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Caratteristiche psicopatologiche dei disturbi da stress lavoro correlato: studio su un campione di pazienti del Centro per lo Studio del Disadattamento Lavorativo dell' AOUP

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(1)

U

NIVERSITÀ DI

P

ISA

Facoltà di Medicina e Chirurgia

Corso di Laurea Specialistica in Medicina e

Chirurgia

“Caratteristiche psicopatologiche dei

disturbi da stress lavoro correlato:

studio su un campione di pazienti del Centro per lo

studio dei disturbi da disadattamento lavorativo

dell’Ambulatorio di Medicina del Lavoro dell’Azienda

Ospedaliero-Universitaria Pisana”

RELATORE

Dott. Alfonso Cristaudo

CANDIDATO

Riccardo Marino

(2)

Indice

1

.Introduzione

... 1 2.

Malattie psichiche e psicosomatiche da

disfunzioni dell’organizzazione del lavoro

……….…... 5 2.1 Disturbo Post-traumatico da Stress……….……….……… 5

Meccanismi patogenetici Fattori di rischio

Diagnosi

2.2 Disturbo dell’Adattamento (DDA)……….………..… 10

Fattori di rischio Diagnosi

Classificazione dei DDA Criticità della diagnosi di DDA Stress ed episodi depressivi

3. Disturbi del sonno

……… 16

3.1 Insonnia

3.2 Disturbi di origine respiratoria 3.3 Ipersonnie centrali

3.4 Disturbi del ritmo circadiano 3.5 Disturbi di origine motoria

3.6 Effetti della deprivazione di sonno

4. Sonno e lavoro

………...………… 23

Interazioni Insonnia e lavoro

Ritmi circadiani e lavoro Sonno e stress occupazionale Ruolo del medico competente

5. Disturbi dell’umore

………..………..…… 28

Definizione

Spettro dell’umore Fattori di rischio

(3)

Eziopatogenesi

Depressione, cortisolo e stress Inquadramento Clinico

Diagnosi

6.

Popolazione, Materiali e Metodi………..……….. 37 6.1 La popolazione dello studio………... 37

Cenni generali Genere Età Regione di provenienza Scolarità Settore lavorativo Professione

Tipo di azienda di provenienza

Dimensioni dell’azienda o dell’ente pubblico di provenienza Tipo di contratto di lavoro

Durata dell’esposizione all’agente stressante Diagnosi

6.2 Questionari………..…….. 46 6.2.1 Studio del Sonno……….….……. 46

Pittsburgh Sleep Quality Index (PSQI) Epworth Sleepiness Scale (ESS) Fatigue Severity Scale (FSS)

Morningness-Eveningness Questionnaire, versione ridotta (rMEQ)

6.2.2 Caratteristiche psicopatologiche……….…..… 54

Mood Spectrum-Self Report,versione lifetime (MOODS-SR)

Obsessive-Compulsive Spectrum-Self Report versione lifetime (OBS-SR) Panic Agoraphobic Spectrum-Self report versione lifetime (PAS-SR) Structured Clinical Interview for Psychotic Spectrum, versione lifetime (SCI-PSY)

6.2.3 Misurazione dello Stress………...…………. 58

(4)

6.3 Analisi statistiche………...…… 59

7. Risultati

……….……….………60

7.1 Disturbi del sonno……….……….60

7.2 Misurazione dello Stress……….…. 62

7.3 Caratteristiche psicopatologiche……….. 63

8. Discussione

……….……….. 67

9. Conclusioni

………... 72

10. Bibliografia

……….. 73

(5)

1

1. Introduzione

Lo stress lavoro correlato è considerato dall’osservatorio epidemiologico dell’Agenzia Europea per la Sicurezza e la Salute sul Lavoro (EU-OSHA) un rischio emergente. In Medicina del Lavoro è considerato emergente un rischio quando è nuovo o quando è in aumento: lo stress lavoro-correlato non è nuovo, ma sta aumentando di importanza.

Da una recente indagine, lo stress sembra essere il secondo problema di salute collegato al mondo del lavoro dopo le patologie muscolo-scheletriche. L’EU-OSHA stima che, a causa di assenze sul posto di lavoro e riduzione della produttività, lo stress abbia un costo pari a 240 miliardi di euro l’anno, una somma superiore al doppio di quanto viene investito dall’UE in cure mediche. Anche i dati provenienti dalle singole nazioni confermano la centralità di questo problema: in Francia nel 2007 questo tipo di stress è costato tra i due e i tre miliardi di euro; in Gran Bretagna i lavoratori sono rimasti a casa per una media di 23 giorni; in Austria, i disordini psicosociali sono causa del 42% delle richieste di pre-pensionamento. Inoltre, le assenze per malattia da stress tendono ad essere più lunghe rispetto ad altre cause.

Uno studio condotto dall’agenzia UE mostra che circa il 51% degli impiegati pensa che lo stress sia un problema diffuso sul proprio posto di lavoro, e quattro lavoratori su dieci pensano che la propria organizzazione non sappia affrontarlo.

Per fare fronte a questo problema, nell’Aprile 2014,la EU-OSHA ha lanciato, grazie ad un finanziamento europeo di quattro milioni di euro, una campagna di sensibilizzazione per dirigenti e capiufficio, la “Healthy Workplace”, con lo scopo di istruirli sulle strategie per prevenire lo stress da lavoro e migliorare quindi la produttività.

In realtà, da un punto di vista legislativo, il rapporto fra stress e lavoro è stato codificato, sia a livello europeo, che italiano, già da diversi anni: l’attuale quadro normativo di tutela della salute e sicurezza sui luoghi di lavoro, il D.Lgs 81/08, introduce la definizione, mutuata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, del concetto di "salute" intesa quale "stato di completo benessere fisico, mentale e sociale,

(6)

2

non consistente solo in un’assenza di malattia o d’infermità" (art. 2, comma 1, lettera

O), garantendo così la tutela dei lavoratori anche nei confronti dei rischi psicosociali. Viene inoltre individuato lo "stress lavoro-correlato", patologia della sfera psichica che rientra a tutti gli effetti fra i rischi che il datore di lavoro, insieme al medico competente e al RSPP e RLS deve tenere in considerazione nella stesura del “Documento della Valutazione dei Rischi” (INAIL, 2014)

Il termine stress venne inizialmente coniato per definire, in fisica dei materiali e nell’ingegneria delle costruzioni, lo stimolo che sottopone un materiale rigido a condizioni di sollecitazione. Nel 1936 il medico austriaco Hans Selye importò questo termine per indicare una “reazione aspecifica dell’organismo a qualsiasi stimolo

interno o esterno di tale intensità e durata da evocare meccanismi di adattamento o di riadattamento atti a ristabilire l’omeostasi”. Da tale definizione si desume che lo stress

è una reazione fisiologica utile, perché adattativa all’ambiente e alla vita; come però è ben noto, tale reazione può però divenire patogena, se l’elemento stressogeno agisce con particolare intensità e per periodi di tempo sufficientemente lunghi.

Quando gli agenti stressogeni originano dall’ambiente lavorativo si parla di stress occupazionale, definito come “l’insieme delle risposte psichiche e fisiche di allarme

che occorrono quando le richieste da parte del lavoro non corrispondono alle capacità, alle risorse o alle necessità del lavoratore” (Costa, 2005). Gli stressors, in questo caso,

sono solitamente di natura organizzativa, riguardando sia il “contenuto” (ambiente, compiti, carichi, ritmi…), sia il “contesto” del lavoro (cultura organizzativa, definizione di ruoli, carriera, autonomia, controllo, comunicazione, relazioni…).

Le modalità con cui il soggetto reagisce allo stressor riguarda il processo di coping, ovvero l’insieme di attitudini cognitive e comportamentali che l’individuo attua per fronteggiare le avversità della vita nel modo più efficace, e per gestire le richieste interne o esterne.

Ogni individuo adotta un diverso stile di coping, e questo spiega come lo stesso stimolo stressogeno può avere ripercussioni differenti sui diversi individui, e come in alcuni casi possa portare ad un quadro patologico.

