In questo capitolo ci apprestiamo ad analizzare nel dettaglio uno dei processi svoltosi sotto la giurisdizione dell'ICTY, allo scopo di indagare in che modo i principi e le finalità espresse nello Statuto del Tribunale e dai vari soggetti internazionali che ne hanno promosso la creazione abbiano trovato traduzione nel suo operato. Nel particolare è stato scelto il caso IT0368, che vede come imputato il comandante della Difesa Territoriale di Srebrenica, Naser Orić. La scelta è ricaduta su questo processo in quanto si tratta di un caso che ha generato dibattito sia sul piano pubblico regionale, a causa della rilevanza della figura di Orić, considerato dalla comunità bosniacamusulmana come uno degli eroi della resistenza contro l'aggressione serba; sia in campo internazionale, ponendo questioni dirimenti per chi guardava al tribunale ad hoc quale banco di prova delle potenzialità della giustizia di transizione. Processare, infatti, un simbolo della resistenza della fazione considerata dalla comunità internazionale come la principale vittima del conflitto, riguardo i fatti avvenuti nella città divenuta anch'essa il simbolo della sofferenza bosniacomusulmana, adducendo come prove testimonianze e documentazione di incerta validità, ha portato molti osservatori a vedere in questa chiamata alla sbarra una mossa politica del Tribunale Internazionale. Per capire le ragioni che hanno condotto alla messa sotto accusa e alla definizione dell'indictment contro l'imputato, è necessario chiarire cosa è avvenuto nella zona all'interno dell'arco temporale interessato dall'impianto accusatorio.
Orić nasce il 3 Marzo 1967 a Potočari, nella municipalità di Srebrenica. Come sancito dalla legislazione vigente, svolge il suo servizio militare obbligatorio, all'interno del quale viene assegnato ad un'unità speciale per la difesa atomica e chimica prima di iniziare, a partire dal 1988, il percorso per divenire poliziotto. Durante il suo addestramento viene inserito in un'unità rispondente direttamente al Ministro dell'Interno Serbo a Belgrado, per poi essere dislocato in Kosovo nel
1990. Una volta tornato in BiH fornisce servizio a Ilidža, nei dintorni di Sarajevo, prima di rientrare a Srebrenica nel 1992 e divenire capo della sotto stazione di polizia del suo paese natale, Potočari1. Srebrenica è situata nella zona orientale della Bosnia ed Herzegovina a circa 15 km dal fiume Drina e dal confine con la Serbia. La zona adiacente il fiume, di cui la città fa parte, è comunemente denominata valle di Podrinje. Con l'acuirsi delle tensioni durante i primi anni '90 si assiste ad un irrigidimento dei rapporti fra le varie etnie anche nella zona locale. Si moltiplicano in particolare dispute riguardo la composizione etnica degli impiegati nelle varie imprese del territorio, tutte le etnie, infatti, denunciavano di essere discriminate nelle assunzioni a causa della loro appartenenza. Il piano occupazionale risulta centrale nella ricostruzione delle origini del conflitto in quanto la città di Srebrenica ed i suoi dintorni, da area prevalentemente agricola, aveva conosciuto un'importante industrializzazione grazie alla presenza di miniere di bauxite che rappresentavano la principale risorsa economica nonché la principale fonte di lavoro. Essere esclusi da questi posti di lavoro, per nuclei familiari che avevano ormai abbandonato la coltivazione della terra, significava perdere la possibilità di avere un reddito rimanendo nella zona. Secondo i dati del censimento del 1991 la città di Srebrenica era composta da una popolazione di circa 9.000 abitanti (37.000 in tutta la municipalità) la cui appartenenza etnica era mista e vedeva, infatti, il 73% della popolazione dichiararsi bosniacomusulmana e il 25% serbobosniaca2. Il 9 Gennaio 1992 venne proclamata la Regione autonoma serba di Birač, un fantoccio amministrativo, parallelo a quello ufficiale, il cui obiettivo era quello di difendere gli interessi della comunità serba del territorio. Al suo interno si trovava anche la municipalità di Srebrenica insieme a quelle di Šekovići, Vlasenica, Bratunac e Zvornik. Il carattere offensivo di questa nuova entità fu presto palese, in quanto alla sua creazione seguì l'arrivo nell'area di gruppi paramilitari serbi, quali le Aquile Bianche e la Guardia Volontaria Serba, chiamati per distribuire armamenti e addestrare la popolazione in vista di un imminente, secondo quanto voleva la propaganda serba del tempo, attacco da parte musulmana. La risposta bosniaca a questi primi segnali di
1 Trial Chamber Judgment, p.1.
2 A/54/549, Report of the Secretary-General pursuant to General Assembly resolution 53/35, Srebrenica prior to the safe area resolution, para 33.
