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INDICE
1. INTRODUZIONE
……….……….……... Pag. 31.1 I radicali liberi ……… Pag. 3
1.2 I sistemi antiossidanti ………. Pag. 6
2. INVECCHIAMENTO
………... Pag. 102.1 L’invecchiamento: definizione ……….….... Pag. 10
2.2 Le teorie dell’ invecchiamento ……….. Pag. 15
2.2.1 La teoria genetica ………. Pag. 15
2.2.2 La teoria ossidativa ……….…. Pag. 16 2.2.3 La teoria evoluzionistica ……….. Pag. 16
2.2.4 La teoria della senescenza cellulare ………. Pag. 17 2.2.5 La teoria neuroendocrina ……… Pag. 17
2.2.6 La teoria immunitaria ………. Pag. 18
2.2.7 La teoria del doppio agente ……… Pag. 18
2.3 Le malattie neurodegenerative: la demenza ……….. Pag. 20
2.4 La malattia di Alzheimer ……….… Pag. 25
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3. LA TEORIA OSSIDATIVA
………. Pag. 404. I BENEFICI DELL'ATTIVITÀ FISICA A LIVELLO CEREBRALE
……….. Pag. 484.1 Attività fisica e ippocampo ……….. Pag. 58
5. SCOPO DELLA TESI
.……….. Pag. 616. MATERIALI E METODI
……….. Pag. 616.1 Animali ……… Pag. 61
6.2 Allenamento ……….. Pag. 62
6.3 Isolamento e conservazione dei tessuti ……….. Pag. 65
6.4 Analisi Total Oxyradical Scavenging Capacity assay (TOSCA) ……… Pag. 65
6.5 Analisi Statistica ……… Pag. 69
7. RISULTATI
……… Pag. 708. DISCUSSIONE
………. Pag. 723
1. INTRODUZIONE
1.1 I radicali liberi
I radicali liberi sono definiti come specie molecolari che presentano un elettrone spaiato sull'orbitale più esterno. La presenza di un elettrone spaiato traduce in certe proprietà comuni che sono condivisi dalla maggior parte dei radicali. Molti radicali sono instabili e altamente reattivi, possono sia donare o accettare un elettrone da altre molecole, cambiando la loro natura in ossidanti o riducenti.
I radicali liberi vengono classificati sulla base della natura dell'atomo al quale appartiene l'orbitale con l'elettrone spaiato. Esistono, quindi, radicali liberi centrati sull'ossigeno, sul carbonio, sull'azoto o sul cloro, solo per citare quelli di maggior interesse in patologia umana.
In questa esposizione si farà riferimento ai radicali liberi incentrati sull'ossigeno, noti come radicali liberi dell'ossigeno, in quanto l'ossigeno è uno degli elementi più importanti nella materia vivente. Questi tipi di radicali vengono definiti come Reactive Oxygen and Nitrogen Species (RONS) [1].
I RONS generalmente danno luogo ad una serie di reazioni a catena nelle quali si distinguono tre fasi di reazione: iniziazione, propagazione e terminazione. Durante l'iniziazione si forma appunto il radicale libero attraverso diverse vie metaboliche (fotochimica, termica o per trasferimento elettronico). In alternativa, attraverso l'ossidazione di metalli di transizione come il Ferro (Fe) e il Rame (Cu) in forma ionica, viene ceduto un elettrone ad un substrato nel quale di conseguenza si rompe un legame covalente generando un radicale libero e un anione. Nella successiva fase di
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propagazione il radicale reagisce con altri substrati dando luogo a nuovi radicali che a loro volta reagiscono con altre molecole ancora e, dato che questa fase può coinvolgere centinaia o anche migliaia di unità, la formazione di un radicale iniziatore porta all'alterazione strutturale ed eventualmente alla distruzione di numerosi substrati. Il numero di volte che il ciclo di propagazione si ripete caratterizza la “lunghezza di catena”. Il meccanismo più comune di reazione è il trasferimento: il radicale libero interagisce con una molecola sottraendo ad essa uno dei elettroni con la conseguente formazione di una nuova specie reattiva e, in ultima analisi, il trasferimento del sito radicalico. Le reazioni radicaliche a catena si esauriscono infine con la fase di terminazione nella quale tipicamente le specie radicaliche possono combinarsi in vario modo per dare prodotti non radicalici, interrompendo pertanto la catena di eventi (combinazione).
I RONS vengono prodotti nel corso delle normali funzioni metaboliche. Le principali fonti metaboliche in cui si ha la loro produzione sono a livello della plasmamembrana, mitocondri, perossisomi, reticolo endoplasmatico liscio e citosol [2]. Tra queste i mitocondri sono la fonte metaboliche primaria dei RONS in quanto sulle creste mitocondriali sono localizzati i complessi enzimatici della catena respiratoria implicati nella fosforilazione ossidativa. Durante tale processo si vanno a perdere una quota di elettroni che sfugge quindi al sistema di controllo caratterizzato dall'ubichinone, flavoproteine e citocromo. Gli elettroni “sfuggiti” al sistema di controllo reagiscono con l'ossigeno generando così l'anione superossido e/o perossido di idrogeno. Questo processo nel corso dell'esercizio fisico induce una fuoriuscita di elettroni di circa il 15%.
