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Incentivi all'occupazione e alla creazione d'impresa innovativa: Garanzia Giovani e Industria 4.0

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Academic year: 2021

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Dipartimento di Scienze Politiche

Corso di Laurea Magistrale in

Comunicazione d’impresa e politica delle risorse umane (LM-59)

TESI DI LAUREA

Incentivi all’occupazione e alla creazione d’impresa

innovativa: Garanzia Giovani e Industria 4.0

Candidato Relatore

Daniele Maglietti Prof. Giancamillo Palmerini

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INDICE

INTRODUZIONE ... 5

1.

IL MERCATO DEL LAVORO IN ITALIA ... 1

1.1 Analisi del mercato del lavoro in Italia ... 1

1.2 Il mercato del lavoro dopo il Jobs Act ... 5

2.

LE POLITICHE ATTIVE DEL LAVORO ... 12

2.1 Gli elementi caratterizzanti delle politiche per il lavoro ... 12

2.1.1 La Rete Nazionale dei servizi per le politiche del lavoro ... 17

2.2 Quanto investe l’Italia in Politiche Attive? ... 18

2.3 Una governance capace di reagire ai cambiamenti ... 22

3.

GLI INCENTIVI ALL’OCCUPAZIONE ... 24

3.1 Analisi del contesto ... 24

3.2 Principi generali di fruizione degli incentivi ... 25

3.3 Incentivi all’assunzione 2017 ... 27

3.3.1 Incentivi a favore dell’occupazione giovanile ... 28

3.3.2 Incentivi a favore delle donne e dei lavoratori over ‘50 ... 40

3.3.3 Bonus per cassaintegrati e percettori di NASpI ... 43

3.3.4 Altre agevolazioni ... 44

3.4 Incentivi all’assunzione 2018 ... 45

3.4.1 Incentivo assunzione under 35 ... 46

3.4.2 Incentivo Occupazione Giovani ... 47

3.4.3 Incentivo Occupazione Sud ... 48

3.4.4 Incentivi alternanza Scuola-Lavoro ... 49

(4)

3

4.

GARANZIA GIOVANI ... 50

4.1 Analisi del fenomeno: i NEET ... 50

4.2 Perché Garanzia Giovani: Europa 2020 ... 55

4.3 L’attuazione a livello nazionale e l’implementazione delle Regioni ... 58

4.3.1 Lo schema complessivo delle misure ... 62

4.3.2 L’attuazione a livello regionale ... 73

4.3.3 Stato di attuazione finanziaria ... 78

4.4 Garanzia Giovani, funziona? ... 79

4.4.1 Da Garanzia giovani a Garanzia tirocini ... 83

4.4.2 Riformulare la Garanzia ripartendo dalle origini ... 85

5.

GLI INCENTIVI ALLA CREAZIONE D’IMPRESA

INNOVATIVA ... 87

5.1 Il piano nazionale Industria 4.0 ... 87

5.1.1 Iper e Super Ammortamento ... 90

5.1.2 Nuova Sabatini ... 91

5.1.3 Credito d’imposta per le spese in Ricerca e Sviluppo ... 92

5.1.4 Patent Box ... 94

5.1.5 Startup e PMI innovative ... 95

5.1.6 Fondo di Garanzia ... 96

5.1.7 Centri di competenza ad alta specializzazione ... 97

5.2 Da Industria 4.0 a Impresa 4.0... 99

5.2.1 La recente dinamica delle professioni ... 101

5.2.2 Il ruolo cruciale delle competenze digitali e della formazione ... 102

5.3 Da Impresa 4.0 a Società 4.0 ... 104

CONCLUSIONI ... 107

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INTRODUZIONE

Negli ultimi anni le trasformazioni subite a livello globale dal sistema economico e produttivo, hanno influenzato profondamente il mercato del lavoro. Si è passati, infatti, da una vita professionale lineare ad una più circolare, fatta di periodi di lavoro alternati a momenti di disoccupazione o a fasi di riqualificazione professionale.

Sono le grandi trasformazioni a preoccupare maggiormente le famiglie, le imprese e coloro che si accingono ad entrare nel mondo del lavoro. Trasformazioni che siamo già oggi chiamati ad affrontare, come ad esempio quelle tecnologiche, che se concepite come fini a sé stesse, senza un governo e senza una meta, rischiano di divenire fonte di instabilità. Pesa, dunque, l’incertezza dell’innovazione tecnologica e a questa, si aggiunge il peso dei grandi cambiamenti demografici che incidono sul futuro dei giovani e dei gruppi più deboli in una società che invecchia.

È in questo scenario complesso e allo stesso tempo confuso, che si inserisce l’elaborato, nel quale verranno posti al centro dell’attenzione gli incentivi all’occupazione e alla creazione d’impresa innovativa, procedendo ad analizzare dal lato delle opportunità a favore dell’occupazione, gli incentivi e le politiche per il lavoro, ponendo particolare attenzione al Programma Garanzia Giovani; mentre dal lato delle imprese, ci concentreremo sulle possibilità offerte alle realtà aziendali che investono in attività innovative, riferendoci, in particolare, al nuovo piano nazionale Industria 4.0.

Per compiere questa analisi, nel primo capitolo si è scelto di partire dalla condizione del mercato del lavoro in Italia, evidenziando il profondo mutamento da questo subito, sia a livello legislativo, che da un punto di vista strutturale e sociale, soprattutto a causa della recente crisi economica.

Sul piano legislativo, la legge Treu e Biagi hanno avuto come effetto quello di segmentare il mercato del lavoro facendogli assumere una “natura duale”. Infatti, da un lato vi sono lavoratori “protetti” assunti con contratti standard e a tempo indeterminato; dall’altro, lavoratori “precari” assunti con le varie tipologie di contratti atipici. Da un punto di vista strutturale e sociale, dopo la crisi del 2008, le politiche dell’UE si sono focalizzate maggiormente sul funzionamento del mercato del lavoro anziché sulla crisi finanziaria e macroeconomica. A riprova di ciò, la Commissione Europea ha esercitato

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6 pressioni sui governi nazionali, tra cui l’Italia, affinché introducessero politiche di deregolamentazione del mercato del lavoro e conseguentemente indebolendo in modo significativo la tutela dell’occupazione.

Al fine di arginare la presenza di un mercato del lavoro in continuo mutamento, sia per le innovazioni tecnologiche che per la presenza di nuovi metodi di produzione e organizzazione del lavoro, il governo Renzi ha varato la riforma del lavoro conosciuta come Jobs Act. Lo scopo della riforma è rendere il mercato del lavoro più flessibile e favorire un incremento dell’occupazione attraverso il riordino e la revisione delle tipologie contrattuali, con l’obiettivo di incentivare il ricorso da parte dei datori di lavoro a contratti standard, a tempo indeterminato e determinato andando contro le numerose tipologie atipiche di contratti che sono proliferate nell’ultimo decennio.

Con la riforma del mercato del lavoro, il Governo Renzi ha dato avvio ad un modello definibile flexicurity basato su due elementi: le politiche di sostegno al reddito da un lato e dall’altro, le politiche indirizzate a favore della ricollocazione del lavatore.

In questo quadro si inserisce il tema trattato nel secondo capitolo, delle politiche del lavoro. La promozione dell’occupazione è strategica nell’attuale sistema economico per favorire l’inserimento professionale e stimolare la domanda di lavoro. Tuttavia essa richiede uno sforzo amministrativo di dimensioni imponenti. Proprio per questo, è ragionevole aspettarsi risultati migliori nei Paesi in cui si ha una governance più efficace, capace di reagire subito a cambiamenti sempre più frequenti e veloci nel mondo del lavoro.

Data l’importanza di quest’ultimo aspetto, nel terzo capitolo, analizzeremo gli incentivi all’occupazione e di come questi possano essere catalizzatori di nuovo lavoro in un’ottica di sviluppo e di inclusione sociale volta a governare i profondi cambiamenti in atto sulla scena globale. In particolare analizzeremo gli incentivi previsti dalla Legge di Bilancio 2017 a favore dell’occupazione giovanile, delle donne e dei lavoratori over ’50 assieme ai bonus previsti per cassaintegrati e percettori di NASpI. In seguito, analizzeremo i nuovi incentivi previsti dalla Legge di Bilancio 2018, per i quali sono stati previsti circa 300 milioni di euro a favore delle politiche per i giovani nel 2018 e un significativo aumento di 800 milioni nel 2019 e 1,2 miliardi nel 2020.