mobilitazione appare confusa, gli stessi vertici dell'SDA3 locale risultano divisi sul come affrontare la situazione. Il 29 Gennaio 1992 ebbe luogo un incontro dell’SDA di Srebrenica ma al suo interno venne messa a tacere ogni discussione sul come procurarsi le armi e distribuirle sul territorio, prevalendo ancora la convinzione di poter arrivare ad una soluzione pacifica delle tensioni. La questione fu ripresa all'incontro tenutosi a Febbraio a Liješće, dove si formarono due schieramenti opposti fra coloro che non credevano fosse necessario armarsi e che una guerra non sarebbe scoppiata nel breve periodo e chi rivendicava il diritto di possedere armi in una fase di evidente tensione. Con il passare dei mesi si moltiplicarono i casi di licenziamenti di massa per motivi etnici4 e ogni disputa, anche se minima, veniva ricollegata all’aggravarsi delle relazioni interetniche. All’interno di questo clima si svolse il 29 Febbraio e il 1 Marzo il referendum per l’indipendenza della Bosnia ed Herzegovina, che vide nella regione di Srebrenica la partecipazione di circa 19.975 votanti di cui 19.959 votarono a favore dell’indipendenza mostrando come la comunità bosniacomusulmana fosse compattamente a favore di una BiH fuori dalla Jugoslavia. La componente serba della regione seguì le indicazioni dell'autoproclamatosi governo della Republika Srpska e boicottò in massa il voto, non riconoscendo poi l'esito della consultazione.
E’ necessario attendere l'8 Aprile 1992 affinché i membri dell'amministrazione locale arrivino a ratificare un primo provvedimento che prendesse atto della condizione di conflitto nella regione: in tale data il National Defence Council emana l’ordine di formare police war stations in sei municipalità Sućeska, Potočari, Skelani, Sase e Osat secondo quanto previsto dalle indicazioni del ministero degli interni della BiH. La creazione di questi organismi statali fu promossa dalla componente bosniacomusulmana che si adoperò per darle concretezza, ma non fu lo stesso per la fazione serba che ne boicottò la formazione. Il carattere interetnico dello strumento era così minato, rendendo vano il suo obiettivo di mediazione fra
3 Partito d'Azione Democratica, a maggioranza bosgnacca, fondato nel 1990 da Alija Izetbegović,
Muhamed Filipović e Fikret Abdić, alla caduta del regime comunista di Tito. L'SDA è stato fondato come un "party of Muslim cultural-historic circle". Nonostante abbia una base di riferimento prevalentemente musulmana, il partito ha rifuggito discorsi nazionalistici o religiosi in nome di un programma volto al multiculturalismo.
4 Sessanta tre bosniaco-musulmani licenziati fra il Gennaio e il Febbraio 1992 nella Magnetiz Mine; decine di licenziamenti nella Building Company Neimarstvo; Per approfondire sui conflitti etnici all’interno del tessuto aziendale dell’area vd. Ex. P564, B. Ibišević, Srebrenica (1987-1992).