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A concentrazioni basse o moderate, i RONS possono agire come mediatori nel regolamentare i processi di segnalazione [3]. Comunque ad elevate concentrazioni lo stress ossidativo gioca un ruolo fondamentale nel promuovere malattie come l’ aterosclerosi, alcuni tipi di cancro, all’ invecchiamento, ma anche a tutte le malattie infiammatorie (artrite, vasculite, etc..), ischemiche (malattie cardiache, ictus, ischema intestinale), neurologiche e molti altre [4].
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1.2 I sistemi antiossidanti
Il nostro organismo ha adottato una serie di accorgimenti per proteggersi da agenti patogeni esterni, stress ossidativo ed eventuali danni al livello genetico. Il corpo produce naturalmente una serie di antiossidanti definiti endogeni, nello specifico si tratta per lo più di enzimi fra cui possiamo nominare la glutatione perossidasi, la superossido dismutasi, la catalasi. Va citata anche la melatonina, un ormone che regola il battito cardiaco, ma di cui è stata studiata la più che discreta attività di scavenger all’interno dell’organismo. Altri antiossidanti endogeni sono le proteine-SH e le proteine dedicate alla sintetizzazione dei micronutrienti. Anche alcune molecole, come la bilirubina e l’acido urico, svolgono funzioni antiossidanti all’interno dell’organismo.
La glutatione perossidasi è un enzima appartenente alla classe delle ossidoriduttasi che catalizza la detossificazione del perossido di idrogeno (H2O2). Fondamentale in questa reazione è il ruolo del glutatione (GSH) che si ossida (GSSG) tamponando così il radicale libero. Il glutatione rappresenta all'interno delle cellule il più abbondante composto (circa il 95% del totale) e ha la funzione di mantenere allo stato ridotto i gruppi sulfidrilici ridotti (-SH) di molti enzimi e proteine, permettendo loro di non mutare e di esplicare al meglio le loro funzioni fisiologiche.
La catalasi è un enzima composto da eme-proteine, molecole molto stabili che contengono al loro interno un complesso chimico in cui è presente anche il ferro suscettibile ad ossidazione o a riduzione. Queste caratteristiche permettono alla catalasi di essere particolarmente reattiva nei confronti dei prodotti di ossidazione instabili come ad esempio il perossido di idrogeno in grado di scatenare reazioni a
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catena degenerative e dannose per l’organismo. Questo enzima è collocato in un organello cellulare denominato perossisoma [5].
La superossido dismutasi è un enzima che può avere cofattori metallici diversi come ad esempio rame, zinco , manganese, ferro e nichel. Nell'uomo esistono tre tipi diversi di SOD (1-2-3). SOD1 è localizzata nel citoplasma, SOD2 nei mitocondri e SOD3 si trova al di fuori delle cellule. SOD1 e SOD3 contengono zinco e rame, mentre la SOD2 presenta il manganese nel suo centro di azione. La superossido dismutasi svolge un’importante azione di ossidoriduttasi sui radicali superossidi che vengono prodotti durante la trasformazione dell’ossigeno.
Proteine SH e proteine leganti. Le prime sono principalmente antiossidanti plasmatici, sono in grado di donare un elettrone, trasformando le molecole reattive in composti più stabili. Le seconde invece come dice il nome stesso, svolgono funzioni di legame, deposito e trasporto dei micronutrienti. Ogni classe di proteina legante agisce su un particolare microelemento in grado poi di svolgere tutta una serie di compiti all’interno dell’organismo.
La bilirubina è un prodotto dal metabolismo dell’emoglobina, agisce sui radicali perossilici nel plasma. È considerata un antiossidante anche più potente del glutatione, tuttavia la sua concentrazione nell’organismo è così bassa che la sua azione risulta meno radicale del glutatione.
L’acido urico è un prodotto del catabolismo delle purine e degli amminoacidi. Si stima che gran parte dell’azione degli antiossidanti endogeni sia portata avanti da questa sostanza. La loro funzione si svolge soprattutto nel sistema nervoso e nel tratto
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respiratorio dove agiscono sui radicali idrossile e perossi-nitrito e anche come riduttori della concentrazione di azoto.
Gli antiossidanti esogeni, sono quelli che comunemente vengono introdotti attraverso l’alimentazione e/o l'integrazione.
