contemporanea.
Gabrielle Kirk McDonald, Presidentessa dell'ICTY dal 1997 al 1999, individua con lucidità uno dei problemi che abbiamo visto aver accompagnato costantemente le riflessioni sull'evoluzione del diritto internazionale in generale e i lavori del Tribunale Internazionale per i crimini nell'exJugoslavia in particolare: il rapporto fra il diritto e la contemporaneità che è chiamato a giudicare.
«As war itself has changed, the laws of war should follow. Yet, because the international community has clung passionately, politically, to the immovable rock of State sovereignty that keeps alive and keeps dominant archaic perceptions of warfare, the pace of the law has been far slower than the pace of the war. […] We must apply legal principles which are not devoid of morality and of common sense. We must understand the evolutionary history of war and strive to ensure that the rules governing its conduct address those realities»1.
Il diritto internazionale umanitario si è dovuto scontrare, infatti, con le novità e le problematiche sollevate dai conflitti totali prima e contemporanei in seguito, trasformando questi momenti di incertezza e lacuna legislativa nelle fasi focali di evoluzione dei suoi contenuti. Rimane aperto il quesito del perché proprio la gestione del conflitto nell'exJugoslavia ha rappresentato uno di questi momenti di svolta. Cosa ha spinto la comunità internazionale, di fronte ad un confronto la cui percezione all'epoca dei fatti era quella di un massacro ingovernabile fra etnie in contrapposizione da secoli, a scegliere questo contesto per la maggiore innovazione nel campo dell'applicazione del diritto internazionale da Norimberga e Tokyo? Quali circostanze hanno reso possibile la creazione del tribunale penale internazionale ad hoc? Proveremo di seguito a fornire una panoramica del contesto in cui si è inserito il dibattito sull'istituzione dell'ICTY delineandone i protagonisti e i momenti decisivi2.
1 G.K. McDonald, The Changing Nature of the Laws of War in Military Law Review, n., 1998, p.51. 2 La necessità di focalizzare l'attenzione sulla nascita del tribunale ha portato ad una ricostruzione
estremamente sintetica delle vicende che hanno condotto allo scoppio del conflitto nella regione dell'ex- Jugoslavia. Per approfondire le premesse di questo scontro e le varie fasi che lo hanno caratterizzato si rimanda a: S.P. Ramet, Balkan Babel, Westview Press, Boulder, 2002; F. Friedman, Bosnia and
Herzegovina. A Polity on the Brik, Routiledge, London, 2004; C. Roger, The Breakup of Yugoslavia and the war in Bosnia, Greenwood Press, Westport, 1998.
Il regime comunista creato da Tito dopo la seconda guerra mondiale conobbe alla sua morte una crisi di legittimità che ne determinò il crollo: la condizione economica precaria del paese e un malcontento generalizzato nei confronti di un sistema che non rispondeva alle esigenze della popolazione, spinse molti a guardare verso quei partiti ed associazioni che si contrapponevano in modo netto all'ideale della “fratellanza e unità” titoista. Emersero con sempre più forza prese di posizione da parte di politici ed intellettuali che si rifacevano ad ideali nazionalistici catturando quel sentimento di rivalsa delle varie etnie presenti nella regione. Dopo esser state negate e cancellate da una ricostruzione pubblica unitaria del secondo conflitto mondiale, le memorie delle violenze passate riemergono: massacri, fosse comuni, numeri di vittime divengono il terreno di uno scontro che oltrepassa i limiti del passato. Riportate in auge come prove di una violenza costante che ha visto la propria etnia come protagonista, rappresentano la testimonianza che la persecuzione non è mai finita e che è necessario difendersi. Un senso di minaccia costante pervase i media, i discorsi pubblici, fino a protrarsi nelle comunità, all'interno delle quali si andrà a sommare a dinamiche di competizione economica e d'influenza già presenti3. La separazione spaziale dalle altre etnie per tutelare la propria incolumità e i propri interessi divenne una costante delle rivendicazioni nazionalistiche. Questa spinta verso la frammentazione etnica della federazione jugoslava condusse nel 1991 alle dichiarazioni d'indipendenza di Croazia, Slovenia e Macedonia, seguite poi dalla Bosnia il 6 Marzo 1992. Caratterizzata da una maggiore multietnicità a quest'ultima fu imposto un referendum per rilevare l'effettiva adesione della popolazione all'iniziativa. La stragrande maggioranza dei votanti risultarono essere favorevoli all'indipendenza, dato questo dettato dal boicottaggio del voto da parte della comunità serbobosniaca. Quest'ultima, non riconoscendo il risultato della consultazione popolare dichiarò nell'Aprile dello stesso anno l'indipendenza della propria entità territoriale: la Republika Srpska. I combattimenti, limitati fino a quel momento alla Croazia, si propagarono così in Bosnia, dove perdurarono fino al 1995.