le parti attraverso uno sforzo unitario di una risoluzione della crisi. Durante lo stesso incontro dell'8 Aprile Milenko Čanić, prese parola per l'SDS5, per elencare i nomi di coloro che erano autorizzati a chiamare gruppi paramilitari dalla Serbia in soccorso alla popolazione serba della municipalità di Srebrenica nel momento in cui questa fosse stata in pericolo. L'avvertimento era chiaro, con le parole di Ibišević, «five Serbs held the keys to war or peace in our municipality»6. Il 10 di Aprile ha inizio l'isolamento dell'area: le trasmissioni televisive vennero interrotte dopo che un gruppo di estremisti serbi fecero esplodere le antenne situate sul monte Kravac; allo stesso modo era stato sabotato l’impianto idrico, lasciando la città isolata e senza acqua corrente. Questo stato di tensione spinse una larga parte della popolazione a lasciare i propri villaggi ancor prima dell'inizio effettivo del conflitto, spinta a credere dalla macchina di propaganda serba di essere concretamente minacciata da un imminente attacco musulmano. Venuto meno ogni collegamento con l'esterno il monopolio sull'informazione permise alla propaganda volta a creare panico di avere la meglio, convincendo da un lato i civili di etnia serba a fuggire in Serbia o allontanarsi dall’area e dall'altro palesava alla dirigenza bosgnacca l'imminenza dello scoppio di un conflitto. L'efficacia di questa opera di creazione di panico ebbe fin da subito un impatto concreto. Il risultato fu che già a partire da Marzo 1992, sono testimoniate partenze di serbobosniaci da Srebrenica7. Sempre Ibišević descrive le code di veicoli, trattori e macchinari agricoli che sulla strada fra Bratunac e Fakovići si dirigevano in Serbia e, non nascondendo il suo stupore di fronte all'ampiezza del fenomeno, racconta di aver chiesto delucidazioni al capo dell’SDS di Fakovići ne riporta la sua risposta: «Somebody told the people the war was coming and they are moving the vehicles and the machinery to Serbia for safekeeping, until things get better»8. Dall'altra parte coloro che rimangono si adoperano per strutturare delle village guard e per costruire barricate all'ingresso dei villaggi, mentre la situazione era degenerata in fretta dando luogo ai primi scontri a fuoco.
5 Partito Democratico Serbo fondato da Karadzić, partito d'impianto fortemente nazionalista che si pone l'obiettivo di difendere gli interessi della comunità serba in Bosnia e Herzegovina. Promotore della creazione dell'entità statale autonoma della Republika Srpska, che avrebbe dovuto entrare a far parte del progetto di espansione territoriale fondato sulla costruzione della Grande Serbia.
6 Ex. P564, B. Ibišević, Srebrenica (1987-1992), p.118. 7 Testimonianza di Edina Karić, 14.09.2005, 10980. 8 Ex. P564, B. Ibišević, Srebrenica (1987-1992), p.177
La cittadinanza serbobosniaca fu supportata e rifornita ben presto dall'ex esercito federale jugoslavo. Il Federal Defence Minister Veliko Kadijević, parlando all'interno delle sue memorie del ruolo dell'esercito federale Jugoslavo nel conflitto degli anni '90 ha sottolineato come un esercito in quanto tale non può esistere senza un definito Stato di riferimento, allo scioglimento della Jugoslavia, dunque, anche il JNA ha dovuto operare tale scelta. L'esercito federale era caratterizzato da una composizione multietnica, la quale, però, veniva meno salendo di grado; allo scoppio delle ostilità la maggioranza degli ufficiali in carica erano, infatti, di etnia serba oltre al fatto che il progetto politico di Milošević era l'unico a porsi in continuità con il regime precedente e a presentarsi come suo erede. Il JNA si trasformò, dunque, presto in un esercito Serbo. Non sorprende di conseguenza vedere come, già a partire dall’autunno del ’91, fosse iniziata la redistribuzione degli armamenti e il loro riposizionamento nelle aree croate e bosniache di interesse strategico per il progetto di riunificare i territori a maggioranza serba sotto un'unica entità statale. Proprio le forze del JNA, principalmente le unità che si erano mosse dalla vicina Croazia e che furono prontamente reimpiegate nella zona di Podrinje, diedero inizio all'offensiva in Bosnia e Herzegovina: fra il 27 marzo e l'11 Aprile 1992 riuscirono a prendere con la forza le città di Zvonik e Skelani e così a creare un corridoio che permetteva di congiungere Serbia e Croazia attraverso il territorio bosniaco. Il fronte musulmano rimase nel frattempo immobile, le persone con più alto livello di istruzione (ad esempio medici e avvocati) e le figure politiche e dell'amministrazione della città fuggirono molto presto da Srebrenica senza aver provveduto prima a mettere in atto alcun piano di difesa o di preparazione/addestramento della popolazione, che di lì a poco si sarebbe dovuta confrontare con un conflitto aperto. Il 14 Aprile si svolse l'ultima assemblea municipale di Srebrenica durante la quale i rappresentanti del SDS e del SDA si accordarono all’unanimità su una divisione territoriale della città sulla base dell'appartenenza etnica, unica soluzione questa, pensata come strumento temporaneo, per sedare la crisi in atto. La stessa popolazione bosniacomusulmana risultava essere aperta nei confronti di questa soluzione vedendola come una concessione necessaria in cambio di una risoluzione pacifica delle tensioni.