(7)

3 Il concetto di stress lavoro-correlato si ritrova nei contenuti dell’accordo quadro

europeo del 2004, recepito in Italia con l’accordo interconfederale del 09/06/2008 ed inserito nel D. Lgs 81/08 e s.m.i , laddove si definisce lo stress come “uno stato che si

accompagna a malessere e disfunzioni fisiche, psicologiche o sociali e che consegue dal fatto che le persone non si sentono in grado di superare i gap rispetto alle richieste o alle attese nei loro confronti.”. Si parlerà di stress lavoro correlato quando tali richieste

ed aspettative sono riferite all’ambito lavorativo.

Da un punto di vista assistenziale, l’INAIL, l’Istituto nazionale per l'assicurazione

contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali , non indennizza lo stress in sé, ma le ripercussioni sulla salute legate all’esposizione cronica. Si parlerà quindi di malattia professionale da stress.

Questa ha origine multifattoriale e necessita di concreta e specifica dimostrazione, quanto meno in via probabilistica, circa la sussistenza della sua connessione causale con il lavoro.

All’interno del recente elenco delle malattie professionali con obbligo di denuncia, in particolare all’interno della Lista II, in cui sono presenti patologie la cui origine lavorativa è di limitata probabilità, troviamo il gruppo 7, ovvero il gruppo delle “Malattie psichiche e psicosomatiche da disfunzioni dell’organizzazione del lavoro”, che comprende il “Disturbo Post-Traumatico da Stress” (DSPT) e il “Disturbo dell’adattamento” (DDA).

Le patologie professionali da stress lavoro correlato presentano difficoltà diagnostiche in ordine sia al nesso di causa, sia alla diagnosi clinica, sia all’idoneità della causa. Questo fatto è evidenziato anche dalla ridotta percentuale, intorno al 13%, di malattie riconosciute rispetto a quelle denunciate, contrariamente alle altre malattie professionali, in cui questa percentuale risulta essere circa del 40% .

Il seguente lavoro si prefigge quindi di indagare le caratteristiche psicopatologiche delle malattie stress-lavoro correlate, analizzando i dati relativi ai pazienti pervenuti al Centro per lo Studio del Disadattamento Lavorativo dell’ U.O. Complessa di Medicina

(8)

4 Preventiva del Lavoro dell’Azienda Ospedaliero-Universitaria Pisana nel periodo Aprile 2013 - Aprile 2014.

(9)

5

2. Malattie

psichiche

e

psicosomatiche

da

disfunzioni

dell’organizzazione del lavoro

2.1 Disturbo Post-traumatico da Stress

Il Disturbo Post-traumatico da Stress (DPTS) compare in seguito all’esposizione a un fattore traumatico estremo (morte, lesioni, grave pericolo) cui la persona ha risposto in modo particolarmente intenso (paura, orrore) e in cui ha percepito la propria impotenza di fronte all’evento. Gli eventi e le situazioni traumatiche in causa possono riguardare il singolo individuo (stupri, omicidi, rapine, violenza fisica, gravi incidenti automobilistici, abuso sessuale infantile), un gruppo o una comunità (alluvioni, terremoti, eruzioni vulcaniche, situazioni di guerra, disastri aerei o navali, persecuzioni di massa, prigionia in campi di concentramento, incendi di edifici).

Da un punto di vista clinico, gli elementi che caratterizzano questo quadro sono:

 La persistente rievocazione dell’evento traumatico, sotto forma di pensieri intrusivi, sogni, flashback, allucinazioni.

 L’evitamento di situazioni riconducibili anche indirettamente ad esso.

 Alterazioni negative di cognitività e umore, con perdita di interessi e distaccamento emotivo da amici e familiari.

Aumento dell’arousal, caratterizzato da irritabilità, ipereccitabilità e difficoltà ad addormentarsi o mantenere il sonno.

I sintomi compaiono tipicamente tre mesi dopo l’evento acuto, ma sono descritti diversi casi in cui la diagnosi viene posta dopo sei mesi, situazione che viene definita dal DSM-V “ad espressione ritardata” (American Psychiatric Association, 2013).

La prevalenza del disturbo varia in modo molto considerevole a seconda delle popolazioni considerate. Nella popolazione generale in condizioni ordinarie essa varia dallo 0,5-1%, con una prevalenza nel corso della vita fino al 10% in popolazioni urbane statunitensi, in maggior parte dovuto a fatti criminali e a incidenti.

In determinate popolazioni la prevalenza raggiunge valori oltre il 50%, e in taluni casi fino al 60-70% dopo esposizione a disastri naturali, civili, guerra, terrorismo. È

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6 importante sottolineare che una maggiore gravità oggettiva dell’esperienza stressante è associata ad un maggior rischio di questa patologia.

Meccanismi patogenetici

I sistemi principalmente coinvolti sono quello noradrenergico (NA) e adrenergico (A), quello dopaminergico, degli oppioidi, e glutammatergico.

Per quanto concerne i circuiti neurali implicati, l’attenzione si è concentrata su l’amigdala e l’ippocampo.

Infatti alcuni studi di neuroimaging hanno evidenziato riduzioni di volume dell’ippocampo che potrebbero essere l’espressione di un’involuzione neuronale di tipo distrofico, secondarie alla protratta azione dei glucocorticoidi, prodotti dall’esposizione cronica a stressors.

Per quanto riguarda la funzionalità dell’asse ipotalamo-ipofiso-corticosurrenale (HPA) si rilevano bassi livelli di cortisolo (misurati mediante escrezione urinaria delle 24 ore), e una ipersoppressione della cortisolemia in risposta al test di soppressione con desametasone. Dato che l’ipersoppressione al desametasone non è stata descritta per nessun altro disturbo psichiatrico, è stato suggerito che essa possa essere un marcatore psiconeuroendocrino del DPTS. Inoltre è stato ipotizzato che, in risposta all’esposizione a traumi e stress estremi, si verifichi un’iperfunzione dell’asse ipotalamo-ipofisi-tiroide, che potrebbe essere un precursore di tireotossicosi.

Fattori di rischio

I fattori di rischio per lo sviluppo sono molteplici e di diversa natura: familiari (anamnesi familiare psichiatrica positiva), individuali (sesso femminile, traumi infantili, disfunzione psicologia generale, abuso di sostanze), sociali (appartenenza a gruppi svantaggiati, scadente supporto relazionale, basso livello culturale), neurobiologici (tratti genetici, costituzione acquisita, stato funzionale al momento dell’esposizione). Inoltre dato che la comparsa del disturbo non è obbligatoria, bisognerà tenere conto

(11)

7 anche di fattori, come le strategie di coping adottate dall’individuo per fronteggiare lo stress e il supporto sociale che riceve in seguito all’evento.

Diagnosi

I criteri proposti dal DSM-V per porre diagnosi di DPST sono i seguenti:

 A - Esperienza o minaccia di morte, ferite gravi o violenza sessuale in una delle seguenti modalità:

o Esperienza diretta dell’evento traumatico. o Essere testimone dell’evento capitato ad altri.

o Apprendere che l’evento traumatico è occorso ad un membro della famiglia o ad una persona vicina. In questo caso l’evento deve essere violento od accidentale..

o Ripetuta o estrema esposizione a dettagli dell’evento traumatico.

 B - Questo criterio non si applica se l’esposizione avviene tramite immagini video o fotografie, tranne nel caso in cui questa non sia legata al proprio lavoro.

 C - Presenza di uno o più dei seguenti sintomi intrusivi legati all’evento, in seguito al trauma:

o Comparsa ricorrente, involontaria ed intrusiva di ricordi spiacevoli legati al trauma.

o Comparsa di sogni ricorrenti riguardo i cui contenuti e temi sono legati al trauma.

o Fenomeni dissociativi (es. flashbacks) nei quali il soggetto si sente e si comporta come se l’evento si stesse ripresentando. (Questa

manifestazione può presentarsi in un continuum, la massima espressione è perdita di contatto con la realtà circostante)

o Stress intenso e prolungato legato all’esposizione ad elementi che ricordano l’evento traumatico.

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8 o Intense reazioni fisiologiche legate all’esposizione ad elementi che

ricordano l’evento traumatico.

 D - Evitamento delle situazioni che ricordano la situazione in cui è avvenuto il trauma, che compare solo dopo l’avvenuto trauma, e che si presenta come uno dei seguenti comportamenti :

o Evitamento o tentativi di evitare ricordi, pensieri o sentimenti spiacevoli riguardanti o associate all’evento traumatico.

o Evitamento o tentativo di evitare stimoli esterni (persone, luoghi, situazioni, conversazioni, oggetti) che richiamano ricordi, pensieri o sentimenti spiacevoli riguardanti o associate all’evento traumatico.