La base essenzialmente multietnica del territorio afferente all'exJugoslavia
entra immediatamente in contraddizione con questo schema di divisione su base etnica: come conciliare rivendicazioni territoriali che necessariamente si sovrapponevano? Quale sarebbe stata la fine delle minoranze etniche che erano presenti nei confini rivendicati dall'etnia maggioritaria? La risposta della Federazione Jugoslava di Serbia e Montenegro, fedele a tale impostazione, prevedeva di ricongiungere sotto la propria autorità statale tutti i territori in cui erano presenti comunità serbe, compresi quelli inclusi nei confini di Croazia e Bosnia, con l'obiettivo di riunificarle in una “Grande Serbia”4. La presenza in queste aree di minoranze etniche veniva risolta tramite una rimozione forzosa di tutte le popolazioni non serbe presenti nei territori che rientravano in questo progetto, attraverso un'opera sistematica di “pulizia etnica” (etničko čišćenje). Ne origina un conflitto fra entità statali in fase di riconoscimento da parte della comunità internazionale, i cui confini ma soprattutto la cui autorità statale era ancora embrionale; un conflitto condotto da eserciti che si sono costituiti durante i combattimenti stessi, con l'eccezione dell'Esercito Popolare Jugoslavo (JNA) che schierò uomini e mezzi con la Serbia; un conflitto combattuto localmente, in ogni piccolo villaggio e con il diretto coinvolgimento della popolazione; un conflitto a cui hanno preso parte gruppi paramilitari, combattenti irregolari, volontari. All'interno di questo contesto non sorprende la reticenza da parte dei governi in carica nei vari stati della regione a condurre indagini e processare i responsabili di violazioni di crimini di guerra. La stessa agibilità politica di queste entità statali è limitata di fronte ad una partecipazione diffusa alla violenza che è stata promossa e guidata dalle stesse. La sistematicità della pulizia etnica serba, l'utilizzo di formazioni paramilitari a cui non erano dati limiti d'azione, rispondevano a un'idea di guerra che vedeva il nemico come assoluto. La sopravvivenza dell'altro minacciava la propria, pertanto la sua eliminazione fisica o la sua “deportazione” altrove erano gli unici strumenti consoni al raggiungimento del proprio obiettivo. Data la complicità statale e l'inadeguatezza delle sue strutture, se giustizia voleva essere fatta, e promossa nell'immediato, era necessario che questa provenisse dall'esterno. Di estrema importanza, in questa fase, furono le pressioni dell'opinione
4 Per un approfondimento sulla politica nazionalista serba volta alla creazione di una Grande Serbia vd. T. Petković,, Fight for Great Serbia: Myth and Reality ,Center for Southeast Europe Working Paper Series #3, 2009.