Possiamo suddividere gli antiossidanti naturali in:
- Vitaminici
- Non vitaminici
Al primo gruppo appartengono, chiaramente, le vitamina C, E ed i carotenoidi, precursori della vitamina A. Fanno invece parte del secondo gruppo i composti polifenolici, definite come molecole organiche responsabili della colorazione di frutta e verdura. A seconda del colore (dal bianco al viola scuro) i polifenoli assumono denominazioni distinte e con diverse capacità antiossidanti. Fra loro possiamo ricordare le catechine, gli antociani, i tannini, i bioflavonoidi (conosciuti anche sotto la denominazione di vitamina P), gli acidi fenolici e altre 5000 molecole diverse. Vanno ricordati certamente anche gli xantoni, presenti in maniera massiccia soprattutto nel mangostano, ma riscontrabili, anche se in concentrazione minore, in altri vegetali come ad esempio l’iperico. Un’ulteriore distinzione fra gli antiossidanti naturali è tra idrosolubili e liposolubili. I primi operano all’interno della cellula stessa, in particolar modo nel mitocondrio, mentre i secondi agiscono principalmente a livello della membrana cellulare composta per lo più da lipidi, dove ne prevengono l’ossidazione. Gli antiossidanti naturali, benché siano presenti in maniera massiccia in frutta e verdura, si trovano anche in molti alimenti di origine animale. Fra questi è bene
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ricordare i molluschi, i crostacei e alcuni tipi di pesce come il tonno e le acciughe. Anche il latte e i suoi derivati contengono alcuni tipi di antiossidanti come anche le uova e la carne. Purtroppo va anche aggiunto che gli antiossidanti naturali sono termolabili o soggetti a deteriorazione, quindi per assicurarsi l’introito ottimale di queste sostanze è bene consumare gli alimenti il più possibile freschi ed evitare le cotture prolungate che tende a distruggerne le strutture molecolari. Tuttavia questo non è possibile per tutti i cibi, quindi è bene ricordare che le canoniche 5 porzioni di frutta e verdura giornaliere sono il modo migliore per introdurre gli antiossidanti utili all'organismo, soprattutto se consumate nel loro stato naturale o sotto forma di frullati, puree e centrifugati.
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2. INVECCHIAMENTO.
2.1 L’invecchiamento: definizione.
L’ invecchiamento è un deterioramento progressivo della quasi-totalità delle funzioni dell'organismo nel corso del tempo [6]. Con l’aumentare dell’età, tutti gli organismi vanno incontro ad un progressivo declino delle funzioni, ad un aumento della sensibilità agli effetti di variazioni ambientali e quindi ad un aumento della probabilità di ammalarsi e di morire. Si tratta, dunque, di un periodo di adattamento poiché, per far fronte alla realtà sociale e individuale in rapida evoluzione, si verificano anche importanti trasformazioni psicologiche, non solo fisiche [7]. L’ invecchiamento è un processo accompagnato a cambiamenti anatomo-strutturali nei diversi tessuti che inducono modifiche a livello della struttura, morfologia e la funzionalità degli apparati, ed organi. Quando si parla di invecchiamento in generale non ci si riferisce semplicemente all’avanzare dell’età cronologica, ma ai cambiamenti organici, cognitivi ed emotivi che ad esso appaiono correlati. Ma quali di queste modificazioni sono normali e quali patologiche non è facilmente definibile; così la distinzione tra invecchiamento per così dire fisiologico ed invecchiamento patologico rimane una linea teorica, variabile a seconda degli apparati considerati ma anche degli approcci scientifico-culturali utilizzati. Nella letteratura classica, come ricordato da Terenzio e Seneca nelle loro orazioni, l’anzianità stessa era sinonimo di malattia:” senectus ipsa morbus "(La vecchiaia è essa stessa una malattia) ;” senectus enim insanabilis morbus est "(La vecchiaia è anche una malattia incurabile) . Anziani si diventa per consuetudine intorno ai 65 anni, momento che solitamente coincide con l’età del pensionamento, mentre vecchi si diventa molto più tardi se per “vecchiaia” s’intende quello stato
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fisiologico che impedisce all’individuo molte funzioni vitali, rendendolo dipendente dai più giovani. Nelle società occidentali, inoltre, invecchiano meglio le donne, che sono maggiormente propense ad affrontare l’età del pensionamento come una “liberazione” dagli impegni extradomenstici e a vivere con maggiore serenità la separazione dal mondo del lavoro [8]. Il concetto di normalità in gerontologia non ha una chiara definizione a causa dell’estrema variabilità che caratterizza il modo di invecchiare di ogni individuo, nonché per la mancanza, soprattutto via via che si avanza verso le età più estreme della vita, di un netto confine tra fisiologico e patologico. In generale si considera normale ciò che è presente in tutti gli individui di una determinata età (p.e. presbiopia); nella norma è invece ciò che è di comune riscontro in quegli stessi soggetti, ma non presente in tutti, potendo contenere in sé anche condizioni di patologia (p.e. cataratta, ipertensione sistolica isolata, osteoartrosi, osteoporosi). Poter distinguere nell’anziano ciò che è normale da ciò che è soltanto nella norma, sarebbe dunque per il medico di fondamentale importanza, ma prima dovrebbero essere definiti al meglio i criteri di normalità. I cambiamenti correlati col progredire dell'età variano da individuo a individuo per un duplice ordine di fattori che comprendono, da una parte, le influenze genetiche e, dall'altra, l'effetto di determinanti ambientali (l'alimentazione, lo stile di vita, l'esposizione a sostanze nocive o a contingenze dannose per l'organismo). Un altro aspetto correlato all’età è rappresentato dal numero di malattie che possono coesistere nello stesso individuo, fenomeno questo strettamente correlato con l’uso di più farmaci e con il rischio di danni ad essi connessi. Contestualmente l’invalidità diviene maggiormente prevalente, aumentando di pari passo con l’età e con il numero di condizioni croniche. Sono questi alcuni degli aspetti determinanti che spingono sempre più i gerontologi a parlare di “anziano fragile”; con
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tutte le problematiche connesse a questa condizione. Va considerato che i problemi sanitari nelle persone anziane, presentano un notevole peso per le particolari caratteristiche presentate. Come evidenziato in uno studio condotto da “Epicentro”, in Europa, così come in molti altri paesi industrializzati, una persona su cinque ha oggi più di 60 anni. Questo rapporto scende a 1 su 20 in Africa ed in altre aree in via di sviluppo, sottolineando quindi come il processo di invecchiamento della popolazione sia più rapido che nei paesi “industrializzati”. A fronte di ciò, diventa quindi sempre più urgente adottare le necessarie misure per far fronte alle conseguenze dell’ aumento della popolazione anziana, come ad esempio l’ aumento della frequenza di patologie croniche tipicamente legate all’ invecchiamento.