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7 Nel quarto capitolo, analizzeremo un caso peculiare di politica attiva, ovvero Garanzia giovani e di come questo programma possa favorire il rilancio della pesante precarietà in cui perversa il mondo del lavoro giovanile.

Per l’analisi del Programma si è partiti da un fenomeno sociale ormai tristemente noto dei giovani 15-24enni non impegnati in un’attività lavorativa, né inseriti in un percorso scolastico o formativo (i c.d. Neet), di cui l’Italia tra tutti i 28 paesi europei ne ha il record negativo. Infatti le stime parlano di circa 1,27 milioni, il 21% della popolazione appartenente a questa fascia di età, percentuale che supera il 30% in alcune delle più importanti regioni del Mezzogiorno.

Il problema dei Neet è avvertito in tutta Europa, perciò l’Unione Europea ha messo in campo delle soluzioni quali la Strategia Europa 2020, dal titolo "Youth on the Move" (Gioventù in movimento), e l'iniziativa "Opportunità per i giovani". L'idea alla base di questi interventi è che per rispondere ad un problema di sistema e molto diffuso, bisogna mettere in piedi una risposta strutturata e virtuosa, coinvolgendo aziende, scuole e parti sociali, progettando percorsi integrati che favoriscano il ritorno dei Neet a scuola, nonché la creazione di contatti specifici con il mercato del lavoro.

Oltre ad avere il record di Neet, per quanto riguarda la disoccupazione giovanile l’Italia è al terzo posto: il 37,8% dei giovani che cercano attivamente lavoro, esclusi quelli che studiano, non riescono a trovarlo. Il piano Garanzia Giovani nasce con il compito di risolvere tali problematiche e, per avviare questo processo, ha coinvolto i governi europei sulla base di due obiettivi principali: facilitare la transizione scuola-lavoro e ridurre la disoccupazione di lungo periodo.

La Garanzia rappresenta una innovazione importante nelle iniziative europee di supporto alle politiche giovanili, ancor più per un paese come l’Italia, in cui la transizione scuola-lavoro è ancora in gran parte gestita a livello individuale e familiare e non dai servizi per l’impiego.

Nell’immaginare il mondo di domani, è importante comprendere non solo il ruolo che gli incentivi possono avere nel favorire l’occupazione, ma anche le possibilità offerte alle imprese, soprattutto quelle innovative, al fine di avere un quadro complessivo della materia oggetto di analisi. In particolare nel capitolo 5, si è spostata l’attenzione sugli incentivi, come confermati dalla Legge di Bilancio 2018, per le realtà aziendali che investono in attività innovative nell’ottica del nuovo piano nazionale Industria 4.0.

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8 È di fondamentale importanza analizzare il tema dell’Industria 4.0 poiché in Italia, secondo Paese manifatturiero d’Europa, così come nel resto del mondo, le imprese stanno mutando, divenendo sempre più digitali e interconnesse.

In questa prospettiva, a novembre 2015 il Ministero dello Sviluppo Economico ha promosso un documento dal titolo “Industria 4.0, la via italiana per la competitività del manifatturiero”, con l’obiettivo di fare della trasformazione digitale dell’industria un’opportunità per la crescita della competitività e dell’occupazione. Il 21 settembre 2016 poi, il governo ha presentato il piano per l’Industria 4.0 contenente un mix di incentivi fiscali, sostegno al venture capital, diffusione della banda ultra larga e formazione dalle scuole alle università, con l’obiettivo di sostenere ed incentivare le imprese ad aderire pienamente alla quarta rivoluzione industriale.

Nel dicembre 2017, nella Legge di Bilancio per il 2017-2019, sono state delineate specifiche misure di incentivo all’acquisto di macchinari e robot finalizzati all’innovazione digitale nei processi dell’industria, lungo alcune principali direttrici di sviluppo: l’utilizzo dei dati, la potenza di calcolo e la connettività, lo sviluppo dell’interazione tra uomo e macchina, il passaggio dal digitale al “reale”; tutti cambiamenti destinati ad avere nel tempo un impatto significativo sui modi e le possibilità di produzione.

In particolare sono state previste delle misure atte a potenziare l’investimento innovativo attraverso: Iper e Super Ammortamento, la Nuova Sabatini, il Credito d’imposta per le spese in Ricerca e Sviluppo, il Patent Box, gli incentivi alle Startup e PMI innovative, il Fondo di Garanzia e la creazione dei Centri di competenza ad alta specializzazione. Si tratta di ambiti di intervento significativi da un punto di vista strategico, tanto più se si considera il persistente ritardo del nostro sistema produttivo rispetto alle altre maggiori economie europee nei livelli di investimento, nella dinamica della produttività del lavoro, nell’intensità ancora modesta dell’attività di ricerca e sviluppo nelle imprese.

Per cogliere i benefici dei cambiamenti tecnologici è, tuttavia, primario adeguare i soggetti alle competenze digitali investendo massicciamente in formazione. Soprattutto perché l’Italia, tra i 5 maggiori paesi europei, mostra il più basso livello di diffusione delle competenze digitali elevate. Proprio per questo nel passaggio da Industria a Impresa 4.0

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9 è stato dato un ruolo fondamentale al credito di imposta per la formazione e per la politica di potenziamento degli ITS.

La quarta rivoluzione industriale avrà effetti soprattutto sul lavoro, su quelle che saranno le professionalità necessarie e quelle che invece potrebbero scomparire. Contribuire alla formazione tecnica, sia a livello di istruzione scolastica che di formazione sul lavoro, è un passo fondamentale per migliorare le prospettive professionali dei lavoratori italiani.

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1. IL MERCATO DEL LAVORO IN ITALIA

1.1 Analisi del mercato del lavoro in Italia

Negli ultimi anni, il mercato del lavoro italiano ha subito un profondo mutamento sia dal punto di vista legislativo, che da un punto di vista strutturale e sociale soprattutto a causa della recente crisi economica.

Dal punto di vista legislativo, vi sono stati quattro importanti interventi:

1. La legge 196/97 nota come “Pacchetto Treu”, introduce e regolamenta numerose forme di lavoro flessibile ed estende la possibilità di utilizzo delle collaborazioni coordinate e continuative (co.co.co) come contratti atipici di lavoro subordinato (Tridico P., 2014);

2. La legge n.30/03 nota come “Riforma Biagi”, che accresce ulteriormente le tipologie contrattuali flessibili e a tempo determinato;

3. La legge n.92/2012 nota come “Riforma Fornero”, con la quale si assiste ad una significativa modifica dell’articolo 18 sui licenziamenti, mettendo in discussione il diritto al reintegro del posto di lavoro per i lavoratori licenziati senza giusta causa, la modifica delle norme contrattuali c.d. flessibili e l’innovazione degli ammortizzatori sociali;

4. La legge delega 183/2014 nota come “Jobs Act”, con la quale viene promosso il contratto a tempo indeterminato quale forma comune di contratto di lavoro, con riduzione degli oneri diretti ed indiretti e l’introduzione, per le nuove assunzioni, di un contratto a tempo indeterminato «a tutele crescenti» così come disciplinato dal d.lgs. 23/2015 (G. Bellandi, M. Giannini, 2016, p. 110).

La legge Treu e la riforma Biagi hanno avviato un processo di segmentazione del mercato del lavoro, facendogli assumere una “natura duale”. Infatti, da un lato vi sono lavoratori “protetti” assunti con contratti standard e a tempo indeterminato; dall’altro, vi sono lavoratori “precari” assunti con le varie tipologie di contratti atipici. Questi ultimi, non solo non dispongono dello scudo dell’articolo 18, (il rapporto di lavoro è di breve durata, cessa con la scadenza del contratto e può prolungarsi solo se l’impresa decide di

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2 rinnovarlo), ma risultano assai meno tutelati anche sotto gli altri profili, come quello sanitario, previdenziale e dell’accesso al credito.

Nonostante tale situazione, è ormai diventata convinzione comune che sia meglio un lavoro precario che essere disoccupati, ed è proprio questo che giustifica il successo e la diffusione dei contratti atipici per la creazione di nuovi posti di lavoro (Rodano G., 2015).

Da un punto di vista strutturale e sociale, dopo la crisi del 2008, i tassi di disoccupazione nell’ Unione Europea sono saliti a livelli record, ma con considerevoli variazioni tra gli Stati membri.

La causa principale di tale aumento è da rintracciare nella crisi finanziaria e nei conseguenti sviluppi a livello macroeconomico. Nonostante ciò, le politiche dell’UE si sono focalizzate maggiormente sul funzionamento del mercato del lavoro, esercitando pressioni sui governi nazionali affinché introducessero politiche di deregolamentazione del mercato del lavoro. L’esito di queste scelte è stato il significativo indebolimento delle tutele all’occupazione (Piasna A., Myant M., 2017).