 E - Comparsa di alterazioni negative dell’umore e del comparto cognitivo

associate all’evento traumatico che compaiono o peggiorano in seguito a questo, che si presentano come due o più delle seguenti manifestazioni:

o Incapacità di ricordare aspetti importanti dell’evento traumatico

(tipicamente legato ad un amnesia dissociative, e non a trauma cranici o abuso di alcool o sostanze).

o Convinzioni ed aspettative negative esagerate e persistenti riguardo se stessi, gli altri e il mondo.

o Convinzioni persistenti e distorte riguardo le cause o gli effetti

dell’evento traumatico, che portano l’individuo a biasimare se stesso o gli altri.

o Stato emotivo costantemente negativo (es. paura, orrore, rabbia, senso di colpa o vergogna.).

o Ridotto interesse e partecipazione ad attività importanti.

o Sentimento di distacco od estraniazione nei confronti degli altri. o Incapacità persistente di provare sentimenti postivi (es. Felicità,

soddisfazione, amore).

 F - Alterazioni marcate della reattività e dell’arousal, che compaiono o

peggiorano in seguito all’evento traumatico, e che si presentano come due o più delle seguenti manifestazioni:

(13)

9 o Irritabilità e scoppi di rabbia (senza o dopo leggera provocazione )

tipicamente espressa come aggressione fisica o verbale nei confronti di persone o cose.

o Comportamenti spericolati o auto-distruttivi. o Ipervigilanza.

o Sussulti eccessivi.

o Problemi di concentrazione.

o Disturbi del sonno (difficoltà ad iniziare o mantenere il sonno, sonno non ristoratore.

 G - I disturbi (Criteri B, C, D, ed E) devono presentarsi per più di un mese.

 H - I disturbi devono causare una compromissione della salute, della vita sociale, lavorativa o di altre aree importanti di funzionamento del soggetto.

 I - I disturbi non sono imputabili agli effetti di sostanze (alcool, farmaci, droghe) o ad altre patologie mediche.

Specificare se sono presenti:

Sintomi dissociativi:

 Depersonalizzazione: Ricorrente o persistente sensazione di essere distaccati dalla realtà, come se si stesse osservando da fuori il proprio corpo o un proprio processo mentale.

 Derealizzazione: Ricorrente o persistente sensazione che il mondo circostante non sia reale.

Tali sintomi non devono essere effetti fisiologici di una sostanza (comparire ad esempio durante intossicazione da alcool ) o di altre patologie mediche.

Specificare se:

Espressione ritardata: i criteri non sono pienamente soddisfatti prima di 6 mesi dall’evento traumatico (nonostante la comparsa di alcuni sintomi possa essere immediata).

Il quadro clinico può variare nel tempo con sintomi intrusivi, che in genere

(14)

10 Il decorso del DPTS è variabile: in contesti ordinari circa 1 caso su 10 può diventare cronico, mentre nelle coorti di reduci si giunge fino al 50% di mancate remissioni cliniche. In genere le remissioni spontanee avvengono entro un anno dall’esposizione, mentre i sintomi che persistono sino a 5 anni possono essere considerati irreversibili. Le complicanze più comuni sono rappresentate dall’alta frequenza di comorbilità: in oltre la metà dei casi con DPTS è possibile formulare delle diagnosi aggiuntive secondo i criteri del DSM.

La prognosi può variare a seconda di alcuni fattori, tra cui principalmente le caratteristiche e l’impatto dell’evento, il vissuto del soggetto, la fase del ciclo di vita in cui è colpito, il tempo di insorgenza dei sintomi, l’instaurarsi di un trattamento, oltre al supporto sociale.

2.2 Disturbo dell’Adattamento (DDA)

Il DDA è un disturbo nella maggior parte dei casi transitorio che compare in seguito ad uno o più eventi o situazioni di stress psicosociali oggettivamente identificabili. È caratterizzato da intensa sofferenza soggettiva, identificabile come sintomi depressivi, d’ansia, disturbi del sonno, della condotta, sintomi somatici, e compromissione della funzionalità lavorativa, relazionale e sociale (American Psychiatric Association, 2013).

Quando questi sintomi hanno una severità tale da necessitare attenzione medica ed un eventuale trattamento, viene superata la linea che separa il DDA dalle normali risposte adattative agli stressor (Casey, 2001).

(15)

11 L’esperienza clinica suggerisce che fattori favorenti un maggior rischio di sviluppo di DDA sono costituiti da eventi o cambiamenti con elevato valore soggettivo (simbolico), da ridotte o compromesse capacità di gestione dell’evento o crisi, da ridotto senso di controllo sulla situazione, percezione di perdita, altri eventi stressanti negativi pregressi o concomitanti. Inoltre diversi autori suggeriscono la presenza di una vulnerabilità individuale, legata non solo a fattori individuali, come l’età, il sesso, lo stato di salute fisica e mentale, ma anche tratti culturali, credo religioso, orientamento politico, livello di istruzione, supporto familiare e sociale, stato economico; l’aspettarsi l’evento traumatico o no (Carta e coll., 2009).

Diagnosi

Secondo il DSM-V, per poter porre la diagnosi di DDA devono essere soddisfatti i seguenti criteri:

A. Lo sviluppo di sintomi emotivi o comportamentali in risposta ad uno o più fattori stressanti identificabili che si manifestano entro 3 mesi dall’insorgenza degli stessi.

B. Tali sintomi debbono essere clinicamente significativi (marcato disagio che va al di là di quanto prevedibile in base all’esposizione al fattore; compromissione del funzionamento sociale o lavorativo).

C. L’anomalia legata allo stress non soddisfa i criteri per un altro disturbo specifico e non rappresenta solamente un aggravamento di una preesistente condizione. D. I sintomi non corrispondono ad un lutto.

E. Una volta cessata la persistenza del fattore stressante (o delle sue conseguenze) i sintomi non persistono per oltre 6 mesi.

(16)

12 In realtà, gli studi effettuati documentano che il DDA insorge per lo più entro un mese da un evento stressante acuto, ma non si può escludere che compaia sino ad un anno dopo l’esposizione all’evento indice.

Allo stesso modo, non è sempre facile determinare quando uno stimolo stressogeno scompare o cessa di essere tale, e quindi stabilire il momento da cui misurare il decadimento delle manifestazioni cliniche. D’altronde è fuor di dubbio che l’attribuzione di significato soggettivo agli eventi della vita da parte degli individui si modifica con il tempo. Esistono infatti evidenze di sintomatologia persistente per anni, soprattutto dopo eventi che influenzano estesamente la vita delle persone (come la separazione coniugale o la perdita del lavoro). È prevista in tali casi la possibilità di un prolungamento della diagnosi di DDA oltre i 6 mesi, e si parla di DDA cronico.

I sintomi presentati dopo i 6 mesi non devono però soddisfare i criteri per altri disturbi psicopatologici.

Secondo il DSM-V è possibile formulare una diagnosi aggiuntiva di DDA in persone già affette da altre sindromi psicopatologiche, ma solo a patto che i sintomi di nuova insorgenza non siano giustificabili dal disturbo preesistente: questa valutazione risulta particolarmente delicata nel caso delle diagnosi di personalità in Asse II.

Classificazione dei DDA

I DDA sono contraddistinti sulla base dello stato d’animo o psicopatologico predominante e distinti in 6 sottotipi;

Il DDA con umore depresso è il più frequentemente diagnosticato, e riguarda quei quadri dove predominano umore depresso, pianto, sentimenti di disperazione. Può seguire eventi di vita quali separazione, divorzio, allontanamento da casa, cambiamento nell’attività lavorativa, pensionamento, ma non comprende il lutto. È frequente in pazienti affetti da malattie somatiche, oncologiche, croniche invalidanti, e nelle persone che si prendono cura di essi. Il DDA prevede esclusivamente aspetti psichici reattivi allo stato di malattia fisica.

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13 Il DDA Con Ansia riguarda casi con tensione, preoccupazione, irrequietezza, nervosismo, paura di separazione nei bambini.

