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CONCLUSIONI
Come risulta dall’analisi dei documenti biografici, sono molti gli incontri
di Golding con il male: la guerra, la violenza carnale, l’instabilità psichica, la
deformità fisica del figlio. Esperienza diretta ed esperienza culturale
contribuiscono a determinare l’opera di un nichilista, o quanto meno, un cupo
pessimista, instancabile esploratore delle tenebre, di thanatos e nihil. Come
afferma Gianfranco Ravasi:
L’unico bagliore che Golding lasciava aperto era, al massimo, nell’ironia: “Sono costretto a recitare Amleto ma vorrei fare il buffone, vi farei morire tutti dal ridere”. Ma subito dopo si ritirava sarcasticamente nel suo ruolo di profeta isolato, solitario e apocalittico: “scrivo poesie in latino per non correre il rischio di diventare un poeta alla moda” […] Ciò che manca sistematicamente in Golding è, quindi, la salvezza. Anche san Paolo era convinto che l’uomo si trovasse sulle sabbie mobili della sarx e dell’hamartía, ossia della sua carnalità peccatrice, votato a sprofondare e incapace da solo di sollevarsi con le sue forze. Ma nella sua visione era capitale la cháris, la grazia, ossia la mano che Dio rivolge all’umanità perché si lasci, attraverso la pístis, la fede-fiducia, attrarre verso l’alto, la luce, la redenzione. Lo scrittore inglese è fermo solo al primo livello, quello di una spiritualità negativa e cupa, nella quale – come egli appunto confessava – è il diavolo a prevalere su Dio.170
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Gianfranco Ravasi, “William Golding (1911-1993), Mosche di Belzebù”, in Il Sole 24 ore, n. 248, 11 settembre 2011.