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La criminalizzazione degli attacchi ai peacekeepers nella prospettiva della funzione della giustizia internazionale penale al fine del mantenimento della pace

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DIRITTI UMANI e DIRITTO INTERNAZIONALE © Società editrice il Mulino

vol. 11, 2017, n. 1, pp. 151-172 ISSN: 1971-7105

nella prospettiva della funzione della giustizia

penale internazionale al fine del mantenimento della pace

Andrea Spagnolo

*

SOMMARIO: 1. Introduzione. – 2. La strumentalità della giustizia internazionale penale rispetto alle

operazioni di peacekeeping. – 3. La prassi delle Nazioni Unite in relazione alla protezione delle ope-razioni di peacekeeping non istituite né autorizzate dall’Organizzazione. – 4. L’interpretazione dell’espressione «in accordance with the Charter of the United Nations». – 5. Le Joint Peacekeeping

Forces (JPF) in Ossezia del Sud come caso studio. – 6. Il metodo scelto dal Procuratore della CPI

nelle indagini sugli attacchi alle JPF. – 6.1. La natura consensuale delle JPF. – 6.2. L’imparzialità delle JPF. – 6.3. L’uso della forza da parte delle JPF. – 7. Conclusioni.

1. Introduzione

Il Procuratore della Corte penale internazionale (CPI) – nel richiedere l’autorizzazione a proseguire le indagini in relazione al conflitto russo-georgiano del 2008 – ha recentemente sostenuto che ai fini della configurazione dei crimini di guerra commessi contro i peacekeepers non sia necessario che la missione og-getto di attacchi sia istituita o autorizzata dalle Nazioni Unite1. Questa posizione

è meritevole di essere approfondita poiché le relative disposizioni dello Statuto della CPI prescrivono che l’operazione di peacekeeping oggetto di attacco sia isti-tuita «in accordance with the Charter of the United Nations»2. Nel giustificare

una siffatta tesi, l’organo di accusa della CPI ha adottato un approccio ‘sostanzia-lista’ alla nozione di peacekeeping, limitandosi a verificare che le Joint

Peacekee-ping Forces (JPF), dispiegate per mantenere la pace in Sud Ossezia, fossero

ri-spettose degli elementi costitutivi delle operazioni di pace delle Nazioni Unite: consenso, imparzialità e uso della forza ‘limitato’.

Premesso che la posizione del Procuratore è, al momento, limitata alla richie-sta di un’autorizzazione a procedere con le indagini successivamente accettata

* Assegnista di ricerca in Diritto internazionale presso l’Università degli Studi di Torino,

Dipar-timento di Giurisprudenza, Lungo Dora Siena, 100 – 10153 Torino, andrea.spagnolo@unito.it.

1 Corte penale internazionale, Office of the Prosecutor, Corrected Version of “Request for author-isation of an investigation pursuant to article 15”, ICC-01/15-4, richiesta del 13 ottobre 2015.

2 Rome Statute of the International Criminal Court, firmato il 17 luglio 1998, entrato in vigore il

1° luglio 2002 (d’ora in poi Statuto di Roma), art. 8, par. 2(b)(iii) e 2(e)(iii): «Intentionally directing attacks against personnel, installations, material, units or vehicles involved in a humanitarian assis-tance or peacekeeping mission in accordance with the Charter of the United Nations, as long as they are entitled to the protection given to civilians or civilian objects under the international law of armed conflict».

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dalla Camera preliminare della CPI3, l’approccio di cui si è fatto cenno stimola

riflessioni di carattere generale.

La tesi che si vuole sostenere è che l’introduzione nello statuto di Roma del crimine consistente negli attacchi ai peacekeepers vada letta nella prospettiva della funzione della giustizia internazionale penale di contribuire alla gestione dei con-flitti e, in particolare, di tutelare le operazioni di mantenimento della pace. Siffat-ta lettura potrebbe porSiffat-tare a interpreSiffat-tare l’espressione «in accordance with the Charter of the United Nations» in modo tale da estendere la protezione a opera-zioni che, pur non essendo istituite o autorizzate dalle Naopera-zioni Unite, ne condivi-dano i principi fondanti. L’approccio del Procuratore della CPI in relazione alle JPF, se confermato, potrebbe avvalorare questa tesi.

Il presente scritto è diviso in due parti. Nella prima, verrà esposta la tesi per cui la giustizia internazionale penale sia strumentale rispetto alle operazioni di

peacekeeping, offrendo protezione a queste ultime e contribuendo così al

mante-nimento della pace. Verrà poi dimostrato che in quest’ottica sia ragionevole so-stenere che tale protezione possa estendersi al di là delle operazioni di

peacekee-ping istituite o autorizzate dalle Nazioni Unite. In conclusione della prima parte,

verrà proposta un’interpretazione dello Statuto di Roma conforme alla predetta funzione della giustizia internazionale penale. Nella seconda parte, la richiesta del Procuratore della CPI di procedere alle indagini in relazione al conflitto in Osse-zia del Sud verrà studiata; in particolare, sarà oggetto di analisi l’approccio scelto dal Procuratore, in quanto idoneo a fornire alcuni elementi di supporto alla tesi di partenza.

2. La strumentalità della giustizia internazionale penale rispetto alle operazioni di

peacekeeping

In generale, la giustizia internazionale penale è considerata uno strumento idoneo a incidere sulla gestione dei conflitti4. In particolare, è stato anche sostenuto che

la giustizia internazionale si collochi in una continuità funzionale rispetto alle operazioni di peacekeeping5.

3 Corte penale internazionale, Pre-Trial Chamber I, Decision on the Prosecutor’s request for an authorization of an investigation, ICC-01/15, decisione del 27 gennaio 2016.

4 Cfr. F.MÉGRET, International criminal justice. A research agenda, in Critical approaches to in-ternational criminal law. An introduction, C.SCHWOBEL (ed.), Abingdon-New York, 2014, p. 18 ss.,

in partic., pp. 23-24: «the consequences of prosecutorial decisions to investigate or charge often go far beyond the individuals in question and can have significant effect on conflict and post-conflict dynamics».

5 V. A.LOLLINI, “L’expansion ‘interne et externe’ du rôle du juge dans le processus de

créa-tion du droit internacréa-tional penal”, in Les sources du droit internacréa-tional pénal, M.DELMAS MARTY,E.

FRONZA,E.LAMBERT-ABDELGAWAD (sous la direction de), Paris, 2004, p. 223 ss., in partic. p. 227:

«[l]a justice penale est par consequent percue comme un veritable outil pour les operations de

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Dal momento che il peacekeeping è uno strumento cui la comunità interna-zionale fa ampio ricorso per mantenere la pace, si potrebbe ipotizzare un ulterio-re collegamento: tutelando le operazioni di peacekeeping, la giustizia internazio-nale peinternazio-nale rafforza il proprio ruolo nella gestione dei conflitti.

Questa particolare interazione può apparire ovvia, ma in realtà è spesso sot-tovalutata nei lavori che si occupano dei rapporti tra peacekeeping e giustizia in-ternazionale penale. Questi, infatti, sono spesso incentrati sulla strumentalità del primo rispetto alla seconda. È stato sostenuto, in tale prospettiva, che il dispie-gamento di operazioni di peacekeeping in scenari conflittuali sia utile al concreto svolgimento di processi penali internazionali6. La presenza di forze internazionali,

infatti, può aiutare a consegnare alla giustizia gli accusati di gravi crimini interna-zionali, a patto che tali forze abbiano il mandato per farlo7.

A essere oggetto del presente studio sono invece le interrelazioni tra

peace-keeping e giustizia internazionale penale che si muovono in direzione contraria

rispetto a quella appena tracciata e si traducono in una strumentalità della secon-da rispetto al primo.

Vi sono diverse ragioni che portano a studiare questa relazione e tutte posso-no essere ricondotte all’introduzione, con lo Statuto di Roma, di una disposizione

ad hoc che criminalizza gli attacchi ai peacekeepers sia nei conflitti internazionali,

sia in quelli non-internazionali8. Il crimine di guerra previsto dallo Statuto di

Roma, infatti, non è altro che una riaffermazione della protezione di cui i

peace-keepers godono ai sensi del diritto internazionale umanitario, da tempo

cristalliz-zata in una norma di diritto consuetudinario9.

Il solo fatto che i peacekeepers godano dello status di soggetti protetti dal di-ritto umanitario è degno di attenzione. Non bisogna dimenticare, infatti, che le missioni di peacekeeping sono composte per lo più da militari che, se fossero

im-6 K.A.RODMAN, “Justice is interventionist: The Political Sources of the Judicial Reach of the

Special Court for Sierra Leone”, in The Realities of International Criminal Justice, D.L.ROTHE,J.