L'invecchiamento è un processo complesso e multifattoriale e pertanto è plausibile che gli eventi in grado di determinare la senescenza della cellula si sovrappongano a diversi livelli: le modificazioni molecolari occorrenti in corso di invecchiamento conducono ad alterazioni cellulari le quali, a loro volta, contribuiscono alla senescenza dell'organo e all'insufficienza del sistema a cui appartiene [9].
Nel XVIII secolo Lamarck differenziò due tipi di mortalità: morte accidentale (malattie, predazione ed incidenti) e morte naturale (invecchiamento), postulando che l’invecchiamento sia dovuto a cause intrinseche. Un avanzamento nella comprensione dell’invecchiamento venne un secolo più tardi quando Weismann [10] ipotizzò che l’attività cellulare normale potrebbe essere dannosa per l’organismo portandolo alla sua distruzione sia direttamente che indirettamente (aumentata suscettibilità alla morte accidentale) . Negli ultimi decenni l’allungamento della vita media e della sua durata massima, l’elevata prevalenza di soggetti anziani nella popolazione generale,
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specialmente nei paesi sviluppati, e l’incremento della spesa sanitaria e sociale ascrivibile alla cura ed all’assistenza degli anziani hanno stimolato, sia nei ricercatori dell’area economico-sociale che in quelli dell’area biomedica, un particolare interesse nello studio dei processi dell’invecchiamento. Basandosi sull’evidenza che molti meccanismi possono interagire simultaneamente operando a diversi livelli di organizzazione funzionale, la visione dell’invecchiamento come processo multifattoriale complesso ha sostituito le precedenti teorie “monofattoriali” che vedevano una singola causa come responsabile di tale fenomeno [9]. Di fatto molte teorie singolarmente possono spiegare alcuni dei fenomeni che caratterizzano un invecchiamento cosiddetto “fisiologico”, ma non possono dare ragione del processo nella sua globalità. La definizione di invecchiamento di per sé è aperta a varie interpretazioni, sebbene possa essere condivisa la raffigurazione di tale processo come la somma di tutti i cambiamenti fisiologici, genetici e molecolari che si verificano con il passar del tempo, dalla fertilizzazione alla morte [11]. Le modificazioni età-dipendenti possono essere attribuite al naturale processo di crescita, a difetti genetici legati all’individuo, al rapporto tra genotipo ed ambiente, allo svilupparsi di malattie ed all’invecchiamento, che di per sé rappresenta il maggior fattore di rischio per malattie e morte dopo i 28 anni nei paesi sviluppati. L’invecchiamento è, dunque, caratterizzato da un complesso di mutamenti che inducono un aumento del rischio di malattia e di morte [12]. Una recente definizione amplia ancor di più tale concetto riconoscendo l’invecchiamento come una trasformazione che coinvolge l’organismo in ogni tempo, riferendosi non solo a cambiamenti associati alla perdita (ossia alla senescenza, che è la definizione più comunemente accettata per invecchiamento), ma anche all’acquisizione di funzioni (crescita e sviluppo). Usando tale definizione, la velocità di invecchiamento sarebbe
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sinonimo di velocità di cambiamento. Infatti la velocità di cambiamento/invecchiamento è massima durante il periodo fetale, quando l’organismo si sviluppa da singola cellula (all’atto del concepimento) a complesso organismo multicellulare alla nascita. Pertanto, l’invecchiamento fetale sarebbe determinato da fattori che regolano la rapidità di mitogenesi, differenziazione e morte cellulare e che sono responsabili della regolazione dell’invecchiamento durante tutto l’arco della vita [13]. Sul piano teorico i meccanismi di base sono quelli relativi alla teoria dell’invecchiamento programmato (secondo cui la durata della vita dipenderebbe da geni che sequenzialmente inviano e bloccano segnali ai sistemi nervoso, endocrino ed immune) ed alla teoria dell’errore (in cui gli insulti ambientali sarebbero responsabili del danno progressivo a vari livelli degli organismi viventi). Negli organismi multicellulari complessi (dove i singoli meccanismi possono sovrapporsi a vari livelli di organizzazione) lo studio delle interazioni tra cause intrinseche (genetiche), estrinseche (ambientali) e stocastiche (danno casuale di molecole) permette un più corretto approccio per la comprensione del processo dell’invecchiamento [14]. Al di là delle singole teorie che cercano di spiegare in modo più o meno completo il processo dell’invecchiamento possiamo trarre conclusioni comuni a tutte le teorie. La ridondanza è un elemento chiave per la comprensione dell’invecchiamento, sistemi che sono ridondanti per numero di elementi non sostituibili (cellule post-mitotiche), vanno incontro a deterioramento (invecchiamento) nel tempo, anche se costituiti da elementi eterni. La velocità d’invecchiamento o l’espressione fenotipica dell’invecchiamento (misurata anche come mortalità) è maggiore per i sistemi con livelli maggiori di ridondanza. L’esaurimento della ridondanza nel corso della vita spiega la legge compensatoria della mortalità
