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Ruolo della Risonanza Magnetica nella valutazione di attività infiammatoria nella malattia di Crohn

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Academic year: 2021

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Dipartimento di Ricerca Traslazionale

e delle Nuove Tecnologie in Medicina e Chirurgia

CORSO DI LAUREA SPECIALISTICA IN

MEDICINA E CHIRURGIA

Tesi di Laurea

Ruolo della Risonanza Magnetica nella valutazione

di attività infiammatoria nella malattia di Crohn

Candidato

Relatore

Giulia Cerchi

Chiar.mo Prof. Emanuele Neri

ANNO ACCADEMICO 2015/2016

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Ai miei genitori

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INDICE

• Capitolo 1

: Malattie infiammatorie croniche intestinali pg. 3

• Capitolo 2

: Ruolo della RM nel Morbo di Crohn pg. 21

• Capitolo 3

: Scopo dello studio pg. 31

• Capitolo 4

: Materiali e Metodi pg. 32

• Capitolo 5

: Risultati pg. 35

• Capitolo 6

: Conclusioni pg. 39

• Bibliografia

pg. 41

• Rigraziamenti

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CAPITOLO 1

MICI

Malattie infiammatorie croniche intestinali

Ø

Definizione e generalità

Le malattie infiammatorie intestinali (inflammatory bowel disease, IBD) o MICI sono affezioni croniche a carico dell’intestino, ad eziologia sconosciuta e patogenesi immunologica piuttosto complessa, che comprendono essenzialmente due condizioni patologiche: la colite ulcerosa e la malattia di Crohn.

La colite ulcerosa è una condizione patologica caratterizzata da episodi infiammatori che coinvolgono la mucosa rettale e che si estendono prossimalmente, con coinvolgimento parziale o totale del colon; tale estensione è continua, senza aree di mucosa intervallare indenni.

Il morbo di Crohn è invece caratterizzato da un’infiammazione transmurale con un interessamento “a salto” del tubo digerente; l’intero tratto gastrointestinale, dalla cavità orale sino all’area perineale, può essere interessato da tale condizione, anche se la localizzazione preferenziale è rappresentata dall’ileo terminale.

Ø

Epidemiologia

L’incidenza delle IBD varia nelle diverse aree geografiche; entrambe le patologie hanno la più elevata incidenza in Europa, nel Regno Unito e nel Nord America.

Per quanto riguarda il morbo di Crohn, nel Nord America il tasso di incidenza varia da 3,1 a 14,6 casi/100.000 persone-anno e la prevalenza varia da 26 a 199 casi per 100.000 persone-anno. In Europa, invece, l’incidenza è pari a 0,7-9,8 casi/100.000 persone-anno e la prevalenza si attesta tra 8,3 e 214 casi/100.000 persone-anno. Il primo picco di età nell’esordio varia tra i 15 ed i 30 anni mentre il secondo si attesta tra i 60 e gli 80.

Il rapporto maschi/femmine varia da 1,1 a 1,8:1.

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Sono stati identificati alcuni fattori che aumentano il rischio di insorgenza della malattia: il fumo si associa ad un rischio due volte superiore rispetto alla popolazione dei non fumatori; un’altra associazione è invece quella con l’utilizzo dei contraccettivi orali (odds ratio pari a circa 1,4). Il morbo di Crohn, ma più in generale le IBD, sono una malattia familiare nel 5-10% dei casi (e nel MC vi è spesso concordanza circa il sito anatomico coinvolto e il fenotipo clinico all’interno di una stessa famiglia). Nella restante percentuale, però, l’IBD si osserva in assenza di una storia familiare (malattia sporadica).

In un parente di primo grado di un paziente affetto da IBD, il rischio di sviluppare la malattia nel corso della vita è del 10%. Se entrambi i genitori sono affetti, ciascun figlio ha una probabilità di essere colpito dalla malattia del 36%; negli studi condotti sui gemelli, il 58% dei gemelli omozigoti è concordante per il morbo, mentre nei gemelli dizigoti la concordanza scende al 4%. Questi dati depongono quindi per una predisposizione genetica allo sviluppo della malattia1.

Ø

Eziopatogenesi

E’ già stato brevemente accennato che la causa delle malattie infiammatorie croniche intestinali è sconosciuta; è verosimile, però, che le IBD non dipendano da un solo agente eziologico, ma dall’interazione di più fattori che vanno a coincidere. Ad oggi molti ricercatori ritengono che le MICI derivino da una combinazione di difetti nelle interazioni degli ospiti con l’ambiente microbico intestinale, disfunzione degli enterociti e risposte immunitarie mucosali aberranti.

“L’impronta” genetica: la trasmissione delle malattie infiammatorie intestinali non avviene secondo criteri mendeliani, ma verosimilmente il loro sviluppo dipende dall’interazione di più geni tra loro e di questi con fattori ambientali. Varie osservazioni supportano l’ipotesi di un condizionamento genetico, tra cui quelle già citate nel paragrafo soprastante; gli studi genetici su questo argomento hanno permesso di identificare un’area sul cromosoma 16 apparentemente correlata alla malattia di Crohn. Una dettagliata mappa di tale cromosoma ha condotto all’identificazione di un gene almeno in parte responsabile della correlazione; il gene in questione è stato denominato NOD 2.

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I soggetti omozigoti per mutazioni del gene NOD 2 hanno un rischio venti volte maggiore di sviluppare il morbo di Crohn rispetto a coloro che possiedono un NOD 2 non variato; anche gli eterozigoti posseggono un rischio aumentato, seppur in misura minore (rischio circa quattro volte superiore)2. NOD2 codifica per una proteina che si lega ai peptidoglicani batterici intracellulare e successivamente attiva Nf-kB. Si è ipotizzato che i polimorfismi di NOD2 associati alla malattia siano meno efficaci nel riconoscere e combattere i microbi luminali, i quali sarebbero poi in grado di penetrare nella lamina propria e scatenare una risposta infiammatoria. Altri dati suggeriscono che NOD2 possa regolare le risposte immunitarie per prevenire un’eccessiva attivazione da parte dei microbi luminali. Qualunque sia il meccanismo con il quale i polimorfismi del gene NOD2 influiscono sulla genesi del morbo di Crohn, bisogna comunque ricordare che meno del 10% dei portatori di tali mutazioni sviluppa la malattia (e solo il 20% dei pazienti affetti da Crohn sono omozigoti per mutazioni di NOD22). Ciò significa che una segnalazione difettosa da parte di NOD2 è solo uno dei numerosi fattori che contribuiscono alla patogenesi della malattia.

Recentemente la ricerca dei geni associati a IBD ha riscontrato altri due geni che sembrano essere piuttosto rilevanti per il morbo di Crohn; questi sono ATG16L1 (autophagy-related 16-like, una parte della via di autofagosomi importante per la risposta cellulare ai batteri intracellulari e, forse, per l’omeostasi dell’epitelio) e IRGM (GTPasi immunocorrelata M, coinvolto anch’esso nella risposta autofagica e nella gestione dei batteri intracellulari).

NOD2, ATG16L1 e IRGM sono espressi in molteplici tipi cellulari e il ruolo specifico all’interno della complessa patogenesi del morbo di Crohn deve essere ancora chiarito; tuttavia sappiamo che tutti i geni presi in considerazione sono correlati al riconoscimento degli agenti patogeni intracellulari e alla risposta a questi ultimi. Ciò avvalora l’ipotesi secondo la quale le reazioni immunitarie aberranti nei confronti dei batteri luminali sono una componente importante nello sviluppo della malattia.

Risposte immunitarie mucosali nella patogenesi delle IBD: nel morbo di Crohn il ruolo attivo della polarizzazione dei linfociti TCD4+ verso il tipo Th1 è ampiamente riconosciuto. Questi sottotipi di linfocita helper secernono citochine che

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inducono i macrofagi a produrre, a loro volta, citochine proinfiammatorie (come Il-1, Il-6 e TNF).

Inoltre, nel corso della risposta immunitaria della mucosa, si ha una produzione locale di metalloproteinasi, importanti mediatori della distruzione tissutale. Si ha per di più un’azione, da parte delle citochine prodotte, sulla microvascolatura locale, inducendo la sopraregolazione di molecole di adesione e il reclutamento di altre cellule infiammatorie, quali neutrofili e monociti. In queste condizioni i macrofagi secernono anche IL-12, che rinforza la differenziazione dei linfociti nella popolazione Th1, espandendo così il processo in un circolo vizioso2.