Nella crisi economica e sociale italiana, nel periodo 2008-2013 si possono rilevare due distinte fasi recessive: la prima relativa al biennio 2008-2009, durante il quale i dati riguardanti le dinamiche del lavoro e della produzione non si discostano significativamente dalla media europea; la seconda nel biennio 2012-2013, durante il quale, invece, si attesta un divario rilevante tra le traiettorie dei principali indicatori che si osservano in Italia e quelle degli altri Paesi europei. Se il 2014 tende a configurarsi come un anno di transizione, il 2015-2016, presenta i primi segnali di crescita, mantenendo comunque un divario con le maggiori economie europee e tale trend sembra non ridursi nemmeno nel biennio 2017-20181 (Ferrucci G., 2017).

In figura 1.1, nella quale viene rappresentato l’andamento del PIL reale2 dell’Italia in confronto con le maggiori economie europee, si può notare come il 2014 sia stato effettivamente un anno di transizione, mentre il 2015 si presenta con un aumento del PIL pari allo 0,8 % e il 2016 con un aumento dello 0,9 %. La crescita italiana, dunque, resta tra le più basse d’Europa.

1 Proiezioni dell’Annual Macroeconomic Database – AMECO. 2 Maggio 2017 - dati AMECO.

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Figura 1.1 - PIL a prezzi 2010 (2007=100): 2007-2018

Fonte: elaborazioni FdV su dati Ameco

Infatti, la distanza dalla media della zona Euro, misurata in termini di variazioni del prodotto, si è dilatata sino a superare i 10 punti percentuali nel 2016. Questo trend negativo però non ha interessato Francia e Germania, le quali, sfruttando il buon andamento della domanda interna, sono tornate a crescere già dopo il 2009. L’Italia, invece, stenta a ripartire e la crescita del prodotto interno è ancora debole anche nel lungo periodo poiché le stime per il 2018 la collocano ancora cinque punti sotto il valore del 2007.3

Un ulteriore dato da considerare per comprendere l’intensità della crisi in Italia, riguarda gli indicatori della domanda interna relativa a consumi ed investimenti.

Come si evince dalla figura 1.2, solo in Spagna e in Italia i consumi delle famiglie nel 2016 hanno registrato dei valori sotto quelli del 2007, ovvero del 4,7% per l’Italia e del 5,5% per la Spagna. Tuttavia, le stime per la Spagna sono positive in quanto la ripresa dovrebbe condurre al recupero dei valori antecedenti alla crisi.

Figura 1.2 - Spesa per consumi finali privati a prezzi 2010 (2007=100): 2007-2018

Fonte: elaborazioni FdV su dati Ameco

3 Secondo Eurostat, nel secondo trimestre del 2017 la crescita media nell’Unione Europea è stata dello 0,6% contro lo

0,4% dell’Italia. Il tasso di crescita annualizzato è del 2,2% per l’Eurozona e dell’1,5% per l’Italia. Le recenti stime correggono i dati precedenti, per cui le previsioni preliminari comunicate dall’Istat nel novembre 2017, si attesta a +1,8% rispetto alle previsioni del governo. Il Pil della zona Ue a 28 è salito dello 0,6%, con una crescita su base annua del 2,5%. È comunque importante tener presente che i dati dell’Istat sono corretti per gli effetti di calendario, mentre la stima del governo è su dati grezzi. Come anticipato da Confindustria nel rapporto sugli scenari industriali, ci sono segnali di ripresa ma la strada è lunga per modificare le ferite della crisi, perché i “livelli pre-crisi sono ancora molto lontani” (Ardù B., 2017).

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4 Per quanto riguarda l’altra componente della domanda interna, ovvero gli investimenti fissi, la figura 1.3 mostra come essi siano crollati nel 2009 con un -12,7% rispetto al 2007 e successivamente hanno continuato a calare nel 2012 e nel 2013, sino ad arrivare nel 2014 ad un -29,5% rispetto ai valori pre-crisi.

Figura 1.3 - Investimenti fissi lordi (*) reali (2007=100): 2007-2018

(*) formazione di capitale fisso a prezzi 2010 al lordo degli ammortamenti

Fonte: elaborazioni FdV su dati Ameco

La sintesi drammatica che si evince da questi dati è che la formazione di nuovo capitale da investire nel tessuto produttivo italiano si è arrestata nel corso delle due fasi recessive, provocando una inevitabile contrazione nella capacità produttiva e quindi nell’occupazione. Infatti, nel 2013 in Italia si è perso il 5,6% del totale occupati del 2007 e, sebbene, nei tre anni successivi il loro numero ha ricominciato lentamente a crescere, nel 2016 era ancora nettamente sotto il valore antecedente alla crisi, come mostrato in figura 1.4, pari a -2,6%.

Figura 1.4 - Occupati in alcuni Paesi europei (2007=100): 2007-2018

Fonte: elaborazioni FdV su dati Ameco

Analizzando i dati si evince come in Italia, soprattutto nel corso della seconda fase recessiva, l’andamento della produzione, dei consumi, degli investimenti e della produttività, nonché quello dell’occupazione, si discostino da quelli delle principali economie europee: il ritardo dell’Italia non accenna a ridursi nemmeno con la ripresa

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5 economica e, anzi, le differenze tra i saggi di crescita sono confermate nelle previsioni degli analisti anche per il prossimo futuro.

L’andamento deficitario dell’economia italiana si evince anche sul contenimento della dinamica salariale. Infatti, come mostra il grafico di figura 1.5, sebbene tra il 2007 e il 2016 le retribuzioni italiane siano aumentate del 12,5%, sono lontane di sei punti percentuali rispetto all’incremento della zona Euro del 18,2%.

Figura 1.5 - Retribuzione nominale per dipendente (2007=100): 2007-2018

Fonte: elaborazioni FdV su dati Ameco

La crisi in Italia rispetto ad altre nazioni europee come Spagna, Francia e Germania, è stata più lunga, soprattutto a causa delle politiche di austerità che hanno penalizzato fortemente la domanda interna, determinando un arretramento della nostra economia.

A riprova di ciò va sottolineato che sebbene ci sia una lieve ripresa economica, questa è comunque accompagnata dalla stagnazione dei salari e, al di là dei risultati transitori di incentivi occasionali, non si vedono gli effetti di stabilizzazione del mercato del lavoro promessi dalla riforma del lavoro.

Proprio per questo motivo, nel prossimo paragrafo, andremo ad analizzare l’influenza che il Jobs Act ha avuto sul mercato del lavoro.

1.2 Il mercato del lavoro dopo il Jobs Act

La presenza di un mercato del lavoro in continuo mutamento, sia per le innovazioni tecnologiche che per la presenza di nuovi metodi di produzione e organizzazione del lavoro, ha portato il governo Renzi al varo della riforma del lavoro oggi conosciuta come Jobs Act.4

4 Il nome fa riferimento agli American Jobs Act che nel 2011 il presidente Barack Obama presentò al Congresso,

contenenti una serie di misure per regolare il mercato del lavoro, tra cui: sgravi fiscali per le piccole e medie imprese, taglio del 50% delle trattenute sui salari per pensioni e sanità, riduzioni delle trattenute pagate dai datori di lavoro e altri incentivi al fine di incoraggiare le nuove assunzioni.

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6 Lo scopo di tale riforma è rendere il mercato del lavoro più flessibile e favorire un incremento dell’occupazione attraverso il riordino e la revisione delle tipologie contrattuali, con l’obiettivo di incentivare il ricorso da parte dei datori di lavoro a contratti standard, a tempo indeterminato e determinato andando contro le numerose tipologie atipiche di contratti che sono proliferate nell’ultimo decennio.

Tale riforma si compone di due provvedimenti principali, ovvero il Decreto-legge del 20 marzo 2014 n.34, noto come “decreto Poletti”, e la Legge del 10 dicembre 2014 n.183, che contiene varie deleghe da attuare attraverso decreti legislativi.

Le misure fondamentali che si evincono dal Jobs Act, riguardano gli esoneri contributivi5 triennali a carico dei datori di lavoro in caso di assunzione di un lavoratore a tempo indeterminato e la normativa sul contratto a tutele crescenti che ha l’obiettivo di favorire una maggiore flessibilità in uscita.6

Alla luce di questa normativa, il dilemma che ci si pone è se il Jobs Act abbia avuto un significativo impatto nel mercato del lavoro in termini di maggior incremento occupazionale (Tortuga Team7, 2017).