pubblica mondiale, mobilitata da un'attenzione mediatica che permise di recepire in diretta l'entità delle violenze in corso. Roy Gutman nel Luglio 1992 diffuse la notizia dell'utilizzo da parte delle forze serbobosniache di campi di concentramento; poco dopo Penny Marshall, il quale era riuscito a visitare il campo di Omarska il 6 Agosto5 dello stesso anno, mostrò al mondo le condizioni dei prigionieri reclusi e l'ombra di un nuovo Olocausto diede vita ad una mobilitazione pubblica mondiale per fermare le violenze e punire coloro che ne erano responsabili. Madeleine Albright, rappresentante nel Consiglio di Sicurezza per gli Stati Uniti, più volte nei suoi discorsi fa riferimento alle violenze nell'exJugoslavia quali un drammatico ritorno dell'esperienza dell'Olocausto, affermando come fosse necessario che l'umanità questa volta non distogliesse l'attenzione, ma agisse fermamente affinché le violenze venissero fermate e i responsabili dei crimini fossero chiamati a risponderne:
«We were besieged in many ways by endless photographs and news stories about the horrors that were taking place throughout the region [...] it became very evident, to anyone really watching, what was going on were reminisces of pictures that reminded one of World War II»6. Verso l'istituzione del Tribunale Se permanevano delle resistenze di Francia e Inghilterra, che come vedremo si fecero più volte promotrici di un approccio politico/diplomatico alla risoluzione del problema balcanico, i membri dell'ONU all'unanimità erano convinti della necessità di non lasciare impunite le violazioni dei diritti che proliferavano nella regione. Moltiplicandosi le notizie e gli appelli di ONG presenti sul territorio, nell'Ottobre del 1992 il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, tramite la risoluzione 780, richiese al Segretario Generale l'istituzione di una “commissione di esperti” chiamati a indagare sulla presenza o no di gravi violazioni delle Convenzioni di Ginevra e altre violazioni del diritto umanitario internazionale nell'exJugoslavia7. La commissione scarsamente finanziata e guidata dal giurista olandese Frits
5 Il reportage realizzato per l'ITN durante la visita è disponibile al link: https://www.youtube.com/watch? v=w6-ZDvwPxk8.
6 M. Albright, Statement at the ICTY, 17 Dicembre 2002. 7 S/25274, 6 Ottobre 1992.
Kalshoven, docente che aveva scarso interesse ad un impegno intensivo per tale compito, riuscì a portare a termine l'indagine grazie all'intervento del giurista egiziano Cherif Bassiouni. Egli, infatti, ne assunse le redini nell'Agosto del '93 portando a termine una relazione preliminare da presentare al Consiglio di Sicurezza. I risultati mostravano un quadro allarmante: venne riportato il sistematico utilizzo di campi di prigionia (900 segnalati), la presenza di circa 90 gruppi paramilitari attivi sul territorio nonché la scoperta di 150 fosse comuni e la segnalazione di 1600 stupri. Nonostante il lavoro di indagine della commissione non fosse terminato, le sue conclusioni condussero il Consiglio di Sicurezza ad adottare nell'immediato una risoluzione, la numero 808, che dava mandato di costituire un tribunale internazionale per perseguire gli individui responsabili di gravi violazioni del diritto umanitario internazionale all'interno del territorio dell'exJugoslavia8. Nel corso, infatti, della seduta del 22 Febbraio del Consiglio di Sicurezza emerse da parte dei rappresentanti delle varie potenze globali, la necessità impellente di rispondere in modo deciso alle violenze denunciate dalla commissione di esperti. Il rappresentante del Brasile Araujo Castro parla di un «high moral duty»9 della comunità internazionale. Madeleine Albright, delegata degli Stati Uniti, evidenzia la necessità di promuovere l'istituzione di un tribunale internazionale in continuità con quei principi di Norimberga che ispirarono il ruolo delle Nazioni Unite nell'affermazione del diritto internazionale umanitario.
«It is worthwhile recalling that the Nuremberg Principles on war crimes, crimes against the peace, and crimes against humanity were adopted by the General Assembly in 1948. By its action today, with resolution 808 (1993) the Security Council has shown that the will of this Organisation can be exercised, even if has taken nearly a century for the wisdom of our earliest principles to take hold. I hope that it will not take another half century to achieve the peace and security that will render the hideous crimes we suspect have been committed strictly historical phenomena»10. La comunità internazionale aveva risposto alla pressione dell'opinione pubblica mondiale attraverso una dichiarazione d'intenti chiara: i crimini commessi nell'ex Jugoslavia non potevano rimanere impuniti e lei stessa si sarebbe sostituita ad una 8 S/25704, 22 Febbraio 1993. 9 S/PV.3175, 22 Febbraio 1993, p.5. 10 S/PV.3175, 22 Febbraio 1993, pp.13-14.