MEERNIK,T.INGADOTTIR (eds), Leiden, 2013, pp. 63-93. L’autore sostiene la tesi secondo cui

l’esperienza della Corte speciale per la Sierra Leone sia stata facilitata dalla politica interventista della comunità internazionale che, attraverso le Nazioni Unite, è intervenuta nel conflitto dispiegando un’operazione di peacekeeping. Dello stesso autore v. anche, per un’analisi più ampia, “Justice as a Dialogue Between Law and Politics: Embedding the International Criminal Court within Conflict Management and Peacebuilding”, in Journal of International Criminal Justice 2014, p. 437 ss., in partic., p. 552.

7 Ivi, p. 563; v. anche P.AKHAVAN, “Are International Criminal Tribunals a Disincentive to

Peace?: Reconciling Judicial Romanticism with Political Realism”, in Human Rights Quarterly 2009, p. 629 ss., in partic. p. 635 e 646.

8 Cfr. supra, nota 2.

9 La regola di diritto consuetudinario in discorso è stata ‘codificata’ dal Comitato

interna-zionale della Croce Rossa come segue: «Directing an attack against personnel and objects involved in a peacekeeping mission in accordance with the Charter of the United Nations, as long as they are entitled to the protection given to civilians and civilian objects under international humanitarian law, is prohibited». Cfr. J.-M.HENCKAERTS,L.DOSWALD-BECK, Customary International

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piegati in contesti bellici dai rispettivi Stati d’origine, sarebbero normalmente sot-toposti al diritto dei conflitti armati e non godrebbero di alcuna protezione parti-colare10. La protezione, quindi, deriva essenzialmente dalla funzione che tali

sog-getti svolgono: il mantenimento della pace.

Di per sé, ciò dovrebbe già essere sufficiente a fugare ogni dubbio sulla ratio di una disposizione che criminalizza gli attacchi ai peacekeepers: la giustizia inter-nazionale penale e il diritto interinter-nazionale umanitario offrono protezione a sog-getti che svolgono una funzione essenziale all’interno della comunità internazio-nale, il mantenimento della pace11. Si tratta, dunque, di un messaggio

essenzial-mente politico: l’attività dei peacekeepers è tutelata in quanto tale12.

A questo tema di carattere generale se ne aggiunge un altro, logicamente con-seguente. La criminalizzazione degli attacchi ai peacekeepers ha una funzione pre-ventiva, volta a limitare siffatte condotte in quanto idonee a compromettere i processi di pace che vedono il coinvolgimento di forze di peacekeeping.

Proprio questa è stata la ragione alla base dell’introduzione del crimine consi-stente negli attacchi ai peacekeepers nello Statuto della Corte speciale per la Sierra Leone13. Occorre ricordare, infatti, che la stessa istituzione di tale Corte sia stata

motivata dalla necessità di punire gli individui che, con le loro condotte, avevano compromesso il processo di pace in Sierra Leone, consacrato negli Accordi di Lomè14.

10 Cfr. M.SASSOLI, “International humanitarian law and peace operations, scope of application ratione materiae”, in International Humanitarian Law, Human Rights and Peace Operations, 31st

Round Table on Current Problems of International Humanitarian Law, Sanremo, 4-6 September 2008, G.L.BERUTO (ed.), Sanremo, 2008, pp. 104-105.

11 Cfr. S.A.FERNANDEZ DE GURMENDI, “El Estatuto de Roma de la Corte Penal Internacional:

Extensión de los crímenes de guerra a los conflictos armados de carácter no internacional y otros desarrollos relativos al derecho internacional humanitario”, in Derecho internacional humanitario y

temas de áreas vinculadas, G.VALLADARES (compilador), Buenos Aires, 2003, p. 391 ss., in partic. p.

411. Il testo è reperibile sul sito internet del Comitato internazionale della Croce Rossa, all’indirizzo www.icrc.org.

12 Ibidem: «Por ello, la disposición es importante no tanto por lo que agrega desde el punto de

visa técnico sino por el mensaje político que envía». In questo senso v. anche W.SCHABAS, The

In-ternational Criminal Court: A Commentary on the Rome Statute, Oxford, 2016, p. 263.

13 Cfr. A.B.M.MARONG, “Fleshing out the Contours of the Crime of Attacks against United

Nations Peacekeepers – The Contribution of the Special Court for Sierra Leone”, in The Sierra

Le-one Special Court and its Legacy: The Impact for Africa and International Criminal Law, C.C.JALLOH

(ed.), Cambridge, 2014, p. 289 ss., in partic. p. 291. V. anche M.C.BASSIOUNI, Crimes against

Hu-manity. Historical Evolution and Contemporary Application, Cambridge, 2011, pp. 235-236. 14 V. Statute of the Special Court for Sierra Leone, in Report of the Secretary-General on the es-tablishment of a Special Court for Sierra Leone, UN Doc. S/2000/915 del 4 ottobre 2000, Annex, art.

1, par. 1: «The Special Court shall […] have the power to prosecute persons who bear the greatest responsibility for serious violations of international humanitarian law and Sierra Leonean law committed in the territory of Sierra Leone since 30 November 1996, including those leaders who, in committing such crimes, have threatened the establishment of and implementation of the peace process in Sierra Leone».

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Sotto questo profilo, non appare casuale che nel più recente policy paper l’Ufficio del Procuratore della CPI abbia inserito il crimine consistente negli at-tacchi ai peacekeepers tra le fattispecie cui rivolgere maggiore attenzione in futu-ro, anche in ottica preventiva15.

La funzione preventiva della giustizia internazionale penale rispetto agli at-tacchi ai peacekeepers opera in due direzioni complementari. Da un lato è un mo-nito per le parti di un conflitto nell’ambito del quale è dispiegata un’operazione di peacekeeping: i componenti di queste ultime sono soggetti protetti e, dunque, immuni dagli attacchi. Dall’altro lato, la criminalizzazione degli attacchi ai

peace-keepers opera come una sorta di garanzia per gli Stati fornitori dei contingenti,

assicurando loro che i propri militari siano protetti da attacchi.

D’altronde, l’adozione, nel 1994, della Convenzione sulla salvaguardia del personale delle Nazioni Unite e del personale associato, detta Safety

Conven-tion16, che prevede il divieto di attaccare i peacekeepers e l’obbligo, per gli Stati

contraenti, di criminalizzare siffatte condotte, andava proprio nella direzione di facilitare il lavoro dei soggetti impegnati in operazioni di peacekeeping e di rassi-curare gli Stati fornitori dei contingenti militari su un adeguato livello di prote-zione dei propri soldati17.

La Safety Convention è una convenzione che, come risulta chiaramente dal proprio nome, svolge una funzione preventiva in relazione ai soli peacekeepers delle Nazioni Unite. Per essere più precisi, il suo ambito di applicazione è limita-to alle operazioni istituite dalle Nazioni Unite e condotte sotlimita-to il proprio coman-do e controllo18.

È lecito domandarsi se anche la giustizia internazionale penale svolga una funzione preventiva di tutela delle sole operazioni di peacekeeping delle Nazioni Unite o se invece tuteli operazioni di peacekeeping istituite diversamente, ad esempio da organizzazioni regionali, oppure nell’ambito di accordi bilaterali o multilaterali per la gestione dei conflitti.

Un lavoro del 1990 di Alan James, studioso delle relazioni internazionali, de-scriveva il peacekeeping come una ‘tecnica’, dimostrando che, in questa prospetti-va, possono essere considerate ‘di peacekeeping’ anche esperienze precedenti alla

15 Corte penale internazionale, Office of the Prosecutor, Policy paper on case selection and priori-tization del 15 settembre 2016, p. 15: «It will also pay particular attention to attacks against

cultur-al, religious, historical and other protected objects as well as against humanitarian and peacekeep-ing personnel. In so dopeacekeep-ing, the Office will aim to highlight the gravity of these crimes, thereby help-ing to end impunity for, and contributhelp-ing to the prevention of, such crimes».

16 Convention on the Safety of United Nations and Associated Personnel (d’ora in poi Safety Convention), firmata il 9 dicembre 1994, entrata in vigore il 15 gennaio 1999.

17 E.T.BLOOM, “Protecting Protecting Peacekeepers: The Convention on the Safety of United

Nations and Associated Personnel”, in The American Journal of International Law 1995, p. 621 ss., in partic. p. 630.