Il DDA Con Ansia e Umore Depresso Misti presenta sintomi combinati dei due precedenti. Il DDA Con Alterazione della Condotta riguarda soprattutto adolescenti, dove la reazione dolorosa a cambiamenti o eventi con impatto emozionale può comportare risposte aggressive, provocatorie, assenze da scuola, vandalismi, violazioni della legge o delle regole, alterazioni del comportamento in gruppo e in ambito scolastico.

Il DDA Con Alterazione Mista dell’Emotività e della Condotta presenta sintomi combinati dei precedenti, e anch’esso è più frequente negli adolescenti.

Il DDA Non Specificato è lasciato per altre possibili reazioni.

Questi sottotipi, pur ricordando quadri nosologici come la Depressione Maggiore o il Disturbo d’Ansia, non soddisfano i criteri diagnostici per tali patologie, per quanto riguarda intensità e durata dei sintomi.

Nonostante questo, è importante sottolineare che i DDA, sebbene inquadrati come disturbi più lievi, siano stati tuttavia associati ad un aumento del rischio di suicidio e di tentato suicidio.

Inoltre, se i sintomi si aggravano e la funzionalità è ulteriormente compromessa, si entra in categorie di maggiore gravità psicopatologica. Un DDA Con Umore Depresso può evolvere in una diagnosi di depressione maggiore e un DDA Con Ansia in un disturbo d’ansia generalizzato (American Psychiatric Association, 2013).

Criticità della diagnosi di DDA

Nonostante siano stati codificati dei criteri ben precisi, la diagnosi di DDA comporta comunque delle difficoltà; da un lato abbiamo l’assenza di un Gold Standard, di una scala o un questionario specifico che permette la diagnosi di DDA: Casey sottolinea che all’interno del questionario SCAN, Schedules for Clinical Assessment in Neuropsychiatry (WHO, 1994) la disposizione degli items riguardanti il Disturbo dell’Adattamento alla fine dell’intervista, nella sezione invia il messaggio che quella

(18)

14 sezione non è importante come le altre. Ciò fa si che la diagnosi di DDA negli studi epidemiologici che usano la SCAN venga sottostimata (Casey, 2001).

Dall’altro, rimane aperta la questione se ci si trovi effettivamente in presenza di un’espressione reversibile e nosograficamente autonoma della “patologia da stress” oppure se si tratti soltanto di forme quantitativamente minori ma qualitativamente identiche degli specifici disturbi d’ansia e dell’umore di cui non viene raggiunta la soglia diagnostica (Katzman e Tomori, 2005).

Emblema di queste due criticità è lo Studio ODIN, che si prefigge di studiare la prevalenza di DDA nelle comunità rurali e urbane in cinque paesi europei, e di identificare delle variabili che possano permettere una diagnosi differenziale con la patologia depressiva.

Questo studio, condotto su un campione di 14387 individui, con età compresa fra i 18 e 64 anni, si compone di due fasi, una prima intervista tramite il questionario BDI (Beck Depression Inventory) inviato tramite posta; nella seconda fase, i soggetti che avevano totalizzato un punteggio maggiore o uguale al cut-off 13 venivano ulteriormente indagati tramite l’intervista SCAN, con il fine di porre una diagnosi o di un disturbo dello spettro depressivo, o di Disturbo dell’Adattamento. I risultati dimostrano una bassa prevalenza del DDA, 0,3% , in confronto ai disturbi depressivi, 6,6% nella popolazione di studio; il che può però essere legato, come sostenuto precedentemente, ad un bias legato alla SCAN. Inoltre, non è stato possibile identificare nessuna variabile che permettesse di distinguere i due gruppi (Casey e coll., 2006).

Stress ed episodi depressivi

Diverse esperienze dimostrano come esista una relazione significativa fra l’insorgenza della patologia depressiva ed eventi stressanti recenti. Il gruppo di ricerca di Kendler ha studiato su un campione di 7517 individui tratto dalla popolazione generale il rapporto tra rischio di esordio di depressione maggiore, eventi stressanti e neuroticismo (quindi una caratteristica temperamentale biologicamente determinata) (Kendler e coll., 2004). E’ stata così dimostrata una sinergia tra gravità dell’evento stressante e gravità del neuroticismo. In particolare, in soggetti con neuroticismo molto basso, un evento

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15 stressante grave aumenta il rischio di esordio di depressione maggiore di circa 5 volte, in quelli con neuroticismo molto alto lo aumenta di 30 volte.

Il rapporto tra eventi stressanti ed esordio degli episodi depressivi diventa ancora più complesso quando si considerano gli episodi ricorrenti. A questo proposito è molto interessante l’ipotesi del kindling (letteralmente “accensione”).

Kraepelin (psichiatra tedesco che ha contribuito ad una svolta epocale nella classificazione dei disturbi mentali tra la fine del ’800 e gli inizi del ‘900) aveva notato che gli episodi affettivi sono spesso inizialmente precipitati da stressors psicosociali ma che dopo un sufficiente numero di ricorrenze iniziano a emergere autonomamente e indipendentemente.

Questa teoria è stata riconfermata più recentemente da Kendler, il quale afferma che la forza della relazione tra eventi vitali stressanti e depressione maggiore si riduce con l’aumentare del numero di episodi depressivi (Kendler e coll., 2000).

Infine Keller sottolinea come alla base del fenomeno del Kindling vi sia un processo di “sensitization” cioè di sensibilizzazione del cervello con riduzione progressiva della soglia per la comparsa di un episodio depressivo. Ogni episodio depressivo in più contribuisce all’abbassamento della soglia. Con un solo episodio il rischio è del 50%, con 2 del 70%, con 3 del 90% (Keller, 2003) .

In conclusione Kendler sostiene che gli eventi vitali stressanti sono da considerarsi associati ma non necessari per l’esordio di un episodio depressivo.

Per una più approfondita trattazione dei Disturbi dell’Umore e in particolare dello spettro depressivo, si rimanda al relativo capitolo.

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16

3. Disturbi del sonno

La seconda versione della International Classification of Sleep Disorders (American Academy of Sleep Medicine, 2005) identifica 81 disturbi del sonno maggiori, raggruppandoli in 8 categorie principali: insonnia, disturbi respiratori del sonno, ipersonnie di origine centrale, disturbi del ritmo circadiano, parasonnie, disturbi del movimento correlati al sonno, sintomi isolati e altri disturbi del sonno. Quelle che di seguito verranno prese in esame sono le categorie più significative nell’ambito della medicina del lavoro.

3.1 Insonnia

E’ probabilmente il più noto e più diffuso disturbo del sonno. Viene definita, anche nel linguaggio comune, come difficoltà ad addormentarsi o a mantenere un sonno adeguato. L’ICSD-2 ha definito dei criteri ben precisi per poter porre la diagnosi :

 difficoltà nell’iniziare e mantenere il sonno,

 risveglio precoce

 sensazione che il sonno non sia stato ristoratore

 il verificarsi di tali circostanze nonostante le condizioni ambientali siano adeguate a favorire un corretto riposo.

 una o più difficoltà nello svolgere attività giornaliere imputate alla difficoltà nel dormire.

Quest’ultimo criterio rispecchia l’impatto del problema sulla situazione lavorativa, non solo sotto forma di una riduzione del rendimento sul luogo di lavoro, ma anche come un aumento del rischio di incidenti e infortuni.

Il più recente manuale diagnostico-statistico DSM V aggiunge ai criteri ICSD anche l’assenza di abuso di sostanze o farmaci, l’assenza di patologia psichiatrica o medica tale da giustificare l’insonnia, e definisce un intervallo di tempo: il disturbo deve infatti presentarsi almeno tre giorni alla settimana per almeno tre mesi.

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17 L’insonnia viene classificata in base alla natura dell’alterazione del sonno, alla durata del disturbo e alla presenza o meno di disturbi scatenanti (insonnia primaria o secondaria).

In base alla natura del disturbo viene suddivisa in: difficoltà ad addormentarsi (insonnia durante l’insorgenza del sonno); frequente o duraturo stato di veglia (insonnia

mantenuta durante il sonno); risveglio precoce al mattino (insonnia da interruzione del sonno); persistente sonnolenza nonostante una durata adeguata del sonno (sonno non ristorativo).

