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chirurgia laparotomica verso chirurgia laparoscopica robot-assistita nel trattamento chirurgico del carcinoma endometriale

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Academic year: 2021

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INDICE RIASSUNTO 2 INTRODUZIONE 4 Epidemiologia 4 Varianti anatomocliniche 5 Storia naturale 8 Fattori prognostici 9 Diagnosi 10 Stadiazione 12 Trattamento chirurgico 16

Ruolo della linfoadenectomia nello staging carcinoma endometriale 17

Modalità di esecuzione intervento chirurgico 22

Trattamento adiuvante 27 Follow up 29 MATERIALI E METODI 32 RISULTATI 37 DISCUSSIONE 45 BIBLIOGRAFIA 53

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RIASSUNTO

Il carcinoma dell'endometrio è il tumore maligno più comune in ambito ginecologico. In Italia si registrano circa 7.756 nuovi casi anno che corrisponde ad una incidenza del 6% dei tumori femminili con un tasso di mortalità del 3,3% fra i decessi per neoplasia. Nella maggior parte dei casi è possibile diagnosticare precocemente la malattia che si manifesta attraverso perdite di sangue atipiche, ne consegue che l’80% circa delle neoplasie si presentano al I stadio. In questi casi la sola chirurgia in accordo con le linee guida dell’International Federation of Gynecology and Obstetrics (FIGO) rappresenta il gold standard di trattamento con una sopravvivenza a 5 anni che raggiunge circa il 90%. La chirurgia laparotomica rappresenta il trattamento di scelta tale neoplasia tuttavia negli ultimi 20 anni l’approccio mini-invasivo laparoscopico si è conquistato un ruolo sempre più importante in termini di fattibilità tecnica e outcome postoperatori. Purtroppo la lunga curva di apprendimento e l’elevato tasso di conversione in pazienti obese non ha permesso una grande diffusione della tecnica laparoscopica.

Nel 2005 la U.S. Food and Drug Administration approva l’uso del Robot da Vinci in chirurgia ginecologica con una rapida diffusione anche in Europa. Una recente revisione Cochrane conclude che sebbene la tecnica sia oggi largamente utilizzata in ginecologia oncologica non vi sono dati sufficienti né studi randomizzati privi di bias che consentano di giungere a conclusioni definitive che supportino l’utilizzo della chirurgia robotica nelle neoplasie ginecologiche.

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Questo studio confronta in maniera retrospettiva un gruppo di 75 pazienti affette da carcinoma endometriale early stage sottoposte a staging chirurgico laparoscopico robot-assistito con un gruppo di controllo di 60 pazienti trattate con approccio tradizionale. I parametri valutati sono: la fattibilità, gli outcome chirurgici e la prognosi a lungo termine della tecnica chirurgica.

L’analisi dei dati ottenuti mostra un significativo vantaggio delle chirurgia robotica in termini di perdite ematiche, riduzione giorni di degenza, tempi operatori, basso tasso di complicanze dimostrando la fattibilità della tecnica chirurgica.

Analizzando il sottogruppo di pazienti con BMI maggiore di 30 (kg/m2) si mantengono gli stessi vantaggi, associati ad una riduzione significativa delle complicanze postoperatorie, soprattutto alle infezioni della ferita chirurgica, in presenza di un tasso di conversione pari a zero, con una riduzione del tasso di conversione rispetto all’approccio laparoscopico riportato in Letteratura. Questi risultati supportano l’efficacia e la sicurezza della chirurgia robotica nel trattamento del carcinoma endometriale early stage con migliori outcome chirurgici rispetto all’approccio laparotomico soprattutto nelle pazienti obese, una ridotta learnig curve, a discapito di elevati costi. Sono comunque necessari studi randomizzati ben disegnati con adeguato follow-up che supportino tali evidenze.

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INTRODUZIONE Epidemiologia

Il carcinoma endometriale è il tumore maligno della sfera genitale femminile più frequente nei Paesi Occidentali dopo il tumore della mammella ed è risultato al sesto posto fra i tumori maligni più frequenti nel sesso femminile. Ogni anno vengono riferiti nel mondo 142.000 casi di tumore endometriale con una stima di 42.000 morti all’anno (1). In Italia si registrano circa 7.756 nuovi casianno che corrisponde ad un’incidenza del 6% dei tumori femminili con un tasso di mortalità del 3,3% fra i decessi per neoplasia (2). L’incidenza e la mortalità delle neoplasie del corpo dell’utero mostrano una tendenza all’aumento. Nei Paesi Occidentali il carcinoma dell’endometrio si riscontra più frequentemente in età post-menopausale, con incidenza massima tra i 55 ed i 65 anni. Tuttavia in circa 1.6% dei casi viene diagnosticato tra i 20-34 anni e nel 6,1% tra i 35 e 44 anni prima della menopausa mentre il 5% prima dei 40 anni (1). Nella maggior parte dei casi è possibile diagnosticare precocemente la malattia che si manifesta attraverso perdite di sangue atipiche per via vaginale o con episodi metrorragici; ne consegue che l’80% circa delle neoplasie si presentano al I stadio con una sopravvivenza a 5 anni che sfiora il 90% (4). La sopravvivenza globale a 5 anni, considerando tutti gli stadi, è del 76,5% (4).

I fattori di rischio comprendono il menarca precoce, la menopausa tardiva, la nulliparità, le disfunzioni ovariche, il diabete, l’ipertensione, l’obesità, la terapia estrogenica sostitutiva non bilanciata e l’uso del tamoxifene (5).

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Varianti anatomo-cliniche

In base all’epidemiologia, alla presentazione clinica e al comportamento biologico si possono distingue due tipi di carcinoma endometriale (6): il tipo 1 (estrogeno dipendente) tipico di donne più giovani, in perimenopausa, l’istotipo prevalente è l’endometrioide in genere di basso grado, con comportamento biologico più indolente negli stadi iniziali, per il quale l’iperplasia complessa e/o con atipie rappresenta una condizione predisponente o una precancerosi (7); e il tipo 2 più aggressivo, tipico di donne più anziane in post menopausa ed insorge su endometrio atrofico, gli istotipi prevalenti sono il sieroso, a cellule chiare e indifferenziato, spesso ad alto grading e con prognosi sfavorevole (6). Più in generale la classificazione istologica del carcinoma dell’endometrio riflette le ampie possibilità di differenziazione della cellula ghiandolare di derivazione mulleriana. L’adenocarcinoma endometrioide è l’istotipo più frequente. Per lo più si riscontra in forme abbastanza ben differenziate, con ghiandole tubulari rivestite da cellule stratificate contenenti scarsa mucina. Nei casi più differenziati questa forma è distinguibile con difficoltà dalla iperplasia endometriale atipica severa.

I caratteri di elevata differenziazione e la morfologia delle papille (variante villoghiandolare) permettono di distinguere questa variante a buona prognosi dal carcinoma siero-papillifero che è a prognosi nettamente più sfavorevole (8). Nella variante secretiva nel citoplasma delle cellule sono presenti vacuoli contenenti una sostanza ricca di glicogeno, simili a quelli che si riscontrano nelle cellule endometriali nella fase secretiva del ciclo mestruale.

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Tale variante è per lo più a prognosi favorevole, è particolarmente frequente nelle donne più giovani e va distinta dal carcinoma a cellule chiare che ha prognosi più infausta. La variante a cellule ciliate è piuttosto rara e grossolanamente non differisce da un comune carcinoma endometriale di tipo endometrioide. Essa viene per lo più rilevata in donne che hanno fatto uso in precedenza di estrogeni, ed è a prognosi favorevole. Per quanto riguarda la variante con differenziazione squamosa (carcinoma adenosquamoso), va precisato che aree di differenziazione squamosa sono reperibili in circa il 25% dei casi. Essa non va confusa con il carcinoma endometriale a cellule squamose, che è caratteristico dell’età senile, a comportamento aggressivo e prognosi molto sfavorevole. L’adenocarcinoma mucinoso presenta molti punti di somiglianza con il carcinoma mucinoso dell’ovaio e dell’endocervice. Questo tumore si differenzia da quello a cellule chiare e dall’endometrioide secretivo perché è molto più ricco di mucina e più povero di glicogeno. Mentre è molto raro come forma pura di carcinoma endometriale, è piuttosto frequente (5% del totale dei casi) come aspetto istologico dominante. La sua prognosi non differisce da quella dell’adenocarcinoma endometrioide. Il carcinoma sieroso segue per frequenza l’istotipo endometrioide con le sue varianti: costituisce infatti il 10% del totale dei carcinomi endometriali e si riscontra soprattutto in età avanzata, in donne in post menopausa che non presentano un clima iperestrogenico, in genere magre e pluripare. La diagnosi viene effettuata spesso in stadi avanzati. La neoplasia presenta un’architettura papillifera (carcinoma siero-papillifero) con cellule fortemente atipiche e pleiomorfe che rivestono un ampio peduncolo vascolare.