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(convergenza della mortalità ad età avanzata) così come la decelerazione della mortalità a tarda età, ed i plateau di mortalità. Gli organismi viventi sembrano essere formati con un alto carico di danno iniziale, e perciò i pattern della loro durata di vita e d’invecchiamento possono essere sensibili nelle prime fasi di vita alle condizioni che determinano il carico di danno durante lo sviluppo [15].
2.2 Le teorie dell’invecchiamento
2.2.1 Teoria Genetica
Le modificazioni nell’espressione genica indotte dall’invecchiamento sono alla base della teoria della regolazione genica della senescenza [16]. Tuttavia, sebbene sia chiaro che molti geni vanno incontro a modificazioni dell’espressione con l’età [17], è improbabile che la selezione naturale possa agire su geni che promuovano direttamente la senescenza [18] influenzando, piuttosto, la selezione di geni che promuovono la longevità. Recenti studi, in cui si è osservato come ad età molto avanzate la variabilità genetica declini, contraddicono la teoria della regolazione genica in cui i modelli genetici d’invecchiamento predicono un incremento della variabilità genetica con l’età. Se la variabilità genetica nello sforzo riproduttivo coinvolge la variabilità genetica nella mortalità, il declino dello sforzo riproduttivo a tarda età dovrebbe portare ad una riduzione della variabilità genetica nella mortalità. Partendo da tali presupposti [19] hanno dimostrato che la variabilità per mortalità e fertilità declina in età avanzata [19].
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2.2.2 Teoria ossidativa
Elaborata nel 1954 da D. Harman (premio Nobel nel 1995), il quale ipotizzò che la causa della senescenza fossero i radicali liberi prodotti durante i processi metabolici. Questa teoria su cui ci focalizzeremo maggiormente sarà approfondita nel capitolo successivo.
2.2.3 Teoria evoluzionistica
La teoria evoluzionistica ipotizza che l’invecchiamento sia dovuto ad una riduzione delle capacità di selezione naturale. Poiché l’evoluzione agisce in modo da ottimizzare le capacità riproduttive di una specie, la longevità è un tratto genetico che dovrebbe essere selezionato solo se è a beneficio della riproduzione. Pertanto, la durata della vita sarebbe il risultato di pressioni selettive finalizzate all’incremento delle capacità riproduttive con un ampio grado di flessibilità inter- ed intra- specie. La teoria evoluzionistica fu formulata per la prima volta negli anni ’40, basandosi sull’osservazione che la malattia di Huntington, una mutazione dominante mortale, permaneva nella popolazione, sebbene fortemente sfavorevole dal punto di vista selettivo [20]. La tarda età di comparsa della malattia di Huntington (30-40 anni) permette al portatore di riprodursi prima di morire, rendendo la malattia non soggetta alla selezione naturale. Tale osservazione ha ispirato la teoria dell’accumulo delle mutazioni dell’invecchiamento, la quale suggerisce che mutazioni dannose, agenti tardivamente, possano accumularsi nella popolazione ed alla fine portare a malattia e senescenza [21].
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2.2.4 Teoria della senescenza cellulare
La senescenza cellulare fu descritta, per la prima volta nel 1956, come il processo che limita il numero di divisioni cellulari normali umane che possono avvenire in coltura [22]. Questo “limite nella capacità replicativa” si realizza dopo un caratteristico numero di divisioni cellulari (limite di Hayflick) e può verificarsi anche in risposta a diversi eventi molecolari [23]. La senescenza replicativa è caratterizzata dalla perdita di telomeri (strutture specializzate composte da una sequenza ripetuta di DNA e posizionate alla fine di ogni cromosoma). Con ogni divisione cellulare, una piccola quantità di DNA è necessariamente persa alla fine di ogni cromosoma, portando a telomeri sempre più corti, alterata struttura telomerica ed eventuale senescenza replicativa [24].
