia amico/nemico che deve rimanere al centro delle relazioni interstatali: ritenuta illegittima ogni connotazione morale dello scontro, la guerra rimane uno strumento politico insostituibile di gestione degli intessi statali non criminalizzabile in sé. Schmitt insiste sulla legittimità dello strumento della guerra, ma al contempo sulla parallela necessità per il diritto internazionale di continuare a codificarne i limiti. Eliminare la guerra dalle discussioni e dalle produzioni normative, ma non nella pratica, la guerra conduce ad una rinuncia unicamente teorica della stessa, ma che in termini concreti si traduce in una liberalizzazione dei suoi mezzi. Se la guerra è giusta o criminale unicamente in base alla fazione di appartenenza, gli strumenti che vengono utilizzati durante questo scontro morale passano in secondo piano. D'altra parte i tentativi di federalismo e di aggregazione di stati concretizzatesi attraverso la fondazione della Società delle Nazioni che avrebbero dovuto farsi promotori di questa guerra giusta erano fortemente limitati e allo stesso tempo, a suo avviso, limitata era la loro legittimità di arrogarsi il diritto di perseguire gli interessi di una globalità che ne trascendeva i confini. Di conseguenza viene meno, a suo avviso, la legittimazione di un diritto globale basato sulla condivisione di principi. Cadeva, dunque, in base a questa lettura del presente la possibilità di perseguire
33 C. Schmitt, Il concetto di 'politico', in C. Schmitt, Le categorie del 'politico', Il Mulino, Bologna, 1972, p. 139.
legittimamente il crimine d'aggressione: quest'ultimo infatti implicava la distinzione fra stati legittimati ad utilizzare la forza e non.
Dai tribunali di Norimberga e Tokyo alle Nazioni Unite.
La debolezza e gli evidenti limiti dei tentativi di applicazione della giustizia internazionale a seguito della Grande Guerra hanno avuto un forte peso nelle prime fasi di contrattazione al termine del secondo conflitto mondiale. Il sistema di Versailles e della Lega delle Nazioni non aveva reso giustizia alle popolazioni colpite dal conflitto precedente e non era stato in grado di far dialogare le nazioni all'interno delle sue istituzioni sovranazionali, non opponendo alcuna coordinata resistenza allo scoppio della seconda guerra mondiale. Profilandosi la sconfitta dell'asse, le potenze alleate si interrogarono, dunque, sul come sancire la disfatta dell'ideologia nazionalsocialista agli occhi del mondo: le dimensioni dei crimini commessi e l'irrisorio impatto della corte di Lipsia, quale precedente di punizione dei criminali di guerra, hanno generato forti dubbi sulla percorribilità della via giudiziaria una volta conclusosi il conflitto. Il carattere inumano e distruttivo della guerra, che ancora una volta aveva superato le aspettative dell'intera comunità internazionale, sfidava i vincitori a costruire un sistema di sanzioni in grado di riparare ai torti causati. L'enormità delle perdite e del piano criminale messo in atto dai regimi fascisti e nazisti spinsero Stalin e Churchill in un primo momento a dichiararsi contrari a sottoporre a processo i capi nazisti e i principali responsabili dei crimini: il governo inglese propose l'esecuzione immediata di una cinquantina o di un centinaio di criminali di guerra tedeschi di alto rango come atto simbolico, d'altra parte Stalin propose di moltiplicare per mille la proposta avanzata dagli inglesi34. L'entità delle distruzioni necessitava una risposta netta ed esemplare che sancisse il radicale rifiuto da parte della comunità internazionale di venire a patti con chi aveva generato tali orrori. Lo stesso fronte americano era diviso rispetto al tipo di
34 Cfr. G.J. Bass, Stay the Hand of Vengeance, the politics of war crime trials, Princeton University Press, 2000, p.181-182.