Dal punto di vista della durata, l’insonnia che dura da una a più notti per un periodo limitato di tempo è definita insonnia transitoria e rappresenta una tipica conseguenza di uno stress situazionale, di una variazione dei ritmi di lavoro o di un cambiamento ambientale come la variazione del fuso orario (si veda oltre). L’insonnia di breve durata o transitoria persiste da pochi giorni a tre settimane; una durata maggiore di solito è legata a situazioni di stress protratto, come nella convalescenza da un intervento chirurgico o da una malattia acuta di breve durata. L’insonnia a lungo termine, o insonnia cronica, dura mesi o anni e, diversamente dall’ insonnia a breve termine, richiede un’accurata valutazione delle cause di base. L’insonnia cronica, inoltre, può avere natura recidivante, con esacerbazioni spontanee o indotte da stress. L’insonnia viene anche distinta, su base eziologica, in primaria, ovvero senza una causa identificabile, e secondaria, con una forma transitoria, dipendere da una particolare situazione vissuta dal paziente, o cronica come nel caso di disturbi cronici organici o psichici, di assunzione di sostanze. La forma primaria è una diagnosi di esclusione ed è tipica di molti pazienti affetti da insonnia cronica sviluppatasi nel corso degli anni, e le sue caratteristiche di collocazione temporale o manifestazione clinica può variare nel corso del tempo.

3.2 Disturbi di origine respiratoria

Il più frequente disturbo è la “Sindrome delle apnee ostruttive del sonno” (OSAS), con una prevalenza tra il 2 e il 10% nella popolazione adulta italiana ed è senz’altro una tra le più rilevanti, soprattutto per le ripercussioni sulla qualità di vita dei pazienti affetti.

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18 Si caratterizza per ripetuti episodi notturni di ostruzione delle vie aeree superiori, o

apnee, mentre il controllo centrale della respirazione e dei movimenti toracici ed

addominali è preservato. L’ostruzione delle prime vie aeree, che rappresenta il meccanismo patogenetico fondamentale, può essere determinata sia da fattori anatomici sia funzionali (Flemons, 2002).

I fattori di rischio comprendono il sesso maschile, l’età compresa fra i 45-60 anni, l’obesità, in particolare a carico della parte superiore del corpo (indice di massa corporea maggiore di 30 kg/m2), l’accorciamento della mandibola e/o della mascella, l’ipertrofia adeno-tonsillare (soprattutto nei bambini e nei giovani adulti), un’eccessiva massa di tessuti molli (circonferenza del collo maggiore di 43 cm nel sesso maschile e maggiore di 41 cm nel sesso femminile), la distrofia miotonica, l’ipotiroidismo e l’acromegalia, che riducono il lume delle vie aeree superiori infiltrando i tessuti (Harrison e coll., 2012).

A questi fattori strutturali si aggiunge il rilassamento muscolare tipico del sonno che coinvolge anche i muscoli delle prime vie respiratorie ed è la stessa aspirazione dell’aria che tende a far collabire tra loro la parte posteriore della lingua e la faringe cosicché le vie respiratorie si occludono e compare l’apnea. Questo fenomeno si mantiene finché l’ipossia e stimoli riflessi non determinano il risveglio del soggetto: a questo punto il tono muscolare torna normale, le vie respiratorie si aprono con un intenso russamento e la respirazione riprende, fino alla successiva apnea.

Dal punto di vista clinico, la sonnolenza è il sintomo diurno più comune ed è considerato un criterio fondamentale per la diagnosi anche se l’associazione tra OSAS e sonnolenza è complessa, con una marcata variabilità interindividuale (Commissione Paritetica Associazione Italiana Medicina del Sonno AIMS e Associazione Italiana Pneumologi Ospedalieri AIPO, 2000). Associato a questo, troviamo una compromissione della vigilanza e delle capacità cognitive, depressione, disturbi del sonno e ipertensione (Harrison e coll., 2012).

Nei casi gravi il sonno è caratterizzato da russamento intervallato da periodi di silenzio in corrispondenza delle apnee che possono essere anche centinaia nel corso della notte. I risvegli possono essere così brevi che il paziente può non accorgersene, ma provocano un’alterazione della continuità del sonno.

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19 Oltre ad interferire drammaticamente con la vita lavorativa e sociale dei pazienti, le OSAS aumentano il rischio cardiovascolare e cerebrovascolare, con un aumento del rischio di infarto miocardico e ictus rispettivamente del 20% e 40% rispetto la popolazione generale ; sono inoltre implicate nello sviluppo di insulino-resistenza e nel peggioramento del trattamento del diabete mellito, indipendentemente dal fattore obesità e ad un aumento degli enzimi epatici e di fibrosi, in soggetti non bevitori e non portatori di virus epatotropi (Harrison e coll., 2012).

3.3 Ipersonnie centrali

Le ipersonnie centrali rappresentano quei disturbi in cui il sintomo principale è la sonnolenza diurna e in cui non ci sono alterazioni del ciclo circadiano e del sonno notturno (American Academy of Sleep Medicine, 2005).

Questa categoria comprende narcolessia, ipersonnia ricorrente, ipersonnia idiopatica, ipersonnia iatrogena, sindrome da sonno insufficiente ed altre.

La sindrome da sonno insufficiente, esempio significativo della categoria, si verifica in quei soggetti che non hanno un sonno notturno sufficiente a supportare adeguati livelli di vigilanza diurna. La sonnolenza diurna è presente quasi tutti i giorni, con incremento marcato di ore di sonno nei periodi liberi (week-end o ferie) e scompare dopo il prolungamento del periodo di sonno. Il soggetto decide di dormire cronicamente meno per motivi sociali, familiari e lavorativi e non dà, in altre parole, sufficiente importanza al suo sonno.

3.4 Disturbi del ritmo circadiano

I disturbi del ritmo circadiano sono situazioni in cui il ritmo endogeno sonno-veglia del paziente non è sincronizzato con il ritmo imposto da esigenze ambientali, sociali o lavorative ed il paziente avverte la necessità di dormire o di rimanere sveglio in orari inappropriati.

Il più tipico, e più esplicativo esempio è la “sindrome del jet-lag”, che compare nei viaggiatori intercontinentali e nei lavoratori turnisti, ed è caratterizzata da senso

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20 generale di malessere e di stanchezza, cefalea, letargia, insonnia, dispepsia e disturbi dell’alvo, umore alterato, rallentamento delle funzioni mentali e diminuzione della performance

I due quadri più frequenti fra i disturbi del ritmo circadiano sono tuttavia rappresentati dalla sindrome da fase anticipata di sonno e dalla sindrome da fase ritardata di sonno. Quest’ultima è caratterizzata da un addormentamento e da un risveglio ritardati di 3-6 ore rispetto alle ore considerate convenzionali, con difficoltà ad alzarsi la mattina all’ora desiderata o necessaria per adempiere a obblighi sociali o lavorativi e riduzione delle ore di sonno e conseguente sonnolenza. Al contrario, i soggetti con sindrome da fase anticipata di sonno, situazione tipica negli anziani, presentano un anticipo del periodo maggiore di sonno, caratterizzato da un addormentamento e risveglio che avvengono diverse ore prima da quelle ritenute convenzionalmente e socialmente accettabili ed il sintomo prevalente è legato ad una incapacità del soggetto a rimanere sveglio la sera, con problemi nelle attività sociali e lavorative serali. In ambedue questi disturbi, in condizioni di “free running”, quando cioè i soggetti siano lasciati liberi di organizzare i propri orari, i disturbi scompaiono ed il sonno è perfettamente normale. Inoltre entrambi questi quadri sembrano beneficiare dei trattamenti con fototerapia, somministrata rispettivamente nelle ore del mattino o alla sera, con lo scopo di riprogrammare il segnatempo circadiano (Harrison e coll., 2012).

3.5 Disturbi di origine motoria

In questa categoria ritroviamo quei quadri caratterizzati da movimenti semplici e stereotipati che disturbano il sonno. Fra questi i più degni di nota sono la sindrome delle gambe senza riposo e la sindrome da movimenti periodici delle estremità.

La prima è caratterizzata da una forte, quasi irresistibile, necessità di muovere le gambe, spesso accompagnata da dolore; questa sensazione compare la sera o durante la notte, e solo camminare o muovere le gambe concedono sollievo; la seconda si manifesta invece con movimenti rapidi e stereotipati delle estremità. Entrambi questi disturbi incidono sulla qualità e quantità del sonno, ripercuotendosi quindi sulle attività diurne (American Academy of Sleep Medicine, 2005).