Dati recenti suggeriscono però che anche i linfociti T Th17 contribuiscono alla patogenesi della malattia e a sostegno di ciò abbiamo la dimostrazione del ruolo protettivo di alcuni pleomorfismi del recettore IL-23 nei confronti dello sviluppo delle IBD. IL-23 è infatti coinvolto nella differenziazione e nella manutenzione dei Th17, e ciò suggerisce che i pleomorfismi del recettore Il-23, dimostrati come protettivi, possono attenuare le risposte proinfiammatorie Th17 nelle MICI.

Globalmente quindi, è probabile che una combinazione di squilibri che attivano la risposta immunitaria della mucosa e sopprimono l’immunoregolazione, contribuisca allo sviluppo di Crohn e CU.3

Difetti epiteliali: per entrambe le condizioni patologiche che rientrano nel contesto delle IBD sono stati descritti numerosi difetti epiteliali. In primis sono stati descritti difetti nella funzione della barriera a giunzioni strette dell’epitelio intestinale, sia nei pazienti con il morbo di Crohn, sia in un sottogruppo di loro parenti di primo grado sani. Questa disfunzione di barriera è correlata ai pleomorfismi di NOD2.

Anche il trasporto transepiteliale difettoso può essere legato alla patogenesi delle IBD, come suggerisce la presenza in pazienti con Crohn della mutazione del meccanismo di trasporto dei cationi organici (SLC22A4).

Infine, i granuli (contenenti peptidi antibatterici) delle cellule di Paneth sono anomali in pazienti affetti da malattia di Crohn con mutazioni di ATH16L1.

Tutto questo suggerisce, sebbene i dettagli non siano ancora stati chiaramente definiti, che una funzione antimicrobica difettosa dell’epitelio contribuisce in maniera critica alla patogenesi delle MICI. 3

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Ambiente microbico: il ruolo dell’ambiente microbico intestinale nella patogenesi delle IBD è ad oggi considerato sempre più importante, sebbene moltissimi dettagli debbano essere ancora definiti. A sostegno di ciò, comunque, vi sono alcune evidenze: gli anticorpi contro una proteina batterica (la flagellina) sono associati a pleomorfismi di NOD 2 e alla formazione di stenosi e al coinvolgimento dell’intestino tenue nei pazienti con Crohn. Inoltre alcuni antibiotici (metronidazolo in particolare) sono piuttosto utili nel trattamento di questa condizione patologica, cosi come l’utilizzo di probiotici3.

Nonostante queste prime evidenze, comunque, il meccanismo che permette di correlare l’ambiente microbico alla patogenesi della malattia, non è ancora stato chiarito. 3

Per concludere, un modello che prende in considerazione i ruoli di tutti gli elementi descritti (l’ambiente microbico, la funzione epiteliale e la risposta immunitaria della mucosa) suggerisce un ciclo con il quale il flusso attraverso l’epitelio di componenti batteriche luminali attiva risposte immunitarie innate ed adattative. In un soggetto predisposto dal punto di vista genetico, una disregolazione di tali risposte comporta l’innescarsi di un circolo vizioso autoamplificate nel quale uno stimolo in qualunque sede diviene capace di scatenare la MICI. Ø

Caratteristiche macroscopiche

La malattia di Crohn può colpire qualsiasi segmento del tratto gastroenterico, dalla mucosa orale sino all’ano. Il 30-40% dei pazienti presenta una malattia che si localizza esclusivamente al piccolo intestino, il 40-55% ha un’estensione del morbo al colon ed il 15-25% hanno un’ esclusiva limitazione colica.

Nel 75% dei pazienti con malattia del piccolo intestino, l’ileo terminale è interessato nel 90% dei casi. Il retto è spesso risparmiato.1

A caratterizzare la malattia di Crohn abbiamo due aspetti: il primo è rappresentato dalla distribuzione segmentaria delle lesioni; tipicamente infatti riscontriamo aree interessate dalla patologia intervallate poi da porzioni indenni di mucosa e ciò conferisce il classico aspetto “ad acciottolato”, ben evidenziabile anche a livello radiologico (questa caratteristica intermittenza si ha anche a livello microscopico;

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perfino in aree in cui un esame macroscopico suggerisce una condizione patologica diffusa, infatti, possiamo riscontrare al microscopio una forte discontinuità).

La seconda caratteristica è l’interessamento flogistico che interessa tutte le tonache della parete intestinale; a differenza quindi della colite ulcerosa, il Crohn è un processo infiammatorio transmurale. Endoscopicamente la malattia di grado lieve è caratterizzata dalla presenza di piccole ulcere superficiali (o aftoidi), mentre nelle fasi più attive si possono riscontrare ulcere stellate che confluiscono nei diametri longitudinale e trasversale poste a demarcare aree di mucosa istologicamente e macroscopicamente indenni (il già citato aspetto ad “acciottolato”).

La condizione di flogosi attiva è anche caratterizzata dalla possibilità della formazione di tratti fistolosi, che conducono poi allo sviluppo di fibrosi e tratti stenotici. La parete intestinale, infatti, si ispessisce e ciò può portare, assieme anche alla formazione di aderenze per l’infiammazione mesenterica e sierosa, ad occlusioni croniche ricorrenti.

Ø

Anatomia Patologica e Fisiopatologia

Come già ricordato, la malattia di Crohn può colpire qualsiasi tratto dell’apparato digerente. La localizzazione faringea o esofagea è estremamente rara; un po’ meno rara ma pur sempre molto difficile da riscontrare è la localizzazione a stomaco o duodeno; la localizzazione della malattia diventa frequente dal digiuno, con un aumento di frequenza man mano che procediamo distalmente. La frequenza massima si ha nell’ileo terminale, quindi diminuisce nel colon per aumentare nuovamente una volta giunti all’ano.

Molto spesso la malattia è diffusa, quindi non si limita ad un solo segmento intestinale, ma ne colpisce diversi e contemporaneamente. È importante ricordare che la distribuzione del Crohn è segmentaria, con alternanza di tratti coinvolti e tratti normali, con margini netti e ben visibili tra i segmenti colpiti e quelli indenni.

Nelle sezioni di intestino coinvolte dalla malattia, l’infiammazione va ad interessare tutti gli strati della parete (mucosa, sottomucosa, muscolare e sierosa), e tende inoltre a propagarsi, attraverso il mesentere, ai linfonodi regionali che quindi risultano comunemente compromessi.

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La lesione infiammatoria del morbo di Crohn è di tipo granulomatoso, con presenza quindi di cellule epitelioidi e cellule giganti; il tessuto coinvolto può andare incontro a fenomeni necrotici perciò la mucosa può ulcerarsi e, al di sotto di questa, possiamo avere la formazione di tramiti fistolosi.2

Sono fenomeni comuni la formazione di edema e la perdita della normale trama mucosa; la parete intestinale è “gommosa” e ispessita per l’edema transmurale, la flogosi, la fibrosi sottomucosa e l’ipertrofia della tonaca muscolare.

Tra le caratteristiche microscopiche della malattia attiva vi sono grandi quantità di neutrofili che si infiltrano e danneggiano l’epitelio, questi inoltre possono raggrupparsi nelle cripte dando vita ai così detti ascessi criptici (spesso associati a distruzione delle cripte stesse). Cicli ripetuti di danneggiamento e riparazione delle cripte portano a distorsione dell’architettura mucosale e all’insorgenza di metaplasia epiteliale, la quale spesso assume la forma di ghiandole gastriche antrali. Queste alterazioni architetturali e citologiche possono persistere anche una volta che la flogosi acuta si è risolta.

Dopo anni di malattia possiamo arrivare all’atrofia della mucosa con perdita delle cripte. 3

Le conseguenze di questi aspetti microscopici, dal punto di vista funzionale, sono molto rilevanti: il processo infiammatorio altera i meccanismi di assorbimento di diverse sostante, in particolare dei sali biliari. Il circolo enteroepatico di questi ultimi infatti è abitualmente compromesso, per cui si realizza una perdita di queste sostanze con conseguente deficit di assorbimento dei grassi e comparsa di steatorrea. Inoltre, a causa della continua perdita dei sali biliari, residua nell’intestino una maggior quantità di acido ossalico (che normalmente dovrebbe legarsi agli ioni calcio nel formare ossalato di calcio, insolubile e non assorbibile; il maggior quantitativo di sali biliari nel lume intestinale riduce la disponibilità degli ioni calcio, lasciandone così l’acido ossalico sprovvisto e permettendone quindi l’assorbimento, visto che in forma libera è solubile) con conseguente aumento dell’incidenza di litiasi renale.