18 Safety Convention, cit., art. 1, lett. c): «‘United Nations operation’ means an operation

estab-lished by the competent organ of the United Nations in accordance with the Charter of the United Nations and conducted under United Nations authority and control».

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costituzione delle Nazioni Unite e che dunque «peacekeeping is by no means a UN reserve»19. Certamente il ruolo delle Nazioni Unite rispetto all’evoluzione del

peacekeeping è innegabile, avendo contribuito a creare un modello e a darne

cre-dibilità20. Non si può però escludere che operazioni di peacekeeping vengano

isti-tuite da organizzazioni regionali al di fuori della Carta delle Nazioni Unite. Ad esempio, la prima vera operazione militare dell’Unione europea, denomi-nata Concordia, non era fondata su una risoluzione del Consiglio di sicurezza del-le Nazioni Unite, ma era stata istituita a seguito di una precisa richiesta da parte del Presidente della Macedonia21. Altre esperienze di peacekeeping istituite al di

fuori della Carta delle Nazioni Unite sono poi rinvenibili nella prassi del CIS (Commonwealth of Independent States)22 e dell’ECOWAS23.

Coerentemente con la propria funzione strumentale rispetto al mantenimento della pace, la giustizia internazionale penale dovrebbe poter contribuire alla pre-venzione e alla punizione degli attacchi contro peacekeepers che non siano appar-tenenti a missioni istituite dalle Nazioni Unite ma che, come vedremo oltre (para-grafo 4) ne condividano gli elementi costitutivi.

3. La prassi delle Nazioni Unite in relazione alla protezione delle operazioni di

peacekeeping non istituite né autorizzate dall’Organizzazione

Alcuni dati a sostegno della tesi che le esperienze di peacekeeping siano tutelate in quanto tali e non necessariamente in quanto espressione di un intervento delle Nazioni Unite si rinvengono nella prassi istituzionale della stessa Organizzazione. Analizzando le risoluzioni del Consiglio di sicurezza e i rapporti del Segretario

19 Cfr. A.JAMES, Peacekeeping in international politics, New York, 1990, p. 1.

20 V. V.M.GOULDING, “The evolution of United Nations peacekeeping”, in International Af-fairs 1993, p. 451 ss., che, a p. 452 descrive il peacekeeping come «a technique which was developed mainly by the United Nations» ritenendo che il marchio ONU sia imprescindibile per la buona

ri-uscita delle operazioni.

21 Così come risulta dal preambolo dell’Azione comune istitutiva dell’operazione Concordia, tale

operazione è intesa come proseguimento delle operazioni della NATO nell’ex Repubblica Iugoslava di Macedonia, allo scopo di contribuire ulteriormente a un clima di sicurezza e stabilità che consenta al governo dell’ex Repubblica iugoslava di Macedonia di attuare l’accordo quadro di Ohrid (v. Azione comune 2003/92 PESC relativa all’operazione militare dell’Unione europea nell’ex Repubblica jugoslava di Macedonia, preambolo, punto 1). La legittimità quindi è da ricercarsi negli accordi di Ohrid (Framework agreement. Concluded at Ohrid, Macedonia. Signed at

Skopje, Macedonia, 13 agosto 2001, reperibile sul sito internet www.osce.org; v. in partic. art. 2.1),

di per sé idonei a provare il consenso reso dallo Stato ospite alla presenza della NATO. La successiva presenza dell’UE è stata poi ‘ufficializzata’ dal governo macedone con una lettera (v. Conclusioni del consiglio del 18 marzo 2003).

22 Cfr. J.MACKINLAY,E.SHAROV, “Russian peacekeeping operations in Georgia”, in Regional Peacekeepers: The Paradox of Russian Peacekeeping, J.MACKINLAY,P.CROSS (eds), Tokyo, New

York, 2003, p. 89; D.LYNCH, Russian Peacekeeping Strategies in the CIS: the cases of Moldova,

Georgia and Tajikistan, London, 2000, p. 130.

23 V. in generale L. POLI, La responsabilità di proteggere e il ruolo delle organizzazioni internazionali regionali. Nuove prospettive dal continente africano, Napoli, 2011.

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generale delle Nazioni Unite è possibile rinvenire numerose espressioni di con-danna degli attacchi ai peacekeepers. Tali condotte sono caratterizzate come un ostacolo ai processi di pacificazione in zone conflittuali o post-conflittuali.

La prassi che qui interessa è relativa alle prese di posizione ufficiali in merito a operazioni di peacekeeping né istituite né autorizzate dalle Nazioni Unite.

Nel 1997 il Consiglio di sicurezza condannava24 gli attacchi portati sia contro

l’operazione di peacekeeping istituita dal CIS in Tajikistan, che non era stata né istituita né autorizzata dalle Nazioni Unite, sia contro UNMOT, l’operazione che, al contrario, il Consiglio di sicurezza aveva istituito nella zona25. Interessante

no-tare come nel medesimo punto la risoluzione del Consiglio di sicurezza appena citata facesse esplicita menzione alla necessità di indagare sui predetti attacchi e di consegnare alla giustizia i relativi autori, considerando ciò funzionale ad assi-curare libertà di azione a tutti i peacekeepers dispiegati nell’area; non solo, dun-que, quelli appartenenti all’operazione UNMOT26.

Sempre in relazione alle operazioni di peacekeeping istituite dal CIS, è oppor-tuno fare riferimento anche alla risoluzione n. 1187 del 1998 con la quale il Consi-glio di sicurezza ha sostanzialmente ricalcato il modello della risoluzione prece-dentemente citata, condannando sia gli attacchi contro l’operazione UNOMIG, dispiegata dalle Nazioni Unite nella regione dell’Abkhazia, in Georgia, sia gli at-tacchi contro l’operazione istituita e dispiegata dal CIS nella medesima zona. Inte-ressante notare come il Consiglio di sicurezza faccia espresso riferimento al rischio che tali attacchi minacciassero l’andamento dei processi di pace nella regione27.

Con riferimento alla medesima esperienza di peacekeeping, il Consiglio di si-curezza si è spinto ancora più in là nel 2005, quando, preso atto della perdurante crisi in Abkhazia, ha condannato ancora una volta gli attacchi contro tutte le ope-razioni di peacekeeping presenti nella regione e ha ingiunto alle parti di indagare e condannare gli autori di tali condotte28.

24 Consiglio di sicurezza, risoluzione n. 1099 del 14 marzo 1997, punto 4: «[The Security

Council] strongly condemns the acts of mistreatment against UNMOT and other international personnel» (enfasi originale).

25 Consiglio di sicurezza, risoluzione n. 968 del 16 dicembre 1994.

26 Consiglio di sicurezza, risoluzione n. 1099, loc. ult. cit.: «[The Security Council] urgently

calls upon the parties to cooperate in bringing the perpetrators to justice, to ensure the safety and freedom of movement of the personnel of the United Nations, the CIS peacekeeping forces and other international personnel, and to cooperate fully with UNMOT».

27 Consiglio di sicurezza, risoluzione n. 1187 del 30 luglio 1998, punto 11: «[The Security

Council] condemns the acts of violence against the personnel of UNOMIG, the renewed laying of mines in the Gali region and also the attacks by armed groups, operating in the Gali region from the Georgian side of the Inguri River, against the CIS peacekeeping force and demands that the parties, in particular the Georgian authorities, take determined measures to put a stop to such acts which subvert the peace process».

28 Consiglio di sicurezza, risoluzione n. 1582 del 28 gennaio 2005, punti 27, 28 e 29: «[The

Se-curity Council] reiterates its call on the Georgian side to provide comprehensive seSe-curity guaran-tees to allow for independent and regular monitoring of the situation in the upper Kodori valley by joint UNOMIG and CIS peacekeeping force patrols; […] Underlines that it is the primary

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respon-Spostando l’attenzione verso altre esperienze di peacekeeping, è utile richia-mare la risoluzione n. 950 del 1994 con la quale il Consiglio di sicurezza ha con-dannato gli attacchi portato contro ECOMOG, l’operazione di peacekeeping isti-tuita e dispiegata in Libera dall’ECOWAS senza una formale autorizzazione da parte delle Nazioni Unite. Nel condannare tali attacchi, il Consiglio di sicurezza ha nuovamente richiesto che a tale operazione, al pari di UNOMIL, istituita dalle Nazioni Unite, fosse concesso di contribuire al processo di pacificazione in Libe-ria29. Simili condanne, in relazione al medesimo scenario, sono state esplicitate

dagli Stati membri del Consiglio di sicurezza che hanno discusso il quindicesimo rapporto del Segretario generale sulla Liberia, nel 199630.