soluzione da applicare: se da una parte il ministro del tesoro Morghentau era propenso per l'esecuzione sommaria di 2500 individui35, il ministro della guerra Stimson era uno strenuo sostenitore della via giudiziaria e la promuoveva, quale unica punizione che potesse essere inflitta al popolo tedesco senza incorrere nel rischio di animare un nuovo conflitto36. Memori dell'effetto avuto dalle rigide sanzioni che avevano indistintamente colpito tutta la popolazione tedesca a seguito della prima guerra mondiale, che ne avevano alimentato il malcontento e lo spirito di rivalsa, si optò per un approccio orientato a giudicare e punire le responsabilità individuali. Solamente nel 1943 la linea processuale ebbe la meglio e attraverso la Dichiarazione di Mosca Stalin, Churchill e Roosevelt concordarono sul trasferimento dei criminali di guerra nei paesi in cui avevano commesso crimini per essere perseguiti penalmente:
«Il Regno Unito, gli Stati Uniti e l'Unione Sovietica dichiarano di aver ricevuto da molte parti prove di atrocità, massacri ed esecuzioni di massa a sangue freddo, che vengono perpetrati dalle forze naziste in molti dei paesi che hanno occupato e dai quali attualmente stanno per essere inevitabilmente cacciati. La brutalità della dominazione nazista non è cosa nuova, tutti i popoli o territori da loro sottomessi hanno sofferto della peggiore forma di governo di terrore. La novità è che in molti dei territori che sono ora in fase di liberazione con l'avanzata degli eserciti di liberazione, i nazisti nella loro disperazione stanno raddoppiando la loro spietata crudeltà. […]
In seguito a questi recenti avvenimenti, le tre potenze Alleate, nell'interesse di trentadue Nazioni Unite, dichiarano solennemente quanto segue:
Al momento della concessione di qualsiasi armistizio a qualsiasi governo, che può essere istituito in Germania, quegli ufficiali tedeschi e uomini e membri del partito
nazista che sono stati responsabili o hanno preso parte a qualcuna delle suddette atrocità, massacri ed esecuzioni saranno rinviati nei paesi dove i loro atti abominevoli sono accaduti in modo che possano essere giudicati e puniti secondo le leggi di questi paesi liberati e dai governi liberi che saranno costituiti in essi.
35 Il Piano Morgenthau prevedeva l'identificazione e l'esecuzione sommaria da parte di truppe delle Nazioni Unite dei principali ufficiali delle milizie tedesche, definiti come «arch criminals of this war whose obvious guilt has generally been recognized by the United Nation». Vd. Morgenthau Diary, vol. 1, pp. 508-9.
36 Cfr. B. F. Smith, The American Road to Nuremberg. Documentary record: 1944-1945, Hoover Inst Press, 1982.
Stiano attenti coloro che hanno finora non insanguinato le loro mani con del sangue innocente ad unirsi alle fila dei colpevoli, le Tre Potenze Alleate li perseguiranno più che mai fino ai confini della terra per consegnarli ai loro accusatori in modo che la giustizia sia fatta. La dichiarazione di cui sopra riguarda i criminali tedeschi le quali offese non hanno una particolare localizzazione geografica e saranno puniti con decisione congiunta dei governi degli alleati»37. La discussione intorno al come giudicare chi aveva commesso crimini di guerra fu animata dal tentativo da un lato di soddisfare la volontà di rottura radicale col passato violento e dall'altro di evitare che si ripetesse l'errore di Versailles di una resa dei conti totale, evidenziando la necessità di concludere il conflitto con i presupposti per una pace duratura. Nuovamente si focalizzò l'attenzione sul dovere della comunità internazionale di farsi promotrice di pace e stabilità e non di vendetta sommaria. In nome del ritorno alla civiltà attraverso il diritto, le potenze vincitrici assunsero le redini del meccanismo sanzionatorio dotandosi di strumenti giuridici aggiornati rispetto ai nuovi crimini che la guerra aveva posto in essere. Rigettando le esecuzioni sommarie e l'arbitrarietà di una decisione unilateralmente presa da singoli governi, si gettano le fondamenta di un sistema che andasse a punire sì le violazioni, ma sulla base di una solida e condivisa legislazione internazionale. I codici esistenti, però, non erano in grado di contenere al proprio interno le atrocità del conflitto appena conclusosi, obbligando i promotori della giustizia internazionale a ricorrere alla moralità e ai principi basilari della convivenza umana per poter costruire un impianto sanzionatorio in grado di perseguire i criminali di questa nuova guerra totale.
La razionalità e la moralità, dunque, furono dunque poste al centro, e il Diritto fu incoronato loro strumento principale in ferma opposizione all'irrazionalità rappresentata dalla brutalizzazione della guerra totale. Se la scelta di una risposta internazionale alla crisi era dettata dalla volontà di garantire lo Stato di Diritto, le difficoltà normative che abbiamo descritto portano al paradosso per cui la sua applicazione ha generato essa stessa delle irregolarità. I crimini contro l'umanità,
37 Estratto dalle dichiarazioni conclusive della Conferenza di Mosca dell'Ottobre 1943, Stato delle atrocità. (corsivo aggiunto)