Si può inoltre instaurare malassorbimento di molteplici vitamine, tra cui la vit. B12. Quando la malattia è diffusa ad ampi tratti del tenue, il malassorbimento può coinvolgere tutti i fattori nutritivi in maniera analoga a quanto accade ai pazienti celiaci. Si verifica quindi, di norma, diarrea, la cui patogenesi è verosimilmente legata alla presenza dei sali biliari nel lume intestinale, dove esercitano un’azione osmotica; un’ulteriore causa delle scariche diarroiche può essere attribuita anche al

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malassorbimento dei carboidrati (che hanno, come i sali biliari, un effetto osmotico) e alla frequente colonizzazione batterica secondaria che si instaura in questi pazienti.2

Ø

Segni e Sintomi

Le modalità di presentazione clinica dipendono, in larga misura, dalla sede della malattia.

Ileocolite: l’ileo terminale è la localizzazione più frequente del morbo di Crohn; in questo caso la presentazione clinica più comune è rappresentata da una storia cronica di ricorrenti episodi di dolore addominale localizzato in fossa iliaca destra con diarrea. Talvolta il quadro clinico può esordire con una simulazione di un’appendicite acuta (dolore intenso, accompagnato da febbre, leucocitosi e massa palpabile in addome). Il dolore che caratterizza il morbo di Crohn è solitamente di tipo colico, generalmente alleviato dall’evacuazione; possiamo riscontrare anche una febbre che, se elevata, può essere indicativa della presenza di un ascesso. Tipico è inoltre il calo ponderale, pari al 10-20% del peso corporeo e conseguente alla diarrea e all’anoressia. In taluni casi è possibile palpare una massa infiammatoria localizzata in fossa iliaca destra; questa è conseguente alla flogosi intestinale, al mesentere adeso ed indurito e ai linfonodi addominali reattivi ed ingrossati. Negli stadi iniziali del morbo la flogosi dell’intestino con il conseguente edema della parete e gli spasmi, inducono episodi intermittenti di ostruzione.

Dopo diversi anni di malattia l’infiammazione persistente porta alla riduzione del calibro del lume intestinale e alla formazione di una vera e propria stenosi; in questo caso gli episodi diarroici si attenuano e vengono sostituiti dai sintomi dell’ostruzione. Su questo quadro occlusivo cronico, poi, possono instaurarsi nuovi episodi di occlusione acuta.

L’infiammazione grave può inoltre condurre a un assottigliamento della parete, con microperforazione e formazione di fistole comunicanti con altre anse vicine, con la cute o con la vescica.

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Digiunoileite: questa condizione di malattia diffusa comporta perdita della superficie digestiva e di assorbimento, con conseguente malassorbimento e steatorrea.

Il malassorbimento può comportare anemia, ipoalbuminemia, ipocalcemia, ipomagnesiemia, coagulopatia e iperossaluria (con conseguente aumento della nefrolitiasi). Sono inoltre, spesso, bassi anche i livelli di molti minerali.

Colite e malattia perianale: in questo caso i pazienti accuseranno febbricola, malessere, diarrea, dolore addominale di tipo crampiforme e, talvolta, ematochezia (il sanguinamento massivo è piuttosto raro, viene lamentato infatti solo dall’1-2% dei pazienti). Piuttosto raro, anche se non impossibile, è il megacolon tossico; questo si incontra più spesso in casi di grave infiammazione e in malattia di breve durata. Una malattia colica può portare a fistolizzazione nello stomaco o nel duodeno, o nel piccolo intestino.

La malattia perianale colpisce circa un terzo dei pazienti con morbo di Crohn e si manifesta con incontinenza, stenosi anale, fistola anorettale e ascessi perirettali. 1

Ø

Complicanze intestinali ed extraintestinali

Poiché il morbo di Crohn è una condizione infiammatoria transmurale, spesso si riscontrano aderenze, ascessi addominali e pelvici (questi ultimi due si sviluppano nel 10-30% dei soggetti affetti da malattia).

Le manifestazioni extraintestinali comprendono: uveite, poliartrite migrante, spondilite anchilosante, eritema nodoso e ippocratismo digitale. Ciascuna di queste complicanze può manifestarsi prima del riconoscimento della condizione intestinale primaria.3

Una delle più temibili complicanze di una MICI di lunga durata è lo sviluppo di una neoplasia. Inizialmente si ha una displasia che rappresenta una trasformazione in situ. Il rischio di sviluppo di displasia è correlato a diversi fattori: il rischio aumenta notevolmente otto-dieci anni dopo l’inizio della malattia, nei pazienti affetti da

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pancolite e nelle condizioni infiammatorie più gravi (ovvero con una maggior presenza di neutrofili).

In molti casi la displasia si forma nelle aree piatte della mucosa che, macroscopicamente, non sono riconosciute come anormali.

Nei pazienti affetti da IBD si verificano anche adenomi del colon, che in taluni casi possono risultare molto difficili da distinguere da un focolaio polipoide da displasia associata a MICI.3

Ø

Diagnosi

Non esiste un test diagnostico unico per il Morbo di Crohn, la cui diagnosi deriva quindi dall’integrazione di molteplici strumenti: anamnesi ed esame obbiettivo, il laboratorio, la radiologia, l’endoscopia e l’analisi istologica.

Il primo approccio è rappresentato dalla raccolta di un’accurata anamnesi integrata con un esame obbiettivo completo. La prima sarà volta all’indagine dei più comuni sintomi di malattia e alla valutazione della loro intensità e durata; l’esame obbiettivo dovrà invece ricercare in maniera scrupolosa eventuali masse addominali, segni di occlusione, presenza di fistole e sanguinamenti intestinali (questi ultimi mediante un’attenta valutazione della zona perineale).

Indagini di laboratorio: il laboratorio non dimostra alterazioni specifiche; si

riscontrano infatti alterazioni dei principali indici di flogosi, come VES e PCR. Piuttosto comuni sono la leucocitosi e la neutrofilia. Nella malattia di grado elevato e di lunga durata, riscontreremo anemia sideropenica (dovuta al cronico stillicidio ematico) o anche megaloblastica (se la malattia coinvolge l’ileo terminale con conseguente malassorbimento di vitamina B12) .2 Particolarmente utile si è rivelato il dosaggio fecale della calprotectina, una proteina ad azione antibatterica rilasciata dai granulociti neutrofili e/o dai macrofagi attivati. Questa proteina è molto probabilmente coinvolta nella regolazione della reazione infiammatoria e si è dimostrata essere un ottimo marker dello stato infiammatorio intestinale, con una performance migliore rispetto ai metodi non-invasivi tradizionali4.

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Imaging: le tecniche di diagnostica per immagini risultano ad oggi fondamentali sia

nella fase di diagnosi della malattia (dove permettono l’accertamento della presenza di malattia e la precisa definizione della sua localizzazione, della sua estensione e della sua severità), sia nel corso del follow-up (utile per il monitoraggio della risposta ad una terapia e/o per indirizzare verso diversi tipi di trattamento).

Ecco i principali mezzi d’imaging impiegati nei pazienti con Morbo di Crohn:

Radiologia tradizionale: lo studio del transito intestinale con l’utilizzo di bario

è stato per molto tempo considerato il gold standard per la valutazione dell’interessamento del piccolo intestino nel paziente affetto da Morbo di Crohn. Questo tipo di indagine può offrire una visualizzazione diretta della mucosa (con possibile evidenza quindi dei più precoci cambiamenti di parete radiologicamente rilevabili: le ulcere aftoidi) oltre alla possibilità di individuazione di alcune complicanze come stenosi luminali e fistole (che rappresentano invece uno stadio di malattia più avanzato). Qualora vi sia un sospetto di coinvolgimento colico, è inoltre possibile supplementare l’esame con un clisma a doppio contrasto, in modo tale da poter confermare, o escludere, la presenza della malattia a questo livello.