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Il carcinoma sieroso assume di solito un aspetto vegetante e tende ad infiltrare il miometrio precocemente e ad invadere gli spazi linfovascolari. Il che rende ragione della prognosi estremamente sfavorevole, anche per i casi nei quali, almeno inizialmente, il tumore è confinato in una formazione polipoide. Nell’aspetto istologico, questa neoplasia ricorda gli omonimi carcinomi ovarici con presenza di corpi psammomatosi. Il carcinoma a cellule chiare è piuttosto raro (1-5%), di origine paramesinefrica piuttosto che paramesonefrica, del tutto simile istologicamente all’adenocarcinoma a cellule chiare dell’ovaio, ma anche a quello della cervice e della vagina. Questa neoplasia presenta in genere un elevato grado di atipie e tende ad invadere precocemente gli spazi linfoghiandolari, per cui ha prognosi estremamente sfavorevole.

Il carcinoma squamoso è molto raro (2-7%) ed è caratteristico dell’età senile avanzata. E’dotato di malignità molto elevata ed è spesso associato a stenosi cervicale, espressione forse di metaplasma squamosa tipica dell’epitelio cilindrico endocervicale. L’istotipo indifferenziato comprende un piccolo gruppo di neoplasie la cui differenziazione è così scarsa da non consentire l’inquadramento in nessuno degli istotipi precedentemente descritti.

I carcinomi di tipo misto sono caratterizzati dalla presenza di almeno due tipi cellulari, ciascuno dei quali deve rappresentare più del 10% della neoplasia. E’ probabile che la prognosi dipenda dalla componente meno favorevole, anche se ciò non è stato ancora provato con certezza.

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La differenziazione dell’adenocarcinoma dell’endometrio è valutata in tre gradi istopatologici:

• Grado1 (G1): ben differenziato con il 95% o più di struttura ghiandolari e/o papillari;

• Grado2 (G2): moderatamente differenziato;

• Grado3 (G3): con aree solide superiori al 50% o completamente indifferenziato.

Il grado di differenziazione correla con l’infiltrazione miometriale: più il tumore è indifferenziato, maggiormente infiltra la parete uterina.

Storia naturale

La diffusione della neoplasia al di fuori dell'utero avviene per via linfatica quando invade il miometrio. Esiste un duplice drenaggio linfatico dell’utero: uno proprio del corpo, che segue il decorso dei vasi ovarici fino ai linfonodi lomboaortici, e uno cervicale che, attraverso i vasi parametriali, raggiunge i linfonodi pelvici.

Le prime stazioni interessate dalle metastasi sono i linfonodi retroperitoneali pelvici, ipogastrici, otturatori, presacrali, iliaci esterni, iliaci comuni, raggiunti attraverso i legamenti larghi ed i parametri.

La via di diffusione preferenziale del carcinoma dell’endometrio è quella linfatica e le probabilità di coinvolgimento linfonodale sono tanto più alte quanto più l’infiltrazione del miometrio si approssima alla rete linfatica sottosierosa

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Le vie di drenaggio linfatico dell’utero sono essenzialmente tre:

• linfonodi pelvici (iliaci esterni, interni, comuni ed otturatori) attraverso il legamento largo ed i parametri;

• linfonodi paraortici, attraverso il legamento infundibolo-pelvico o i linfonodi pelvici;

• linfonodi inguinali, attraverso il legamento rotondo. In circa il 30% delle pazienti con linfonodi pelvici positivi è presente anche un coinvolgimento dei linfonodi para aortici; tuttavia non è escluso il riscontro della positività di questi ultimi a fronte della negatività a livello pelvico.

La disseminazione per via ematogena, al contrario, è rara ed è ad appannaggio quasi esclusivo di stadi avanzati di malattia. Gli organi più frequentemente colpiti in tale evenienza sono: fegato, polmoni, ossa e cervello. In circa l’8% dei casi si evidenziano localizzazioni secondarie alla vagina. Le metastasi alla cupola vaginale sono dovute ad impianto diretto durante le manovre chirurgiche o ad una via linfatica retrograda. In circa il 7% dei casi si osservano anche metastasi ovariche ed impianti peritoneali.

Fattori prognostici

Sono correlati alla prognosi il grado di differenziazione del tumore, l’istotipo, la presenza di infiltrazione degli spazi linfovascolari, il grado di infiltrazione del miometrio, la diffusione allo stroma cervicale e quella extrauterina della malattia, l’interessamento linfonodale pelvico e quello lomboaortico, ed infine la presenza di

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Altri fattori prognostici sono il grado di aneuploidia, l’espressione o meno di recettori per estrogeni e progesterone. Il grado di differenziazione, l’infiltrazione degli spazi linfovascolari, il grado di infiltrazione del miometrio sono in relazione alla frequenza di metastasi linfonodali, che costituiscono a loro volta uno dei fattori prognostici più importanti che incidono sulla sopravvivenza.

La frequenza di positività dei linfonodi pelvici va dal 3.6 al 5.2% nei casi con malattia confinata all’utero, con differenziazione G1-2, e con infiltrazione <50% dello spessore miometriale. Nei casi di malattia confinata all’utero ma con grado di differenziazione G3 e concomitante infiltrazione del miometrio >50%, o in caso di istotipi non endometrioidi, la frequenza di interessamento linfonodale sale non solo a livello pelvico (19-34%), ma anche a livello lomboaortico (14-23%), con la possibilità (2-17%) di interessamento lomboaortico in assenza di infiltrazione dei linfonodi pelvici (7,8,9), con una OS a 5 anni attorno al 60% (9).

Diagnosi

Il carcinoma endometriale può evolvere attraverso i vari gradi dell’iperplasia endometriale o originare "de novo" in modo diffuso o circoscritto. Nel periodo periclimaterico il riscontro di perdite ematiche atipiche rappresenta il primo sintomo di tumore dell’endometrio nel 20% dei casi, e tale percentuale aumenta quanto più si supera la menopausa. La probabilità di diagnosticare un tumore dell’endometrio in presenza di metrorragia nella postmenopausa è del 5-10% (4).

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La diagnosi di tumore dell’endometrio viene effettuata attraverso la biopsia della cavità uterina.

La tecnica più diffusa è il VABRA aspirato, che permette di ottenere materiale endometriale per l’esame istologico. E' ormai accettata l'affidabilità di tale tecnica, che presenta un'accuratezza diagnostica del 98%, simile a quella del raschiamento tradizionale (5). La metodica diagnostica attualmente più precisa è rappresentata dall’isteroscopia con biopsia mirata. Tale metodica dimostra una sensibilità del 100% e una specificità del 49% (6).

Questa procedura può essere eseguita anche ambulatorialmente. L’ecografia pelvica con sonda transvaginale rappresenta l’indagine di prima istanza in presenza di metrorragia. Durante la menopausa l’endometrio si presenta tipicamente sottile ed omogeneo, con uno spessore inferiore ai 4 mm. Quando la rima endometriale risulta superiore a questo valore bisogna sospettare l’esistenza di una patologia e quindi procedere alla biopsia della cavità uterina. L’ecografia transvaginale presenta grande utilità nello studio preoperatorio di elementi prognostici, quali l’infiltrazione miometriale, l’interessamento cervicale e la presenza di metastasi annessiali. Tali elementi forniscono al chirurgo importanti fattori prognostici che, insieme al grading e alla ploidia de

rivata dai prelievi bioptici preoperatori, possono influenzare la radicalità chirurgica (9). Raramente il PAP-test può documentare la presenza di cellule atipiche di origine endometriale; tale reperto deve indurre il clinico ad eseguire un approfondimento diagnostico.

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Negli istotipi non endometriodi o quando la neoplasia è in stadio avanzato, il CA125, il CA19,9 e il CA15,3 possono essere elevati e quindi sono utilizzabili come marcatori tumorali durante il follow-up della paziente. Nella valutazione preoperatoria un CA125 elevato deve indurre a sospettare l’esistenza di un carcinoma endometriale in stadio avanzato (10). La TC e la RMN sono attualmente utilizzate per la per la stadiazione della patologia.