L'accordo, però, ebbe vita breve: la Commition for the implementation of the Decision on the territorial division along ethnic lines si riunì in una sola occasione il giorno successivo per poi abbandonare i lavori per l’impossibilità di trovare un accordo su un piano divisione concreta che non prevedesse una forzatura da parte di una delle fazioni. Così il 17 di Aprile una delegazione degli unici membri dell'SDA di Srebrenica rimasti in città fu convocata a Bratunac, dopo che la delegazione serba si era rifiutata di effettuare l’incontro a Srebrenica per motivi di sicurezza, presso l'Hotel Fontana. I rappresentanti della città, una volta entrati a Bratunac, la trovarono invasa da truppe paramilitari serbe, che la mattina stessa avevano imposto la resa al Public Security Service di Bratunac. Durante l’incontro i rappresentanti del SDS di Bratunac erano affiancati dal comandante dell’unità speciale Yellow Ants, dal comandante delle White Eagles e dal comandante delle Arkan’s Tigers. L’incontro si risolse brevemente con l’imposizione da parte serba di un ultimatum di 24 ore per deporre le armi e lasciare volontariamente Srebrenica. La forzatura venne prontamente comunicata e ancora un volta il panico si diffuse in città incrementando i preparativi per organizzare le partenze. Le stesse autorità cittadine e i membri dell'SDA rimasti, essendo consapevoli della superiorità d’armamenti serba, non opposero resistenza e organizzarono in prima persona la raccolta delle armi fra la propria gente: in particolare richiesero a Meholjić e Ustić, a capo degli unici gruppi di difesa organizzati in quel momento, formati da circa un centinaio di giovani di Srebrenica, di deporre le armi in segno di resa. Questi ultimi, rifiutatisi di cedere alla minaccia serba decisero di rifugiarsi nei vicini boschi con le armi che erano riusciti a raccogliere in attesa del momento propizio per una controffensiva. Nel frattempo le principali autorità municipali quali Ibišević, presidente dell'assemblea municipale, Mustafić, segretario municipale, e Salimović, segretario economico, si rifugiarono a Tuzla. Prima ancora dell'attacco serbo la popolazione di Srebrenica, si era drasticamente ridotta fino ad arrivare a 400 individui. Il giorno successivo iniziarono i bombardamenti e le operazioni per la presa della città; la caduta fu immediata e portò con sé la distruzione di una parte dell'abitato nonché l'uccisione di alcuni bosniacimusulmani rimasti.
Il Maggio del 1992 fu un mese di terrore e di pulizia etnica nella zona: le forze armate serbe alla fine del mese avrebbero occupato circa il 60% del territorio della
BiH. Gli attacchi che si susseguirono nell'area seguivano uno schema prestabilito: si creavano in primo luogo dei blocchi che impedivano la mobilità nelle vie di comunicazione fra la città assediata e l'esterno, gli abitanti dei villaggi di etnia serba venivano avvertiti di lasciare l’aerea e subito dopo avevano inizio bombardamenti contro la popolazione civile rimasta. Dopo aver generato un clima di terrore si procedeva all’occupazione vera a propria ad opera di squadre paramilitari9, le quali avevano il compito di mettere in pratica la pulizia etnica. La loro azione oltre a minimizzare la presenza musulmana sul territorio era volta inoltre a minarne le fondamenta: le prime vittime erano, di norma, le personalità di spicco politiche e religiose, così da eliminare i punti di riferimento e rendere complesso per i superstiti riorganizzarsi in società. Questo tipo di azioni non devono essere pensate come efferatezze incontrollate, comuni in contesti di conflitto, ma come operazioni fortemente organizzate e pianificate che costituivano una parte integrante della strategia militare serba.