giustizia locale inadeguata. La volontà di istituire un tribunale di carattere internazionale volto alla salvaguardia dei diritti umani e alla promozione della pace nell'area balcanica rappresentava lo sbocco naturale rispondente al principio del peace through law a cui era approdato il diritto umanitario internazionale. La necessità di tutelare i diritti universali violati durante questo conflitto di natura civile stava alla base dell'esclusione della possibilità di promuovere una giustizia nazionale: si voleva, infatti, scongiurare l'incorrere di una giustizia sommaria o vendicativa, rispondente alle necessità policoelettorali dei gruppi di influenza presenti sul territorio. Delegando il compito di fare giustizia a tribunali locali si sarebbe infatti incorsi nel rischio di un trattamento ineguale che avrebbe messo in dubbio l'uniformità dell'applicazione del diritto internazionale e la legittimità delle decisioni prese sulla base dei suoi dettami. Molti osservatori, d'altra parte, dettero una diversa interpretazione di quanto accaduto: la decisione di costituire un tribunale venne, infatti, interpretata come una “foglia di fico” atta a coprire la reticenza ad inviare truppe sul territorio. Bass, su questa linea, descrive la volontà di costituire un organo di giustizia internazionale quale un diversivo per evitare una presa di posizione più forte, sottolineando come in questa fase: «law became a euphemism for inaction»11. Una parvenza d'azione, dunque, che non avrebbe avuto futuro, il simbolo dello scarso interesse che le potenze mondiali avevano di intervenire direttamente in questo conflitto cruento e ingovernabile, a causa del quale nessuno voleva perdere uomini.
L'assenza di un precedente nell'istituzione di un tribunale penale di carattere internazionale da parte delle Nazioni Unite ha condotto le varie nazioni ad interrogarsi sulla forma e sulle competenze che questo organismo avrebbe dovuto assumere. Non mancarono resistenze volte a limitarne i poteri e la capacità di ergersi a precedente per future azioni in campo internazionale da parte dell'ONU. Nazioni come Francia e Inghilterra, ad esempio, non credevano nella via giudiziaria alla risoluzione del conflitto, altre erano maggiormente preoccupate per eventuali ripercussioni future nei confronti di violazioni di diritti perpetrate sul proprio territorio nazionale. Chen Jian, ad esempio, delegato della Cina, nella dichiarazione
11 G.J. BASS, Stay the hand of vengeance, the politics of war crime trials, Princeton University Press, 2000, p.215.
di voto fa esplicito riferimento al fatto che il suo voto favorevole in questa circostanza non pregiudicherà le prese di posizione della propria nazione su future iniziative riguardanti l'applicazione della giustizia internazionale12. Altre critiche provenivano da coloro che, nonostante non fossero contrari all'istituzione di una corte internazionale, non condividevano la scelta di renderla operativa nel mezzo delle ostilità13. Attraverso questa decisione, infatti, la comunità internazionale avrebbe affidato un ruolo inedito per un organo di giustizia: l'essere esso stesso uno strumento di peacebuilding. La possibilità di essere indiziati e condannati da un tribunale già operativo avrebbe dovuto agire, secondo la visione dei suoi promotori, come deterrente rispetto al compimento di crimini futuri sul territorio. Questo compito, attribuito per la prima volta all'ICTY diverrà un principio che resterà centrale fra gli obiettivi propri del diritto internazionale umanitario: il carattere deterrente di istituzioni chiamate a giudicare coloro che compiono crimini di guerra rimarrà, infatti, uno dei principi che portarono all'istituzione di una Corte Permanente14.
La possibilità per il nascente tribunale di incriminare e condurre processi prima che il conflitto fosse terminato è stata interpretata da molti come un ostacolo, piuttosto che come uno strumento utile, al raggiungimento di un accordo per la pace nella regione. Sono nuovamente l'Inghilterra e Francia a porre con più vigore le problematicità correlate a questa scelta, essendo le nazioni con il maggior numero di uomini presenti sul campo. Temevano, infatti, che la messa sotto accusa dei leader delle fazioni militari e paramilitari (alcuni degli obiettivi primari della giustizia internazionale) avrebbe condotto ad azioni di rappresaglia sul territorio che avrebbero potuto colpire le proprie unità. D'altra parte i dubbi erano rivolti alla stessa capacità del Tribunale di chiamare a giudizio leader militari e politici la cui presenza alle trattative di pace era fondamentale per mettere in atto una strategia diplomatica di accordo verso la fine del conflitto. In particolare, si temeva che 12 S/PV.3175, 22 Febbraio 1993, p.7.