2.2.5 Teoria neuroendocrina
Secondo tale teoria l’invecchiamento è una conseguenza di alcuni cambiamenti delle funzioni nervose ed endocrine coinvolgenti selettivamente i neuroni e gli ormoni che regolano, dal punto di vista evoluzionistico, la riproduzione, la crescita, lo sviluppo e la sopravvivenza attraverso adattamento allo stress. La durata della vita sarebbe regolata da fasi sequenziali e governata da segnali nervosi ed endocrini [25] [26]. La crescita post-embrionale è, infatti, caratterizzata da una costante riduzione di alcuni parametri in relazione ad altri. Si ipotizza che le stesse sostanze che promuovono ed inibiscono la crescita regolino non solo lo sviluppo ma anche l’invecchiamento e che è tale equilibrio tra promotori ed inibitori dello sviluppo che cambia costantemente [27].
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2.2.6 Teoria immunitaria
La teoria immunologica dell’invecchiamento, proposta più di 40 anni fa da Roy Walford, suggerisce che il normale processo d’invecchiamento nell’uomo e negli animali sia patogeneticamente correlato a processi immunologici sbagliati [28]. In molti esseri umani anziani, l’immunosenescenza è caratterizzata da una ridotta resistenza alle malattie infettive, una ridotta protezione contro il cancro, ed un’aumentata incapacità di autoriconoscimento [29]. D’altro canto, differenti risposte immunitarie sono influenzate diversamente con l’età.
2.2.7 Teoria del doppio agente
La teoria del doppio agente è una nuova, unificante sintesi di 3 teorie portanti dell’invecchiamento. Essa ipotizza che vi è un’alternanza tra stress ossidativo come segnale critico di deossidazione, che assembla difese genetiche contro lo stress fisiologico (quali infezioni), e lo stress ossidativo come causa d’invecchiamento e di malattie età-correlate. La risposta allo stress e l’invecchiamento sono legati da fattori trascrizionali sensibili alla deossidazione, come l’NF- κB. L’invecchiamento è in funzione dell’accrescimento dello stress ossidativo intracellulare, piuttosto che essere legato ad un fattore cronologico, ma tale relazione non è evidente poichè la fuoriuscita di RL dai mitocondri tende ad aumentare con l’età. La fuga mitocondriale produce una risposta genetica che mima le conseguenze di un’infezione, ma poichè tale fuga mitocondriale è continua lo shift nell’espressione genica è persistente, portando alle caratteristiche infiammazioni croniche dell’anziano. Pertanto le malattie età-correlate sono il prezzo che paghiamo al controllo deossidazione di ROS/espressione genica. Poiché la pressione selettiva favorente la risposta allo stress in giovani è più forte di quella che
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penalizza le malattie degenerative dopo il declino riproduttivo, possiamo essere refrattari a supplementi antiossidanti che mirano allo switch riduttivo. Inoltre, poichè la selezione genetica avviene prevalentemente in un ambiente omeostaticamente caratterizzato da deossidazione in giovani, alleli associati con malattie età-correlate non sono danneggiati, ma sono semplicemente meno efficaci in condizioni ossidanti nell’anziano. Di conseguenza, la terapia genica per malattie età- correlate è improbabile che abbia successo a meno che lo stress ossidativo possa essere controllato fisiologicamente, alterando l’attività e la funzione di centinaia di geni [30].
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2.3 Le malattie neurodegenerative: la demenza
Nell’invecchiamento si osserva una fisiologica modificazione delle funzioni cognitive, un rallentamento nei processi di apprendimento, una modificazione della velocità di esecuzione delle prove di performance e il declino della memoria. Queste modificazioni sono stabili e non hanno un impatto funzionale poiché l’anziano normale riesce a compensare con la ridondanza e la plasticità. Quando invece i soggetti sono colpiti da un decadimento patologico delle prestazioni cerebrali, in particolare di quelle intellettive, per i quali il vivere quotidiano diventa problematico allora si parla di Demenza. Come evidenziato nel Piano Nazionale Demenze (2014) stilato dalla Presidenza dei Ministri – Conferenza Unificata,
Le demenze comprendono un insieme di patologie (demenza di Alzheimer, vascolare, fronto-temporale, a corpi di Lewy, forme miste, ecc.) che hanno un impatto notevole in termini socio-sanitari sia perche' un sempre maggior numero di famiglie ne sono drammaticamente coinvolte, sia perche' richiedono l'attivazione di una qualificata rete integrata di servizi sanitari e socio-assistenziali. Le demenze, inoltre, rappresentano una delle maggiori cause di disabilita'. Dato il progressivo invecchiamento della popolazione generale queste patologie stanno diventando, e lo saranno sempre piu', un problema rilevante in termini di sanita' pubblica.