Per rispondere a questa domanda è necessario, prima comprendere i numeri, in particolare, la differenza tra quella che è la forza lavoro e la popolazione in età lavorativa, per poi poter fare una valutazione sui dati.

Fatta 100 la popolazione in età lavorativa (ovvero la fascia che va dai 15 ai 65 anni), la forza lavoro comprende solo coloro che o lavorano (gli occupati) o sono alla ricerca di un lavoro (i disoccupati). Nel grafico di figura 1.6, gli occupati sono in blu, mentre in rosso troviamo i disoccupati.

Figura 1.6 - Occupati, disoccupati e inattivi in Italia: 2007-2016

Fonte: Tortuga-Team

5 Legge n.190 del 23/12/2014 (c.d. Legge di Stabilità 2015) per le assunzioni concluse a partire dal 1º gennaio 2015

fino al 31 dicembre 2015, prorogato poi in misura ridotta, con la legge n. 208/2015 (c.d. Legge di Stabilità 2016) anche per le assunzioni effettuate nel corso del 2016.

6 Con il termine «tutele crescenti» si intende l’indennizzo economico che spetta al lavoratore in caso di licenziamento,

il quale aumenta con l’anzianità di servizio del lavoratore.

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7 Il tasso di disoccupazione coincide con il numero di persone che non trovano lavoro (area rossa) rispetto al numero di persone attive (area blu e rossa assieme). Mentre coloro i quali non cercano lavoro sono inattivi (area verde). Spesso è più utile analizzare il tasso di occupazione (area blu) ovvero il numero di persone al lavoro sul totale della popolazione. Tale numero è stabile da più di dieci anni sotto al 60%, una percentuale inferiore rispetto ai partner europei.8

Prendendo quindi in considerazione il tasso di occupazione italiano, si può notare come sebbene negli ultimi anni vi sia stato un aumento effettivo del numero di occupati, la crescita ha interessato in maniera differente sia le regioni italiane che i diversi settori produttivi.

Come si vede in figura 1.7 si registra un forte miglioramento nel Sud Italia, soprattutto per quanto riguarda il secondo trimestre del 2017 (+3% rispetto al trimestre precedente), ma tale crescita è solo un piccolo miglioramento se si considera la preliminare situazione preoccupante del meridione. Infatti, il tasso di occupazione al Sud si attesta al 40% rispetto al 60% registrato al Centro e nel Nord Italia.

Figura 1.7 - Variazioni percentuali tasso di occupazione per area geografica: 2010-2017

Fonte: dati Istat

Per quanto riguarda la differenza tra i vari settori di attività economica, in figura 1.8 si può notare come l’Italia resti un Paese principalmente a spinta manifatturiera, con una percentuale di occupati sul totale del 18,37% nel 2016, anche se nell’ultimo decennio il settore ha subito una forte contrazione del 10% di occupati rispetto al 2008. Peggio hanno fatto il settore delle infrastrutture crollate del -28,2%, e pubblica amministrazione e sicurezza sociale, con un -12.1%. Invece, il settore turistico (6,16% degli occupati) ha registrato un’ottima performance del 20,3% rispetto al 2008. Negativo, è invece, il bilancio per gli occupati in educazione (-3,8%) e in attività tecnologiche o scientifiche (dopo una flessione iniziale, gli occupati restano allo stesso livello del 2008) dimostrando che gli investimenti in formazione e innovazione

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8 tecnologica non sono ancora abbastanza sufficienti per far diventare l’Italia un competitor a livello internazionale.

Figura 1.8 - Variazioni percentuali numero di occupati per settore, fatti 100 gli occupati nel 2008: 2008-2016

Dati Eurostat

Per rispondere dunque alla domanda relativa all’effetto sul tasso di occupazione di misure come il Jobs Act o la decontribuzione sui nuovi assunti, la critica mossa alla riforma del mercato del lavoro, è di aver determinato un aumento dell’occupazione precaria come confermato dall’aumento dei contratti a tempo determinato.

In particolare, in riferimento alla tipologia contrattuale utilizzata per le diverse classi di età, dalla figura 1.9 si evince come nel periodo che va dal 2013 al 2016 la percentuale di giovani occupata, fra i 15 e i 24 anni, con contratto a tempo indeterminato, sia diminuita di circa un punto percentuale, passando dal 40 al 38,8%. Invece, la percentuale di giovani con contratto a termine sia salita dal 44,5% nel 2013 al 46,9% nel 2016. Dinamiche analoghe si sono registrate nella fascia di età 45-54 anni, dove nel 2016 la percentuale di lavoratori con contratti a tempo indeterminato è di 67,9% mentre quella dei lavoratori a termine è del 6,4%, con differenziali simili, rispetto al 2013, a quelli osservati per la fascia di età che va dai 15 ai 24 anni (Beraldi G., Lagrosa I., 2017).

Figura 1.9 - Tipo di contratto utilizzato in Italia per fascia d’età (15-24; 45-54 anni), 2013-2016

Fonte Istat ed Eurostat

La percentuale dei tassi di trasformazione dei contratti precari in contratti stabili, dopo un netto incremento per la fascia di età più giovane nel 2015, è tornata nel 2016

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9 ad un livello rapportabile a quello del 2013.9 I dati, in riferimento ai contratti precari della fascia 15-24 anni (2013), non trovano un corrispettivo in un più alto tasso di trasformazione (2016) verso il contratto a tempo indeterminato.

Nel contesto di debole ripresa in cui l’Italia riversa, i numeri suggeriscono come le imprese siano maggiormente orientate ad un risparmio dei costi del lavoro e non ad un investimento in capitale umano. Nonostante la rilevante flessibilità prevista dal contratto a tutele crescenti per i primi tre anni, necessaria per determinare le effettive competenze del lavoratore, essa sembra non aver ancora scardinato il ruolo del contratto a tempo determinato.

Il ritorno dei contratti precari è stato più marcato per i giovani rispetto al resto del mercato. Se nei primi quattro mesi del 2017 il numero complessivo delle assunzioni di giovani lavoratori è risultato più alto rispetto a quello dello stesso periodo nei tre anni precedenti, la ragione non è da ricercare nell’impiego del contratto a tempo indeterminato. Infatti, i numeri dimostrano come questo sia risultato, non solo del 38% più basso rispetto allo stesso periodo in riferimento al 2015, ma anche inferiore di ben otto punti percentuali rispetto al 2014, anno precedente all’introduzione del Jobs Act.

A controbilanciare la tendenza negativa nell’uso del contratto indeterminato nei confronti dei giovani, vi è stato il contratto di apprendistato con un +11% rispetto al 2014, e l’utilizzo del contratto a termine con un +39% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. L’utilizzo di tali forme contrattuali è giustificato anche dal fatto che le decontribuzioni si sono concentrate maggiormente nel 2015.

Nel 2015, grazie al contratto a tutele crescenti e agli sgravi fiscali, i contratti a tempo indeterminato erano decollati. Tuttavia, al termine degli incentivi, come si può notare analizzando i dati della Tabella 1.1, si è tornati alla normalità e il contratto a tempo indeterminato è crollato del 37%, mentre il contratto a tempo determinato rappresenta ancora oggi quello più utilizzato nelle nuove assunzioni e nel 2016 è per di più aumentato dell’8% rispetto all’anno precedente. Come affermato da Tito Boeri10, il contratto a tempo determinato così riformato spiazza le altre forme contrattuali, non solo il contratto a tempo indeterminato, ma anche l’apprendistato (Giubileo F., 2017).

9 7,1% per la fascia 15-24 anni e 15,3% per la fascia 45-54 anni

10 A marzo 2014, prima di diventare presidente dell’Inps, Tito Boeri nell’articolo “Per favore, cambiate quel decreto!”

evidenziava i rischi, in termini di conseguenze sociali, dell’introduzione nella regolamentazione del mercato del lavoro italiano del “decreto Poletti” (decreto-legge 20 marzo 2014, n. 34).

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10

Tabella 1.1 - Dati sulle comunicazioni obbligatorie dal 2013 al 2016

Fonte: Elaborazione da Osservatorio del precariato Inps

Questa situazione di forte protagonismo dei contratti a tempo determinato ha effetti negativi soprattutto nei confronti delle giovani generazioni, nell’impossibilità di costruire un percorso professionale durevole. Anzi, quello che si prospetta, è il rischio di veder concludere il percorso lavorativo dopo i tre anni di sgravi fiscali e quindi rimettersi nel limbo della precarietà, ripartendo da zero in cerca di nuovi ambiti e settori economici.