Stadiazione

A partire dagli anni ‘50 la Federazione Internazionale di Ginecologia e Ostetricia (FIGO) ha prodotto un proprio sistema di stadiazione dei tumori ginecologici con la finalità di creare un sistema descrittivo dell’estensione di malattia che fosse riproducibile in modo da rendere il più possibile univoco e ottimale il trattamento nelle varie realtà a livello globale. A cavallo degli anni ’90 tali classificazioni sono state modificate alla luce delle nuove conoscenze sulla storia naturale e i fattori prognostici dei tumori ginecologici. Per tutte le neoplasie la stadiazione è basata su fattori chirurgico-patologici attraverso la valutazione istologica definitiva vengono stabiliti con accuratezza i fattori prognostici (grading istologico, infiltrazione miometriale, infiltrazione degli spazi linfovascolari, interessamento linfonodale, diffusione extrauterina della malattia) che guideranno poi l’eventuale trattamento complementare dopo la terapia standard e prevede come primo momento diagnostico-terapeutico l’intervento chirurgico.

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Negli ultimi anni, tuttavia, si è sviluppata una metodologia di ricerca basata sull’evidenza che, soprattutto nell’ambito dell’oncologia, ha fornito nuovi dati che hanno dimostrato la necessità di rivedere la stadiazione dei tumori uterini e della vulva.

A partire dal 2005 si è pertanto sviluppata un’analisi dei dati disponibili che ha portato nel settembre 2008 ad approvare, da parte del Comitato Esecutivo della FIGO, la nuova stadiazione per queste neoplasie, pubblicate a inizio 2009.

Nella stadiazione del 1988 per lo stadio I (tumore confinato al corpo dell’utero) venivano individuati tre gruppi prognosticamente diversi a seconda del grado di infiltrazione (solo dello stroma endometriale, con infiltrazione inferiore al 50% dello spessore del miometrio, o con in- filtrazione superiore al 50%) (10).

Nel secondo stadio venivano compresi i tumori con estensione alla cervice, differenziando due popolazioni a diverso rischio: le donne con interessamento solo superficiale, delle pseudoghiandole cervicali (stadio IIA), a prognosi migliore (sopravvivenza 80.9% a 5 anni) e le donne con estensione della neoplasia allo stroma cervicale (stadio IIB) a prognosi peggiore (sopravvivenza a 5 anni 75%), e per le quali era prevista una terapia più vicina a quella dei carcinomi della cervice uterina, in relazione alla possibilità di diffusione attraverso i parametri e alla maggior frequenza (10.8 vs 5.1%) di recidive vaginali (11).

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Al terzo stadio venivano assegnati i tumori con estensione pelvica della malattia, distribuiti in tre gruppi a rischio prognostico crescente: alla sierosa peritoneale dell’utero, alle ovaie o se con washing positivo (stadio IIIA); alla vagina (stadio IIIB); ai linfonodi pelvici o lombo aortici (stadio IIIC). Al quarto stadio venivano compresi i casi con interessamento della mucosa vescicale o del retto, e cioè con interessamento di organi pelvici adiacenti (stadio IVA) oppure in caso di metastasi a distanza (interessamento di organi extrapelvici) o di interessamento dei linfonodi inguinali (stadio IVB). Nei 20 anni successivi al 1988 sono apparse numerose critiche (12). È emerso come le categorie prognostiche potessero essere semplificate negli stadi iniziali, poiché la sopravvivenza tra pazienti con malattia con invasione solo dello stroma endometriale o della prima metà del miometrio era sovrapponibile. Al secondo stadio è apparso come l’evento prognostico sfavorevole non fosse l’estensione superficiale alle pseudoghiandole endocervicali (questo tipo di estensione non comportava una prognosi diversa dallo stadio I) ma fosse l’infiltrazione dello stroma della cervice (recidive 5.1% nel caso di estensione solo mucosale, del 10.8% in caso di infiltrazione dello stroma (11). È stata necessaria anche una risistemazione del III stadio, in quanto è apparso come la presenza isolata di washing positivo in assenza di interessamento extrauterino della malattia non fosse di per se un indice di peggioramento della prognosi (13). Inoltre per stratificare meglio il rischio rappresentato dalle metastasi linfonodali regionali, è stato deciso di differenziare la stadiazione in funzione della positività dei linfonodi pelvici o dei linfonodi lomboaortici.

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Il primo stadio comprende i tumori con interessamento limitato al corpo dell’utero, con un sottostadio IA comprendente i tumori senza infiltrazione miometriale o con infiltrazione fino a metà del miometrio, a miglior prognosi; allo stadio IB sono assegnati i tumori con interessamento uguale o superiore alla metà del miometrio, a prognosi peggiore (14).

Allo stadio II sono assegnati i tumori con interessamento dello stroma cervicale, ma senza interessamento di tessuti esterni all’utero. Al terzo stadio la popolazione viene stratificata in tre sottostadi a prognosi diversa: il primo gruppo (stadio IIIA) comprende donne con malattia estesa alla sierosa uterina (o pelvica) o alle ovaie; il secondo (stadio IIIB) con estensione della malattia alla vagina; il terzo (stadio IIIC) con estensione della malattia ai linfonodi regionali, suddiviso in stadio IIIC1 in caso di interessamento dei soli linfonodi pelvici (iliaci esterni e otturatori) e in stadio IIIC2, in caso di interessamento dei linfonodi lomboaortici (compresi gli iliaci comuni), indipendentemente dall’interessamento di quelli pelvici (14).

Il quarto stadio resta di fatto invariato, anche se la definizione diventa più semplice: allo stadio IVA si assegnano i tumori con interessamento di organi pelvici contigui (mucosa del retto o della vescica), allo stadio IVB tutte le localizzazioni metastatiche a distanza, cioè extrapelviche (es: metastasi epatiche, ma anche del tenue o dello stomaco, della parete addominale, dei linfonodi inguinali, etc).

Sia nella stadiazione FIGO 1988 che in quella 2009 il primo ed il secondo stadio sono definiti stadi “early”, mentre gli stadi III e IV sono definiti stadi avanzati.

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La stadiazione FIGO non tiene in considerazione il grado di differenziazione cellulare (G1-2-3), l’istotipo e la infiltrazione degli spazi linfovascolari.

Trattamento chirurgico

Il trattamento del carcinoma dell’endometrio è in prima linea chirurgico e la sua estensione viene graduata in base a fattori prognostici che si sono dimostrati essere in relazione alla sopravvivenza.

Nello stadio 1 sono presenti situazioni a diverso rischio, che si riflettono su una diversa sopravvivenza a 5 anni dopo trattamento chirurgico standard.

Un report FIGO nel 2006 (15) riportava una sopravvivenza del 91% in caso di malattia infiltrante meno della metà del miometrio, dell’83% in caso di malattia coinvolgente il terzo esterno del miometrio, e che si riduceva al 74,5% in presenza un tumore con differenziazione di grado 3 (15). L’entità della stadiazione chirurgica e la eventuale terapia adiuvante deve tener conto di queste differenze di sopravvivenza nei diversi sottogruppi di pazienti.

La stadiazione chirurgica con linfoadenectomia pelvica (raccomandata della FIGO) e anche lomboaortica (raccomandata dall’ACOG (16) è attualmente in discussione nella comunità scientifica, senza per ora una risposta univoca. La linfadenectomia può essere sistematica (almeno 20 linfonodi pelvici e 15 lombo-aortici) o selettiva (con asportazione di linfonodi sospetti alle indagini di imaging preoperatorio o alla valutazione intraoperatoria).

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Nei casi senza controindicazioni alla chirurgia, a basso rischio di recidiva, l’intervento è costituito dalla isterectomia totale extrafasciale (tipo A sec Querleu-Morrrow) con annessiectomia bilaterale. Durante l’intervento va eseguita esplorazione dell’addome, delle stazioni linfonodali, e raccolta del washing addomino-pelvico.

Ruolo della linfoadenectomia nello staging carcinoma endometriale

Nelle donne affette da adenocarcinoma endometrioide con grading G1-2, con lesione neoplastica <2cm, e invasione miometriale <50%, e senza evidenza macroscopica di diffusione endocelomatica di malattia, la sopravvivenza a 5 anni dei casi trattati solo con isterectomia e annessiectomia bilaterale raggiunge il 97% (17).

A sua volta già più di 10 anni fa è stato dimostrato che donne con queste caratteristiche non beneficiavano del sampling linfonodale (98% di sopravvivenza a 5 anni se non veniva eseguito il sampling, 96% se veniva eseguito, senza significatività) (18).