La prassi appena esposta sembra poter confortare la tesi di partenza. Non sembra azzardato ritenere, infatti, che nei dibattiti interni alle Nazioni Unite e, in particolare, in seno al Consiglio di sicurezza, il divieto di attacchi ai peacekeepers e la loro criminalizzazione siano funzionali alla buona riuscita di processi pacifi-cazione in aree critiche. Inoltre, sembra possa emergere, dalla stessa prassi, un’attitudine a considerare sullo stesso piano operazioni di peacekeeping istituite dalle Nazioni Unite, da organizzazioni regionali e, infine, a seguito di accordi tra Stati; non sembra, inoltre, che in questi ultimi due casi sia richiesto che l’operazione fosse autorizzata dalle Nazioni Unite.

In ragione di ciò, si possono ragionevolmente trarre due conclusioni parziali: 1) la criminalizzazione degli attacchi ai peacekeepers è utile a consolidare i proces-si di pace; 2) a essere oggetto di condanna sono gli attacchi condotti contro tutte le operazioni di peacekeeping, non solo quelle istituite o autorizzate dalle Nazioni Unite.

sibility of both sides to provide appropriate security and to ensure the freedom of movement of UNOMIG, the CIS peacekeeping force and other international personnel; […] Strongly condemns in that respect the repeated abductions of personnel of those missions in the past, deeply deplores that none of the perpetrators have ever been identified or brought to justice, reiterates that it is the responsibility of the parties to end this impunity and calls upon them to take action».

29 Consiglio di sicurezza, risoluzione n. 950 del 21 ottobre 1994, punti 7, 8 e 9: «[The Security

Council] condemns the widespread killings of civilians and other violations of international human-itarian law by the factions in Liberia, and the detention and maltreatment of UNOMIL observers, ECOMOG soldiers, humanitarian relief workers and other international personnel and demands that all the factions strictly abide by applicable rules of international humanitarian law;[...] De-mands that all factions in Liberia strictly respect the status of ECOMOG and UNOMIL personnel, and those of other international organizations and humanitarian relief agencies working in Liberia, refrain from any acts of violence, abuse or intimidation against them and return forthwith equip-ment seized from them; […] Urges Member States to provide support for the peace process in Li-beria through the United Nations Trust Fund for LiLi-beria, in order to enable ECOMOG to fulfil its mandate».

30 Consiglio di sicurezza, UN Doc. S/PV.3621 del 25 gennaio 1996. V. in particolare le

posizioni del rappresentante del governo tedesco, a p. 5; del rappresentante del governo francese, a p. 10 e, infine, del rappresentante del Regno Unito, a p. 19.

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4. L’interpretazione dell’espressione «in accordance with the Charter of the United Nations»

Il passaggio successivo dell’indagine consiste nel verificare che le disposizioni del-lo Statuto di Roma che criminalizzano gli attacchi ai peacekeepers possano essere interpretate nel senso prospettato in chiusura del precedente capitolo. Occorre, cioè, provare che l’ambito di applicazione dei par. 2(b)(iii) e par. 2(e)(iii) dell’art. 8 si estenda anche a operazioni che non siano istituite o autorizzate dalle Nazioni Unite.

Ciò non appare immediato, poiché, come anticipato nel primo paragrafo, la lettera delle predette disposizioni indica che le operazioni di peacekeeping protet-te debbano essere istituiprotet-te «in accordance with the Charprotet-ter of the Uniprotet-ted Na-tions»: un’espressione che pare implicare un necessario collegamento con la Car-ta delle Nazioni Unite. Va detto, però, che la stessa espressione appare meno net-ta di espressioni quali «United Nations operation[s]», impieganet-ta nella Safety

Convention31, oppure «United Nations forces», cui fa ricorso il Segretario

genera-le nel Bolgenera-lettino del 1999 sul rispetto del diritto umanitario32, che rimandano

si-curamente a operazioni istituite dalle Nazioni Unite e condotte sotto il comando dell’organizzazione. A una prima analisi, quindi, sembra esserci lo spazio per estendere l’ambito di applicazione dei par. 2(b)(iii) e par. 2(e)(iii) dell’art. 8 an-che a operazioni an-che non abbiano un collegamento formale con le Nazioni Unite. Non bisogna però dimenticare che l’interpretazione di una disposizione pena-le incontra il limite dettato dal principio di tassatività33, consacrato, nello Statuto

di Roma, nell’art. 22, par. 2, ai sensi del quale «[t]he definition of a crime shall be strictly construed»34. Detto principio impone al giudice di attenersi

scrupolosa-mente al contenuto della norma incriminatrice, evitando interpretazioni ‘creative’ della stessa. Un siffatto limite, però, non esclude che l’interprete possa comunque ricercare il significato di una disposizione statutaria, laddove questo sia oscuro o ambiguo35.

Peraltro, non sembra questo essere il caso. La redazione delle disposizioni in commento dimostra, infatti, che l’espressione «in accordance with the Charter of the United Nations» sia stata formulata per ampliare la protezione offerta ai

pea-cekeepers.

31 V. supra, nota 18.

32 Secretary-General’s Bulletin on the Observance by United Nations Forces of International Humanitarian Law, UN doc ST/SGB/1999/13 del 6 agosto 1999, preambolo e section 1.1.

33 Sul principio di legalità nel diritto internazionale penale, di cui il principio di tassatività è

corollario, v., in generale, A.CASSESE,L.BAIG,M.FAN, P.GAETA, C.GOSNELL,A.WHITING

(revised by), Cassese’s International Criminal Law, Oxford, 2013, pp. 22-36; v. anche M. CATENACCI, ‘Legalità’ e ‘tipicità del reato’ nello Statuto della Corte penale internazionale, Milano,

2003.

34 Statuto di Roma, cit., art. 22, par. 2.

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La base di partenza dei negoziati condotti durante la Conferenza di Roma era il Draft Code of Crimes against the Peace and Security of Mankind, approvato dalla Commissione del diritto internazionale nel 1996, che già prevedeva la criminaliz-zazione degli attacchi ai peacekeepers. L’art. 19, comma 1, del Draft Code richia-mava quasi letteralmente l’ambito di applicazione della Safety Convention, crimi-nalizzando solo gli attacchi contro: «United Nations and associated personnel in-volved in a United Nations operation with a view to preventing or impeding that operation from fulfilling its mandate»36.

Questa prima formulazione della disposizione – che chiaramente ne limitava l’ambito di applicazione al solo personale delle Nazioni Unite – veniva modificata due volte durante la Conferenza di Roma.

La prima modifica, proposta dalla delegazione spagnola, faceva sì che l’espressione «United Nations operation» fosse sostituita con «humanitarian assi-stance or peacekeeping operation in accordance with the Charter of the United Nations»37. Il rappresentante della delegazione spagnola, nel giustificare tale

pro-posta, adduceva come argomento la necessità di espandere l’ambito di applica-zione della Safety Convention, in modo tale da proteggere tutti gli operatori di pace38. Tuttavia, anche in questa seconda formulazione rimaneva il riferimento al

personale delle Nazioni Unite («United Nations and associated personnel»); rife-rimento definitivamente rimosso dal drafting committee nell’ultima fase di reda-zione della disposireda-zione, che ha poi portato alla versione attuale.

I lavori preparatori, dunque, rivelano l’intenzione degli Stati che hanno nego-ziato lo Statuto della CPI di non limitare l’ambito di applicazione della disposi-zione che criminalizza gli attacchi ai peacekeepers alle sole operazioni istituite o autorizzate dalle Nazioni Unite39.

La giurisprudenza della CPI sembra confermare la correttezza di questa in-terpretazione; ne rappresentano una prova le decisioni della Camera preliminare

36 Draft Code of Crimes against the Peace and Security of Mankind with commentaries, in Year-book of the International Law Commission, 1996, vol. II, Part Two, par. 50, pp. 50-51, art. 19. Il

par. 7 del commentario della Commissione del diritto internazionale all’art. 19 chiarisce che «The potential victims of the crimes covered by article 19 are limited to United Nations» (ivi, p. 52).

37 Spanish proposal regarding Article 5, in United Nations Diplomatic Conference of Plenipoten-tiaries on the Establishment of an International Criminal Court, Rome, 15 June – 17 July 1998, Vol-ume II: Summary records of the plenary meeting and of the meetings of the Committee of the Whole,

Doc. A/CONF.183/C.1/L.1 del 17 giugno 1998.