Un ulteriore problema da considerare è che sebbene i recenti dati ricavati dalla nota trimestrale sulle tendenze dell’occupazione11 dimostrino un incremento dell’occupazione, in Italia non si assiste ad un conseguente miglioramento nel livello di qualificazione professionale. Le cause sono da rintracciare principalmente nelle ridotte dimensioni delle imprese italiane e nella mancanza di un sistema di raccordo tra mondo della formazione e mercato del lavoro (Reyneri E., 2017).

Nei Paesi sviluppati, deindustrializzazione e automazione dei lavori ripetitivi hanno prodotto una tendenza alla polarizzazione della struttura dell’occupazione, facendo sì che si riduca la fascia dei lavori a qualificazione media (impiegati e operai specializzati) e aumenti sia la fascia alta (dirigenti, professioni intellettuali, tecnici), sia quella bassa (addetti alle vendite e servizi personali, operai semi-qualificati, occupazioni elementari). L’Ocse nell’Employment Outlook12 ha confermato che la polarizzazione è asimmetrica, poiché i lavoratori ad alta qualificazione crescono di più di quelli a bassa qualifica.

11 Nel secondo trimestre 2017 prosegue la tendenza all’aumento dell’occupazione su base annua e in termini

congiunturali. Le dinamiche del mercato del lavoro si sono sviluppate in un contesto di significativa e persistente crescita del prodotto interno lordo, che ha segnato nuovamente un aumento congiunturale dello 0,4%, con un tasso di crescita tendenziale che ha raggiunto l'1,5%. Il tasso di occupazione destagionalizzato è risultato pari al 57,8%, in crescita di due decimi di punto rispetto al trimestre precedente. Considerando l'ultimo decennio (2008-2017), il tasso recupera oltre due punti percentuali rispetto al valore minimo (terzo trimestre 2013, 55,4%) ma è ancora distante di un punto da quello massimo registrato nel secondo trimestre del 2008 (58,8%).

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11 In Italia invece, dal 2013 al 2016 è sì diminuita la percentuale della fascia a qualificazione media (con -3,1 punti), ma la fascia alta è cresciuta di solo un punto rispetto ad un aumento di 2 punti nella fascia a bassa qualificazione. Nella zona euro invece la fascia alta aumenta di 1,8 punti e quella basa si riduce di -0,4 punti.

Dunque, in Italia i nuovi posti di lavoro sono stati creati più tra gli addetti alle vendite e ai servizi personali e tra le occupazioni manuali dequalificate che non tra le professioni intellettuali e tecniche. L’Italia crea dunque una occupazione poco qualificata, infatti nella figura 1.10 possiamo notare come il basso tasso di occupazione, sulla popolazione 15-64 anni, si deve quasi completamente alla scarsità di occupati della fascia alta.

Figura 1.10 - Tasso di occupazione per fascia di livello professionale, 2016

Fonte: Eurostat, Labour force survey

Una spiegazione a questo deficit italiano va ricercata dal lato della domanda di lavoro, nelle ridotte dimensioni delle imprese e negli scarsi investimenti in ricerca e sviluppo; e dal lato dell’offerta nel basso livello di istruzione della forza lavoro.

Infine, un ulteriore elemento da analizzare è che l’Italia storicamente, dal lato delle politiche attive del lavoro, ha avuto un basso livello di investimento in formazione sia sul posto di lavoro, sia in caso di licenziamento e ricollocamento. L’implementazione di questo settore resta tutt’oggi in secondo piano anche a causa della mancata unificazione delle competenze sulle politiche per il lavoro oggi di pertinenza regionale.

Riformare il mercato del lavoro italiano nella direzione di una maggiore competitività e quindi, di un incremento occupazionale, è un’impresa a cui il Jobs Act ha contribuito in parte positivamente, ma resta il dato di un tasso di occupazione che insegue gli standard di crescita della zona euro. Per il lavoro, è quindi una ripresa parziale, che andrebbe incoraggiata diminuendo il costo del lavoro e implementando al meglio le politiche attive. A tal proposito, queste ultime saranno analizzate nel prossimo capitolo.

(23)

12

2. LE POLITICHE ATTIVE DEL LAVORO

2.1 Gli elementi caratterizzanti delle politiche per il lavoro

Negli ultimi anni le trasformazioni subite a livello globale dal sistema economico e produttivo, hanno modificato profondamente il mercato del lavoro. Si è infatti verificato uno spostamento dal “luogo” di lavoro al “mercato”, tanto da non parlare più di diritto del lavoro, ma di “diritto del mercato del lavoro” la cui regolamentazione possa essere motrice di sviluppo economico (Mitchell R., Arup C., 2007).

Una delle conseguenze maggiori di questa situazione è che si è passati da una vita professionale lineare, ad una più circolare, fatta di periodi di lavoro alternati a momenti di disoccupazione o a fasi di riqualificazione professionale (Bellandi G., Giannini M., 2016, p.143). Proprio in questo quadro diventano di fondamentale importanza le politiche per il lavoro nel tutelare sia chi è occupato ma soprattutto chi si appresta ad entrare nel mondo del lavoro.

Per politiche attive del lavoro, s’intende il complesso di interventi pubblici volti alla tutela dell’interesse collettivo e all’occupazione, che agiscono in generale o in modo selettivo, per favorire i disoccupati o gli occupati a rischio di perdita involontaria del proprio lavoro, o persone inattive che intendono entrare nel mercato del lavoro (Pagani L., 2012, p.1).13

I compiti svolti dalle politiche del lavoro sono riconducibili a tre importanti funzioni sociali che sono:

1. La regolamentazione del mercato del lavoro; 2. La promozione dell’occupazione;

3. Il mantenimento o la garanzia del reddito.

Il primo elemento riguarda la produzione normativa volta a disciplinare i canali di incontro tra domanda e offerta ed i diritti e i doveri dei lavoratori e dei datori di lavoro (Marchioro A., p.7). L’analisi dei sistemi di organizzazione dei servizi per l’impiego

13 Le politiche del lavoro, possono essere considerate come un sottoinsieme delle politiche sociali. Ovvero misure il

cui obbiettivo è definire le regole, in considerazione di una più equa distribuzione di risorse e opportunità, nonché favorire la promozione di benessere e qualità della vita dei cittadini.

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13 scaturita dalle diverse esperienze maturate nelle realtà nazionali, evidenzia tre modelli di regolamentazione del mercato del lavoro:

➢ Il “monopolio” ➢ La “coesistenza” ➢ Il “libero mercato”

In riferimento al primo modello, vi è un elevato impegno diretto del settore pubblico, anche dal punto di vista finanziario, che necessita di dotarsi di una rete capillare sul territorio (Spattini S., 2008). Nel caso dei modelli di coesistenza, si assiste ad un ampliarsi di soggetti privati e pubblici (Enti locali, Scuole, Università) abilitati al ruolo di operatori del mercato, impostato secondo una logica di sussidiarietà e trasparenza, nel quale è prevista un’autorizzazione per operare nel settore. Infine, nel caso del “modello di mercato” vi è una presenza esclusiva degli operatori privati nel fornire i servizi per l’impiego e l’assenza di un intervento diretto da parte dello Stato.

La promozione dell’occupazione è diventata strategica nell’attuale sistema economico nel favorire l’inserimento professionale e per stimolare la domanda di lavoro. Per tale motivo è bene distinguere tra politiche “attive” e “passive” del lavoro. Le prime, hanno l’obiettivo di facilitare l’accesso o il reinserimento delle persone al lavoro, allo scopo di incrementare i tassi di attività e di occupazione (Colasanto M., 1993).14 Mentre le politiche passive, sono rivolte a chi ha perso il lavoro, attraverso l’erogazione di forme di sostegno al reddito contro il rischio di disoccupazione e di sospensione temporanea dell’orario lavorativo, attraverso un sistema di “ammortizzatori sociali”, ovvero di strumenti di tutela del reddito dei disoccupati (Gualmini E., Rizza R., 2013).

Il ruolo che le politiche attive rivestono per combattere la disoccupazione strutturale e per facilitare l’incontro tra domanda e offerta di lavoro è di fondamentale importanza. Così come fondamentale è la funzione di attivare nella ricerca di lavoro i beneficiari degli interventi di sostegno del reddito, si tratti di disoccupati con sussidi di disoccupazione o disabili o di poveri che sono, sia pure parzialmente, abili al lavoro.