Si parla di demenza pre-senile quando la patologia colpisce soggetti di età inferiore ai 60-65 anni, mentre negli altri casi si parla di demenza senile.
Fra le demenze pre-senili quelle nettamente più frequenti sono la malattia di Alzheimer-Perusini e la malattia di Pick, più rara. Entrambe colpiscono prevalentemente le donne. La prima si manifesta fra i 45 e i 60 anni, inizia con
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disorientamento spaziale, turbe della memoria afasia, irrequietezza, e degenera in un quadro di demenza completa. La seconda può presentare sintomi differenti, perché la malattia può colpire zone diverse dell’encefalo; solitamente si ha alterazione della personalità con caduta dei freni inibitori, logorrea, agitazione. Come nel primo caso, anche questa patologia presenta un quadro finale di totale compromissione delle funzioni intellettive.
La demenza senile è decisamente più frequente di quella pre-senile; in base a stime recenti, si calcola che nei soggetti in età senile si riscontra una percentuale oscillante tra il 5 e il 15% di persone che presentano sintomi e/o segni di demenza; si stima altresì che, a partire dai 70 anni, le probabilità di riscontrare casi di demenza senile raddoppino ogni 5 anni. Nei soggetti ultraottantenni la percentuale di demenza è decisamente alta (22% circa).
Oltre all’impatto sulla qualità della vita, l’insorgenza di una forma di demenza riduce drasticamente l’aspettativa di vita; una demenza che faccia il suo esordio a 60 anni riduce l’aspettativa di vita da 23 a 7 anni; una demenza insorta a 74 anni lascia alla persona un’aspettativa di vita di 5 anni (contro un’aspettativa di vita di 9 anni circa di una persona sana).
Secondo stime delle Nazioni Unite, nel 2030 saranno 63 milioni le persone affette da demenza senile; nel 2050 i casi demenza senile saranno quasi raddoppiati (114 milioni circa). Visti i numeri in ballo e le inevitabili ripercussioni del problema sul piano socio-economico, non stupisce che la lotta alla demenza senile sia una delle sfide più importanti per sistemi sociali e sanitari del mondo.
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Demenza è un termine piuttosto generico sotto il quale vengono inquadrate molte condizioni patologiche caratterizzate da un progressivo deterioramento delle funzioni intellettive che ha luogo dopo il loro sviluppo completo; si tratta, essenzialmente, di disturbi diversi fra loro e che hanno diversa eziologia, ma una sintomatologia molto simile. Alla base delle demenze, comunque, c’è sempre una patologia cerebrale che provoca una grave compromissione delle facoltà cerebrali superiori (memoria, capacità di ragionamento, di pianificazione, di risolvere un problema ecc.). Appare ovvio come una patologia del genere abbia un impatto devastante sulla vita del soggetto (e su quella delle persone a lui vicine) dal momento che arriva a compromettere la sua attività lavorativa, i suoi interessi personali, gli hobby, le relazioni personali ecc.
La Demenza è un disturbo intellettuale acquisito di natura organica. Presenta una progressiva perdita della memoria a breve e lungo termine e di almeno una delle attività mentali primarie, cioè il pensiero astratto, la capacità critica, il linguaggio, l’orientamento topografico in assenza di alterazioni della coscienza. Presenta una significativa interferenza sull’attività lavorativa e sulle relazioni interpersonali (Manuale diagnostico dei disturbi Mentali-DSM IV) .
Nel 60% dei casi, la demenza è causata dalla malattia di Alzheimer e nel 10% dei casi è dovuta a lesioni ischemiche provocate dall’ interruzione del flusso di sangue [31].
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Il DSM 5 utilizza la definizione di “Disturbi Neurocognitivi Maggiori”. Definendoli come uno o più menomazioni significative acquisite (indipendenza perduta) a domini cognitivi quali:
1. Memoria (Amnesia).
2. Linguaggio (Afasia).
3. Esecuzione movimento volontario (Aprassia).
4. Riconoscimento/Familiarità (Agnosia).
5. Funzione visuospaziale (Disorientamento Topografico).
6. Autocontrollo.
7. Altri esempi : Matematica (discalculia), espressione emotiva /
comprensione (dysprosody), Scrittura (agrafia).
Come evidenziato nel Piano Nazionale Demenze (2014) stilato dalla Presidenza dei Ministri – Conferenza Unificata,
in Europa si stima che la prevalenza delle demenze incrementi, nel medesimo periodo di tempo, dall'1,6% nella classe d'eta' 65-69 anni al 22,1% in quella maggiore di 90 anni nei maschi e dall'1% al 30,8% rispettivamente nelle donne. I tassi di incidenza per demenza variano dal 2.4 per 1000 anni persona nella classe d'eta' 65-69 anni fino al 40,1 per 1000 anni persona in quella maggiore di 90 anni nella popolazione maschile e dal 2,5 all' 81,7 rispettivamente nella popolazione femminile. La demenza di Alzheimer rappresenta, secondo queste stime, circa il 60% di tutte le demenze.