38 «Spain was proposing to expand what might be described in modern humanitarian law as

the ‘protection of protectors’». Id., Doc. A/CONF.183/C.1/SR.4, del 10 luglio 1998, par. 68, p. 161.

39 È ancora emblematica la posizione della delegazione spagnola che, nel rallegrarsi della nuova

(e definitiva) formulazione della disposizione, l’ha descritta come sufficientemente ampia da essere applicabile a «humanitarian assistance or peacekeeping missions organized in a regional context in accordance with the Charter of the United Nations». Id. , A/CONF.183/C.1/SR. 34, dell’11 luglio 1998, par. 33, p. 329.

(11)

nei casi Abu Garda e Banda Jerbo40. In entrambi, si poneva il problema di

qualifi-care l’operazione AMIS, oggetto di attacchi nel corso del conflitto in Sud Sudan. Problema, all’apparenza, di facile soluzione, poiché AMIS, formalmente istituita dall’Unione africana, veniva comunque autorizzata dal Consiglio di sicurezza con la risoluzione n. 156441.

C’è però un passaggio della decisione della Camera preliminare della CPI nel caso Abu Garda che sembra particolarmente utile. Proprio perché l’operazione AMIS non era istituita dalle Nazioni Unite, ma solo autorizzata dal Consiglio di sicurezza, i giudici hanno escluso che l’espressione «in accordance with the Char-ter of the United Nations» dovesse essere inChar-terpretata in maniera troppo strin-gente:

«[f]inally, the Statute also requires the peacekeeping mission to be established ‘in ac-cordance with the Charter of the United Nations’. The Majority is of the view that such a condition is not tantamount to a requirement that the mission be established by the United Nations only, and shall be understood to encompass also missions that are otherwise foreseen by the UN Charter»42.

A sostegno si può ancora citare il commentario ai par. 2(b)(iii) e par. 2(e)(iii) dell’art. 8 dello Statuto di Roma, predisposto dal Comitato internazionale della Croce Rossa (CICR). In quella sede, infatti, l’ambito di applicazione delle dispo-sizioni in commento è definito con riferimento a quello della Safety Convention, quest’ultimo essendo «not necessarily identical to the crime defined under the ICC Statute»43. In pratica, Safety Convention e Statuto della CPI avrebbero due

diversi ambiti di applicazione. Diversità che si può tradurre in una maggiore am-piezza dell’ambito di applicazione del secondo rispetto alla prima. Il commenta-rio non lo dice chiaramente, sebbene lo lasci intendere, richiamando un passaggio della Agenda for Peace, dove il peacekeeping è descritto come «a technique that expands the possibilities for both the prevention of conflict and the making of peace»44.

Alla luce di quanto precede, sembra ragionevole sostenere che l’espressione «in accordance with the Charter of the United Nations» non richieda che l’operazione oggetto di attacchi sia istituita direttamente o autorizzata dalle Na-zioni Unite.

40 Corte penale internazionale, Pre Trial Chamber I, Prosecutor v. Abu Garda,

ICC-02/05-02/09, decisione dell’8 febbraio 2010 e Prosecutor v. Abdallah Banda Abakaer Nourain and Saleh

Mohammed Jerbo Jamus (Banda and Jerbo), ICC-02/05-03/09, decisione dell’8 marzo 2011. 41 Corte penale internazionale, Prosecutor v. Abu Garda, cit., par. 84.

42 Id., par. 75.

43 K.DÖRMANN, Elements of War Crimes under the Rome Statute of the International Criminal Court. Sources and Commentary, Cambridge, 2003, p. 156.

44 ID., p. 157. An Agenda for Peace: Preventive Diplomacy, Peacemaking and Peace-keeping, UN

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Una simile conclusione non chiarisce, però, quali siano i parametri che il giu-dice deve utilizzare per valutare la conformità di un’operazione di peacekeeping alla Carta delle Nazioni Unite senza violare il principio di tassatività della fatti-specie penale.

L’esigenza di parametri certi e tassativi può essere, invero, rintracciata nelle caratteristiche delle operazioni di peacekeeping. Occorre ricordare, preliminar-mente, che questa tipologia di interventi non è prevista dalla Carta delle Nazioni Unite, ma è frutto dell’introduzione – e della successiva evoluzione – di una pras-si innovativa45 che è andata consolidandosi in una norma di natura

consuetudina-ria, integrativa del Capitolo VII della stessa Carta46.

Allo sviluppo di tale prassi hanno contribuito le Nazioni Unite stesse, a parti-re dall’istituzione dell’operazione UNEF I, in Medio Oriente47. In

quell’occasio-ne, l’allora Segretario generale delle Nazioni Unite, Dag Hammarskjold, definì gli elementi costitutivi delle operazioni di peacekeeping48 - consenso, imparzialità e

uso della forza ‘limitato’ - poi divenuti caratteristici di un vero e proprio modello normativo49.

Tale modello è intrinsecamente legato ai propri elementi costitutivi, l’assenza dei quali porta a qualificare un intervento come coercitivo50. Un modello che,

an-corché oggetto di una necessaria evoluzione, rappresenta tutt’oggi una costante nello sviluppo delle operazioni di peacekeeping istituite dalle Nazioni Unite51. Ad

45 V. An Agenda for Peace, cit., par. 46. Cfr. M.FRULLI, Le operazioni di peacekeeping delle Nazioni Unite: continuità di un modello normativo, Napoli, 2012, in partic. p. 1.

46 B.CONFORTI,C.FOCARELLI, Le Nazioni Unite, Padova, 20129, p. 287.

47 L’operazione UNEF I è stata istituita con la risoluzione dell’Assemblea generale n. 1000 (ES

I) del 5 novembre 1956.

48 Le caratteristiche di tale operazione sono elaborate in un documento del Segretario generale

(First Report on an Emergency International Force, UN Doc. A/3289) e poi consacrate in un successivo rapporto, a firma dello stesso Segretario generale: Summary Study of the Experience

Derived from the Establishment and Operation of the Force, UN Doc. A/3943 del 1958. Sul punto v.

M.FRULLI, op. cit., pp. 11-14.

49 Cfr. ancora M.FRULLI, op. cit., per brevità, si rimanda a pp. 197-200.

50 Cfr. N.TSAGOURIAS, “Consent, Neutrality/Impartiality and the Use of Force in

Peacekeep-ing: Their Constitutional Dimension”, in Journal of Conflict and Security Law 2007, p. 465 ss., in partic. p. 481.

51 United Nations Peacekeeping Operations, Principles and Guidelines del 18 gennaio 2008, p.

31: «Although the practice of United Nations peacekeeping has evolved significantly over the past six decades, three basic principles have traditionally served and continue to set United Nations peacekeeping operations apart as a tool for maintaining international peace and security». Pur riconoscendo la necessità di adattare i tre elementi costitutivi del peacekeeping ai nuovi scenari conflittuali in cui è richiesto un intervento delle Nazioni Unite, nello stesso senso si è espresso, di recente, il gruppo di esperti sulle operazioni di pace convenuto dal Segretario generale: cfr. Uniting

Our Strengths for Peace – Politics, Partnerships, and People, Report of the High-Level Independent Panel on United Nations Peace Operations del 16 giugno 2015, pp. 32-33.

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esso hanno aderito anche le organizzazioni regionali che istituiscono operazioni di tale natura52.

Un intervento che condivida i tre elementi costitutivi del peacekeeping – con-senso, imparzialità e uso della forza ‘limitato’ – aderisce, quindi, a un modello evoluto e maturato in seno alla Carta delle Nazioni Unite53.

In questa direzione sembra peraltro andare la giurisprudenza. È ancora una volta opportuno citare la decisione della Camera preliminare della CPI nel caso

Abu Garda. In particolare, il seguente brano sembra confortare la tesi finora

es-posta: «peacekeeping missions are not static and […] their features may vary de-pending, inter alia, on the context in which they operate. Three basic principles are relevant for determining the constitution of a peacekeeping mission: (i) con-sent of the parties; (ii) impartiality; and (iii) the non-use of force except in self-defence»54.

Sembra potersi concludere che il giudice, nel valutare la conformità alla Carta delle Nazioni Unite prevista nei par. 2(b)(iii) e par. 2(e)(iii) dell’art. 8 dello Statu-to di Roma, possa condurre un’indagine sulla sussistenza degli elementi costituti-vi del peacekeeping. Ove le risultanze di questa indagine fossero positive, il giudi-ce potrà rilevare che integrino le fattispecie del reato anche attacchi condotti con-tro operazioni di peacekeeping che non siano istituite direttamente o autorizzate dalle Nazioni Unite.