Gli svantaggi principali di questa tecnica d’indagine sono rappresentati dall’utilizzo di radiazioni ionizzanti e dalla capacità di individuazione di un interessamento di malattia extra parietale solo in maniera indiretta. Per questi ed altri motivi, ad oggi, questa metodica ha un ruolo marginale nella diagnosi e nel follow-up.

Ecografia: l’utilizzo di ultrasuoni permette l’individuazione, in modo

totalmente non invasivo, di un ispessimento di parete (caratteristico del Crohn): è inoltre possibile, con la valutazione Doppler, esaminare la vascolarizzazione delle anse, risultando questa in netto aumento in caso di malattia. Lo svantaggio principale è rappresentato dall’estrema operatore-dipendenza di questa tecnica diagnostica che, inoltre, non è in grado di valutare alcuni tratti intestinali (ad esempio il retto). C’è inoltre da aggiungere che la valutazione della vascolarizzazione non discrimina il livello di attività di malattia né è in grado di identificare con precisione il tratto di parete interessato dal processo infiammatorio.

Tomografia computerizzata (TC): è una metodica (veloce, accessibile e non

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di malattia. La sua risoluzione di contrasto per i tessuti molli è tuttavia inferiore a quella della risonanza magnetica; anche l’enhancement contrastografico dei tratti interessati dal processo flogistico è meno rapido e di più difficile individuazione. Un altro svantaggio (non trascurabile, vista la giovane età della maggior parte dei pazienti affetti da MC) della TC è rappresentato dall’esposizione alle radiazioni ionizzanti.

Risonanza Magnetica (RM): Ad oggi la RM risulta essere una tecnica

promettente nello studio dei pazienti affetti da MC, grazie all’elevata risoluzione di contrasto dei tessuti molli, all’acquisizione di immagini multiplanari e alla possibilità di effettuare studi funzionali.

Questa metodica d’indagine non è invasiva e non sfrutta l’utilizzo di radiazioni ionizzanti, aspetto assolutamente non irrilevante vista la predominanza di pazienti giovani affetti da IBD.

Il principale vantaggio della RM rispetto alle metodiche contrastografiche convenzionali è però rappresentato dalla contemporanea visualizzazione del lume, della parete e dei reperti extra-intestinali (come linfoadenopatie, ascessi mesenteriali, fistole etc.).

Per un’ottima risultato, la distensione delle anse intestinali è un requisito fondamentale e questa viene ottenuta con l’utilizzo di mezzi di contrasto particolari somministrati per via orale o mediante l’utilizzo di un sondino naso-digiunale (enteroclisi con RM).

Avremo modo di approfondire il ruolo di questa tecnica di indagine nel capitolo successivo, dove verranno analizzati nel dettaglio i mezzi di contrasto, le varie sequenze utilizzate, i reperti ottenuti e la loro correlazione con l’attività di malattia.

Istologia: chiaramente l’analisi istologica mediante biopsia della mucosa intestinale

resta l’indagine diagnostica più precisa. Essa è facilmente effettuabile nel caso di lesioni perianali o fistole il cui orifizio esterno si localizza a livello cutaneo; in pazienti privi di tali condizioni sarà invece necessario effettuare il prelievo bioptico in zone mirate dell’intestino sotto guida radiologica o durante un’indagine endoscopica.

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Ø

Prognosi

Il morbo di Crohn è una condizione patologica cronica, pertanto non si ha mai uno stato di guarigione completa. Generalmente l’andamento clinico è caratterizzato dall’alternanza di periodi più o meno lunghi di quiescenza e fasi di riattivazione. Di fronte ad ogni paziente affetto da morbo di Crohn è necessario quindi cercare di “classificare” il quadro patologico basandosi su due aspetti principali: l’attività di malattia (ovvero l’intensità del processo infiammatorio) e la gravità della stessa (espresso valutando l’estensione, le complicanze e le conseguenze metabolico-nutrizionali).

A tal proposito sono stati elaborati degli indici (CDAI Crohn Activity Index, Simple Index, LCDAI per citarne alcuni) che consentono di definire l’attività e la gravità di malattia con buona approssimazione, con immediata e pratica ripercussione sulle strategie terapeutiche da applicare al singolo paziente. Nel complesso, comunque, la mortalità aumenta con la durata del processo morboso, e si aggira globalmente al 5-10% di tutti i casi; le cause più frequenti di morte sono rappresentate da peritonite e sepsi.2

Ø

Trattamento

Non esiste un trattamento curativo per la malattia di Crohn, perciò gli obbiettivi primari della terapia sono rappresentati dall’induzione e dal mantenimento della remissione, in aggiunta alla gestione di eventuali complicanze.

Nel paziente pediatrico un ulteriore obbiettivo è il corretto accrescimento.

Il trattamento medico: di seguito una breve trattazione dei principali farmaci utilizzati nella terapia del Morbo di Crohn.

Aminosalicilati: i farmaci contenenti acido 5-aminosalicilico (5-ASA) sono da tempo utilizzati nel trattamento del MC e si pensa che agiscano localmente, a livello delle aree mucosali interessate dal processo flogistico. Sono perlopiù utili nel trattamento delle forme di grado lieve-moderato che interessano il colon.

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Buona parte del 5-ASA somministrato come tale non raggiunge l’ileo terminale o il colon in una quantità apprezzabile, perciò per risolvere tale problematica sono stati messi a punto diversi preparati che permetto al 5-ASA di arrivare nelle parti più distali del tenue e nel colon. Tali composti comprendono la sulfasalazina e la mesalazina.

La sulfasalazina è costituita dal 5-ASA legato (mediante un legame azoico) ad una molecola di sulfapiridina. Tale struttura molecolare permette il transito nel piccolo intestino (dove viene assorbita solo parzialmente) e nel colon, dove avverrà la scissione del composto nelle due molecole, operata da azoriduttasi batteriche; tale reazione rende quindi disponibile il 5-ASA ad alte concentrazioni.

Purtroppo questo composto presenta un elevato tasso di effetti collaterali, i più rilevanti dei quali sono: reazioni allergiche, cefalea, anoressia, nausea e vomito, soppressione midollare.

Con il termine di mesalazina si indicano invece un certo numero di preparati che si differenziano per i diversi modi in cui il 5-ASA viene ad essere formulato. Due sono i composti prevalentemente utilizzati: Pentasa e Asacol.

La prima una formulazione di mesalazina rivestita di etilcellulosa che permette l’assorbimento di acqua nei microgranuli contenenti il principio attivo. L’acqua assorbita va a dissolvere il 5-ASA, che poi diffonde al di fuori dei microgranuli nel lume intestinale.

L’Asacol invece è una formulazione gastroprotetta di mesalazina con il rilascio di 5-ASA a pH superiore a 7 (ovvero il pH corrispondente a quello che riscontriamo nell’ileo distale e nel colon).5

Glucocorticoidi: riescono a indurre la remissione nel 60-70% dei casi. Gli effetti sistemici delle formulazioni standard di glucocorticoidi hanno portato allo sviluppo di formulazioni a minor assorbimento e aumentato effetto di primo passaggio. Un esempio di queste nuove molecole è rappresentato dalla budesonide, la quale si è dimostrata quasi equivalente al più comune prednisone, ma con minori effetti collaterali sistemici.

I glucocorticoidi non hanno nessun ruolo come terapia di mantenimento perciò, una volta ottenuta la remissione, la dose deve essere progressivamente ridotta.

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Gli effetti indesiderati dovuti al loro prolungato utilizzo sono molti e comprendono: ritenzione idrica, redistribuzione lipidica, iperglicemia, osteonecrosi, osteoporosi, miopatia, disturbi della sfera emotiva. 1

Tiopurine: Azatiopirina e Mercaptopurina: l’azatiopirina e la 6-mercaptopurina sono analoghi purinici comunemente impiegati come agenti risparmiatori di glucocorticoidi in oltre i due terzi dei pazienti con Morbo di Crohn. Nella maggior parte delle remissioni ottenute con glucocorticoidi, infatti, le tiopurine consentono di ridurre la posologia o di sospendere la terapia steroidea.

L’azatiopirina è rapidamente assorbita e convertita a 6-mercaptopurina (6-MP), la quale viene poi metabolizzata nel suo prodotto attivo finale, un inibitore della sintesi purinica e della proliferazione cellulare. Questi agenti, inoltre, riescono anche ad inibire la risposta immunitaria.

