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5. GLI INCENTIVI ALLA CREAZIONE D’IMPRESA

5.3 Da Impresa 4.0 a Società 4.0

A un anno dal varo del Piano, il bilancio dei risultati non è totalmente positivo. Ad esempio, l’analisi dei dati relativi alla “Nuova Sabatini”137 e al Super e Iper Ammortamento138, dimostrano che l’Italia investe ancora molto poco in innovazione a beneficio degli investimenti ordinari.

Gli interventi di Industria 4.0 della scorsa finanziaria favoriscono gli investimenti in capitale digitale e automatizzato, quanto più possibile legati alla robotizzazione della struttura industriale. Diversi osservatori suggeriscono che questo tipo di investimenti,

137 La misura Beni strumentali, riconfermata anche dalla Legge di Bilancio 2018, prevede un sostegno in conto interessi

sui prestiti bancari che hanno l’obiettivo di finanziare gli impianti delle Piccole e Medie Imprese (PMI). Se per gli investimenti ordinari l’investimento è del 2,75%, per l’Industria 4.0 è del 3,575%. Troppo poco per meritarsi l’aggettivo “nuova”: ha più di cinquant’anni e li dimostra tutti.

138Permettono di maggiorare la spesa per ammortamenti, generando risparmi fiscali futuri. Il Super

ammortamento prevede una maggiorazione del 30% per tutti i beni strumentali (ad eccezione dei mezzi di trasporto), l’Iper del 150% per gli investimenti “Industria 4.0”. Il provvedimento favorisce quindi di più gli investimenti tecnologici. Ma, data la base imponibile maggiore dei beni strumentali tradizionali, il “tiraggio” previsto in termini di risorse pubbliche è simile.

105 ancorché desiderabile per un paese ad alta intensità industriale come l’Italia, potrebbero paradossalmente facilitare, nel medio periodo, la sostituzione di lavoro con capitale/robot. Questo rischio si riduce e si può tramutare in una opportunità se gli investimenti sono accompagnati da interventi mirati in formazione che aiutino i lavoratori a sviluppare competenze nell’ottica di Industria 4.0.

Sebbene uno studio della European House Ambrosetti prevede che in Italia l’innovazione potrà interessare nei prossimi 15 anni 3 milioni di posti di lavoro, le imprese italiane investono ancora molto poco in formazione: secondo dati Eurostat, fra il 2013 e il 2014 solo il 5% ha tenuto corsi di formazione per l’Information Technology, contro il 16% delle imprese tedesche. Contribuire alla formazione tecnica, sia a livello di istruzione scolastica che di formazione sul lavoro, è un passo fondamentale per migliorare le prospettive professionali dei lavoratori italiani (Schivardi F., 2017).

La quarta rivoluzione industriale avrà effetti soprattutto sul lavoro, su quelle che saranno le professionalità necessarie e quelle che invece potrebbero scomparire. Lo studio della società Ambrosetti ha inoltre evidenziato come ogni posto creato nei settori della tecnologia, delle scienze della vita e della ricerca scientifica, genera il doppio dei posti di lavoro.

La ricerca “The Future of the Jobs” presentata al World Economic Forum, ha fatto emergere che negli anni a venire, fattori tecnologici e demografici influenzeranno profondamente l’evoluzione del lavoro. Alcuni (come la tecnologia del cloud e la flessibilizzazione del lavoro) stanno influenzando le dinamiche già adesso e lo faranno ancora di più nei prossimi 2-3 anni. L’effetto sarà la creazione di 2 milioni di nuovi posti di lavoro, ma contemporaneamente ne spariranno 7, con un saldo netto negativo di oltre 5 milioni di posti di lavoro. L’Italia ne esce con un pareggio (200 mila posti creati e altrettanti persi), meglio di altri Paesi come Francia e Germania. A livello di gruppi professionali le perdite si concentreranno nelle aree amministrative e della produzione: rispettivamente 4,8 e 1,6 milioni di posti distrutti. Secondo la ricerca compenseranno parzialmente queste perdite l’area finanziaria, il management, l’informatica e l’ingegneria. Cambiano di conseguenza le competenze e le abilità ricercate: nel 2020 il problem solving rimarrà la soft skill più ricercata, ma diventeranno più importanti il pensiero critico e la creatività.