Se così non fosse, verrebbe a crearsi uno scenario paradossale. Nel caso in cui l’Unione europea o l’Unione africana – per limitare gli esempi – istituissero ope-razioni di peacekeeping aderenti al modello delle Nazioni Unite, ma senza atten-dere un’autorizzazione da parte di quest’ultima organizzazione, le forze dispiega-te sul campo sarebbero espose ad attacchi che non potrebbero in alcun modo es-sere sanzionati.

Un siffatto scenario di certo non sembra funzionale al mantenimento della pace, per le ragioni esposte nel secondo paragrafo di questo lavoro. L’interpreta-zione dell’espressione «in accordance with the Charter of the United Nations» proposta in questo paragrafo, invece, si salda bene con la funzione della giustizia internazionale penale di contribuire al mantenimento della pace. D’altro canto, non sembrano potersi rilevare tensioni con il principio di tassatività della fatti-specie penale, avendo il giudice a disposizione elementi piuttosto chiari per stabi-lire che vi sia conformità con la Carta delle Nazioni Unite, intesa come aderenza agli elementi costitutivi del peacekeeping.

52 In questo senso v. G. CELLAMARE, Le operazioni di peacekeeping delle organizzazioni regionali, Bari, 2015, pp. 64-66.

53 C.DAASE, “Spontaneous Institutions: Peacekeeping as an International Convention”, in Im-perfect Unions. Security Institutions over Time and Space, H.HAFTENDORN,R.O.KEOHANE,C.

WALLANDER (eds), Oxford, 1999, p. 223 ss., in partic. pp. 239-240. L’autore riconosce che il

peacekeeping sia un’esperienza antecedente alle Nazioni Unite, ma afferma che siano state queste

ultime a far sì che un semplice susseguirsi di esperimenti divenisse una pratica consolidata.

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5. Le Joint Peacekeeping Forces (JPF) in Ossezia del Sud come caso studio

Un banco di prova importante per verificare la tenuta della tesi finora esposta è offerto dalla già menzionata richiesta del Procuratore della CPI di avviare un’indagine relativa al conflitto in Ossezia del Sud.

L’interesse intorno a questa richiesta deriva dalle caratteristiche del conflitto di cui si occupa, i tratti salienti del quale saranno utili al fine di meglio inquadrare la natura delle JPF. Le forze di peacekeeping oggetto degli attacchi sono il risulta-to dei meccanismi di soluzione della crisi approntati dalle parti in conflitrisulta-to sin dal 1992. Giova, infatti, ricordare che le prime manifestazioni delle pretese secessio-niste della Ossezia del Sud coincisero con l’indipendenza della Georgia. Quella porzione di territorio georgiano, cui allora venne garantita una blanda autono-mia, da sempre – e tuttora – aspira a un’indipendenza completa, forte del soste-gno della Russia55.

Il contrasto tra le pretese secessioniste della Ossezia del Sud e la volontà della Georgia di mantenere unito il proprio territorio portò a un vero e proprio conflit-to armaconflit-to nel periodo immediatamente successivo al 1992. Per la gestione della crisi, in quella fase, furono creati alcuni meccanismi istituzionali sulla base dell’Accordo di Sochi del 24 giugno di quell’anno, che impose un primo, seppure fragile, cessate-il-fuoco56.

Fu dapprima istituita una Joint Control Commission (JCC): una sorta di orga-no comune che vedeva la partecipazione dei rappresentanti a livello governativo di Georgia, Russia e Ossezia del Sud, con la supervisione dell’OSCE57. La

crea-zione di un simile strumento rispondeva alla necessità di avere un meccanismo vicino alle istanze delle parti interessate dal conflitto. D’altro canto, la presenza dell’OSCE serviva a garantire l’imparzialità dell’operato della JCC. In uno dei suoi primi atti la JCC istituì le JPF58, forza di peacekeeping composta

paritetica-mente da soldati russi, georgiani e nord-osseti. Le peculiarità delle JPF non si li-mitano a quanto appena illustrato. Dalla stessa definizione delle JPF emerge una doppia funzione: da un lato, dovevano occuparsi del mantenimento della pace e del monitoraggio del cessate-il-fuoco, dall’altro avevano il mandato di garantire 55 V. A.NUSSBERGER, “The war between Georgia and Russia – Consequences and unresolved

questions”, in Goettingen Journal of International Law 2009, p. 341 ss.

56 Cfr. Agreement on Principles of Settlement of the Georgian – Ossetian Conflict, Sochi, 24

giugno 1992 (d’ora in poi Accordo di Sochi). Tutti i documenti relativi ai conflitti in Ossezia del Sud e Abkhazia sono tradotti in inglese dal Regional Research Center, con il patrocinio di Unione europea, OSCE e Open Society Foundation. Le traduzioni, sebbene non ufficiali, sono reperibili sul sito internet www.rrc.ge. Per un’analisi più approfondita degli accordi sia consentito rinviare ad A.SPAGNOLO, “La ‘tentata’ prevenzione della crisi in Ossezia del Sud e in Abkhazia”, in La

gestione internazionale delle crisi globali. Regole, valori, etica, N.NAPOLETANO,A.SACCUCCI (a cura

di), Napoli, 2013, p. 17 ss.

57 V. Accordo di Sochi, cit., art. 3.

58 Joint Control Commission, Provision on Joint Peacekeeping Forces (JPF) and Law and Order Keeping Forces (LOKF) in the Zone of Conflict, Annex 1 to Protocol 3, decisione del 12 luglio 1992,

(15)

l’ordine e la sicurezza nella regione con la facoltà di adottare «active measures» al fine di sanzionare, anche con il ricorso alla forza armata, eventuali violazioni dell’Accordo di Sochi59.

Il mandato delle JPF era, dunque, molto ampio, tale, per l’appunto, da com-prendere elementi di peacekeeping ed elementi di law enforcement: tra i primi, la protezione dei civili e il controllo dei corridoi umanitari, tra i secondi, l’assistenza alla polizia locale e, in generale, il controllo sulla presenza di bande armate60.

L’ampio mandato ha reso necessario il conferimento di poteri assai penetranti, di cui le JPF hanno goduto: questi non si limitavano ad un richiamo agli ‘all

necessa-ry means’ tipico delle operazioni di peacekeeping dell’ONU con mandato

“robu-sto”, bensì facevano riferimento ad azioni precise, quali la detenzione di soggetti e la esplicita possibilità di ricorrere alla forza armata, descritta nei termini di ‘combat operations’, anche al di fuori delle zone del conflitto61.

La presenza delle JPF e le caratteristiche della forza, sia per quanto riguarda la composizione, sia per ciò che concerne gli ampi poteri a essa demandati, si so-no rivelate problematiche. La composizione sopra descritta ha, infatti, conso-notato le JPF come non imparziali agli occhi di tutte le parti in conflitto. Inoltre, l’ampio mandato e i poteri conferiti hanno fatto sì che le forze fossero coinvolte in diversi scontri a fuoco.

Ciò è quanto si è effettivamente verificato nell’estate del 2008, quando il con-flitto russo-georgiano ha conosciuto una nuova – e violenta – fase a seguito del riconoscimento da parte della Russia dell’indipendenza di Ossezia del Sud e Ab-khazia62. Questo atto ha dato origine a un vero e proprio conflitto armato sul

ter-ritorio della Ossezia del Sud tra le forze armate georgiane e quelle sud-ossete. In sostegno di queste ultime è intervenuto, in un secondo momento, l’esercito russo contribuendo alla riconquista degli avamposti sud-osseti e respingendo oltre il confine l’esercito georgiano e, di fatto, avviando il conflitto alla sua conclusione. I violenti scontri armati che hanno scosso la Georgia nell’estate del 2008 hanno coinvolto anche le JPF.

Il procuratore della CPI ha avviato le indagini proprio in relazione a quest’ultima fase. Nella descrizione dei fatti elaborata dal Procuratore è possibile osservare che nel periodo compreso tra il 29 luglio e il 7 agosto del 2008 i

peace-keepers georgiani appartenenti alle JPF sono stati oggetto di sette attacchi da

par-59 Ibidem. 60 Ivi, art. 3. 61 Ivi, art. 4.