Il ruolo di queste molecole nel mantenimento della MC e nel trattamento della patologia perianale in fase attiva e fistolizzante appare promettente. Il loro uso è inoltre efficace nella profilassi postoperatoria.

Sebbene generalmente l’azatiopirina e la 6-MP siano ben tollerate, un 3-4% dei pazienti manifesta pancreatite (completamente reversibile con la sospensione del farmaco), nausea, febbre, rash cutaneo ed epatite. Può presentarsi, più tardivamente, una mielodepressione (in particolare leucopenia) che impone un regolare monitoraggio dell’emocromo completo.

E’ da notare inoltre che i pazienti con IBD trattati con questi farmaci hanno un rischio quattro volte superiore alla media di sviluppare un linfoma; tale rischio potrebbe dipendere dalla terapia, dalla malattia o da entrambe. 1 Metotrexato: il metotrexato (MTX) è un antimetabolita che inibisce l’enzima diidrofolato-reduttasi, portando ad un’alterata sintesi del DNA. Il MTX inoltre riduce la produzione di IL-1. Può essere somministrato per via intramuscolare, orale o sottocutanea ed è efficace nell’indurre la remissione e la riduzione della dipendenza da corticosteroidi. Gli effetti tossici del MTX comprendono leucopenia e fibrosi epatica perciò si rendono necessari periodici controlli dell’emocromo e della funzionalità epatica, inoltre si possono riscontrare nausea, vomito e stomatite. La supplementazione con folati riduce il rischio che si abbiano questi effetti collaterali, senza ridurre l’attività

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antinfiammatoria del farmaco. Un effetto collaterale raro ma molto grave è rappresentato dalla polmonite da ipersensibilità. 1

Ciclosporina e Tacrolimus:

La ciclosporina (CSA) esercita effetti inibitori sull’immunità cellulare e su quella umorale. Il suo meccanismo di azione si basa sulla formazione di un complesso con la ciclofilina; tale complesso inibisce la calcineurina, una fosfatasi citoplasmatica capace di indurre l’espressione del gene per IL-2. L’inibizione dell’IL-2 comporta una riduzione della risposta immunitaria cellulo-mediata.

La ciclosporina possiede una potenziale tossicità significativa che rende necessario un monitoraggio piuttosto frequente della funzionalità renale. I più comuni effetti collaterali sono: ipertensione, iperplasia gengivale, ipertricosi, parestesie, tremori, cefalea e squilibri elettrolitici. Un’altra complicanza della terapia con CSA è rappresentata dalla possibilità di insorgenza di crisi epilettiche, specialmente in condizioni di ipomagnesiemia.

Il tacrolimus è un antibiotico della classe dei macrolidi con proprietà immunomodulatorie simili a quelle della CSA. Questo composto, però, risulta cento volte più potente della ciclosporina e rispetto a questa è più facilmente assorbibile per via orale anche in presenza di localizzazioni prossimali della MC.

Il tacrolimus si è dimostrato efficace nei pazienti con coinvolgimento esteso del piccolo intestino, nella malattia steroido-refrattaria e nella MC fistolizzante refrattaria. 1

Antibiotici: il metronidazolo è efficace nella MC attiva, fistolizzante e perianale; si è inoltre dimostrato utile nella prevenzione delle recidive dopo resezione ileale.

I più comuni effetti collaterali sono rappresentati da nausea e gusto metallico; dopo una prolungata somministrazione può comparire una neuropatia periferica la quale può divenire, seppur in rari casi, permanente nonostante la sospensione del farmaco. Anche la ciprofloxacina si è dimostrata utile nel trattamento del Crohn attivo, perianale e fistolizzante. 1

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Terapie biologiche: la terapia biologica è spesso riservata a quei pazienti con MC da moderata a severa che non hanno risposto ad altre terapie.

Anticorpi antifattore di necrosi tumorale: la prima terapia biologica approvata per il morbo di Crohn fu l’infliximab, un anticorpo IgG diretto contro il TNF-α. Il 65% dei pazienti refrattari alla terapia con glucocorticoidi, alla mercaptopurina o al 5-ASA risponde ad infusioni endovenose di infliximab, mentre un terzo va incontro a remissione completa.

Questo farmaco è efficace anche in pazienti con malattia perianale refrattaria e con fistole enterocutanee, dove si ha un tasso di risposta parziale del 68% e un 50% di remissione completa.

Natalizumab: il Natalizumab è un’immunoglobulina G umanizzata ricombinante diretta contro l’integrina α4, ed è efficace nell’induzione e nel mantenimento della remissione nei pazienti con MC. Le integrine sono espresse sulla superficie dei leucociti e funzionano come mediatori di questi all’endotelio vascolare.

Il Natalizumab è stato approvato per il trattamento dei pazienti con MC refrattaria o intolleranti alla terapia con anti-TNF. 1

Trattamento Chirurgico: la maggior parte dei pazienti con MC necessita, nel corso dell’esistenza, di almeno un intervento chirurgico. Il ricorso al trattamento chirurgico è correlato alla durata e alla localizzazione della malattia.

L’intervento si rende necessario in circa l’80% dei pazienti con malattia dei piccolo intestino e nel 50% di quelli con localizzazione colica.

La chirurgia è indicata solo quando il trattamento medico non è efficace o quando insorgono complicanze che la rendono necessaria.

Malattia dell’intestino tenue: poiché il MC è una condizione cronica e recidivante, qualora si renda necessario l’intervento occorre resecare il minore tratto possibile di intestino. Le opzioni chirurgiche nel trattamento della malattia stenosante comprendono la resezione del segmento interessato e la stritturoplastica. La resezione rappresenta l’operazione maggiormente eseguita; la stritturoplastica è indicata in presenza di stenosi brevi con aree interposte di mucosa normale e in

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pazienti già sottoposti a estese resezioni intestinali, al fine di mantenere una lunghezza intestinale adeguata.

I fattori di rischio per la recidiva precoce includono il fumo di sigaretta, la malattia penetrante, una recidiva precoce dall’ultima operazione chirurgica, multipli interventi o una giovane età al momento del primo intervento chirurgico. In questo gruppo di pazienti dovrebbe quindi essere considerato un trattamento postoperatorio aggressivo con mercaptopurina/azatioprina o infliximab. È inoltre raccomandato valutare la recidiva endoscopica tramite colonscopia a 6 mesi dopo l’intervento chirurgico. 1

Malattia colorettale: un’elevata percentuale di pazienti con localizzazione colica della malattia necessita di un intervento chirurgico per refrattarietà alla malattia, decorso fulminante o malattia perianale. Ci sono una serie di possibilità chirurgiche che vanno dal confezionamento di una stomia temporanea alla resezione dei segmenti interessati o dell’intero colon.

Nel 25-30% dei casi di colite estesa il retto è risparmiato in maniera sufficiente da permetterne la conservazione.

Una colostomia di protezione può migliorare il decorso di una malattia perianale grave e delle fistole, ma con la ricanalizzazione la malattia molto spesso (se non quasi sempre) recidiva. In questi casi si renderà necessaria una proctocolectomia totale con ileostomia definitiva. 1

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CAPITOLO 2

Ruolo della Risonanza Magnetica nel Morbo di Crohn

Negli ultimi quindici anni, l’imaging del piccolo intestino è migliorato notevolmente. Tradizionalmente la diagnostica per immagini dell’intestino tenue si basava su indagini utilizzanti il bario e sul clisma del tenue; queste tipologie di indagine permettono la valutazione diretta dello stato della mucosa ma non consentono l’osservazione del compatimento extra parietale e di sue eventuali complicanze, se non attraverso segni indiretti e poco specifici.

In effetti l’inabilità di documentare una malattia extra parietale e le varie complicanze ad essa connesse è uno svantaggio che la gran parte delle tecniche classiche di valutazione del piccolo intestino presenta e ciò rappresenta un limite non indifferente nel malattia di Crohn, che è per l’appunto caratterizzata da un interessamento transmurale della parete intestinale e delle strutture ad essa adiacenti (in particolare il tessuto adiposo e il mesentere).