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3.6 Effetti della deprivazione di sonno

La sindrome da “cronica deprivazione di sonno” comprende gli effetti cognitivi e neurocomportamentali che vanno ad alterare la vita e le attività dell’individuo: la performance cognitiva diventa instabile, compaiono alterazioni della “working

memory” e della capacità di “problem solving”; la latenza del sonno si riduce, portando

ad addormentamento involontario e microsonni, con aumento del tasso di infortuni sul lavoro (Durmer e Dinges, 2005).

La principale conseguenza dei disturbi affrontati è senza dubbio l’instaurarsi di una “eccessiva sonnolenza diurna” (ESD) (Murri e Maestri, 2008). La definizione esatta della ESD non è facile per numerosi problemi, tra cui difficoltà nel definire i limiti di normalità, nella differenziazione con astenia e fatica, e viene quindi in genere preferita una definizione solo operativa che indica la ESD come l’incapacità di rimanere sveglio e vigile durante la veglia con conseguenti episodi involontari di vero e proprio sonno. La valutazione clinica della sonnolenza richiede di esaminare numerosi aspetti tra cui le caratteristiche in termini di :

possibilità di rinviare l’addormentamento.

andamento circadiano.

modalità di comparsa e capacità di recupero fornita dai sonnellini diurni.

 l’impatto della sonnolenza sulle attività quotidiane (lavoro, guida, qualità di vita, etc.) in base al racconto del soggetto e di terzi.

 le caratteristiche del sonno notturno e del ciclo sonno/veglia in generale, eventuali fattori causali o contribuenti.

Per questo, la valutazione si basa sull’utilizzo di molteplici metodiche che presentano differenti vantaggi e svantaggi ed è quindi generalmente consigliato utilizzare un approccio integrato, se possibile (Maestri e coll., 2008) : le scale soggettive, come il Pittsburgh Sleep Quality Index e la “Epworth Sleepiness Scale”, utilizzate anche nel presente lavoro, sono di rapida esecuzione ma risentono delle capacità di introspezione, della motivazione e dei punti di riferimento del soggetto; i test di performance sono obiettivi, ma soggetti ad apprendimento e necessitano anch’essi di motivazione e

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22 collaborazione; i test neurofisiologici, come la polisonnografia, sono obiettivi e non sono legati alla motivazione, ma determinano un notevole carico di lavoro per un laboratorio del sonno, in termini di personale e apparecchiature.

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4. Sonno e lavoro

Qui di seguito tratteremo il rapporto fra sonno, lavoro e stress occupazionale. Per una trattazione più approfondita della fisiologia e dei principali disturbi del sonno, si rimanda al capitolo dedicato.

Interazioni

Nonostante le problematiche legate alla carenza di sonno siano ben note ad ogni individuo, nella nostra società dell’efficienza , e soprattutto nel periodo di crisi attuale, al sonno non viene sempre data l’attenzione che merita. I ritmi frenetici, le scadenze e il lavoro a turni fanno si che quadri come l’ ESD, affrontato in precedenza, diventino sempre più frequenti, con un impatto sul benessere fisico e sociale della persona tale da diventare un problema di salute pubblica, e come tale, necessitano di tutela da parte del SSN, tramite il medico di famiglia, medico competente e centri dedicati.

Infatti, nello specifico, è facile intuire quanto stretto sia il rapporto tra sonno e lavoro. Se da un lato infatti è appurato che i disturbi del sonno sono causa di alterazioni psico-fisiche e di riduzione delle prestazioni sul posto di lavoro (ma anche durante gli spostamento da e per il luogo di lavoro stesso), si deve osservare che è spesso il lavoro stesso ad influenzare la qualità e la durata del sonno.

La riduzione della performance e dell’attenzione si traduce anche in un aumentato tasso di infortuni sul posto di lavoro o in itinere; si stima che fino al 20% degli incidenti stradali abbiano come causa o concausa la sonnolenza diurna (Philip e Akerstedt, 2006). In Toscana, nei primi nove mesi del 2007 dei 71 infortuni sul lavoro denunciati (dati Inail), oltre il 59% è avvenuto in itinere e verosimilmente la maggior parte può essere imputata direttamente o indirettamente alla carenza o al cattivo riposo.

In diverse occasioni, alcune passati alla storia, come Chernobyl, altre meno eclatanti, come alcuni incidenti aerei o, è stato invocato come importante fattore l’errore umano, che è stato documentato essere connesso a deficit di sonno, o a fattori legati al sonno, come pure ai meccanismi oscillatori circadiani dell’attenzione e della performance. Nei conducenti di treni, autori svedesi hanno evidenziato periodi di sonno involontario nel

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24 corso del lavoro notturno, registrando un notevole aumento delle bande alfa e teta e una riduzione dei movimenti degli occhi, con attacchi di sonnolenza soprattutto verso mattina. È da notare che gli operatori avvertivano una notevole sonnolenza, ma non erano consapevoli di aver dormito per un buon numero di secondi (da 5 a 60) (Murri e coll., 2008).

Insonnia e lavoro

L’insonnia è probabilmente il disturbo che meglio rappresenta il legame fra sonno e lavoro: infatti, gli stress psicosociali che si accumulano nell’attività lavorativa rappresentano sicuramente un importante fattore di precipitazione e di cronicizzazione dell’insonnia; ma, allo stesso modo, è l’insonnia stessa a essere causa del calo delle prestazioni lavorative, comportando un aumento della tensione con i propri colleghi o superiori, e nel peggiore dei casi, degli incidenti. Si crea quindi un circolo vizioso, in cui il lavoratore è vittima e artefice della sua situazione di disagio, che può favorire la comparsa di patologie psichiatriche come la depressione o il disturbo d’ansia, o il peggioramento di patologie mediche come quelle cardiovascolari e respiratorie preesistenti.

Ritmi circadiani e lavoro

La società industriale, spinta anche dall’economia consumistica, con i suoi ritmi frenetici ed ininterrotti, ha sconvolto le abitudini riguardanti il ciclo sonno-veglia. I lavoratori, siano questi manager impegnati in viaggi intercontinentali con sindrome da jet lag, personale sanitario impegnato in frequenti turni di guardia, lavoratori in turno nelle attività industriali o membri delle forze dell’ordine, sono costretti a sovvertire la normale sincronizzazione tra luce-attività e buio-riposo attuando un progressivo

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25 spostamento di fase dei propri ritmi circadiani, attraverso adeguati aggiustamenti fisiologici, in modo da resincronizzarsi sul nuovo orario ambientale.

La velocità di tale aggiustamento dipende da fattori relativi alla situazione, come la direzione dello spostamento, ed al soggetto, come l’età: è infatti maggiore nella rotazione in senso orario (ritardo di fase) piuttosto che antiorario (anticipo di fase) del ciclo di turno; i soggetti giovani si aggiustano in genere più rapidamente di quelli anziani, i quali a loro volta presentano una tendenza ad anticipare la fase dei ritmi circadiani, così come una loro minor stabilità.

Questi aggiustamenti non solo risultano faticosi per l’organismo, come dimostra ad esempio la sindrome del jet-lag, ma comportano un danno a lungo termine a carico dell’apparato cardiovascolare e gastroenterico, oltre ad un aumentato rischio di neoplasie.

Sonno e stress occupazionale

Nel corso degli anni diversi Autori hanno affrontato il rapporto fra stress occupazionale e sonno da due diverse prospettive, dando vita a due filoni di studi; uno intento ad identificare i meccanismi fisiopatologici che portano allo sviluppo dei disturbi del sonno, l’altro, invece, più concentrato sull’interpretazione di tale rapporto e sull’identificazione dei singoli fattori di rischio.

La linea di ricerca che si occupa dei meccanismi fisiopatologici si basa sull’evidenza di somiglianze fra disturbi dell’umore e del sonno (Roth e coll., 2007). L’attivazione dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene sembra essere alla base sia dell’insonnia che della depressione; infatti i pazienti affetti da insonnia presentano livelli di cortisolo libero urinario elevati, il cui valore può essere messo in proporzione al totale delle notti trascorse da sveglio. Inoltre ormoni che aumentano nelle situazioni di stress come il CRF e l’ACTH interferiscono con il sonno e sono più elevati nei soggetti insonni. Dati preliminari mostrano una crescente evidenza dell’esistenza di un tratto di vulnerabilità ai disturbi del sonno, e nonostante i meccanismi di questo tratto rimangono

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26 ancora incerti, è probabile che siano legati alla modulazione dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene e del sistema simpatico.