62 Per un resoconto dettagliato sul conflitto in Ossezia del Sud dell’agosto del 2008 si rinvia al

rapporto presentato il 30 settembre 2009 dalla missione indipendente di fact-finding istituita dal Consiglio dell’Unione europea il 2 dicembre 2008 per indagare sulle cause del conflitto e sulle violazioni di diritto internazionale, di diritto internazionale umanitario e dei diritti umani. Cfr. In-dependent International Fact-Finding Mission on the Conflict in Georgia, Report, settembre 2009. Si veda anche decisione 2008/901/CFSP del Consiglio del 2 dicembre 2008, concernente una missione di fact-finding internazionale e indipendente sul conflitto in Georgia.

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te delle milizie sud-ossete in diverse aree della Georgia. In ragione di ciò, due

peacekeepers georgiani sono morti e una decina sono rimasti feriti.

D’altro canto, l’indagine preliminare ha evidenziato che anche i peacekeepers russi sono stati oggetto di un attacco importante da parte dell’esercito georgiano, l’8 agosto 2008, e di altri attacchi minori subiti in alcuni posti d’osservazione. Anche in questo caso, il numero di peacekeepers coinvolti – in quanto uccisi o fe-riti – è da stimarsi intorno alla decina.

Il procuratore della CPI si è dunque trovato innanzi a una situazione anoma-la. Diverse componenti di una stessa forza di peacekeeping sono state oggetto di differenti attacchi nel corso del medesimo conflitto: di fatto, i peacekeepers coin-volti nelle JPF sono stati considerati come appartenenti ai rispettivi eserciti na-zionali63: i soldati russi e sud-osseti hanno attaccato i peacekeepers georgiani,

men-tre i soldati georgiani attaccavano i peacekeepers russi.

6. Il metodo scelto dal Procuratore della CPI nelle indagini sugli attacchi alle JPF Il procuratore, nel tentativo di inquadrare i fatti appena esposti come ‘attacchi ai

peacekeepers’ ai sensi dello Statuto di Roma, ha seguito un approccio interessante,

utile per avvalorare la tesi di partenza.

Il caso delle JPF, infatti, possiede già un primo intrinseco elemento di novità, non essendo, tali forze, né istituite, né autorizzate dalle Nazioni Unite.

Le JPF, infatti, traggono il loro fondamento giuridico nell’Accordo di Sochi del 24 giugno 1992 che, in quanto base giuridica della JCC, legittima la creazione delle JPF. Non vi è, dunque, stata alcuna autorizzazione da parte delle Nazioni Unite giacché il Consiglio di sicurezza si è limitato a produrre «multiple suppor-tive references to the agreement, without formerly endorsing it»64.

Dinanzi a questa peculiarità, il procuratore della CPI sembra aver voluto escludere dal suo argomentare il dato formale dell’esistenza di una risoluzione del Consiglio di sicurezza istitutiva o autorizzativa delle JPF. Esso ha adottato, al contrario, un approccio metodologico ‘sostanzialista’, che, se accettato, porterà la CPI a studiare a fondo gli elementi costitutivi delle JPF a prescindere dal dato formale e normativo insito nelle risoluzioni delle Nazioni Unite.

E così, il Procuratore ha proposto, fin dalla richiesta di autorizzazione ad aprire le indagini sulla situazione dei crimini commessi nel corso del conflitto esploso in Georgia presentata alla Camera preliminare della CPI, una verifica

del-63 Ciò è stato chiaramente evidenziato da uno dei tre giudici della Camera preliminare, Kovacs,

in un’opinione separata allegata alla decisione (par. 16): «It is also significant to realize that during the situation sub judice there were Russian military units, which formed parts of the joint peace-keeping force, but there were other involved Russian units that did not belong thereto. The same can be said on the Georgian military units; some of them were within the joint peacekeeping force, while some only belonged to the Georgian army».

64 Corte penale internazionale, Office of the Prosecutor, Corrected Version of “Request for au-thorisation of an investigation pursuant to article 15”, cit., par. 148.

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la sussistenza dei tre elementi costitutivi del peacekeeping: consenso, imparzialità e uso della forza ‘limitato’.

6.1. La natura consensuale delle JPF

Il peculiare fondamento giuridico rappresenta senza ombra di dubbio un tratto distintivo delle JPF che, in ultima istanza, traggono la loro legittimità dal consen-so dei consen-soggetti coinvolti, prestato al momento della firma dell’Accordo di Sochi e manifestatosi per il tramite della già menzionata JCC.

A dire il vero, il consenso della Georgia alla presenza sul suo territorio di for-ze di peacekeeping russe è stato messo in dubbio dalle autorità georgiane a partire dal 2006. L’allora Presidente georgiano, Saakashvili, nel suo discorso all’Assem-blea generale ha evidenziato come il dispiegamento delle forze di peacekeeping russe in Ossezia del Sud (e in Abkhazia) fosse controproducente e dannoso65.

È altresì vero, però, che l’Accordo di Sochi non è mai stato ufficialmente de-nunciato ed era, perciò, da considerarsi in vigore al momento della commissione dei crimini, nel 2008. Nemmeno, peraltro, potrebbe sostenersi che l’Accordo in questione fosse sospeso per effetto del conflitto armato in corso, essendo ormai consolidato l’orientamento per cui i trattati non si sospendono ipso facto a causa di una guerra66. Va oltretutto detto che nessuna delle parti dell’Accordo di Sochi

ha ritenuto di dover percorrere questa strada argomentativa.

Sembra, quindi, possibile sostenere che le JPF siano state istituite con il con-senso delle parti in conflitto.

6.2. L’imparzialità delle JPF

Un punto più delicato è invece rappresentato dalla verifica della sussistenza del requisito dell’imparzialità. È un tema, questo, molto caro alle Nazioni Unite, rei-terato in ogni rapporto sulle operazioni di peacekeeping. Non è questa la sede per approfondirne lo studio; basti ricordare che esso è stato oggetto di un ampio di-battito volto a evitare che un’attenzione eccessiva al suo rispetto potesse indurre a un’inazione da parte delle forze di peacekeeping dispiegate in scenari critici, dove la sicurezza della popolazione civile è a rischio67.

In generale, il requisito dell’imparzialità richiede che le forze di peacekeeping siano equidistanti dalle parti di un conflitto armato, al fine di poter meglio rag-giungere i propri obiettivi.

65 V. Statement by His Excellency Mr. Mikheil Saakashvili President of Georgia at the 61th

ses-sion of the United Nations General Assembly del 22 settembre 2006, disponibile sul sito internet

www.un.org.

66 V. Draft articles on the effects of armed conflicts on treaties, in Yearbook of the International Law Commission, 2011, vol. II, Part Two, art. 3.

67 V. in generale E.PADDON RHOADS, Taking Sides in Peacekeeping. Impartiality and the Future of the United Nations, Oxford, 2016.

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In questo quadro, una caratteristica imprescindibile delle forze di

peacekee-ping è l’assenza, tra i fornitori dei contingenti militari, degli Stati coinvolti nel

conflitto armato nel corso (o al termine) del quale l’operazione è dispiegata. È ovvio, infatti, che una missione di peacekeeping per poter operare in maniera im-parziale non deve essere influenzata dalle volontà delle parti in un conflitto, so-prattutto quando si trovi a dover proteggere la popolazione civile. Inoltre, la pre-senza di militari provenienti dalle parti in conflitto rischia di minare l’efficacia dell’azione delle forze coinvolte, esponendo i contingenti al rischio di ricevere ordini confliggenti con la catena di comando dell’organizzazione nell’ambito del-la quale l’operazione è istituita68.

L’imparzialità è senza dubbio il profilo più problematico legato alle JPF. Queste forze, come visto, si caratterizzano per essere formate da militari prove-nienti proprio dalle parti in conflitto. D’altronde, questa caratteristica si sposa perfettamente con lo spirito dei mezzi di soluzione del conflitto approntati dal 1992 al 2008 che di proposito vedevano la partecipazione di tutte le parti69.

Inevitabilmente, però, la composizione delle JPF ha portato a un’esasperazione del conflitto, rendendo di fatto impossibile alle forze la neutra-lizzazione del climax di violenza che poi ha portato agli scontri armati del 2008. Invero, la presenza, nelle JPF, di un soggetto terzo alla Georgia e alla Sud-Ossezia, cioè la Russia, doveva servire proprio a rendere più neutrali le forze di

peacekeeping. Così, almeno stando alla narrazione georgiana, non è stato. Come si

può osservare nel ricorso presentato dalla Georgia alla Corte internazionale di giustizia nei confronti della Russia per la violazione, da parte di quest’ultima, del-la Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale70, i

68 «Another important principle is unity of command. The experience in Somalia has

under-lined again the necessity for a peace-keeping operation to function as an integrated whole. That ne-cessity is all the more imperative when the mission is operating in dangerous conditions. There must be no opening for the parties to undermine its cohesion by singling out some contingents for favourable and others for unfavourable treatment». V. Supplement to an Agenda for Peace: Position

Paper of the Secretary-General on the Occasion of the Fiftieth Anniversary of the United Nations, UN

Doc. A/50/60-S/1995/1 del 25 gennaio 1995, par. 41.