Tutti i Paesi Europei si sono dotati di una Agenzia Nazionale, con un duplice compito: ➢ erogare i sussidi

14 Colasanto parla di politiche attive del lavoro «con riferimento a una varietà di interventi: politiche strutturali che

tendono a fare coincidere domanda ed offerta di lavoro (come la formazione professionale); incentivi finanziari e fiscalizzazione delle imprese al fine di espandere la domanda di lavoro; creazione di nuovi posti di lavoro».

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14 ➢ spingere i beneficiari a cecare lavoro, assistendoli nella ricerca.

Anche in Italia con il Jobs Act si è costituita una Agenzia Nazionale per le politiche attive, ma la rete sul territorio degli uffici che svolgono le funzioni fondamentali di intervento nel mercato del lavoro, cioè i Centri per l’Impiego, sono ancora gestiti dalle Regioni (fino a poco tempo fa la funzione era delegata alle Province).

Questo modello ha funzionato e funziona molto male. La gestione delle politiche passive (i sussidi) è di livello nazionale, in quanto affidata all’INPS, mentre la gestione delle politiche attive è affidata alle Regioni. In questo schema le Regioni non hanno incentivi a far funzionare bene le politiche attive per ridurre i sussidi, perché non sono loro ad erogarli.

Nonostante i ripetuti interventi legislativi volti ad instaurare un forte coordinamento tra Regioni e INPS, le Regioni non hanno mai manifestato un impegno sufficiente per svolgere la funzione di attivazione al lavoro dei disoccupati beneficiari dei sussidi.

L’opportunità di integrazione delle politiche passive e delle politiche attive non è mai stata sfruttata. Non è un caso che negli altri Paesi sia stata creata un’unica struttura di livello nazionale (e articolata sul territorio) per gestire sia i sussidi di disoccupazione, sia i servizi per il lavoro.15

In Italia, come si sa, si spende molto per le politiche passive e poco per le politiche attive. In genere nel nostro Paese si preferisce investire nei trasferimenti monetari e poco sui servizi (Dell’Arringa C., 2016).

Per quanto riguarda l’impianto normativo relativo alle politiche del lavoro dobbiamo riferirci alla legge 183/2014 (Jobs Act) e ai relativi decreti di attuazione.16 In particolare elementi rilevanti sono:

▪ La razionalizzazione degli incentivi per l’occupazione, l’autoimpiego e l’autoimprenditorialità;

▪ L’istituzione di un’Agenzia nazionale per le Politiche Attive del Lavoro (ANPAL) che presidi e potenzi l’offerta e la domanda di lavoro;

15 La Francia lo ha fatto venti anni fa; in Germania esiste da un secolo. E anche in Gran Bretagna le funzioni gestionali

sono unificate presso il Ministero del Lavoro. In questi stessi Paesi, l’investimento in un’unica struttura efficiente ha comportato rilevanti risparmi nella spesa per gli ammortizzatori sociali.

16 D.lgs. 14 settembre 2015, n. 150 “Disposizioni per il riordino della normativa in materia di servizi per il lavoro e di

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15 ▪ Valorizzazione delle componenti strategiche nella dinamica occupazionale, quali servizi pubblici e privati, il terzo settore, gli istituti di istruzione superiore, professionale e accademica;

▪ La definizione di meccanismi di collegamento a livello centrale e periferico delle funzioni sia tra l’Agenzia e l’INPS (Istituto Nazionale della Previdenza Sociale) per integrare le politiche attive e quelle di sostegno al reddito, sia tra l’Agenzia e gli enti che esercitano funzioni in materia di incentivi all’autoimpiego e all’autoimprenditorialità;

▪ L’attribuzione al Ministero del lavoro e delle politiche sociali di verificare il livello delle prestazioni e l’erogazione di queste su tutto il territorio nazionale; ▪ Il mantenimento delle attribuzioni in capo alle Regioni e alle Provincie autonome

della programmazione delle politiche attive del lavoro; ▪ L’attivazione del soggetto alla ricerca dell’occupazione;

▪ L’uso efficiente ed efficace dei sistemi informativi, in particolare delle tecnologie informatiche, per la gestione e il controllo delle prestazioni erogate (Bellandi G., Giannini M., 2016, p. 155).

Con la riforma del mercato del lavoro, il Governo Renzi ha dato avvio ad un modello definibile flexicurity basato su due elementi: le politiche di sostegno al reddito da un lato e dall’altro, le politiche indirizzate a favore della ricollocazione del lavatore.

A tal proposito, i Servizi per l’impiego, come abbiamo visto, sotto il coordinamento dell’ANPAL, vengono potenziati al fine di favorire in tutto il territorio nazionale una performante attività di matching tra offerta e domanda di lavoro, consentendo a tutti gli utenti, l’accesso ad attività di orientamento, formazione e accompagnamento al lavoro. I destinatari delle Politiche attive del lavoro (PAL) sono:

• I disoccupati;17

• I lavoratori beneficiari di forme di sostegno al reddito in presenza di rapporto di lavoro e a rischio disoccupazione;

• Gli occupati in cerca di altra occupazione.

17 Il Jobs Act ridefinisce lo “stato di disoccupazione” considerando disoccupati i lavoratori privi di impiego

(componente soggettiva) che dichiarino, in forma telematica, al portale nazionale delle politiche del lavoro la propria immediata disponibilità allo svolgimento di attività lavorativa ed alla partecipazione alle misure di politica attiva del lavoro (componente oggettiva) concordate con il servizio per l’impiego (la c.d. DID, Dichiarazione di immediata Disponibilità al Lavoro). Lo stato di disoccupazione costituisce il requisito necessario per avere accesso alla NASpI, all’ASDI ed alla DIS-COLL, nonché per l’iscrizione nell’elenco per il collocamento mirato.

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16 La metodica seguita, in linea con quanto previsto dal decreto per l’accesso alle politiche attive, è quella di siglare con l’utente, in qualsiasi centro per l’impiego del territorio nazionale,18 un “Patto di servizio personalizzato”19 recante le azioni mirate a favorire l’inserimento e il reinserimento del soggetto nel mondo del lavoro. A seguito delle informazioni fornite dagli utenti dei servizi per l’impiego in fase di registrazione, essi vengono assegnati ad una classe di profilazione20 affinché possa essere valutato il grado di occupabilità del soggetto. Nel patto di servizio è necessario che venga riportata la disponibilità del richiedente ad attività quali:

• La partecipazione ad attività per il miglioramento delle competenze relative alla ricerca attiva di lavoro (stesura CV e preparazione allo svolgimento di eventuale colloquio o altra iniziativa di orientamento);

• La partecipazione ad attività di formazione o riqualificazione; • La disponibilità ad accettare offerte congrue di lavoro.21

Infine, la partecipazione attiva del soggetto richiedente sarà garantita da strumenti di condizionalità (Sterm P., 2015, p.92).

Una novità del Jobs Act, è certamente la creazione di un “assegno di ricollocazione”22 a favore del soggetto disoccupato23, qualora ne faccia richiesta al centro per l’impiego presso il quale ha stipulato il patto di servizio personalizzato, consistente in una modalità di sostegno economico24 al fine di ottenere un servizio di assistenza intensiva nella ricerca di una nuova occupazione erogato sia dai Centri per l’Impiego che dai soggetti privati accreditati.

18 In riferimento ai soggetti percettori della NASPI (nuovo sussidio disoccupazione involontaria), ASDI (assegno di

disoccupazione) e DIS-COLL (indennità mensile di disoccupazione a favore dei collaboratori coordinati e continuativi) e indennità di mobilità, il “Patto di servizio personalizzato” viene sottoscritto presso il centro per l’impiego di domicilio indicato nella domanda inoltrata all’INPS.

19 Allo scopo di confermare lo stato di disoccupazione, i lavoratori disoccupati contattano i centri per l’impiego, entro

30 giorni dalla data della dichiarazione e, in mancanza, sono convocati dai centri per l’impiego, entro il termine stabilito per la profilazione e la stipula di un patto di servizio personalizzato.

20 Aggiornata ogni 90 giorni tendendo in considerazione la durata della disoccupazione e delle ulteriori informazioni

raccolte in fase di registrazione.

21 Per offerta congrua di lavoro si intende la coerenza con le esperienze e le competenze maturate, la durata della

disoccupazione, la distanza dal domicilio e i tempi di trasferimento mediante mezzi pubblici e infine la retribuzione prevista in misura superiore ad almeno il 20% della indennità percepita.