Come affermato da Alessandro Perego, Direttore Scientifico degli Osservatori

Digital Innovation del Politecnico di Milano, proprio perché lo scenario è in rapida

106 (l’innovazione digitale nei processi dell’industria). Secondo Perego “nel breve termine si possono prevedere saldi occupazionali negativi, nel medio-lungo termine non è assolutamente certa una contrazione degli occupati in numero assoluto, considerato anche l’impatto nell’indotto, in particolar modo nel terziario avanzato. Il nostro Paese però deve sapere cogliere a pieno i benefici della quarta rivoluzione industriale, attuando iniziative sistemiche per lo sviluppo dello Smart manufacturing e fornendo ai lavoratori le competenze digitali per le mansioni del futuro” (Seghezzi F., 2017).

Alle misure di stimolo agli investimenti in innovazione dobbiamo affiancare incentivi per la formazione delle competenze necessarie a gestirli. Pensando quindi in termini di

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CONCLUSIONI

Questo elaborato si inserisce nel complesso sistema di trasformazioni economico, produttive e sociali che l’Italia ha affrontato e dovrà affrontare negli anni avvenire. Infatti, per comprendere il tema trattato, si è partiti dalla condizione economica dell’Italia rispetto allo scenario globale in cui si inserisce.

Analizzando i dati si evince come in Italia, l’andamento della produzione, dei consumi, degli investimenti e della produttività, nonché quello dell’occupazione, si discostino dai trend di crescita delle principali economie europee. La crisi in Italia è stata più lunga, soprattutto a causa delle politiche di austerità che hanno penalizzato la domanda interna, determinando un arretramento della nostra economia.

Nonostante le misure avviate dal governo italiano, come il Jobs Act, abbiano favorito la stabilizzazione del mercato del lavoro, la contropartita è stata un incremento dell’occupazione precaria come confermato dall’aumento dei contratti a tempo determinato. Inoltre, i numeri suggeriscono come le imprese siano maggiormente orientate ad un risparmio dei costi del lavoro e non ad un investimento in capitale umano. L’effetto negativo dei contratti a tempo determinato, si riscontra soprattutto nei confronti delle giovani generazioni che si apprestano ad entrare nel mondo del lavoro, nell’impossibilità di costruire una carriera professionale. Quello che si prospetta, è il rischio di veder concludere il percorso lavorativo dopo i tre anni di sgravi fiscali e quindi doversi rimettere nel limbo della precarietà, ripartendo da zero in cerca di nuovi ambiti e settori economici.

Un ulteriore elemento da considerare è che l’Italia storicamente, dal lato delle politiche attive del lavoro, ha avuto un basso livello di investimento in formazione sia sul posto di lavoro, sia in caso di licenziamento e ricollocamento. L’implementazione di questo settore resta tutt’oggi in secondo piano anche a causa della mancata unificazione delle competenze sulle politiche per il lavoro oggi di pertinenza regionale.

La promozione dell’occupazione in Italia, pur essendo un’attività strategica, presenta dei deficit se confrontata con la spesa sostenuta dagli altri Paesi europei. Infatti nel nostro Paese, durante gli anni della crisi, si è puntato più a politiche di welfare assistenziali che a politiche di attivazione, ovvero di workfare.

108 Anche il sistema degli incentivi all’occupazione presenta diverse problematiche in merito a questo tema. In primo luogo, perché gli effetti benefici degli incentivi sul mercato del lavoro si esauriscono non appena il vantaggio fiscale termina; in secondo luogo, queste misure mancano di coerenza perché difficilmente ci potranno essere assunzioni incentivate se, in parallelo, proprio grazie a Garanzia Giovani, resta possibile attivare a basso costo tirocini per attività lavorative vere e proprie.

Inoltre, considerando che il mercato del lavoro, così come si sta evolvendo, richiede soprattutto competenze allineate alla domanda di lavoro, il contratto più efficace per i giovani, in questa prospettiva, sarebbe certamente l’apprendistato. Tuttavia, tale tipologia contrattuale risulta indebolita a causa del massiccio ricorso ad un dualismo tra, i tirocini, di dubbia utilità, da una parte e i contratti a tempo indeterminato, destinati a cessare con il venir meno degli incentivi governativi, dall’altra.

Una delle categorie a subire maggiormente le conseguenze della crisi economica in Italia, in termini di costi che comporta il mancato “sfruttamento” del capitale umano, sono stati soprattutto i cosiddetti Neet.