69 D’altronde questi sono i pregi e i difetti dei c.d. meccanismi di power sharing che, per alcuni,

sono i più efficaci per porre termine a conflitti di matrice interna in quanto idonei a rappresentare le istanze di tutte le parti del conflitto, evitando che una di esse assurga al ruolo di potenza dominante: v. C.HARTZELL,M.HODDIE, “Institutionalizing Peace: Power Sharing and the

Post-Civil War Conflict Management”, in American Journal of Political Science 2003, p. 319. Contra, si veda D.ROTHCHILD,P.G.ROEDER, “Power sharing as an impediment to peace and democracy”, in

Sustainable peace. Power and democracy after civil wars, P.G.ROEDER,D.ROTHCHILD (eds), New

York, 2005, pp. 36-37. Le ragioni che porterebbero a discutere la reale efficacia dei meccanismi di

power sharing sarebbe da ricercarsi nell’inevitabile creazione di etnie elitarie che, sebbene possano

risultare utili nell’immediato per la risoluzione del conflitto, nel lungo periodo possono portare ad un’inefficacia del meccanismo.

70 La Georgia ha proposto una causa dinanzi alla Corte internazionale di giustizia il 14 agosto

2008, avvalendosi dell’art. 22 della Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale. Cfr. International Convention on the Elimination of All Forms of Racial Discrimination

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peacekeepers di origine russa delle JPF non avrebbero mostrato un’attitudine

neutrale, ma avrebbero invece contribuito a favorire la causa sud-osseta, creando inevitabili frizioni71.

6.3. L’uso della forza da parte delle JPF

La terza – e ultima – caratteristica del peacekeeping consiste nel limitato uso della forza consentito ai militari coinvolti in questa tipologia di operazioni. Questi, in-fatti, possono ricorrere alla forza armata solo quando siano attaccati personal-mente, agendo dunque in legittima difesa. L’evoluzione del peacekeeping ha poi portato a una modificazione della caratteristica, nel senso di consentire ai militari di usare la forza armata anche in difesa del mandato72.

Se, da un lato, è vero che questa modificazione si è resa necessaria per con-sentire ai peacekeepers di non rendere solo virtuali taluni loro compiti, tra i quali vi è la protezione dei civili73, dall’altro è vero che il ricorso alla forza armata in

di-fesa del mandato espone senza ombra di dubbio le forze di peacekeeping al ri-schio di partecipare a un conflitto armato, perdendo così la propria imparzialità.

Da questo punto di vista non bisogna dimenticare che, ai fini della sussistenza del crimine di guerra consistente negli attacchi ai peacekeepers, è necessario veri-ficare che questi ultimi godano della protezione offerta dal diritto internazionale umanitario e che, dunque, possano essere considerati civili e non combattenti74.

Le operazioni di peace enforcement sono senz’altro escluse dalla protezione. Un esempio è offerto dall’operazione MONUSCO, la cui componente militare della è autorizzata a usare tutti i mezzi necessari per neutralizzare i gruppi armati che minacciano il Governo congolese75. Come si evince dai rapporti del

Segreta-rio generale, l’attività della MONUSCO si è spesso concretata in veri e propri

(CERD), firmata il 21 dicembre 1965, entrata in vigore il 4 dicembre 1969, art. 22, che contiene una clausola compromissoria in favore della giurisdizione di tale Corte.

71 In particolare, si veda il ricorso introduttivo della Georgia: «The JPF was dominated by

os-tensibly neutral Russian peacekeepers that, consistent with the policy of the Russian Federation, supported the South Ossetian ethnic separatists in their quest for independence from Georgia up to and including Russia’s invasion of Georgia in August 2008» (Corte internazionale di giustizia,

Application instituting proceedings filed in the registry of the Court on 12 August 2008, p. 16, punto

32).

72 M.FRULLI, “Le operazioni di peacekeeping delle Nazioni Unite e l’uso della forza”, in Rivista di diritto internazionale 2001, pp. 354-355.

73 È ormai prassi che l’uso della forza da parte dei peacekeepers sia autorizzato per proteggere

la popolazione civile: cfr. Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, risoluzione n. 1674 del 28 aprile 2006, punto 16 e, per un esempio recente, il mandato dell’operazione UNMISS in Sud Sudan: risoluzione n. 1996 dell’8 luglio 2011, punto 3(b)(iv).

74 La seconda parte delle disposizioni dello Statuto di Roma che criminalizzano gli attacchi ai peacekepers prevede che tali soggetti siano protetti «as long as they are entitled to the protection

given to civilians».

75 Cfr. Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, risoluzione n. 2098 del 28 marzo 2013, par. 9

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scontri a fuoco con vari gruppi armati76. In un simile scenario è lecito concludere

che la componente militare di MONUSCO sia esclusa dalla protezione offerta dal diritto umanitario poiché composta da legittimi combattenti77.

È altresì vero che l’uso della forza in difesa del mandato, specialmente quan-do questo contempli la protezione dei civili, può esporre i peacekeepers al rischio di perdere la propria protezione78. Il Bollettino del Segretario generale delle

Na-zioni Unite del 1999 sull’applicabilità del diritto internazionale umanitario alle forze di peacekeeping lo afferma espressamente79.

Una verifica circa l’effettivo uso della forza da parte dei peacekeepers è dun-que cruciale per determinare la sussistenza della protezione offerta dal diritto umanitario e, dunque, degli elementi costitutivi del crimine di guerra indagato dal procuratore della CPI. È quindi chiaro che tale verifica debba necessariamen-te essere condotta caso per caso, in relazione a ogni singolo componennecessariamen-te delle JPF, rendendo dunque impossibile, al momento, speculare una conclusione.

A margine di questa breve panoramica, è possibile concludere che le JPF pre-sentino caratteristiche peculiari che dovranno essere oggetto di accurate indagini. È certamente possibile che il Procuratore si convinca che le JPF fossero protette dal diritto internazionale umanitario durante il conflitto in Sud Ossezia del 2008. Se così fosse, per la prima volta una giurisdizione internazionale penale si troverà a dover decidere sullo status di un’operazione di peacekeeping non istituita o au-torizzata dalle Nazioni Unite. La CPI avrebbe la possibilità di espandere l’ambito di applicazione della disposizione che criminalizza gli attacchi ai peacekeepers, contribuendo così a rafforzare il ruolo della giustizia internazionale penale nel mantenimento della pace.

È altresì possibile che il Procuratore – o la Corte successivamente – possano concludere nel senso di non ritenere sussistente la protezione offerta dal diritto internazionale umanitario. In particolare, appare problematico il requisito dell’imparzialità, per i motivi poc’anzi illustrati.

76 Cfr. inter alia Report of the Secretary-General on the United Nations Organization Stabiliza-tion Mission in the Democratic Republic of the Congo, UN Doc. S/2014/450 del 30 giugno 2014,

par. 28, dove si parla di joint operations delle forze regolari del governo congolese e di MONUSCO.

77 Così, ad esempio, B.SONCZYK, “The protection of the Intervention Brigade under Article 8

(2)(e)(iii) of the Rome Statute of the International Criminal Court”, in QIL – Questions of

Interna-tional Law 2015, Zoom-in 13, p. 25 ss. V. anche M.PACHOLSKA, “(Il)legality of Killing

Peacekeep-ers. The Crime of Attacking Peacekeepers in the Jurisprudence of International Criminal Tribu-nals”, in Journal of International Criminal Justice 2015, p. 43 ss., in partic. pp. 64-71. Entrambe le autrici sostengono la tesi per cui la componente militare di MONUSCO debba essere esclusa dalla protezione offerta dal diritto umanitario. V. anche M.LONGOBARDO,F.VIOLI, “Quo vadis

peace-keeping? La compatibilità dell’Intervention Brigade in Congo con i principi regolanti le operazioni

di pace alla prova dei fatti”, in La Comunità Internazionale 2015, p. 245 ss.

78 Così, tra gli altri, v. C.GREENWOOD, “Protection of Peacekeepers. The Legal Regime”, in Duke Journal of Comparative & International Law 1996, p. 185 ss., in partic. p. 198.

79 Secretary-General’s Bulletin on the Observance by United Nations Forces of International Humanitarian Law, cit., section 1.1.

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