Una rapida cronologia delle incursioni del periodo rende evidente la riproposizione di uno schema nelle aggressioni alle varie comunità. Il 3 Maggio il villaggio di Hranča fu ispezionato da formazioni serbe alla ricerca di armi, all'ispezione seguirono l'uccisione di quattro abitanti, l'arresto di altri nove di cui si perse successivamente ogni traccia e la messa a fuoco di 43 abitazioni di proprietari musulmani10. A seguito dell'attacco buona parte della popolazione si rifugiò nei boschi circostanti dove allestirono accampamenti di fortuna o nei villaggi di Potočari e Tuzla. Il 6 Maggio la stessa sorte toccò a Blječevo. Mentre venivano portate avanti queste operazioni iniziarono ad attivarsi sporadiche forme di resistenza bosniacamusulmana sul territorio. Coloro che si erano rifugiati nei boschi con le armi si organizzarono in gruppi armati che attaccavano sfruttando il fattore sorpresa, attraverso imboscate rivolte a infliggere perdite mirate secondo lo schema classico della strategia di guerriglia. Proprio in una di queste incursioni l'8 Maggio 1992 rimase ucciso Zekić, uomo a capo del SDS di Srebrenica. Tale perdita dà avvio ad un esodo dei dirigenti serbi verso Bratunac, permettendo a breve il reingresso delle milizie bosniacomusulmane nella città di Srebrenica. Il giorno
9 Leggi del Luglio e del Dicembre 1991 includevano i paramilitari fra le fila del JNA accordandogli status regolamentare il che permetteva di conferire tutti i benefits.
successivo le forze serbe si ritirarono verso Sase, permettendo ai civili di rientrare in una città devastata e ancora tagliata fuori dalle vie di comunicazione.
Se da un lato venivano inflitte delle perdite, dall'altro gli attacchi non cessarono di essere sistematici. Il peggior eccidio nella regione ebbe luogo in quello stesso periodo, il 910 Maggio, a Glogova, villaggio maggiormente popolato della municipalità di Bratunac: la piazza del mercato dove la popolazione che si era arresa era stata radunata, si trasformò nel palcoscenico di un esecuzione di massa. Lo stesso 10 Maggio furono eseguiti raid a Srebrenica, Suha, Burnice, Selišta, Ravni, Mihaljevići, Krasanovići, Krasanpolje e altri villaggi con lo scopo di raccogliere la popolazione bosgnacca per trasferirla massicciamente concretizzando il progetto di “pulizia” dell'area. Venivano, infatti, individuati dei punti di raccolta dove donne e bambini venivano separati dagli uomini, i quali entravano in strutture detentive dove erano condannati a subire torture e ad essere lasciati senza cibo né acqua per giorni. Le donne, i bambini e gli anziani insieme ai sopravvissuti venivano poi trasferiti tramite camion e bus in luoghi di detenzione quali Pale e Kladanj. La stessa procedura, raid nei villaggi, raccolta della popolazione e trasferimento, fu utilizzata nei giorni successivi nei villaggi intorno Skelani portando alla cattura di 1339 persone11. La strategia d’azione delle truppe serbe rimaneva, dunque, sostanzialmente invariata: i soldati serbi e i paramilitari circondavano il villaggio a prevalenza musulmana, chiedevano la resa e la consegna delle armi e iniziavano indiscriminati bombardamenti e sparatorie. Chi non veniva ucciso nell'attacco doveva essere trasferito. Durante la fine del mese le violenze si spostarono nei villaggi dei dintorni di Vlasenica, dove venne istituito il tristemente noto campo di Sušica. L'impatto di queste incursioni diffuse fu devastante per la popolazione dell'area. Folle di rifugiati, il cui numero oscilla intorno alle 70.000 persone nel biennio 92 9312, nel particolare le stime sul numero di rifugiati accorsi a Srebrenica parlano di 40.000 persone arrivate nell’enclave al Dicembre 1992, per salire fino ad 80.000 nel Marzo 199313. Questi sono gli impressionanti numeri di quanti si diressero verso Srebrenica e i suoi boschi in cerca di protezione, ma la città non possedeva né
11 N.Orić, Testifies and Accuses, Genocide of Bosniak in East Bosnia, p.29. 12 Ibidem, p.76.
le strutture per ospitarli né cibo a sufficienza per sfamare tutti coloro che continuavano ad arrivare. Se in un primo momento era sostenibile razionalizzare il cibo e condividere le abitazioni col sostegno degli abitanti rimasti, l'incessante flusso di nuovi arrivati rese la mera sussistenza un obiettivo al di là delle possibilità della città e dei suoi abitanti14. Molti furono costretti, dunque, ad avventurarsi oltre le linee del fronte verso i villaggi serbi, scelta che per molti fu fatale. Uscire dai confini di Srebrenica per avventurarsi in cerca di cibo nei villaggi occupati dalle forze serbe si trasformò spesso in una mattanza: comune era, infatti, la pratica di