22 Previsto dal d.lgs. 150/2015

23 Percettore della NASpI, la cui durata di disoccupazione supera i quattro mesi.

24 Una somma denominata «assegno individuale di ricollocazione» graduata in funzione del profilo professionale di

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17 2.1.1 La Rete Nazionale dei servizi per le politiche del lavoro

Un elemento rilevante del decreto 150/2015 in materia di servizi e politiche per il lavoro, è la creazione della “Rete Nazionale dei servizi per le politiche del lavoro” della quale fanno parte, secondo il decreto, oltre ai soggetti pubblici, anche i soggetti accreditati25 o autorizzati.26 I soggetti della rete nazionale dei servizi per il lavoro, coordinati dall’ANPAL quale ente autonomo, sono composti da:

• ANPAL27;

• Strutture regionali per le politiche attive del lavoro; • INPS;

• INAIL;

• Agenzie per il lavoro;

• I fondi interprofessionali per la formazione continua28; • Forma.Temp29;

• ISFOL30;

• Il sistema delle Camere di Commercio, industria, artigianato e agricoltura; • Università e istituti di scuola secondaria di 2º grado.

La finalità della rete dei servizi per le politiche del lavoro, come visto coordinata dall’ANPAL, è quella di andare a predisporre degli interventi volti a migliorare l’efficienza del mercato del lavoro.

La Rete nell’erogare i suoi servizi, da un lato cerca di assolvere il fabbisogno di competenze da parte dei datori di lavoro, e dall’altro predispone per i lavoratori forme di sostegno all’inserimento o al reinserimento nel mondo del lavoro. In particolare, tra le funzioni principali attribuite all’ANPAL rilevano:

25 L’accreditamento dei servizi per il lavoro è una procedura per la quale le regioni riconoscono ad un operatore

pubblico o privato, l’idoneità ad erogare i servizi per il lavoro, anche attraverso l’uso di risorse pubbliche, e la partecipazione alla rete dei servizi per il mercato del lavoro.

26 L’autorizzazione è rilasciata dal Ministero del Lavoro e abilita gli operatori pubblici e privati, denominati Agenzie

per il lavoro, allo svolgimento di attività quali principalmente la somministrazione di lavoro.

27 http://www.anpal.gov.it/Pagine/default.aspx

28 I fondi paritetici interprofessionali nazionali per la formazione continua sono organismi di natura associativa

promossi dalle organizzazioni di rappresentanza delle Parti Sociali attraverso Accordi interconfederali stipulati dalle organizzazioni sindacali dei datori di lavoro e dei lavoratori maggiormente rappresentative sul piano nazionale. Tali Fondi finanziano piani formativi aziendali, settoriali e territoriali, che le imprese in forma singola o associata decideranno di realizzare per i propri dipendenti.

29 È il Fondo per la formazione e il sostegno al reddito dei lavoratori in somministrazione, costituito sotto forma di

libera associazione e senza fini di lucro.

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18 - la gestione della NASpI31, dei servizi per il lavoro, del collocamento dei

disabili e delle politiche di attivazione dei lavoratori disoccupati;

- la determinazione delle modalità operative e dell’ammontare dell’assegno di ricollocazione e di altre forme di coinvolgimento dei privati accreditati; - l’individuazione delle metodologie di profilazione degli utenti e la

promozione e il coordinamento dei programmi cofinanziati dal Fondo Sociale Europeo;

- la realizzazione di un sistema informativo unitario delle politiche del lavoro e di un fascicolo elettronico del lavoratore (Bellandi G., Giannini M., 2016, pp.158-164).

Le politiche attive del lavoro, così come disciplinate dal decreto, costituiscono un insieme composito di interventi che riguardano vari aspetti del mercato del lavoro, dai servizi per l’impiego fino al sostegno all’occupazione e agli incentivi all’autoimprenditorialità.

2.2 Quanto investe l’Italia in Politiche Attive?

Seguendo un’analisi della spesa per le politiche attive in Italia, questa presenta dei deficit se confrontata con la spesa sostenuta dagli altri Paesi europei. Infatti, il rapporto

Labour market policy expenditure and participants di Eurostat che analizza le politiche

adottate e la relativa spesa sostenuta, mostra in figura 2.1 come in Italia le risorse pubbliche destinate alle politiche per il mercato del lavoro ammontino all’ 1,7% del Pil, contro una media UE-15 del 2%. La Francia, ad esempio, destina a queste politiche il 2,4%, la Spagna il 3,6%, mentre la Germania circa l’1,8% ma proporzionalmente investe molto di più in politiche attive che in strumenti di sostegno al reddito da lavoro (Crepaldi A., 2014).

31 È una prestazione a domanda di natura economica istituita a partire dal 1º maggio del 2015 in sostituzione della ASpI

(Assicurazione Sociale per l’Impiego) erogata a beneficio dei lavoratori dipendenti che hanno perduto involontariamente l’occupazione. Maggiori dettagli alla pagina del sito INPS https://www.inps.it/nuovoportaleinps/default.aspx?itemdir=46140

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19

Figura 2.1 - LMP expenditure as a percentage of GDP, 2011 (LMP expenditure/GDP)

Fonte: Eurostat

L’Osservatorio statistico dei Consulenti del Lavoro in un dossier che fotografa la spesa per le politiche del lavoro, mostra in figura 2.2 come in Italia a differenza dei competitor europei, durante gli anni della crisi, si sia puntato più ai sussidi di disoccupazione.

Figura 2.2 - Spesa per politiche del lavoro. Risorse per Servizi, Misure e Sostegni (*) in Italia, Germania e Francia (in miliardi di euro). Anno 2015

(*) Servizi: risorse destinate all’organizzazione dei servizi per l’impiego; Misure: politiche attive; Sostegni: politiche passive

Fonte: Elaborazione Osservatorio statistico Consulenti del Lavoro su dati Eurostat (DG EMPL lmp expenditure, 09-Jun 2017)

A fronte di una spesa di 750 milioni di euro per i servizi pubblici per l’impiego in Italia, Francia e Germania hanno speso rispettivamente 5,5 miliardi e 11 miliardi. Secondo l’Osservatorio “se la spesa destinata ai servizi per il lavoro fosse pari a quella della media dei paesi europei (0,21% del PIL), lo stanziamento in Italia per il 2016 avrebbe dovuto essere pari a circa 3,5 miliardi di euro, mentre è di almeno sette volte inferiore”.

Con riferimento alla spesa per le misure di politiche attive, ovvero formazione e incentivi all’assunzione, nel 2015 questa è stata pari a 7 miliardi. Anche tale cifra è inferiore a quanto speso dai maggiori partner europei quali Germania e Francia. La differenza maggiore si rileva nella allocazione dei denari: se in Italia a primeggiare sono stati gli incentivi all’assunzione (con il 55% del totale della spesa per le misure) grazie agli sgravi contributivi triennali, in Germania la spesa è stata dell’8% e in Francia del 6%.

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20 Questo perché “in Germania oltre i tre quarti della spesa in misure è investita in formazione, mentre la Francia presenta un mix di investimenti maggiormente diversificato che contempla alte quote in creazione diretta di posti di lavoro socialmente utili (29%), una forte attenzione al supporto delle fasce deboli (12%) e quasi la metà della spesa in formazione”. Infine, per quanto riguarda i sostegni, ossia le politiche passive erogate ai disoccupati sono stati investiti 21,3 miliardi. Questi numeri, secondo gli esperti, sono figli del mancato passaggio italiano dalle politiche di welfare assistenziali al

workfare, ovvero alle politiche di attivazione (Ricciardi R., 2017).

Tenendo conto delle complicazioni metodologiche che rendono difficile sostenere le politiche attive come un investimento sicuro e che gli assessment esistenti non considerano i costi (Card D., Kluve J., Weber A., 2010), gli studi in materia tendono a concentrarsi più sull’analisi comparata dei diversi programmi. Secondo Kluve gli incentivi che funzionano meglio sono quelli per la creazione di posti di lavoro al settore privato e l’assistenza nella ricerca (Kluve J., 2010).

In particolare, il programma di maggior successo è la formazione, mentre all’opposto si trova la creazione diretta di posti di lavoro tramite i centri per l’impiego (Maselli I., 2015).

Se analizziamo i dati relativi alla spesa per le politiche attive in Italia, come mostrato in figura 2.3, essi delineano come l’Italia abbia speso la fetta più grande dei 5,8 miliardi di euro disponibili in formazione (2,3 miliardi, il 40%) e in incentivi (2,8 miliardi, il 48%). La suddivisione è congrua con le valutazioni degli esperti, ad eccezione della esigua spesa (solo lo 0,03% del PIL) riservata ai Centri per l’impiego32.