Un modello comunemente accettato identifica come momenti alla base della genesi dell’insonnia proprio questa predisposizione individuale, insieme a dei fattori precipitanti e a dei fattori di mantenimento (Drake e Roth, 2006). Un evento precipitante si sovrappone ad una situazione di predisposizione ed infine l’intervento di successivi fattori di mantenimento realizza l’insonnia cronica, come sostenuto da Arthur Spielman. Il modello è essenzialmente derivato dal concetto di predisposizione allo stress dei disturbi mentali.

Da un punto di vista interpretativo invece, uno dei modelli più diffusi è quello “Job

demand/control” di Robert A. Karasek.

Nel 1979 Karasek pubblicò il suo primo studio sullo stress lavorativo percepito. L’Autore suggerisce che la relazione tra elevata domanda lavorativa e bassa libertà decisionale definisce una condizione di “job strain” o “perceived job stress”, in grado di spiegare i livelli di stress cronico e l’incremento del rischio cardiovascolare. Le due principali dimensioni lavorative, domanda vs. controllo, sono considerate variabili indipendenti e poste su assi ortogonali. Nel 1986 J. V. Johnson ha aggiunto anche la dimensione del supporto sociale (Baldasseroni e coll., 2008).

Altri modelli sono stati proposti per lo stress occupazionale, ma anche questi, come quello di Karasek, sono sostanzialmente basati sulla discrepanza tra ambiente e persona.

Uno dei primi e più importanti studi che si sono occupati della relazione fra fattori psicosociali e disturbi del sonno è uno studio francese di tipo prospettico che ha seguito 21.000 lavoratori per cinque anni (Ribet e Driennic, 1999). Questo studio ha evidenziato come il lavoro a turni, l’esposizione a vibrazioni e la settimana lavorativa con un numero di ore superiore alle 48 a settimana risultino essere associate a importanti disturbi del sonno.

Allo stesso modo, uno studio giapponese del 1998 (Tachibana e coll., 1998), che ha preso in considerazione 319 lavoratori giornalieri di un’azienda locale, ha messo in rilievo come la percezione dell’eccessivo coinvolgimento nel lavoro è associata con la difficoltà di addormentamento e con il risveglio precoce del primo mattino.

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27 Altre esperienze hanno messo in evidenza la correlazione fra diversi tipi di fattori stressanti e diversi tipi di insonnia. Per esempio, analizzando i disturbi del sonno e la qualità del sonno di 709 lavoratori tedeschi ed applicando il modello dello squilibrio tra sforzo e ricompensa di J. Siegrist è stato posto in evidenza come l’eccessivo impegno influenza la qualità del sonno degli uomini, mentre la bassa ricompensa sembra essere più importante per i disturbi del sonno che si manifestano nelle donne (Kudielba e coll., 2004).

Ruolo del medico competente

Quanto emerso da queste esperienze deve certamente richiamare l’attenzione del medico del lavoro e spingerlo ad indagare l’area dei disturbi del sonno, in modo da poter svolgere compiutamente la sua attività di prevenzione sui lavoratori esposti a rischi psicosociali.

La normativa vigente non prevede l’obbligo di attuare una sorveglianza sanitaria nei pazienti esposti al rischio da stress lavoro correlato, privilegiando invece interventi organizzativo, comunicativo, formativo, procedurale e tecnico.

Le azioni correttive possono prevedere: il potenziamento degli automatismi tecnologici e la progettazione ergonomica degli ambienti di lavoro, una diversa programmazione degli orari, turni, ritmi e carichi di lavoro, una migliore pianificazione delle attività e delle risorse umane e strumentali per lo svolgimento dei compiti, la definizione di sistemi di valutazione per i dirigenti in relazione alla gestione delle risorse umane e l’introduzione di sistemi premianti in relazione al raggiungimento di obiettivi.

Se questi mezzi non si rivelassero sufficienti, il medico competente, nei casi in cui lo ritenesse opportuno, può utilizzare le informazioni assunte per indicare specifiche misure di tutela tramite il giudizio di idoneità alla mansione specifica. Ulteriore misura di prevenzione sono i corsi formativi, in cui il medico del lavoro ha il ruolo di informare i lavoratori, oltre che sui singoli rischi e sulle misure di primo soccorso, sull’igiene del sonno, sull’assunzione di farmaci e sui corretti stili di vita (Fulvio d’Orsi e coll., 2012).

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5. Disturbi dell’umore

Definizione

I disturbi dell’umore sono tra le patologie psichiatriche più frequenti : si calcola infatti che almeno il 20% della popolazione generale presenti, nel corso della vita, episodi depressivi o maniacali. In realtà tutti gli individui sperimentano continue oscillazioni del tono dell’umore, solitamente in risposta a stimoli esterni, ma si tratta di fenomeni fisiologici, che svolgono una funzione adattativa; infatti essi modulano la spinta all’iniziativa e favoriscono l’adozione di modelli comportamentali idonei al mutare delle circostanze ambientali. Quando queste oscillazioni diventano ampie, prolungate, indipendenti o sproporzionate rispetto agli stimoli esterni, perdono la loro funzione adattativa e danno luogo ai disturbi dell’umore.

Spettro dell’umore

In una visione più moderna, i disturbi dell’umore vengono classificati come facenti parte di un continuum, uno ampio spettro dell’umore, che include condizioni che vanno da risposte fisiologiche agli agenti esterni, a forme sotto-soglia, attenuate a decorso protratto, fino alle forme unipolari e alle patologie più invalidanti come il disturbo bipolare tipo I e II.

Se questi quadri sotto soglia, la cui prevalenza nei campioni presi in esame è risultata maggiore rispetto al disturbo conclamato, erano inizialmente ritenuti forme “benigne”, studi epidemiologici hanno dimostrato come siano connessi ad un aumento delle ospedalizzazioni ed alla necessità di cure per patologie mediche e psichiatriche, in particolare le forme con sintomi depressivi (Sherbourne e coll., 1994).

L’adozione di un modello unitario di spettro dei disturbi dell’umore consente non solo di cogliere le manifestazioni parziali, atipiche e attenuate, che se pur non soddisfino i criteri di gravità, durata o numero di sintomi previsti per la diagnosi, influenzano la sfera socio-lavorativa e affettiva del paziente (Cassano e coll., 2004), ma offre diversi vantaggi sia sul piano clinico-terapeutico, sia su quello della ricerca, con particolare riferimento ai correlati biologici di malattia.

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Fattori di rischio

Il riscontro all’interno della stessa famiglia di disturbi uni- e bipolari ha suggerito la presenza di un probabile substrato genetico. Studi epidemiologi in questo senso hanno successivamente identificato diversi fattori predisponenti allo sviluppo di malattia:

Genetica: la percentuale dei casi con una componente ereditaria è stata calcolata tra il 50% e l’ 80% (Merikangas e Kupfer, 1995).

Età: i disturbi dell’umore possono manifestarsi a qualsiasi età, ma più frequentemente nella fascia di età tra 18 e 44 anni (in media 30 anni). E’ stata osservata una correlazione inversa tra carico genetico ed età di insorgenza.

Sesso: il disturbo depressivo maggiore ha frequenza doppia nelle donne rispetto agli uomini, il disturbo bipolare I ha pari distribuzione tra i due sessi (Bauer e Pfennig, 2005), il disturbo bipolare II viene descritto con una frequenza doppia nelle donne (American Psychiatric Association, 2000).

Stato civile: i pazienti bipolari sono più frequentemente celibi, nubili e separati. Tale evenienza può essere spiegata con l’insorgenza della patologia in età precoce e pertanto con l’influenza negativa della malattia sui rapporti affettivi, oppure con la possibilità che lo stress legato alla separazione costituisca una causa scatenante (Andrade e coll., 2003).

Classe sociale: i pazienti bipolari appartengono spesso a ceti sociali elevati, forse perché le caratteristiche temperamentali di tipo ipertimico favoriscono l’affermazione sociale ed economica (Weissman e coll., 1996).