Ad oggi vi è largo consenso sulla sostituzione delle più classiche tecniche con la TC o la RM. Entrambe queste tecniche presentano infatti notevoli vantaggi, incluse la capacità di mostrare l’intero spessore della parete intestinale, di valutare l’eventuale interessamento del tessuto adiposo e del mesentere e di dare una visione globale dell’intero addome.

I recenti progressi tecnologici hanno prepotentemente aumentato la qualità della tecnica di risonanza magnetica, così che questa abbia iniziato a ricoprire un ruolo molto importante nello studio delle patologie che affliggono il piccolo intestino. 6 Molteplici sono i vantaggi dell’utilizzo di questa tecnica e tra questi, come già precedentemente citato, abbiamo la mancanza di utilizzo delle radiazioni ionizzanti, l’acquisizione di immagini multiplanari, la possibilità di effettuare studi funzionali, la relativa sicurezza dei mezzi di contrasto e la capacità di valutare la parete intestinale ma anche l’intero distretto extra parietale.

Vari studi scientifici hanno riportato, per questa metodica di indagine, un range di sensibilità e di specificità pari al 88-98% e 78-100%, rispettivamente, per la diagnosi

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e il riscontro di Morbo di Crohn 7. Questi, assieme ai vantaggi sopra rammentati, hanno portato al largo uso della RM nella diagnostica e nel follow up dei pazienti con MC.

Il principio cardine su cui si basa l’accuratezza dell’esame di risonanza magnetica in questi pazienti è rappresentato dal raggiungimento di un’ottimale distensione delle anse intestinali con la somministrazione di opportuni mezzi di contrasto, poiché la presenza di anse collassate può fuorviare l’esaminatore; un’ansa collassata infatti può mimare un’ansa patologica (il collasso può sembrare un ispessimento di parete) o può nascondere una lesione che pertanto può rimanere misconosciuta. La distensione delle anse del piccolo intestino può essere ottenuta mediante tecniche che prevedono o meno l’intubazione del paziente.8 L’enteroclisi consiste nella somministrazione del mezzo di contrasto (in quantità pari a 1,5-2 L) attraverso un sondino naso-duodenale. Il contrasto può essere immesso nel sondino manualmente o mediante pompe automatiche e nel momento in cui questo raggiunge la valvola ileocecale, si procede con l’acquisizione delle immagini.

L’enteroclisi porta ad una distensione molto elevata delle anse e può quindi permettere la visualizzazione di immagini del lume molto dettagliate, che permettono di riconoscere i segni più precoci dell’interessamento mucosale. Tuttavia il vantaggio dell’ottimale distensione deve essere messo in relazione con la complessità dell’esecuzione dell’esame e al disagio che il paziente può provare durante il posizionamento del sondino e l’esecuzione dell’esame stesso. 8

L’enterografia consiste invece nella somministrazione del mezzo di contrasto per via orale, poco prima dell’esecuzione dell’esame.

Quale sia la tecnica migliore per la somministrazione del mezzo di contrasto è una questione ancora largamente dibattuta. Con l’enteroclisi viene sicuramente raggiunta una distensione maggiore delle anse, ma tale grado di distensione spesso non è necessario per la valutazione dello stato di malattia della parete; molti studi hanno dimostrato che l’enterografia ha una specificità simile all’enteroclisi nella detezione dell’infiammazione acuta nel MC. Altri studi hanno invece individuato una maggior capacità di raffigurazione delle anormalità della mucosa da parte dell’enteroclisi. 9

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Debbono inoltre essere considerati, nella scelta della tecnica di somministrazione del mezzo di contrasto, altri fattori quali l’accettazione da parte del paziente ed il suo possibile disagio durante l’esecuzione dell’esame e la facilità di esecuzione dell’esame stesso.

Per questi ed altri motivi viene ad oggi preferita l’ingestione orale del mezzo di contrasto.

Molte sono le sostanze che possono essere utilizzate come mezzo di contrasto orale nell’esame di risonanza magnetica e ognuna di queste viene classificata sulla base dell’intensità di segnale prodotta nelle sequenze T1 e T2 pesate. Si riconoscono quindi mezzi di contrasto positivi, negativi o bifasici. I mezzi di contrasto positivi sono rappresentati da sostanze paramagnetiche, le quali inducono un aumento dell’intensità di segnale sia nelle sequenze T1 pesate, che nelle sequenze T2 pesate. Alcune di queste sostanze sono: soluzioni di chelati di gadolinio, ioni ferrosi e ioni di manganese (sono inoltre stati utilizzati cibi, quali latte, olii vegetali, tè verde). Questi agenti possono dimostrare l’ispessimento parietale nelle immagini T1 pesate, ma possono mascherare l’enhancement di condizioni di anormalità della mucosa.9

I mezzi di contrasto negativi riducono l’intensità del segnale nelle sequenze T1 e T2 pesate sono costituiti da sostanze con azione superparamagnetica come perfluoroctilbromide, ossido di ferro e particelle magnetiche orali.

Tali composti riducono l’intensità del segnale del lume intestinale, a favore di un maggior contrasto con l’elevata intensità delle pareti infiammate nelle immagini T2 pesate. 9

I mezzi di contrasto bifasici (categoria in cui abbiamo il maggior numero di sostanze utilizzabili), infine, sono caratterizzati dal produrre intensità di segnale diverse a seconda delle sequenze utilizzate. Queste sostanze, infatti, sono ipointense nelle immagini T1 pesate e iperintense nelle immagini T2 pesate.

In T1 i mezzi di contrasto orali bifasici permettono quindi un elevato contrasto tra il lume (che loro rendono ipointenso) e la parete (che, dopo somministrazione di appropriato mezzo di contrasto endovenoso, risulta più o meno iperintensa) garantendo una buona valutazione dello stato di attività di malattia (poiché questo,

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come vedremo in seguito, è correlato al pattern di impregnazione contrastografica della parete intestinale).

In T2, invece, queste sostanze permettono di valutare lo spessore della parete, la quale risulterà ipointensa e quindi in netto contrasto con il lume che, ora, sarà iperintenso.

Alcuni di questi mezzi di contrasto orali sono: Manganese e sostanze contenenti il manganese, chelati del gadolinio, acqua e soluzioni acquose iper/iso osmolari (contenenti mannitolo o polietileneglicole – PEG-).

Ognuna di queste sostanze presenta specifici vantaggi e svantaggi.

L’acqua, ad esempio, è il mezzo di contrasto più economico e più sicuro ma nella maggior parte dei pazienti non consente un’adeguata distensione dell’ileo distale, poiché viene assorbita lungo il transito intestinale.

Le soluzioni iperosmolari contenenti mannitolo hanno invece un elevato tasso di effetti collaterali, quali crampi addominali e diarrea.

Per ovviare a questi problemi, sono state create soluzioni acquose iso osmolari contenenti, ad esempio, il PEG; questa è una molecola idrofilica che possiede in fase lipidica una inconsistente diffusione trans-membrana; inoltre ha un diametro che non ne permette il trasporto attraverso i canali dell’acqua della mucosa intestinale e perciò non subisce assorbimento intestinale. Simula, dunque, le proprietà dell’acqua col vantaggio della non assorbibilità, favorendo una buona distensione dal digiuno all’ileo terminale.

I mezzi di contrasto positivi sono stati ad oggi abbandonati nello studio del piccolo intestino, poiché inducendo un iperintensità luminale possono condurre ad una non chiara differenziazione dell’enhancement parietale.

La scelta dell’utilizzo del mezzo di contrasto più adatto ricade quindi sui mezzi negativi (i maggiormente utilizzati di questa categoria sono gli ossidi di ferro) o su quelli bifasici.

Si ha, in particolare, un maggior utilizzo del polietileneglicole, il quale presenta tutte le caratteristiche di un buon mezzo di contrasto: produce una distensione uniforme del lume intestinale, la sua composizione rimane invariata lungo il transito nel tratto gastroenterico, è ben tollerato dal paziente, è sicuro ed ha basso costo.

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Per quanto concerne i protocolli di studio, questi si basano sull’acquisizione di sequenze T1 e T2 pesate, ottenute mediante l’utilizzo di bobine dedicate, sui piani assiale e coronale.

Entrambe le sequenze T1 e T2 pesate sono abbastanza veloci da poter permettere acquisizioni in apnea, in modo da ridurre gli artefatti da movimento.