Una politica volta a reintegrare nel mercato del lavoro tutta la popolazione di ragazzi non inseriti in alcun percorso lavorativo, di studio o formazione è certamente irrealistica, ma se l’Italia riuscisse a reinserirne almeno la metà, il risparmio sarebbe di ben 16 miliardi. Lasciare, invece, che il numero di Neet cresca ulteriormente del 10%, porterebbe ad una perdita superiore ai 36 miliardi.

Un ulteriore dato di riflessione è che in Italia a differenza dei Paesi nord-europei, nei quali la maggior parte dei giovani disoccupati e a rischio povertà, riceve qualche forma di assistenza, una quantità sproporzionata della spesa sociale finisce in pensioni. Questa situazione ha portato alla creazione di uno “stato sociale alternativo”, in cui anziani e pensionati hanno contribuito con le loro risorse al mantenimento delle generazioni più giovani. Tale sistema, per così dire “artigianale”, non è in grado di rispondere alle fluttuazioni economiche, come invece potrebbe fare un sistema organizzato a livello centrale, in cui ai sostegni economici sono abbinati corsi di formazione e piani per il ricollocamento.

Benché le spese per favorire un sistema di garanzia ai giovani possano apparire consistenti, se si tiene conto degli svantaggi sociali ed economici che la condizione di inoccupato crea, non solo a chi ne è colpito, ma alla società intera, essi diventano

109 abbastanza esigui. L’inazione, invece, potrebbe incidere indirettamente sulle casse dello Stato molto più di qualsiasi politica attiva.

Sebbene per contrastare questo fenomeno Garanzia Giovani abbia avuto una buona risposta, visto che oltre un milione di persone si sono rivolte al programma, non possiamo che rilevare un effettivo fallimento del progetto, non tanto perché le misure di politica attiva proposte dal programma europeo non siano valide, quanto più per una questione che attiene alla “distorta mentalità imprenditoriale” italiana.

Infatti in Italia, più che di una garanzia giovani, si potrebbe parlare di una garanzia tirocini. Se guardiamo le percentuali scopriamo che oltre il 70% delle misure proposte agli aderenti al programma sono tirocini, percentuale che è ben tre volte superiore rispetto alla media europea. Inoltre, i fondi europei messi a disposizione per inserire i giovani nel mondo del lavoro sembrano non essere stati utilizzati per stabilizzare i tirocinanti, ma per assumere stagisti a rotazione. Un’altra problematica è che i tirocini offerti, secondo i ragazzi iscritti al programma, sono spesso lavori a bassa specializzazione “mascherati” da stage.

Benché il governo nel 2016 abbia introdotto i «Super Bonus Occupazione- Trasformazione Tirocini» che avevano lo scopo di favorire il passaggio verso un'assunzione vera e propria, tale iniziativa è apparsa una correzione di rotta molto parziale per almeno due ragioni. Da un lato, il Super Bonus può essere ottenuto da un'azienda a prescindere dal fatto che il tirocinio sia stato o meno realizzato presso il medesimo datore di lavoro; dall'altro, perché il problema della qualità degli stage è più profondo e non può essere affrontato solo attraverso forme di incentivazione o accrescendo le sanzioni e i controlli da parte dello Stato (cosa che comunque sarebbe auspicabile). L’assenza di una valorizzazione “culturale” degli stage fa sì che questo utilizzo distorto del programma, non venga evidenziato dagli stessi attori economici e dalle loro organizzazioni di rappresentanza, non solo per le negative ricadute sociali che comporta, ma anche come pratica di competizione scorretta.

Nella fase due del programma, ad una nuova iniezione di risorse da parte della Commissione Europea non è seguita una riformulazione di Garanzia giovani volta a sostenere il suo rilancio. In particolare, i membri della Commissione avrebbero dovuto tener conto delle critiche avanzate nei confronti del programma, tra le quali soprattutto quelle della Corte dei conti dell’Unione europea.

110 La Corte ha segnalato, ad esempio, la mancanza di indicatori o sistemi volti ad assicurare la qualità delle offerte di lavoro o formative, come gli stage, e l'assenza di un attento esame della popolazione dei Neet, sia a livello nazionale che locale.

Il rischio è che Garanzia Giovani, nel tempo, si limiti ad essere un’esperienza estemporanea sconnessa da un progetto di crescita e di rafforzamento dell’occupabilità della persona e dal consolidamento delle competenze individuali rispetto alle attitudini e ai fabbisogni occupazionali attuali e potenziali.