Per queste donne non è indicata la valutazione linfonodale se non all’interno di trial clinici controllati, anche in considerazione che la frequenza di linfonodi positivi in questa donne va dal 3.6 (7) al 5.3% (19), per infiltrazione rispettivamente entro 1/3 o entro la metà del miometrio.

Da notare che in casi G1 infiltranti meno del 50% è stata riportata la frequenza di linfonodi positivi dello 0.6% (20). Le metodiche preoperatorie o intraoperatore di valutazione del rischio sono in realtà affidabili: solo il 3.3-6.5% dei casi G1 alla biopsia preoperatoria aveva un grading G3 all’istologico finale (20).

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Ugualmente, l’accuratezza della valutazione della profondità di invasione all’esame patologico intraoperatorio sull’utero asportato raggiunge il 92.2-94.3% (21).

Su queste basi il numero di casi che verrebbe stadiato erroneamente prima della chirurgia sarebbe trascurabile, e comunque il riscontro sull’istologico di caratteristiche a rischio indicherà per questi casi la terapia complementare. Secondo altri autori però la non esecuzione della linfoadenectomia potrebbe sottostadiare un numero non trascurabile di casi, fino al 12% del totale dei casi allo stadio I (22).

Malgrado i numerosi studi effettuati dal 1988, quando è stata introdotta la stadiazione chirurgica, non è ancora chiaro il possibile ruolo della linfoadenectomia nei tumori cosiddetti a rischio intermedio, costituiti cioè dai casi allo stadio I ma con fattori di rischio (G3, infiltrazione >50% del miometrio).

È accettato che il rischio di interessamento linfonodale aumenti con l’aumentare del grado istologico e con la profondità di invasione miometriale, e questo influenza la sopravvivenza.

Tutto ciò ha determinato l’ACOG a raccomandare la stadiazione chirurgica con linfoadenectomia sia pelvica che lomboaortica in tutti i casi, per stabilire la necessità di terapie complementari, ad esclusione delle donne con lesioni a basso rischio insorgenti su iperplasia atipica (G1, assenza di infiltrazione miometriale), o quando la presenza di comorbilità o di difficoltà tecniche (es: grandi obese) controindicassero l’esecuzione della linfoadenectomia (18).

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La discussione sul ruolo della linfoadenectomia è riemersa dopo la pubblicazione di due studi retrospettivi che hanno evidenziato come la radioterapia complementare fosse in grado di diminuire la quantità di recidive, ma non di impattare sulla sopravvivenza (23,24), con molte pazienti che di fatto hanno avuto un sovratrattamento con tossicità senza alcun beneficio, sulla base della linfoadenectomia.

D’altra parte, lo studio multicentrico italiano di Benedetti Panici nel 2008 (25), randomizzato e prospettico, non dimostrava guadagno in termini di sopravvivenza globale o libera da malattia nei casi con linfoadenectomia sistemica, ma considerava la linfoadenectomia di valore prognostico.

È necessario riconsiderare l’utilità della linfoadenectomia e le sue indicazioni al I stadio, anche se ad oggi non ci sono dati sufficienti per tracciare una linea univoca (26): se è dimostrato che non ci sia un reale beneficio allo stadio IA (2009, ex IB 2008) G1-G2, dove la DFS e la OS possono raggiungere rispettivamente 97.6 e il 98.8% (27), nei casi a rischio medio e alto la linfoadenectomia aumenterebbe la sopravvivenza, e il beneficio, nel sottogruppo di donne con linfonodi positivi, sarebbe tanto maggiore quanto maggiore è l’estensione della linfoadenectomia (28).

Va anche però considerato che l’estensione della linfoadenectomia (>14 linfonodi asportati) sarebbe un fattore di rischio indipendente per le complicanze postoperatorie.

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La metanalisi della Cochrane Library (29) ha dimostrato come solo due studi recenti (25,30) randomizzati potessero essere elegibili: quello ASTEC di Kitchener (30) del 2009 che ha randomizzato le pazienti in base alla valutazione preoperatoria (inserendo quindi anche donne con tumori al primo stadio ma a basso rischio), e quello di Benedetti Panici del 2008, che prevedeva la valutazione intraoperatoria della profondità di invasione miometriale, ed escludeva dalla randomizzazione i casi a basso rischio (invasione inferiore al 50% del miometrio).

Entrambi concludevano separatamente che non c’era differenza significativa di sopravvivenza totale o di sopravvivenza libera da malattia.

La metanalisi della Cochrane ancora dimostra che non esiste differenza significativa di sopravvivenza tra donne con malattia al primo stadio sottoposte o meno a linfoadenectomia pelvica, anche dopo aggiustamento per età e per grado istologico del tumore.

La sopravvivenza libera da malattia si è dimostrata non significativamente diversa nei due gruppi. In realtà, il rischio di morte e di recidiva si è dimostrato leggermente più alto nelle donne sottoposte a linfoadenectomia rispetto a quelle in cui questa non era stata eseguita, anche se questa leggera differenza non è risultata significativa. Ovviamente il rischio di complicanze è risultato significativamente più alto nelle donne sottoposte a linfoadenectomia. Nello studio ASTEC di Kitchener inoltre il rischio di morte aumentava con l’entità della linfoadenectomia eseguita, valutata sul numero di linfonodi asportati.

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In realtà lo studio ASTEC valutava non solo il beneficio eventuale della linfoadenectomia ma anche quello della radioterapia complementare, sempre allo stadio I, ed è stato notevolmente criticato da altri Autori (30,31) per alcuni aspetti metodologici, in quanto metà delle donne randomizzate per la linfoadenectomia in realtà non avrebbe avuto una dissezione adeguata secondo gli standard del GOG (32).

La difficoltà di estrapolare il vero significato della linfoadenectomia si può spiegare in diversi modi, ma soprattutto tenendo presente l’ottima prognosi generale dei tumori al primo stadio, e la bassa frequenza di donne che alla presentazione hanno già metastasi linfonodali.

Da questi studi emerge come la linfoadenectomia non abbia in questo stadio una valore terapeutico, ma dia solo informazioni prognostiche, e come per avere queste informazioni sia necessario far pagare un certo prezzo alla paziente, in termini di morbilità. Creasman (29) puntualizza infatti che anche nei casi a basso rischio (stadio IA, G1-2) la frequenza di positività linfonodale può raggiungere il 3-4%, e che questa notizia si ha solo dopo aver eseguito la stadiazione chirurgica. Non ci sono studi randomizzati che abbiano valutato l’eventuale efficacia della rimozione dei linfonodi bulky oppure del sampling versus la linfoadenectomia sistemica.

Ugualmente non ci sono dati che possano valutare l’eventuale efficacia della linfoadenectomia lomboaortica, anche se dati recenti dimostrerebbero una miglior OS nei casi a rischio intermedio e alto nei quali questa era stata eseguita (33).

(22)

Alla luce di quanto riportato in letteratura il comportamento che assumiamo nella nostra unità è quello di eseguire la linfoadenectomia pelvica in presenza di stadio IB alla frozen section se la paziente non presenta un elevato rischio chirurgico.

Modalità di esecuzione intervento chirurgico

L’intervento può essere eseguito in laparotomia o per via totalmente laparoscopica. La via totalmente vaginale può comportare difficoltà nell’asportazione delle ovaie, con il rischio di eseguire un intervento oncologicamente non corretto. Inoltre manca la possibilità di valutare la eventuale diffusione peritoneali ella malattia e lo stato delle stazioni linfonodali.

Negli anni 90 Darget e Querleu (34 35) in Francia e Childers e Spirtos (36,37) in USA riportano i primi casi di staging laparoscopico comprendente la linfoadenectomia pelvica.

Dal quel momento in poi l’utilizzo della laparoscopia è stato ampiamente impiegato e vari studi hanno confermato la superiorità dell’approccio laparoscopico versus quello laparotomico in termini di minor complicanze, minor ospedalizzazione, minor tempi di recupero a parità di sopravvivenza radicalità (38,42).

Lo studio più grande randomizzato di chirurgia laparotomia versus chirurgia laparoscopica che supporta tali dati è Il the Gynecologic Oncology Group LAP2 trial che arruolava tra Maggio del 1996 e Settembre del 2005 un totale di 2616 pazienti (1682 nel braccio laparoscopico e 920 nel laparotomico) (43).