13 Per approfondire il dibattito intorno all'opportunità o meno di rendere operativo il Tribunale nel mezzo del conflitto vd. P. Akhavan, Justice in the Hague, Peace in the Former Yugoslvia? in Human Right Quarterly, vol. 20, n. 4, 2006, pp. 737-916; T. Allen, Constitutional Justice: a liberal theory of the rule of law, Oxford University Press, Oxford, 2001; J. Snyder e L. Vinjamuri, Trials and Errors: Principles and Pragmatism in Strategies of International Justice in International Security, vol. 28, n. 3, 2003/2004, pp. 5-44.
senza un'assicurazione politica quale l'immunità o l'amnistia le parti in campo non avrebbero avuto incentivi a porre fine ai combattimenti. Secondo questa interpretazione la giustizia non poteva essere efficace e svolgere il proprio ruolo di “resa dei conti” senza prima aver sancito una vittoria militare sul campo. Di questo avviso era ad esempio Kenneth Anderson, che nel suo studio sul processo di Norimberga sosteneva come fosse possibile utilizzare lo strumento della giustizia processuale «only once an army sits atop its vanquished enemy… A trial, Nuremberg taught, puts the symbolic seal of justice on what armies have rectified with force»15.
Nonostante le reticenze, la risoluzione di indirizzo del Febbraio trovò sbocco nell'istituzione effettiva del Tribunale Penale Internazionale per l'ex Jugoslavia, grazie alla risoluzione 827 del Consiglio di Sicurezza16. Quest'ultimo ha sostenuto all'unanimità la costituzione del Tribunale quale misura per la reintegrazione della pace e della sicurezza nella regione sulla base del Capitolo VII della Carta dell'ONU17. Come sancito dalla stessa dichiarazione dell'ufficio stampa del Tribunale appena istituito: «This date marked the beginning of the end of impunity for war crimes in the former Yugoslavia».18 Trovato l'accordo sulla creazione di un
organismo di giustizia internazionale, diveniva necessario dargli una struttura in grado di soddisfare le aspettative. Numerose erano le questioni, infatti, da sciogliere: quali azioni dovessero ritenersi illecite e di conseguenza quale dovesse essere il quadro normativo a cui far riferimento; chi fossero gli autori di tali atti illeciti, a partire da chi aveva impartito l'ordine, a chi l'aveva eseguito e gli anelli intermedi indispensabili alla sua realizzazione; quale fosse il confine legale fra la neutralità e l'omissione colpevole. Inoltre era necessario comprendere quale tipo di giustizia retributiva si volesse promuovere, se unilaterale o imparziale e come si calassero tali concetti in un contesto di conflitto etnico. Infine, definite le potenziali
15 K. Anderson, Nuremberg Sensibility: Telford Taylor's Memoir of the Nuremberg Trials, p.7. 16 S/RES/827, 25 Maggio 1993.
17 Carta delle Nazioni Unite, Capitolo VII: Azione rispetto alle minacce alla pace, alle violazioni della pace ed agli atti di aggressione.
«Art. 41 Il Consiglio di Sicurezza può decidere quali misure, non implicanti l’impiego della forza armata, debbano essere adottate per dare effetto alle sue decisioni, e può invitare i membri delle Nazioni Unite ad applicare tali misure.
Art. 42 Se il Consiglio di Sicurezza ritiene che le misure previste nell’articolo 41 siano inadeguate o si siano dimostrate inadeguate, esso può intraprendere, con forze aeree, navali o terrestri, ogni azione che sia necessaria per mantenere o ristabilire la pace e la sicurezza internazionale. »
colpe e colpevoli, stabilire quali potessero essere le pene imponibili tramite questi processi. Al tribunale internazionale doveva esser, dunque, data una giurisdizione che ne limitasse compiti e poteri, consapevoli del peso che questo precedente avrebbe avuto per le future iniziative di giustizia in campo internazionale.
Per strutturare il testo dello Statuto dell'ICTY si partì da proposte di lavoro già in discussione all'interno delle Nazioni Unite. Si scelse, così, la bozza scritta da Cherif Bassiouni “Draft Statute – International Tribunal”19, creata su richiesta della Commissione Diritti Umani delle Nazioni Unite già nel biennio 197980. A partire dai principi e dalla struttura proposta in questa traccia di lavoro, anche se pensata per un'istituzione giudiziaria permanente, ha preso forma quello che è diventato lo Statuto del Tribunale Criminale Internazionale per i crimini nell'exJugoslavia20. Con l'articolo 1 dello Statuto si definisce la natura temporanea (ad hoc) del