Un modo per riconsiderare un nuovo programma di Garanzia giovani potrebbe essere quello di ripartire dal suo spirito originario, ovvero, offrendo alle fasce più deboli della popolazione giovanile un servizio di assistenza intensivo e delle concrete chance di inserimento occupazionale.

La nuova Garanzia giovani in Italia dovrebbe dunque rimodellarsi come una misura maggiormente orientata a favore dei soggetti socialmente più vulnerabili all'intero dell'ancora troppa indefinita categoria dei Neet. Seguendo questa prospettiva, il programma dovrebbe ridefinire le sue priorità, così come gli strumenti che può concretamente mettere in campo e, di conseguenza, gli indicatori e le modalità attraverso le quali deve essere successivamente valutata. Ciò non vuole dire tralasciare l'intento, tanto ambizioso quanto ancora lontano, di mettere in campo una politica nazionale di promozione dell'occupazione giovanile o una riformulazione delle politiche attive del lavoro. Tali obiettivi rimangono indiscutibilmente primari, ma non sono la priorità a cui la Garanzia giovani da sola può concretamente tendere.

Al contrario, Garanzia Giovani dovrebbe ambire a concentrare le sue energie sulle fasce più deboli della popolazione giovanile, circoscrivendo il suo campo di azione su coloro che sono ancora troppo distanti da un mercato del lavoro che in alcuni territori sembra quasi non esserci. In questo suo ridefinirsi come componente specializzata all'interno di un sistema di intervento più vasto e articolato, la Garanzia giovani potrebbe ancora ritrovare qualche opportunità di rinascita.

La necessità di un sistema complesso di politica attiva per l’Italia, si accompagna in termini di nuove opportunità lavorative, al tema dell’Industria 4.0, soprattutto nel nuovo contesto globale in cui le trasformazioni tecnologiche hanno assunto un ruolo cruciale per il futuro sviluppo del nostro Paese.

111 Tuttavia, le opportunità offerte dalla quarta rivoluzione industriale devono “scontrarsi” con un tessuto produttivo, quale è quello italiano, caratterizzato da piccole e medie imprese con bassi livelli di produttività e di investimenti in ricerca e sviluppo.

Proprio per questo il piano del governo per favorire il passaggio da Industria 4.0 a

Impresa 4.0, è risultato positivo nel far fronte al ritardo italiano rispetto ai suoi maggiori

competitor, attraverso maggiori investimenti su competenze e formazione. Difatti il piano di sostegno all’innovazione ha portato ad un incremento degli investimenti sui beni agevolati dell’11%, percentuale maggiore rispetto a quella tedesca.

Nonostante l’impegno del nostro sistema produttivo verso l’aggiornamento tecnologico, questo non è ancora pienamente diffuso e pervasivo. Se negli ultimi venti anni la quota di imprese che hanno utilizzato le infrastrutture tecnologiche siano aumentate, persistono ancora ampi divari tra le realtà imprenditoriali, soprattutto dovute ad un carente implemento delle infrastrutture tecnologiche della comunicazione. Per di più, l’Italia investe ancora molto poco in innovazione a beneficio degli investimenti ordinari.

Un’ulteriore causa rilevante nell’analisi del ritardo tecnologico italiano, va certamente ricercata nel gap esistente tra l’Italia e l’insieme dei Paesi UE, dove a possedere competenze digitali elevate sono solo il 29% della forza lavoro, rispetto ad una media europea del 37%. Al fine di arginare questa situazione diventa cruciale il ruolo della Scuola, delle Università e della Ricerca, nell’innovare i percorsi di studio alle competenze digitali richieste dall’Industria 4.0.

Nell’ottica di una visione di sistema, il mercato del lavoro, necessita di una maggiore sinergia tra percorsi formativi, percorsi di carriera e competenze richieste dal mondo delle imprese. Per raggiungere questo obiettivo, non basta soltanto un processo di riforma legislativa o di sgravi a favore dell’occupazione.

Occorre una visione globale che ponga al centro le persone, come uomini e donne capaci di essere padroni di sé stessi e del proprio futuro anche perché preparati a vivere pienamente il significato del lavoro quale risposta a un bisogno esistenziale e progettuale e non solo come scambio economico.

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