(23)

Tuttavia questo trial presenta un alto tasso di conversione 25,8% (434 pazienti) dovuto ad una difficoltà di visualizzazione 56.7% presenza di carcinoma endometriale metastatico 15,9%, sanguinamento 11,3% ed altre cause. Nello studio si evidenzia come la percentuale di conversione sia maggiore all’aumentare dell’età e del BMI. Nel 17.5% di pazienti vengono convertiti in laparotomia con BMI maggiore 25 kg/m2, 26.5% con BMI compreso tra 34-35 kg/m2 e del 57.1% con BMI maggiore di 40 kg/m2. Recentemente sono stati pubblicati i dati pubblicati sul follow-up delle pazienti del Gynecologic Oncology Group LAP2 study l tasso di recidiva stimato a cinque anni è di 11,61% nel braccio laparotomico e 13,68% in quello laparoscopico con un Overall servival a 5 anni pari al 89,8% in entrambi i bracci di studio (44). Quindi la laparoscopia presente dei vantaggi rispetto alla laparotomia in termini di outcome chirurgici ed oncologici, tuttavia la lunga curva di apprendimento per acquisire la competenza e la proficienza non ne ha permesso una vasta diffusione basti pensare che solo 8% dei chirurghi ginecologi oncologi americani utilizza abitualmente tale tecnica per lo staging chirurgico del carcinoma endometriale.

Il robot chirurgico da Vinci nasce negli Stati Uniti nel 1995, anno in cui viene fondata la Intuitive Surgical Inc. che dal 2003 è unico produttore di questa tecnologia. Il primo utilizzo nell’uomo avviene nel 1997 e nel 1998 viene commercializzata la prima versione del sistema.

Nel 2005 la U.S. Food and Drug Administration approva l’uso del Robot da Vinci in chirurgia ginecologica.

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Al 31 marzo 2008 figurano installati al mondo 867 sistemi di cui circa il 75% negli USA. Il trend di installazione mostra che, nell’anno 2007, vi è stato un deciso incremento, più evidente negli USA che nel resto del mondo. La situazione europea vede l’Italia come importante mercato di riferimento con ben 27 sistemi installati (pari al 19% del totale EU), seguita dalla Francia (18), dal Belgio e dalla Germania. I primi quattro paesi (Italia, Germania, Belgio e Francia) posseggono complessivamente il 57% del mercato Europeo.

La chirurgia robotica si può sostanzialmente definire come l'evoluzione della chirurgia laparoscopica. Il robot grazie alla visione tridimensionale, alla presenza di bracci meccanici che sorreggono senza tremare e senza stancarsi gli strumenti che sono dotati di estrema manovrabilità, accomuna i vantaggi sia della chirurgia laparotomica sia di quella laparoscopica convenzionale.

I movimenti delle mani del chirurgo vengono demoltiplicati, filtrati e traslati in movimenti di alta precisione eseguiti dai micro-strumenti posizionati all’interno del campo operatorio, permettendo un’accurata dissezione anatomica ed un minor traumatismo tessutale

Quindi la visione tridimensionale, maggior ingrandimento dell’immagine, l’assenza di tremore, l’utilizzo di strumenti Endowrist che presentano quattro gradi di movimento, maggior precisione e, maggior facilità nel esecuzione di nodi e suture ed una minor curva di apprendimento rappresentano i vantaggi della chirurgia robotica nei confronti della laparoscopia.

(25)

I principali svantaggi del sistema robotico includono l’assenza di sensibilità tattile che in parte viene compensata dalla migliore visualizzazione e la ridotta flessibilità degli strumenti tra i campi operatori e i costi maggiori.

Molti studi hanno confrontato chirurgia laparoscopica, robotica e addominale nel trattamento del carcinoma endometriale. Nei confronti della chirurgia laparoscopica la chirurgia robotica mostra una tendenza alla riduzione dei tempi operatori e delle perdite ematiche con una radicalità e una degenza postoperatoria sovrapponibile con una minor percentuale di conversione a parità di BMI (45-52) (tabella 1).

Nei confronti della chirurgia addominale, la chirurgia robotica presenta gli stessi vantaggi della laparoscopia ma con tempi operatori maggiori (tabella 2).

(26)

Stessi risultati si ottengono valutando gli studi condotti su pazienti con BMI maggiore di 30. In alcuni studi però più recenti si segnala una tendenza alla diminuzione dei tempi chirurgici nell’approccio robotico rispetto al robotico (tabella 3).

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Una recente revisione Cochrane sull’utilizzo della chirurgia robotica nelle neoplasie ginecologiche analizzando 2 trial che comparavano robotica versus laparoscopia e 2 robotica versus laparotomia e sei trial che comparava i tre approcci chirurgici insieme. Lo studio conclude che sebbene la tecnica sia oggi largamente utilizzata in ginecologia oncologica non vi sono dati sufficienti in termini di sopravvivenza, tasso di recidive e di qualità della vita, né studi randomizzati privi di bias che consentano di giungere a conclusioni definitive che supportino l’utilizzo della chirurgia robotica nelle neoplasie ginecologiche (53).

Trattamento adiuvante

Gli elementi più significativi nel determinare le categorie di rischio sono lo stadio, il tipo istologico, il grado di differenziazione istologica, la profondità di infiltrazione miometriale, l’interessamento linfonodale, l’invasione degli spazi linfo-vascolari, l’età della paziente alla diagnosi e la ploidia (54,55). La citologia peritoneale positiva è un fattore prognostico sfavorevole in presenza di malattia diffusa agli annessi, ai linfonodi e al peritoneo. La stratificazione delle pazienti entro categorie di rischio è utile nella pratica clinica per una corretta definizione della prognosi e per guidare la pianificazione terapeutica. La plodia e più recentemente l’espressione della p53 rappresentano nuovi fattori prognostici aggiuntivi: non tutti i centri sono in grado di utilizzare questi nuovi fattori di prognosi per selezionare nella pratica clinica le pazienti con rischio aumentato di recidiva (55).

(28)

Nei tumori endometriodi esistono tuttavia numerose controversie sulle pazienti “a rischio” da sottoporre a trattamento adiuvante dopo chirurgia primaria. Negli stadi avanzati, a partire dallo stadio II, tranne alcune eccezioni, è sempre indicato un trattamento adiuvante post-chirurgico.

I tumori con estensione alla vescica o al retto, così come i tumori con metastasi a distanza alla diagnosi (stadi IVB e IVB), hanno una prognosi molto sfavorevole e comportano indicazioni terapeutiche personalizzate.

Il rischio di recidiva è direttamente proporzionale allo stadio FIGO: quasi irrilevante in caso di tumori allo stadio IA, mentre può giungere fino al 30% nei tumori allo stadio IB (56). Tradizionalmente si ritiene che una terapia adiuvante sia indicata quando il rischio di recidiva dopo chirurgia è superiore al 10-15% (57).

La prognosi dei tumori endometriodi confinati all’utero, in assenza di fattori di rischio è ottima. Per tale motivo non è consigliata alcuna terapia negli stadi IA e IB G1/2. Per gli stadi IB G3 e IC G1/2 i risultati riferiti, da tre studi randomizzati, non hanno evidenziato alcun beneficio, in termini di sopravvivenza, inerente l’utilizzo della radioterapia postoperatoria rispetto al trattamento alla recidiva. Gli studi dimostrano una riduzione delle recidive locoregionali nel gruppo sottoposto a trattamento adiuvante con un aumento delle complicanze. I risultati non cambiano sia negli studi dove era eseguita la linfoadenectomia sia in quelli dove questa procedura chirurgica veniva omessa (57,58). Nei Centri dove vengono eseguite di routine, per meglio identificare le pazienti ad alto rischio, possono essere utilizzati i fattori non tradizionali.

(29)

La presenza di aneuploidia (DNA index >1.2) aumenta il rischio di mortalita’ in maniera significativa identificando casi da sottoporre a trattamento adiuvante. (59) Nello stadio IC G3 il trattamento postoperatorio è raccomandato specialmente in assenza di una linfadenectomia estesa. La terapia adiuvante può essere evitata se i linfonodi, adeguatamente campionati, sono negativi e in assenza di altri fattori prognostici sfavorevoli. In questo gruppo di pazienti il rischio di recidiva, in assenza di linfoadenectomia, è elevato (56).

Il trattamento adiuvante raccomandato nelle pazienti a rischio intermedio è la brachiterapia in quanto sembra ottenere gli stessi risultati della radioterapia esterna pelvica con una riduzione degli effetti collaterali e miglioramento della qualità di vita mentre nelle pazienti ad alto rischio (IB G3) la radioterapia esterna pelvica sembra dare qualche vantaggio in termini di sopravvivenza globale. Tuttavia per l’elevato rischio di metastasi a distanza negli ultimi anni si sta valutando l’efficacia di chemioterapia adiuvante o di chemio radioterapia concomitante.