Eziopatogenesi

L’ipotesi eziopatogenetica più accreditata è stata per molto tempo quella

monoaminergica, secondo cui la riduzione dei fisiologici livelli dei neurotrasmettitori

serotonina e noradrenalina sarebbe alla base della sintomatologia depressiva (Bunney e Davis, 1965).

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30 Su questa base si orientarono per decine di anni la ricerca psicofarmacologica e lo sviluppo di nuove molecole, progressivamente sempre più selettive.

Con la scoperta che il trattamento a lungo termine con farmaci antidepressivi produce cambiamenti adattativi nei recettori delle monoamine e nei meccanismi di trasduzione del segnale a valle (Susler e coll., 1978) l’attenzione della ricerca si è spostata verso gli effetti cronici che gli antidepressivi esercitano sulla concentrazione di neuropeptidi, di fattori di crescita e rispettivi recettori e di molecole coinvolte nei processi di trasduzione del segnale (Duman e coll., 1997; Manji e coll., 2001; Coyle e Duman, 2003). Dall’ipotesi monoaminergica si è quindi passati all’ ipotesi molecolare della depressione.

Lo sviluppo delle moderne tecniche di neuroimaging, ha portato ulteriori contributi alla ricerca dei correlati neurobiologici dei disturbi psichiatrici. E’ stata infatti dimostrata una riduzione del volume neuronale dell’ippocampo adulto in corso di stress o depressione (Warner-Schmidt e Duman, 2007). Tali riscontri atrofici, più tipici di una patologia neurodegenerativa, hanno suggerito l’ipotetico coinvolgimento delle neurotrofine e soprattutto del BDNF anche nei disturbi dell’umore e sono alla base della più recente ipotesi neurotrofica secondo cui la depressione è associata a ridotti livelli di BDNF e i trattamenti antidepressivi agiscono attraverso complessi meccanismi molecolari che hanno come tappa finale l’aumento dell’espressione del BDNF (Duman, 2002).

Depressione, cortisolo e stress

Una stretta correlazione è presente anche tra i disturbi dell’umore e il sistema endocrino; quadri depressivi o maniacali possono manifestarsi in corso di patologie endocrine (disfunzioni tiroidee, morbo di Cushing), di fisiologici cambiamenti ormonali (fase premestruale, postpartum) o in seguito alla somministrazione di ormoni (corticosteroidi, anticoncezionali orali).

Il sistema più studiato è l’asse ipotalamo – ipofisi – surrene (HPA) che risulta essere iperattivo nei disturbi dell’umore: rispetto ai soggetti sani i pazienti depressi presentano più alti livelli di cortisolo e un’alterazione delle variazioni diurne di secrezione dello stesso.

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31 In condizioni di stress è stato descritto un aumento del rilascio di CRH (corticotropin -

releasing factor) a livello ipotalamico ma anche di altre regioni cerebrali come

l’amigdala, responsabile dell’aumento dei livelli di cortisolo e di noradrenalina (Wong e coll., 2000). Elevati livelli di cortisolo sembrano essere implicati nell’apoptosi neuronale nell’ippocampo e nelle aree paraippocampali, frontali e prefrontali, tramite una deplezione dei livelli intracellulari di glucosio, condizione che renderebbe i neuroni più sensibili all’incremento di neuromediatori eccitatori come il glutammato (Sapolsky e coll., 1990; Sapolsky, 1996; Schulkin e coll., 1994; Duman e coll., 1997). Le anomalie funzionali a livello dell’asse HPA sembrano essere inoltre responsabili dei cambiamenti strutturali cerebrali osservati nei soggetti depressi (Aan het Rot e coll., 2009). Lo stato di ipercortisolemia cronica determina inoltre una down-regolation dei recettori per i glucocorticoidi nell’ippocampo e una ridotta sintesi di BDNF che può contribuire all’atrofia ippocampale (Charney e Manji, 2004; Duman e Monteggia, 2006).

Inquadramento Clinico

Il DSM-IV-TR distingue i disturbi dell’umore in due grandi categorie: i disturbi unipolari, caratterizzati da episodi esclusivamente depressivi e i disturbi bipolari, caratterizzati invece dall’alternarsi di episodi depressivi e maniacali.

I disturbi bipolari si dividono a loro volta in un tipo I, più grave, che si presenta con l’alternarsi di episodi depressivi e maniacali o misti a piena espressione sintomatologica, con o senza manifestazioni psicotiche; un tipo II, in cui è presente almeno un episodio depressivo maggiore alternato con almeno un episodio (ipo)maniacale spontaneo; e in un così detto disturbo ciclotimico, caratterizzato da una rapida e continua alternanza di fasi depressive e (ipo)maniacali di intensità lieve-moderata per almeno 2 anni che non soddisfano i criteri per gli episodi maggiori.

La depressione maggiore è una condizione patologica caratterizzata da umore flesso, rallentamento delle idee e della motricità, a cui si aggiungono sintomi neurovegetativi e che comporta un peggioramento della qualità della vita e un aumento della morbilità e della mortalità (Bromet e coll., 2011; Üstün e coll., 2004).

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32 L’episodio maniacale è definito da un periodo durante il quale vi è un umore anormalmente e persistentemente elevato, espanso o irritabile, e coesistono fenomeni psicotici.

Gli stati misti rappresentano una condizione intermedia in cui sono presenti gli elementi di entrambi i quadri precedenti.

Diagnosi

Secondo il DSM-V (American Psychiatric Association, 2013) per porre diagnosi di episodio depressivo maggiore devono essere soddisfatti i seguenti criteri:

 La presenza di cinque dei seguenti elementi, di cui uno deve essere umore depresso o perdita di interessi (abulia) o di piaceri (anedonia) per tutte le attività per un periodo di almeno due settimane:

o alterazioni del peso corporeo: significativa perdita di peso o aumento di peso non dovuto a diete (per esempio più del 5% del peso corporeo in un mese) o diminuzione dell’appetito (iporessia, più frequente) o suo aumento (iperoressia) quasi ogni giorno; o alterazione del sonno: insonnia (nella maggior parte dei casi) o

ipersonnia (sotto forma di prolungamento del sonno notturno o di aumento del sonno durante il giorno);

o alterazioni dell’attività psicomotoria: agitazione oppure rallentamento;

o ridotta energia e affaticabilità quasi ogni giorno, anche in assenza di attività fisica;

o sentimenti di svalutazione e di colpa eccessivi o immotivati quasi ogni giorno, fino a tematiche deliranti;

o riduzione della capacità di concentrazione, di pensare o prendere decisioni: i pazienti possono apparire facilmente distraibili o possono lamentare disturbi mnesici;

o ricorrenti pensieri di morte o ideazione suicidaria, pianificazione o tentativi di suicidio.

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 I sintomi devono durare per la maggior parte del giorno, quasi ogni giorno per due settimane consecutive.

 Tali sintomi devono causare al soggetto un significativo disagio o compromissione a livello socio-lavorativo.

 I sintomi non devono essere conseguenza degli effetti fisiologici diretti di una sostanza o di una condizione medica generale.

Interessante è notare come, mentre il DSM-IV escludeva la diagnosi di episodio depressivo maggiore in seguito a lutto, a meno che i sintomi non durassero più di due mesi o fossero particolarmente severi, il DSM-V non esclude questa possibilità. Questo dato indica un passo in avanti nella concezione della patogenesi dei disturbi dell’umore, dando più spazio alla patologia e meno alla reattività.

L’esordio può essere improvviso, più frequente nelle forme bipolari, o può essere preceduto per alcuni giorni o settimane da prodromi come labilità emotiva, tensione, astenia, inappetenza, insonnia, cefalea.

Nel 30-40% dei casi all’episodio maggiore fa seguito una sintomatologia residua con manifestazioni che, per quanto attenuate, possono compromettere il funzionamento sociale, lavorativo e familiare e la qualità della vita.

Per la diagnosi di episodio maniacale, i criteri indicati dal DSM-V sono:

 Umore anormalmente e persistentemente elevato, espanso o irritabile, per la maggior parte della giornata, che deve durare almeno una settimana e deve essere accompagnato da almeno tre sintomi addizionali tra:

o autostima ipertrofica che va dalla fiducia in se stesso priva di critica alla grandiosità marcata;

o diminuito bisogno di sonno: il soggetto si sveglia prima dell’ora abituale, sentendosi pieno di energie;

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