Le immagini T1 pesate sono ottenute mediante l’acquisizione di sequenze denominate 3D gradient-echo, che presentano tempi di acquisizione dell’ordine dei venti secondi.

Queste sono generalmente utilizzate dopo iniezione endovenosa di apposito mezzo di contrasto per valutare l’enhancement parietale ed ottenere informazioni sul grado di attività di malattia.

Le immagini pesate in T1 possono beneficiare dell’utilizzazione di impulsi di saturazione del segnale del tessuto adiposo, che permettono un incremento del contrasto tra la parete ed il tessuto adiposo mesenteriale e consentono quindi di cogliere meglio gli eventuali aspetti patologici.

Per le immagini T2 dipendenti, invece, la sequenza maggiormente utilizzata è la Single-Shot Fast Spin-Echo (SSFSE). Questa genera immagini T2 fortemente pesate, con un elevato contrasto tra il lume e la parete intestinale8; il loro tempo di acquisizione può essere estremamente rapido, sino all’ordine di un secondo per immagine e ciò comporta immagini praticamente prive di artefatti da movimento. Queste utili sequenze hanno però una limitazione: sono infatti estremamente sensibili allo spostamento dei fluidi all’interno del lume viscerale, e ciò può comportare l’insorgenza di artefatti che causano delle perdite di segnale tali da simulare delle vere e proprie “pseudo-lesioni”. Per limitare tali inconvenienti può essere utile somministrare al paziente immediatamente prima dell’esame un farmaco anti-peristaltico che riduca i movimenti propulsivi intestinali. Una seconda limitazione è poi l’incapacità di dimostrare l’interessamento delle strutture mesenteriche. 10

Molto valide si sono dimostrate le sequenze Gradient Echo: queste presentano una configurazione tecnica che le rende particolarmente adatte allo studio del piccolo intestino. Sono caratterizzate da un tempo d’acquisizione molto rapido, tale da rendere non misurabili gli artefatti da movimento peristaltico e respiratorio, ed

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appaiono pertanto molto utili nello studio di pazienti pediatrici o soggetti scarsamente collaboranti. Queste sequenze generano un’opacizzazione uniforme del lume con un elevato contrasto tra questo, la parete intestinale ed il mesentere.

Queste sequenze consentono di risolvere alcune delle limitazioni date dalle SSFSE; la prima è la sensibilità agli artefatti da movimento peristaltico, a cui le gradient echo non sono sottoposte: non è pertanto necessario l’utilizzo di farmaci che deprimano tali movimenti prima dell’acquisizione di queste sequenze 10.

Inoltre, il segnale che forniscono permette di dimostrare l’interessamento mesenteriale, sopperendo ad un altro limite delle single shot fast spin echo10.

Lo svantaggio principale di queste sequenze è rappresentato dalla presenza di un artefatto che si presenta come una banda ipointensa lungo la parete intestinale; tale artefatto può mascherare piccole lesioni o anormalità della parete o può comportarne una sovrastima dello spessore. La conoscenza della presenza di questo “difetto” e la sua relativa ipointensità rispetto alla struttura parietale, però, possono limitare tale problematica. Un valido aiuto nella risoluzione di tale artefatto può inoltre venire dall’aggiunta di impulsi di saturazione del segnale del tessuto adiposo. 8

Alcuni studi hanno riportato elevate specificità e sensibilità (100 e 93.3% rispettivamente) per queste sequenze nella detezione di lesioni infiammatorie del piccolo intestino; hanno inoltre riportato una maggior capacità di differenziazione dei tessuti molli rispetto ad altre tipologie di sequenze. 8

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Ø

Valutazione dell’attività di malattia

In accordo con specifici rilievi di imaging, l’attività di malattia del paziente può essere classificata in due modi: Malattia in fase attiva e Malattia in fase cronica/fibrostenosante. Non è infrequente che in uno stesso tratto patologico di intestino, siano presenti entrambe queste condizioni.

• Malattia in fase attiva

Le caratteristiche che ad oggi sono state identificate come fattori riflettenti una fase di malattia attiva sono: ispessimento di parete e sua entità, edema sottomucoso, presenza di ulcere, captazione contrastografica della parete (pattern di enhancement), interessamento infiammatorio del mesentere, presenza di linfoadenopatia, ascessi e/o fistole.

Ispessimento di parete: Un’importante caratteristica della fase attiva di malattia è rappresentata dall’ispessimento della parete; tale ispessimento, comunque, non è specifico di questa fase, infatti può derivare dalla flogosi con edema (tipica della fase acuta di malattia) ma anche dalla fibrosi, tipica della malattia in fase cronica.

Un ispessimento di parete che supera i 3 mm, comunque, deve essere considerato anormale; il grado di ispessimento correla con la severità di malattia se confrontato con reperti endoscopici e/o istologici.11

Nei pazienti con morbo di Crohn l’ispessimento della parete varia, generalmente, tra 5 e 10 mm ed è individuato con maggior accuratezza con le sequenze HASTE. 12

Edema della parete: l’edema della parete (che determina, in parte,

l’ispessimento della parete) si è dimostrato essere in correlazione con alcuni indici di malattia.

La presenza dell’edema comporta un aumento dell’intensità del segnale della parete nelle immagini T2 pesate e ciò può permettere la differenziazione con un ispessimento dovuto ad una condizione fibrotica (espressione di malattia cronica), poiché quest’ultimo apparirà come una parete aumentata nello spessore ma con un’intensità di segnale bassa/intermedia nelle sequenze T2 dipendenti.

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In ogni caso, comunque, l’assenza di un’iperintensità della parete non porta ad escludere la presenza di malattia in fase attiva.12 Ulcere: uno dei primi segni della malattia di Crohn è la formazione di ulcere superficiali, denominate aftoidi. Queste sono ben apprezzabili alla RM 3T ed appaiono come piccoli “nidi” ad elevata intensità di segnale (il cratere dell’ulcera) circondati da una rima a moderata intensità di segnale (edema). Con il progredire della malattia le ulcere si approfondano e confluiscono le une nelle altre ed appaiono alla RM come protrusioni lineari iperintense in T2 che sporgono nel lume intestinale.

L’alternanza di tratti ulcerati a tratti di mucosa sana, che mostra proliferazione di pseudopolipi, conferisce il tipico aspetto ad acciottolato romano, che alla RM dà un’immagine striata, nodulare della parete.

In un quadro clinico appropriato la presenza di questi rilievi all’imaging è fortemente suggestiva di MC.12

Captazione contrastografica della parete: un altro elemento che caratterizza

l’attività di malattia è l’aumento (comparato con le anse non coinvolte da malattia) dell’enhancement della mucosa, che riflette a livello istologico la presenza di edema e l’aumento della vascolarizzazione capillare a livello sottomucoso.

In particolare è il pattern di impregnazione contrastografica che permette la valutazione dell’attività di malattia.

L’intensità dell’enhancement ha dimostrato di avere una buona correlazione con l’indice CDAI, inoltre la captazione è stata valutata dopo il trattamento farmacologico ed è stato dimostrato che una buona risposta alla terapia si riflette in una diminuzione dell’intensità dell’enhancement della mucosa intestinale.

Vi sono diversi pattern di impregnazione contrastografica e quello che si è dimostrato essere in relazione con la fase attiva di malattia è quello tristratificato (layered pattern). Questo aspetto d’imaging consiste in un anello iperintenso interno, espressione di una mucosa iperemica, un anello intermedio a media intensità di segnale (prodotto dall’edema presente a livello della sottomucosa) ed, infine, un anello esterno iperintenso che corrisponde ad un aumento dell’enhancement nella muscolare e nella sierosa. 8

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Interessamento del mesentere, “Comb Sign”: il rilievo del così detto “comb sign” indica la presenza di un’aumentata vascolarizzazione mesenteriale, che spesso si accompagna ad uno stato attivo di malattia. Il comb sign è rappresentato da una serie di strutture lineari parallele tra di loro, ipointense, poste perpendicolarmente all’asse longitudinale del tratto intestinale coinvolto da malattia. 10

E’ un rilievo che è possibile osservare anche in Tomografia Computerizzata.

Interessamento linfonodale: la presenza di linfonodi captanti il mezzo di

contrasto ed aumentati di volume è fortemente indicativa di malattia in fase attiva. I linfonodi “attivi” generalmente si localizzano attorno ai vasi afferenti al tratto intestinale interessato, ma ciò non esclude che si possano riscontrare anche a distanza. La captazione contrastografica è generalmente omogenea.