Follow up

Da recenti studi emerge che il 13% delle pazienti trattate per carcinoma dell’endometrio presenta una ripetizione di malattia che è diagnosticata entro il terzo anno di follow up nel 68-100% dei casi (60-78).

La percentuale di recidive che si sviluppa a distanza varia dal 55-61% e nel 41-100% delle recidive è accompagnato da sintomi (76-77).

(30)

Uno studio italiano retrospettivo multicentrico, condotto nel 2006 indica che per quanto riguarda la sopravvivenza delle pazienti, un solo studio (66) riporta un significativo vantaggio di sopravvivenza a favore delle pazienti asintomatiche al momento della diagnosi di recidiva rispetto alle sintomatiche; cinque studi (61, 63, 64 69, 76) non riportano differenze di sopravvivenza tra i due gruppi, mentre la mediana di sopravvivenza delle pazienti asintomatiche è di 92,3 mesi contro i 40,3 mesi per le pazienti sintomatiche (p=0,0003).

I dati dello studio multicentrico italiano evidenziano, alle analisi multivariate, come fattori indipendenti associati a miglior prognosi siano la sede vaginale rispetto alle recidive a distanza e l’assenza di sintomi al momento della diagnosi di recidiva. Gadducci et al. (63) indica che la sopravvivenza dopo la recidiva non pare legata allo stadio, né al grado, né alla profondità di invasione del miometrio.

La sopravvivenza è maggiore per le pazienti la cui recidiva è stata diagnosticata dopo 17,5 mesi rispetto a quelle diagnosticate più precocemente.

Nella stessa direzione si pone lo studio di Podczasky et al. (70) dove le pazienti con recidiva diagnosticata precocemente dopo il trattamento primario hanno una peggiore prognosi rispetto alle altre pazienti.

Berchuck et al (69) indicano come fattore prognostico negativo il grading, ed emerge che la sopravvivenza aumenta per recidive vaginali isolate rispetto a recidive in altre sedi.

(31)

Per quanto riguarda il timing dei controlli esiste una migliore omogeneità tra i dati presenti in letteratura e quelli ricavati dallo studio multicentrico italiano e dallo studio della Rete Oncologica: per i primi due anni di sorveglianza un controllo clinico ogni 3-4 mesi, dal 3° al 5° anno ogni 6 mesi e successivamente una volta all’anno. Queste scadenze sono dettate dal fatto che circa i ¾ delle recidive di carcinoma endometriale si presentano entro il terzo anno dal trattamento primario.

Al contrario il tipo di procedure adottate nel follow up e soprattutto la frequenza della loro applicazione sono risultate molto variabili, mettendo in luce principalmente due tipologie di protocollo per il follow up: la prima con esecuzione dell’esame clinico e la seconda” con esame clinico, procedure di imaging e marcatori (60-63).

Al momento attuale non esistono dati supportati da un adeguato livello di evidenza che un programma di follow up “intensivo” abbia un impatto positivo sulla sopravvivenza rispetto ad un programma “minimalista” e questo è alla base del disegno del presente studio.

(32)

MATERIALI E METODI

Sono state prese in esame in chiave retrospettiva, 75 pazienti affette da carcinoma endometriale e sottoposte a staging chirurgico per via laparoscopica robot assistita presso il Reparto di Ginecologia II Ospedaliera della Azienda Ospedaliera Universitaria di Pisa, nel periodo compreso tra Aprile 2008 ed Aprile 2014.

Come gruppo di controllo, sono state valutate 60 pazienti sottoposte alla medesima stadiazione, nello stesso periodo di tempo e presso la stessa unità operativa, attraverso chirurgia laparotomica.

Per ogni gruppo è stato quindi analizzato un sottogruppo con BMI superiore a 30 Kg/m2.

Tutte le pazienti, affette da adenocarcinoma endometriale di tipo endometrioide diagnosticato su biopsia endometriale, sono state inquadrate in fase preoperatoria, mediante visita ginecologica, Pap-test, ecografia trans-vaginale (eseguita sempre dallo stesso ecografista specialista in ginecologia), TC torace-addome-pelvi e, nel 20% dei casi, anche RMN pelvi, dosaggio CA125 e valutazione anestesiologica. Nell’87% dei casi, era stata inoltre eseguita anche isteroscopia diagnostica o operativa.

La stadiazione delle pazienti era stata eseguita in accordo alle linee guida della Federazione Internazionale di Ginecologia e Ostetricia, FIGO 2009.

Criteri di inclusione per i due gruppi erano rappresentati da assenza di interessamento linfonodale (valutato mediante RMN e/o TC-scan), assenza di malattia extrauterina.

(33)

Criteri di esclusione per i due gruppi, erano costituiti da diagnosi istologica di adenocarcinoma endometriale non endometrioide o la presenza di uno stadio clinico superiore al II in base alla classificazione FIGO.

Tutte le pazienti sono state sottoposte ad antibiotico profilassi (Cefoxitina 2 g endovena in unica dose) ed a terapia a base di eparina a basso peso molecolare pre- e post-intervento (Fragmin 5000 UI, per via sottocutanea) per 15-30 giorni.

Tutte le procedure chirurgiche sono state eseguite in anestesia generale. Sono stati valutati età, peso, body mass index (BMI), stadio, tipo istologico, e grading tumorale, tempo operatorio impiegato (console time), perdite ematiche intra-operatorie, trasfusioni di sangue, numero dei linfonodi asportati, stadio patologico, degenza ospedaliera, complicanze intra-operatorie e post-operatorie, sopravvivenza globale, sede e tipo di recidiva. Informazioni riguardanti le pazienti sono state ottenute dai registri ospedalieri, dalle cartelle o telefonando direttamente alle stesse.

La tecnica utilizzata per l’isterectomia addominale totale extrafasciale, è stata quella classica, eseguita dallo stesso operatore specialista in chirurgia ginecologica oncologica.

Alla fine dell’intervento, è stato posizionato un drenaggio pelvico in aspirazione rimosso dopo 24-48 ore ad eccezion fatta per soggetti con BMI superiore a 30 Kg/m2, per i quali è stato posizionato drenaggio sottocutaneo in aspirazione, rimosso in 10°-14° giornata.

(34)

Per quanto riguarda invece l’intervento eseguito mediante chirurgia robotica, ci si è avvalsi del sistema Da Vinci Sr (Dipartimento Multimediale di Chirurgia Robotica, Ospedale di Cisanello, Pisa) con l’utilizzo di quattro bracci, avvalendosi di un Grasper traumatico posizionato sul quarto braccio del robot, al fine di effettuare la mobilizzazione uterina senza l’ausilio di un manipolatore uterino. Anche per le pazienti sottoposte a chirurgica robotica, l’intervento è stato eseguito sempre dallo stesso chirurgo, con eccellente esperienza laparoscopica.

Le pazienti sono state posizionate in Trendelenburg (circa 35-40°). Il pneumoperitoneo è stato ottenuto con ago di Verres sovraombellicale o ombelicale in base alle dimensioni dell’utero. Solo in 7 casi, a causa di una pregressa chirurgia longitudinale mediana, è stata utilizzata tecnica di Hasson, con posizionamento di ago di Verres nel quadrante superiore esterno sinistro.

Dopo l’induzione dell’anestesia generale, un sondino naso-gastrico è stato inserito dall’anestesista per evitare traumi gastrici, per poi essere rimosso dallo stesso alla fine dell’intervento.

Gli accessi robotici utilizzati (Fig. 1) sono stati ombelicale o sovraombellicale da 12 mm per l’ottica 30°, due accessi laterali da 8 mm per i bracci robotici ed uno in fossa iliaca destra di 1 cm all’interno della spina ischiatica superiore per il quarto braccio. E’ stata inoltre realizzata un’ulteriore porta accessoria da 12 mm, a carico del quadrante superiore destro, per consentire l'aspirazione, l’irrigazione, l'inserimento di aghi e di grasper da parte dell’assistente.

(35)

È stato sempre utilizzato un side docking posizionando il carrello robotico a lato destro della paziente.

La pressione di CO2 utilizzata durante il posizionamento dei trocar, è stata di 15 mmHg,

mentre durante l’intervento di 8-9 mmHg.

Come strumenti, sono stati adoperati EndoWrist forbici monopolari, pinza bipolare fenestrata e pinza da presa Cadier per il quarto braccio e portaaghi robotici (Institutive Surgical, Inc.).