Figura 2.3 - La spesa per le politiche attive in Italia (2012)

Fonte: Eurostat e DG EMPL

32 A fronte della spesa italiana, la Francia investe lo 0,25% del PIL e la Svezia lo 0,27%

48% 40%

4%

7%1% Incentivi all'occupazione

Formazione

Incentivi alle Start-up Servizi per il lavoro Creazione diretta di posti di lavoro

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21 Inoltre, considerando la tabella 2.1, la spesa per disoccupato ha avuto negli anni un andamento decrescente in materia di investimenti nelle politiche attive e con una netta differenza se rapportate ai valori medi europei. All’opposto vi è stato un incremento delle misure di sostegno al reddito in caso di disoccupazione.

Tabella 2.1 - Spesa per politiche del lavoro in Italia – valori in Euro per disoccupato e come percentuale della media europea (EU-15=100, senza l’Italia)

Fonte: Ronchi e Vesan (2017)

In figura 2.4 è rappresentato un confronto tra la spesa italiana per le politiche attive con quella di Germania e Francia. In Italia solo un decimo della spesa complessiva è riservato ai servizi per il lavoro. Mentre, in Francia questa è pari ad un quarto del totale e in Germania, supera di poco il 57%.

Figura 2.4 - Macro-distribuzione della spesa per le politiche attive in tre Paesi (2015)

Fonte: Eurostat – Labour Force Survey

Se, dunque, ci concentriamo sulla ripartizione della spesa complessiva per le politiche attive di figura 2.5, l’Italia destina il 50% a favore degli incentivi al lavoro, invece, in Francia e Germania, tale voce ricopre solo il 5%.

Figura 2.5 - Ripartizione della spesa per le politiche attive in Italia, Germania e Francia (2015), valori in percentuale sul totale della spesa

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22 Alla seconda voce di spesa, ovvero alla formazione, la percentuale di spesa dell’Italia è simile alla Francia con il 36% circa e di poco superiore alla Germania con il 32%. Ulteriori differenze si delineano nella creazione diretta di posto di lavoro, che rappresenta una componente importante in Francia, con il 22%, a differenza di Italia e Germania la cui percentuale è molto bassa (Vesan P., 2017a).

2.3 Una governance capace di reagire ai cambiamenti

L’organizzazione delle politiche attive richiede uno sforzo amministrativo di dimensioni imponenti e non sempre è possibile cogliere la natura e gli obiettivi dei singoli modelli nazionali. Ad esempio, il dato visto in precedenza sulla formazione, sostanzialmente in linea con Germania e Francia, solleva degli interrogativi sulla qualità degli interventi posti in essere dall’Italia. È dunque ragionevole aspettarsi risultati migliori nei Paesi in cui si ha una governance più efficace. Ad avvalorare questa tesi, vi sono i dati raccolti dalla Direzione Generale per l’Occupazione della Commissione europea e gli indicatori della Banca Mondiale. Infatti, in figura 2.6, possiamo notare come la percentuale di disoccupati “attivati” è maggiore nei Paesi (rappresentati dai puntini rossi) in cui vi sono apparati istituzionali più efficienti.

Figura 2.6 - La relazione positiva tra governance e attivazione

Fonte: Eurostat, DG EMPL e Banca Mondiale

A confermare lo stato di arretratezza dell’Italia in questo ambito, possiamo considerare l’analisi di Perotti e Teoldi (2014), dal quale si evince che tre quarti dei progetti finanziati con i Fondi strutturali vanno a favore della formazione ma con esiti occupazionali molto scarsi. Secondo i due studiosi, le Regioni, pur gestendo i fondi, partecipano in maniera esigua al cofinanziamento dei progetti avendo così “pochissimi incentivi ad assicurarsi che questi progetti funzionino effettivamente” (Perotti R., Teoldi F., 2014).

Come sostiene Maselli (2015) “con il Jobs Act si tenta di dotare l’Italia di politiche attive moderne”, ma una “appropriata implementazione deve quindi tenere conto in primo

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23 luogo dello svantaggio di partenza determinato dalla spesa inferiore alla media europea. Il secondo elemento da considerare è che la formazione e l’assistenza nella ricerca premiano di più”.

Inoltre, la rivoluzione tecnologica ha modificato il mondo del lavoro e impone dei cambiamenti considerevoli a favore dell’occupazione. Sebbene la politica sarà posta di fronte ad una sfida, come ha sottolineato il ministro del Lavoro Giuliano Poletti33 “l’esito sull’occupazione non è ineluttabile, bensì dipende dalle nostre scelte”. Secondo il Ministro dunque, la politica avrà un ruolo centrale nel gestire la rivoluzione tecnologica: dalla digitalizzazione alla robotizzazione sui processi produttivi. In questa via rientrano le politiche attive per il lavoro, ma per rafforzarle, prosegue il ministro, “abbiamo bisogno di realizzare una governance che le renda più efficaci e di una strumentazione che le renda in grado di reagire subito a cambiamenti sempre più frequenti e veloci”.

Pesa, dunque, l’incertezza dell’innovazione tecnologica e a questa, si aggiunge il peso dei grandi cambiamenti demografici che incidono sul futuro dei giovani e dei gruppi più deboli in una società che invecchia (Seghezzi F., Tiraboschi M., 2017a).

In questo scenario, mentre da un lato si continueranno a porre al centro dell’attenzione gli effetti del Jobs Act sul mercato del lavoro, dall’altro è bene analizzare anche l’impatto dei bonus occupazionali.

Data l’importanza di quest’ultimo aspetto, nel prossimo capitolo, analizzeremo gli incentivi all’occupazione e di come questi possano essere catalizzatori di nuovo lavoro in un’ottica di sviluppo e di inclusione sociale volta a governare i profondi cambiamenti in atto sulla scena globale. Successivamente analizzeremo un caso particolare di politica attiva, ovvero Garanzia giovani e di come questo programma possa servire da rilancio della pesante precarietà in cui versa il mondo del lavoro giovanile. Allo stesso tempo, in parallelo agli incentivi all’occupazione, ci occuperemo anche delle possibilità offerte a chi vuole avviare un’impresa. Riferendoci in particolare, alle imprese innovative nell’ottica del nuovo piano nazionale Industria 4.0.

33 Intervenuto, a Roma, all’incontro organizzato dall’ Anpal, dal titolo “Le Politiche Attive del Lavoro per lo Sviluppo

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3. GLI INCENTIVI ALL’OCCUPAZIONE

3.1 Analisi del contesto

Il lavoro ormai ha assunto un ruolo centrale nel dibattito politico. Tuttavia, manca una visione di sistema che tenga conto non solo dei dati economici, delle norme e degli incentivi, ma anche della vita quotidiana delle tante persone che hanno difficoltà a trovare un’occupazione, o di chi ha un lavoro ma che non corrisponde ai suoi effettivi talenti e bisogni materiali.

Sono le grandi trasformazioni a preoccupare maggiormente le famiglie, le imprese e coloro che si accingono ad entrare nel mondo del lavoro. Trasformazioni che siamo già oggi chiamati ad affrontare, come ad esempio quelle tecnologiche, che se concepite come fini a sé stesse, senza un governo e senza una meta, rischiano di divenire fonte di instabilità. Allo stesso modo, il problema demografico e la gestione dell’invecchiamento della popolazione rischiano, se non si ripensa a come conciliare le attività lavorative con una popolazione che cambia, di compromettere il futuro della nostra società.

È in questo scenario complesso e allo stesso tempo confuso, che si inseriscono i recenti provvedimenti della legge di Bilancio varata dal governo Gentiloni. Tra questi, spicca il provvedimento che prevede una decontribuzione del 50% per l’assunzione a tempo indeterminato dei giovani fino ai 35 anni (30 a partire dal 2018), esteso al 100% per le assunzioni da parte di imprese situate nel Mezzogiorno. Tale misura ha come obiettivo quello di riequilibrare la situazione negativa nei confronti dei giovani lavoratori che si è verificata a seguito della decontribuzione triennale prevista dal Jobs Act. Infatti i dati, come analizzato nel precedente capitolo, hanno dimostrato che l’incremento occupazionale ha favorito maggiormente i lavoratori più maturi.

Se un intervento a favore dei giovani è certamente positivo, quello che non premia è la mancanza di una prospettiva futura e di lungo periodo in rapporto a questo tema. Le problematiche conseguenti alle misure previste dai provvedimenti sono principalmente tre: in primo luogo, gli effetti benefici degli incentivi sul mercato del lavoro si esauriscono non appena il vantaggio fiscale termina; in secondo luogo, queste misure mancano di coerenza perché difficilmente ci potranno essere assunzioni incentivate se, in parallelo,

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