Ascessi e fistole: Gli ascessi sono caratterizzati da una rima esterna iperintensa

in T1 dopo somministrazione del mezzo di contrasto e da una zona centrale disomogenea e iperintensa nelle immagini T2 pesate. La risonanza magnetica è estremamente sensibile nell’individuazione degli ascessi e ciò è molto utile nella caratterizzazione dell’approccio terapeutico al paziente. Le fistole sono complicanze molto comuni ed appaiono, quando visibili, come tratti a forte iperintensità dopo somministrazione del mezzo di contrasto, data la loro avidità nella captazione del mdc. La fistola può mettere in comunicazione l’ansa intestinale con un’altra ansa, con un organo adiacente o con la cute.

• Malattia in fase cronica/fibrostenosante

Questa fase della malattia è caratterizzata dall’ostruzione intestinale.

Con il progredire della malattia, la flogosi cronica della parete intestinale evolve a fibrosi e quando questa provoca una restrizione del lume intestinale, può svilupparsi un quadro di ostruzione intestinale.

Il tratto stenotico appare come un segmento ristretto, ridotto di calibro, spesso preceduto da un tratto dilatato (dilatazione pre-stenotica).

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La fibrosi in risonanza magnetica appare, generalmente, come un’area ipointensa sia nelle immagini T1 che in quelle T2 pesate, entrando in contrasto con la mucosa che continua a captare, seppur in maniera minore rispetto alla fase acuta.

Il risultato è un pattern di enhancement contrastografico diffusamente non omogeneo caratterizzato da un anello interno iperintenso (la mucosa captante) circondato da una parete diffusamente e disomogeneamente ipointensa (la parete fibrotica).

Un altro elemento tipico di questa fase di malattia è la proliferazione fibroadiposa mesenterica (detta anche fibrofatty proliferation/fat wrapping), che si riscontra attorno ai tratti coinvolti dalla flogosi cronica e che comporta un aumento della separazione delle anse intestinali. E’ una condizione piuttosto tipica del MC di lunga data ed è dovuta ad un’ipertrofia del tessuto adiposo sottosieroso.

Alla RM la proliferazione fibroadiposa appare come una “cotenna” ipointensa (rispetto al grasso non interessato da patologia) posta attorno alle anse interessate che risultano quindi nettamente separate dai restanti segmenti intestinali sani.

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CAPITOLO 3

Scopo dello studio

Il morbo di Crohn è una malattia infiammatoria cronica idiopatica che colpisce tutto il tratto gastroenterico e che può presentare diversi livelli di gravità, diverse manifestazioni e un decorso clinico piuttosto imprevedibile. Il piccolo intestino è il segmento del tratto gastrointestinale che viene maggiormente interessato dalla malattia ed è, purtroppo, quello più difficilmente esaminabile con le tecniche endoscopiche.

La Risonanza Magnetica è una tecnica di indagine che ad oggi sta diventando sempre più importante nell’ambito della diagnosi e del follow up dei pazienti affetti da questa malattia; essa permette una valutazione della malattia di parete e del comparto extra parietale ed offre molteplici vantaggi che consentono di “stadiare” la malattia nella totale assenza di radiazioni ionizzanti (fatto assolutamente non irrilevante, vista la giovane età della maggior parte dei pazienti affetti da MC). Lo scopo dello studio è stato quello di identificare il ruolo diagnostico della Risonanza Magnetica nella valutazione dell’attività di malattia in pazienti con diagnosi istologica di morbo di Crohn.

I dati ottenuti dall’analisi delle immagini, atti a valutare l’attività di malattia, sono stati posti in correlazione con il Crohn Activity Index (CDAI); questo indice è stato preso come riferimento poiché è un indicatore dello stato di malattia comunemente utilizzato nella pratica clinica e in molteplici trials. E’ stata dimostrata concordanza tra i risultati del nostro studio e la classificazione dello stadio di malattia ottenuta con il CDAI.

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CAPITOLO 4

Materiali e Metodi

Nel periodo compreso tra gennaio 2014 e agosto 2016, un totale di 40 pazienti (27 maschi e 13 femmine in un’età compresa tra 17 e 78 anni) con diagnosi istologica di morbo di Crohn, sono stati sottoposti a esame di Risonanza Magnetica con campo magnetico 3T (Discovery 750, General Electric, Milwaukee, Wisconsin, USA).

La valutazione dello score clinico CDAI è stata effettuata nei tre giorni precedenti l’esame di risonanza, al fine di poter valutare la correlazione tra questo indice e i reperti d’imaging. Da tutti i pazienti è stato ottenuto il consenso scritto firmato.

Ø

Il Protocollo di studio

Il paziente viene esaminato digiuno. Il protocollo di studio consiste nel somministrare per via orale al soggetto in analisi, circa un’ora prima dell’esame, 1000-1500 ml di soluzione acquosa iso-osmotica con polietileneglicole (PEG) ed elettroliti, suddivisi in due-tre bottigliette da 500 ml ciascuna.

Le tempistiche per l’assunzione del mezzo di contrasto orale sono estremamente precise: ogni paziente viene infatti istruito nel bere ogni bottiglia in un tempo pari a 10 minuti (quindi con un ritmo piuttosto lento) con una pausa tra una bottiglia e la successiva di 5 minuti. In totale quindi il paziente beve 1500 ml di soluzione acquosa in un tempo pari a 45 minuti; differente è il quantitativo di polietileneglicole diluito in acqua nei pazienti che hanno subito interventi di resezione intestinale, questi infatti assumono solo 1000 ml di soluzione (quindi due bottigliette da 500 ml in un tempo pari a 30 minuti).

Questi specifici parametri di quantità e di tempistiche di somministrazione permettono di raggiungere un’ottima distensione delle anse intestinali minimizzando la comparsa di effetti collaterali quali nausea e/o vomito.

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Una volta che la soluzione di polietileneglicole è stata bevuta, il paziente viene quindi ammesso nella sala di risonanza e dopo il posizionamento di un accesso venoso, viene collocato sul lettino in posizione prona. Il decubito prono permette una facilitazione della separazione delle anse intestinali e ciò comporta una diminuzione del volume addominale da esaminare che, a sua volta, porta ad una diminuzione del tempo di acquisizione (per diminuzione del numero di sequenze che devono essere acquisite). Alcuni pazienti, tuttavia, possono non tollerare tale posizione perciò debbono essere posti in decubito supino, il quale risulta comunque un posizionamento adeguato. 6

L’esame di risonanza magnetica inizia con l’acquisizione di una sequenza scout standard, seguita da una FIESTA o true-FISP (TR/TE 4.5 ms/2.25 ms, slice thickness 4 mm, FoV phase 380 mm, matrix 179x256, 24 slices, 20-s breath-hold duration, one signal average) sui piani coronale ed assiale. La stessa sequenza viene poi ripetuta, sul piano coronale, con la saturazione del grasso (TR/TE 4.5 ms/2.25 ms, slice thickness 4 mm, FoV phase 350 mm, matrix 179x256, 24 slices, 20-s breath-hold duration, one

signal average).

Segue la somministrazione di 20 mg di antipersitaltico per via endovenosa (Buscopan®) e quindi l’acquisizione di sequenze SSFSE o HASTE sul piano coronale

(TR/TE 1900/95ms, slice thickness 4 mm, FoV phase 380 mm, matrix 173x192, 24 slices,

one signal average).

Viene poi somministrato il mezzo di contrasto per via endovenosa (un chelato del Gadolinio, Magnevist®) in una dose pari a 0.2 ml/Kg del peso del paziente, seguito dall’acquisizione di sequenze LAVA o Vibe con saturazione del segnale adiposo sul piano coronale (TR/TE 3.79 ms/1.61 ms, slice thickness 2.2 mm, FoV phase 345 mm,

matrix 158x384, flip angle 10°, one signal average).

Mentre le sequenze FIESTA e SSFSE sono state impiegate per la valutazione dell’anatomia del piccolo intestino, per il riconoscimento di un qualsiasi tratto anomalo (affetto da ulcere, ispessimento parietale, steno-ostruzioni etc..) e la presenza di eventuali complicanze extramurali (come fistole, ascessi, linfoadenopatie,

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