In tutti i casi è stata eseguita isterectomia radicale tipo1 sec. Querleu-Morrow, con invio di utero ed annessi ad esame istologico estemporaneo per valutare il grado di infiltrazione ed il grading della neoplasia. Sulla base della ‘frozen section’, è stata eseguita linfoadenectomia pelvica. In tutte le pazienti operate con tecnica robotica, prima di procedere all’isterectomia, è stata visualizzata bilateralmente l’arteria uterina, successivamente legata all’origine con endoclips.

Tutti i pezzi sono stati rimossi per via vaginale, tranne in un caso per cui si è ricorsi ad una mini Pfannnenstiel a causa dell’eccessivo volume uterino. La cupola vaginale è stata suturata con Maxoon 2/0 in continua. Il catetere vescicale è stato rimosso in prima giornata.

La definizione di ‘tempo operatorio’ adottata nella nostra esperienza, è quella che comprende il tempo intercorso tra l’incisione e la chiusura della cute (‘skin-to-skin’), mentre a parte è stato valutato il tempo di assembramento della strumentazione robotica (‘docking time’).

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FIGURA 1: Gli accessi robotici e side docking.

Il follow-up è stato eseguito mensilmente per i primi 3 mesi, poi ogni 3 mesi per i primi 2 anni, ogni 6 mesi per 3 anni, e successivamente una volta all’anno.

Analisi Statistica

Per le variabili categoriche sono stati applicati il test del Chi-quadro e il test di Fisher. Per l'analisi statistica dei dati, è stato utilizzato il test t di Student per dati appaiati per le variabili continue. Variabili non-parametriche sono state espresse come mediana. La malattia libera da ricorrenza è stata definita (DSF) come il periodo intercorrente tra chirurgia e data della prima recidiva. La sopravvivenza globale (OS) è stata calcolata come periodo intercorrente tra la data dell’intervento e la data della morte. I dati sui pazienti vivi sono stati aggiornati all’ultimo follow-up. Un valore di P < 0.05 è stato considerato statisticamente significativo.

(37)

RISULTATI

Nel periodo compreso tra Aprile 2008 ed Aprile 2014, 135 pazienti venivano arruolate nello studio e sottoposte a staging chirurgico per carcinoma endometriale. Sessanta pazienti (48.3%) venivano trattate mediante approccio laparotomico e 75 pazienti (58.7%) attraverso chirurgia robotica. Le caratteristiche delle pazienti sono riportate in tabella 4.

L’età media delle pazienti appartenenti al gruppo laparotomico ed a quello robotico, era rispettivamente di 68.5 anni (con un range compreso tra 38 ed 88 anni) e 65 anni (con un range di 38-84 anni).

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Il valore medio del Body Mass Index (BMI) era invece di 31 Kg/m2 (con range compreso tra 18 e 59) e di 28 Kg/m2 (range tra 18 e 60).

Trentacinque pazienti del gruppo di controllo ‘laparotomico’, presentavano un BMI superiore a 30 Kg/m2 e di queste 7 presentavano BMI superiore a 40 Kg/m2. Nel gruppo robotico invece, 27 pazienti presentavano BMI maggiore di 30 kg/m2 e di queste 8 maggiore di 40 Kg/m2.

L’età media ed il BMI, sono risultati essere simili nei due gruppi. Allo stesso modo, nessuna differenza significativa è stata riscontrata in merito allo stadio ed al grading, anche se le pazienti del gruppo di controllo avevano caratteristiche prognostiche peggiori infatti 16 (26.6%) pazienti nel gruppo laparotomico presentavano spazi linfonodali positivi a differenza del gruppo robotico, dove le pazienti con spazi linfonodali positivi erano solo 5 (6.6%).

Venti pazienti sottoposte a chirurgia laparotomica e 25 pazienti sottoposte a chirurgia robotica, presentavano pregressa chirurgia addominale.

Tutte le pazienti, sono state sottoposte ad isterectomia radicale tipo A1 sec Querleu-Morrow. In base all’esame istologico estemporaneo, 50 pazienti operate mediante chirurgia laparotomica (83.3%), sono state sottoposte a linfoadenectomia pelvica sistematica.

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Di queste, 6 hanno subito anche linfoadenectomia lomboaortica, in seguito ad un riscontro di positività dei linfonodi pelvici all’esame istologico estemporaneo o per segnalazione di linfonodi bulky paraaortici alla TC.

Al contrario, nel gruppo ‘robotico’, in 55 casi (73%) è stata effettuata linfoadenectomia pelvica, mentre in nessun caso si è ricorso a linfoadenectomia lomboaortica.

In 3 casi di chirurgia laparotomica, è stato eseguito anche un intervento di riduzione di laparocele ed in un caso di colecistectomia.

Nessun caso di isterectomia radicale robotica con linfadenectomia pelvica è stato convertito in laparotomia.

La perdita ematica media, è stata di 380 ml (con un range compreso tra 30 e 1200 ml) nel gruppo laparotomico, e 55 ml (tra 20 e 900 ml) nel gruppo robotico, risultando quindi significativamente minore nel gruppo robotico (p<.0002).

In 9 casi nel gruppo sottoposto a laparotomia (15.8%) ed in 2 casi in quello sottoposto a chirurgia robotica, si è dovuti ricorrere ad emotrasfusione.

La media dei tempi operatori, per il gruppo robotico è risultata pari a 155 min (range compreso tra 90 e 470 min), con un ‘console time’ di 115 min (range da 90 a 400 min).

(40)

Da notare che sia il tempo medio di allestimento del robot (7 min con un range di 3-25 min) che quello operatorio, sono andati progressivamente decrescendo all’aumentare del numero di procedure (figura 2).

FIGURA 2: Learning curve

Al contrario, i tempi operatori nel gruppo di controllo ‘laparotomico’, risultavano significativamente più lunghi (p<.001) con una mediana di 210 minuti (range tra 85 e 480 min).

(41)

Per quanto riguarda invece il numero di linfonodi asportati, risultava sostanzialmente sovrapponibile tra i due gruppi, con una mediana di 25.5 (range 18-46) nel gruppo laparotomico e di 20 (range 11-40) (p<.07). Solo 4 pazienti, sia nel gruppo robotico che in quello laparotomico, presentavano linfonodi pelvici positivi all’esame istologico definitivo.

La degenza mediana post-operatoria, risultava di 6 giorni (con un range compreso tra 3 e 15 giorni) nel gruppo laparotomico contro i 3 giorni (range 2-13 giorni) del gruppo robotico, con una durata significativamente inferiore in quest’ultimo (p<.00009).

‘Outcome’ chirurgici, quali perdite ematiche, tempi operatori, giorni di degenza e linfonodi asportati, sono stati presi in considerazione anche ogni dieci interventi effettuati dallo stesso operatore (Figura 2).

Analizzando i risultati sotto questo profilo, possiamo vedere come dopo venti casi si verificava una notevole riduzione dei tempi operatori e delle perdite ematiche associato un aumento del numero di linfonodi asportati.

Le complicanze intraoperatorie si sono verificate nel 6.7% degli interventi di chirurgia robotica. Nel dettaglio, si è trattato di una lesione ureterale e di tre episodi di lesioni a carico della vena iliaca esterna, risoltesi intraoperatoriamente. Per quanto riguarda invece il gruppo sottoposto a laparotomia, l’8.3% delle pazienti è andata incontro a complicanze, consistenti in quattro lesioni vascolari intraoperatorie.

(42)

Riguardo alle complicanze postoperatorie, queste si sono verificate nel 25% (corrispondente a 15 casi) del gruppo laparotomico, in termini di nove deiscenze di sutura, tre deiscenze di cupola, una fistola ureterale, una ipoestesia gambe bilaterale, un linfedema asintomatico ed uno scompenso cardiaco acuto che ha richiesto trasferimento in UTIC. Nel gruppo robotico invece, le complicanze postoperatorie, hanno interessato il 16 % dei casi (12 pazienti). Si è trattato di sei deiscenze di cupola, due linfoceli (dei quali uno sintomatico che è stato drenato sotto guida ecografica), tre casi di neuropatia periferica femorale da posizione ed un’ernia di Richter. La chirurgia robotica si è confermata più vantaggiosa, anche quando i dati sono stati analizzati considerando le pazienti con BMI superiore a 30 Kg/m2 (tabella 5).

