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Piero Boitani, Il Vangelo secondo Shakespeare

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Academic year: 2021

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Piero Boitani, IL VANGELO SECONDO SHAKESPEARE, pp.175, 15 euro, il Mulino, Bologna, 2009

Il Vangelo di Giovanni si apre con l’immagine del Verbo che “si fa carne” e viene ad “abitare in mezzo a noi”. Il primo rappresentante del platonismo cristiano, l’apologeta martire Giustino, elaborava una teologia del Logos come intermediario divino, forma della manifestazione di Cristo e mezzo di unione tra uomo e Dio.

Attraverso le corrispondenze con il Vecchio e il Nuovo Testamento, i rapporti intertestuali e le suggestioni pittoriche, il saggio di Piero Boitani coglie nella parola di Shakespeare un’analoga forza, quella di farsi buona novella, epifania e messaggio d’amore, forma di rivitalizzazione e rigenerazione dell’umano attraverso il divino.

Nella disperata malinconia di Amleto, nello sguardo verso l’alto – verso il profondo e l’incommensurabile del dolore – di Lawrence Olivier interprete di King Lear si esprime la ricerca di questo contatto, si invocano la ragione di una pazienza che attenui il male assoluto, il conforto di un pathos che riscatti con il sacrificio la follia. Quando afferma che “c’è una speciale provvidenza anche nella caduta di un passero”, Amleto comprende anche che bisogna “tenersi pronti”, come prescrivono i Vangeli (Lc 12, 35-40 e Mt 24,44). The readiness is all, dunque, a cui fa eco il detto di Edgar nel Lear: ripeness is all. Essere pronti per il destino, essere maturi per affrontare l’uscita e l’ingresso nel mondo. “Non basta la prontezza” – scrive Boitani, – “occorre la compiutezza. Bisogna che tutto, appunto, sia «consummatum»: adempiuto”; per questo gli uomini devono “sopportare”, secondo il significato dell’inglese endure, “come impara a fare Giobbe: come fa Cristo”.

Come Gesù, e come profeti e martiri, Lear e Cordelia diventano “spie di Dio”, non nel senso che osservano e compiono un’indagine sul mondo, ma perché ne assumono su di sé il mistero, sopportando tutto il peso e la responsabilità del male e del dolore umano. Nella rappresentazione teatrale, la loro parola si fa espressione di un cammino di passione e, per lo spettatore, di maturazione. Al tempo stesso, nel ritirarsi a raccontare “antiche storie”, Lear e Cordelia rivelano in esse un principio speranza, una voce divina capace se non di riscattare, almeno di spiegare e di consolare.

“Antiche storie” come quelle che Shakespeare ci narra nei drammi romanzeschi, in Pericle, Cimbelino, nel Racconto d’inverno e nella Tempesta; drammi a lieto fine, dove lo sviluppo tragico dell’intreccio è scongiurato dai poteri miracolosi e magici del linguaggio, della parola poetica portata sulla scena. Il contatto negato alla Vergine del Noli me tangere di Tiziano, quella fusione felice di parola e corpo, di uomo e natura (invisa ai puritani), diventa possibile nelle agnizioni di Pericle, nelle apoteosi floreali di Cimbelino, nello stupore di biblica e dantesca memoria che unisce Ariel, lo spirito della Tempesta, ai nobili europei giunti in isole lontane, e che contribuisce a fare innamorare Miranda e Ferdinando; rivive, inoltre, nella resurrezione di Ermione e, con la complicità del furfante, ladro e festaiolo Autolico, nella ri-nominazione di Perdita, la figlia perduta del Racconto d’inverno. Come Pigmalione, riscaldando di baci la figura femminile da lui scolpita nell’avorio, la trasforma in una donna in carne ed ossa, così la statua di Ermione, che si dice scolpita dal discepolo di Raffaello Giulio Romano, riprende a vivere lasciando stupefatto il marito Leonte

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quando la tocca (“Ma è calda! / Se questa è magia, lascia che sia un’arte / lecita quanto il nutrirsi”).

Non c’è quindi bisogno di scomodare troppo una confessione religiosa per intendere questo “vangelo poetico” di Shakespeare che, oltre ad aumentare lo spettro di significati legati alla lettura dei drammi e la loro suggestione sul lettore, rivendica e traduce in atto un messaggio fondamentale, quello di Giovanni, appunto, della parola che si fa carne. Una parola che incontra l’uomo nell’arte, sublime forma di comunicazione e d’amore.

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