(43)

È stata infatti riscontrata una riduzione della durata della degenza (passando dai sei giorni del gruppo laparotomico a due giorni (p<.00005)) e dei tempi operatori (da 225 a 172.5 minuti p< .002), della entità delle perdite ematiche (da 450 ml a 50 ml p<.00002) pur mantenendo inalterata la qualità della radicalità chirurgica (con una media di linfonodi asportati pari a 25 del gruppo laparotomico contro 22.5 di quello robotico; p<.15). Se valutiamo le complicanze intraoperatorie, venivano riscontrate nel 10.3% dei casi del gruppo laparotomico contro il 4.3% di quello robotico, mentre per quanto riguarda le complicanze postoperatorie, si passava dal 24.5% delle pazienti operate ‘tradizionalmente’ al 16.6% di quelle trattate con l’ausilio del robot (Tabella 5), con una netta prevalenza per queste ultime (71% dei casi), di deiscenze ed infezione della sutura chirurgica.

Si è rivelato invece sovrapponibile, il numero delle pazienti che hanno ricevuto un trattamento adiuvante, con 18 pazienti (37.5%) appartenenti al gruppo laparotomico e 19 pazienti (32.7%) a quello robotico.

La durata media del follow-up, è stata di 40.6 mesi (con un range di 4-60 mesi) per le pazienti che avevano subito un intervento di laparotomia contro i 30 mesi (dai 3 ai 42 mesi) di quelle del gruppo robotico, giustificato dal fatto che i primi interventi di chirurgia robotica nella nostra unità operativa, sono stati effettuati nei primi mesi del 2009.

(44)

Complessivamente 7 (5,1 %) pazienti sono andate incontro a recidiva (4 nel braccio robotico e 3 nel braccio laparotomico) le cui caratteristiche clinico patologiche sono riportate in tabella 6.

Tutte le pazienti del braccio robotico avevano sviluppato una recidiva a distanza dopo un tempo mediano di 12, 18, 20 e 52. Mentre per quanto riguarda la pazienti del braccio laparotomico, la recidiva era stata a distanza tranne una che invece aveva sviluppato recidiva su cupola vaginale dopo 7 mesi che era stata recuperata con trattamento di salvataggio (RT esterna più brachiterapia).

Nessuna differenza significativa per quanto riguarda la sopravvivenza è stata osservata tra i due gruppi di pazienti, infatti la percentuale di sopravvivenza stimata a 3 anni era del 97% per il braccio robotico e dell’93% per il gruppo laparotomico (p=.501).

(45)

DISCUSSIONE

La chirurgia robot-assistita rappresenta l'ultima innovazione nel campo della chirurgia mini-invasiva. In ginecologia, questa tecnologia ha trovato diverse applicazioni, nei settori delle patologie ginecologiche benigne, della medicina riproduttiva, dell'uroginecologia, e dell'oncologia.

I sostenitori della chirurgia ginecologica robot-assistita ritengono che la strumentazione Endo-Wrist, il posizionamento ergonomico, e il sistema di visione ad alta definizione tridimensionale siano dei significativi miglioramenti rispetto allo strumentario della chirurgia laparoscopica, con quattro gradi di libertà e un laparoscopio bi-dimensionale, che richiedono al chirurgo operatore di fermarsi in ogni parte di una procedura. I costi, la mancanza di feedback tattile sono i limiti di tale chirurgia.

Gli studi pubblicati in Letteratura riportano outcome chirurgici migliori rispetto alla chirurgia laparotomica.

I nostri dati risultano essere in linea con la Letteratura evidenziando come la chirurgia robotica nel trattamento del carcinoma endometriale early stage presenti migliori out come rispetto alla chirurgia laparotomica in termini di minor perdite ematiche, minor ospedalizzazione a parità di radicalità chirurgica.

Per quanto riguarda i tempi operatori i nostri dati presentano una significativa riduzione dei tempi robotici rispetto ai laparotomici.

(46)

Questi dati si discostano dai dati riportati in Letteratura (tabella 1, tabella 2); in effetti molti pazienti sottoposti a chirurgia tradizionale venivano sottoposti anche a linfoadenectomia aortica e inoltre presentavano un BMI maggiore rispetto alla pazienti sottoposte a chirurgia robotica.

Anche nella nostra esperienza i tempi operatori sia di docking sono andatia diminuire con l’aumentare delle procedure, cosi come il numero di linfonodi sono aumentati con l’aumentare delle procedure robotiche effettuate fino a raggiungere un plateau dopo solo 20 procedure.

Da questo emerge come sia breve la learning curve in chirurgia robotica rispetto alla laparoscopia infatti i dati in Letteratura mostrano che sono necessarie 20-24 procedure per abbattere i tempio operatori ed acquisire la proficienza (79) mentre in laparoscopia occorrono più di 100-125 procedure per ottenere una diminuzione dei tempi operatori con incremento della radicalità (80).

Questo ha determinato la più facile diffusione della chirurgia robotica rispetto alla laparoscopica basti pensare che in USA solo 8% dei ginecologi oncologi chirurghi utilizzano routinariamente la laparoscopia nello staging del carcinoma endometriale.

Nel nostra Unità Operativa invece negli ultimi anni tutti gli interventi per carcinoma endometriale early stage vengono indirizzati verso un approccio robotico a meno che non vi siano controindicazioni anestesiologiche importanti o che vi siano documentati segni preoperatori di malattia linfonodale o addominale.

(47)

A differenza di quanto descritto dal LAP2 per la chirurgia laparoscopica che riportava una percentuale di conversione del 25,8% (44), nella nostra casistica non abbiamo avuto se non un caso di mini Pfannenstiel effettuata per asportazione del pezzo per eccessivo volume uterino. I dati presenti in Letteratura nei riguardi della chirurgia robotica presentano una percentuale di conversione che varia dal 2,9% (48) al 5,3% (50) al 3,8% (51). In particolare De Nardis (50) evidenzia come la conversione 3 casi su 56 sia stata dovuta al l’incapacità di controllare il sanguinamento durante la linfoadenectomia pelvica. Un altro vantaggio della chirurgia robotica è la gestione delle complicanze; in effetti l’alta percentuale di conversione in laparoscopia è legata a lesioni accidentali dei vasi durante la linfoadenectomia. Nella nostra casistica si sono verificati tre casi di lesioni alla vena iliaca esterna che sono stati risolti intraoperatoriamente senza conversione grazie all’ausilio di Bulldog endoscopici o di utilizzo del quarto braccio robotico come clamp durante la sutura. Solo in un caso le perdite totali ematiche sono state di 800 cc e d è stata necessaria trasfusione. Ovviamente la chirurgia robotica in questi casi presenta notevoli vantaggi per una facilità nel effettuare sutura dei vasi che risulta essere estremamente difficile in laparoscopia. Dall’altra parte però pensiamo che in un caso la lesione della vena sia stata provocata da una eccesiva tensione applicata dagli strumenti robotici durante le manovre di dissezione dovuta alla mancanza di feedback tattile. Abbiamo riportato un caso di danno ureterale nel braccio robotico 0,17% che è stato riconosciuto intraoperatoriamente e riparato mediante anastomosi ureterale termino-terminale previa apposizione di stent JJ.

(48)

È importante sottolineare come questa complicanza si sia verificata nelle prime procedure robotiche effettuate dall’operatore.

Nel gruppo laparotomico sono state riportate 4 lesioni vascolari intraoperatorie con 3 trasfusione intraoperatorie.

Il nostro tasso di complicanze intraoperatorie robotiche corrisponde a quello riportato in letteratura che varia dal 0,7% al 6,2% e in nessun caso si è ricorsi a conversione laparotomica. Il LAP2 invece riporta una percentuale di complicanze intraoperatorie del 8% per il braccio laparoscopico e del 10% laparotomico non statisticamente significativa (p=0.061), sottolineando invece una maggiore percentuale di lesioni vascolari nel braccio robotico rispetto a quello laparotomico (1,8% vs 0,8%). I nostri dati presentano percentuale di complicanze intraoperatorie sovrapponibili di 6,7% nel braccio robotico e di 8,3% in quello laparotomico dovute essenzialmente in entrambi i gruppi a lesioni vascolari venose.

Le complicanze postoperatorie sono state di 16,5 % per il braccio robotico e di 23 % in

quello laparotomico. I dati in Letteratura riportano una percentuale di complicanze

postoperatorie che varia dal 7,5% al 16,1% per interventi robotici contro i 27,5% -36%

per la laparotomia mentre se analizziamo i dati del LAP2 viene riportata una

percentuale del 21% nel braccio laparotomico versus 14% in quello laparoscopico (44).

Da notare come la maggior parte delle complicanze sia siano verificate per entrambi i

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