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I problemi correlati a questa condizione possono essere compresi in tre fasi differenti. Una prima fase iniziale (nei primi due anni dall’esordio della sindrome); una seconda fase centrale (dal secondo fino al quinto anno dall’ esordio); e una fase avanzata (dal quinto anno in poi). Si tratta tuttavia di una divisione approssimativa, dal momento che si può assistere a deterioramenti più o meno rapidi (OMS, 2012).
Nella fase iniziale i sintomi della malattia sono appena pronunciati e non si registrano compromissioni cognitive tali da impedire lo svolgimento delle normali attività quotidiane. Nella fase successiva i sintomi sono più pronunciati e alcune attività quotidiane possono essere svolte soltanto con l’aiuto di un’altra persona. Nella terza fase i sintomi sono ben pronunciati e il malato non ha più ormai la possibilità di svolgere le normali attività quotidiane in modo autonomo; iniziano a manifestarsi sintomi e segni quali incontinenza urinaria e fecale, incapacità ad alimentarsi autonomamente e incapacità di uscire dall’abitazione anche se accompagnati da altri. Quando la patologia si trova nell’ultimo stadio, la persona malata non è più in grado di comunicare con il mondo esterno e si trova in uno stato pressoché vegetativo.
Per quanto riguarda il processo diagnostico, la compromissione delle funzioni cognitive richiede l’ esclusione di altre patologie che possono essere confuse con la demenza, ma la diagnosi non è sempre agevole e necessita di un’ attenta valutazione a livello anamnestico e neuropsicologico [32].
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2.4 La malattia di Alzheimer
La malattia di Alzheimer è una malattia degenerativa , le cui conseguenze cliniche dipendono dalla morte progressiva e irreversibile delle cellule cerebrali , causando così la perdita della capacita associativa delle diverse aree della corteccia cerebrale [32]. La Malattia di Alzheimer è la causa più frequente di demenza negli anziani. Stime recenti indicano che nel mondo circa 18 milioni di persone sono affette da demenza, circa 700.000 in Italia. Sebbene nel corso degli ultimi 20 anni si è assistito ad importanti acquisizioni, la diagnosi pone ancora una serie di difficoltà quali la mancanza di elementi prognostici certi nella fase precoce, la variabilità della presentazione clinica, la non rara presentazione atipica e la possibile associazione ad altre patologie di carattere internistico, neurologico, psicologico e sociale. Le ricerche più recenti si sono concentrate sulla necessità di acquisire informazioni più dettagliate relative alla fase preclinica (in funzione della possibilità presunta di poter rallentare l’evoluzione verso la malattia conclamata) ed in particolare sui fattori che possono modificare la transizione dalla fase preclinica verso la malattia di Alzheimer conclamata e di differenziare tale peculiare patologia rispetto alle condizioni cliniche le cui caratteristiche cognitive possono accompagnare il normale processo di invecchiamento. La maggior parte delle informazioni epidemiologiche sulla malattia di Alzheimer nel mondo mostrano stime variabili legate alla estrema variabilità dei test utilizzati per differenziare tale patologia dal semplice deficit cognitivo, alla mancanza di criteri uniformi di valutazione del paziente da adottare nel corso degli screening di popolazione, oltre alla estrema variabilità delle definizioni adottate in letteratura per definire il deficit cognitivo lieve.
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Oggi l’unico modo di fare una diagnosi certa di demenza di Alzheimer è attraverso l’identificazione delle placche amiloidi nel tessuto cerebrale, possibile solo con l’autopsia dopo la morte del paziente. Questo significa che durante il decorso della malattia si può fare solo una diagnosi di Alzheimer “possibile” o “probabile”. Per questo i medici si avvalgono di diversi test:
 esami clinici, come quello del sangue, delle urine o del liquido spinale
 test neuropsicologici per misurare la memoria, la capacità di risolvere problemi, il grado di attenzione, la capacità di contare e di dialogare
 Tac cerebrali per identificare ogni possibile segno di anormalità
 Questi esami permettono al medico di escludere altre possibili cause che portano a sintomi analoghi, come problemi di tiroide, reazioni avverse a farmaci, depressione, tumori cerebrali, ma anche malattie dei vasi sanguigni cerebrali.
Come in altre malattie neurodegenerative, la diagnosi precoce è molto importante sia perché offre la possibilità di trattare alcuni sintomi della malattia, sia perché permette al paziente di pianificare il suo futuro, quando ancora è in grado di prendere decisioni. Le caratteristiche cliniche della malattia possono variare notevolmente da soggetto a soggetto, tuttavia il più precoce ed evidente sintomo è in genere una perdita significativa della memoria che si manifesta all’inizio soprattutto con difficoltà nel ricordare eventi recenti e successivamente si aggrava con lacune in ambiti sempre più estesi. Oggi sappiamo che la perdita di memoria è la diretta espressione della perdita, nel cervello, di materia grigia, in particolari aree cruciali per i nostri ricordi, come l'ippocampo, una struttura cerebrale deputata espressamente alla formazione ed al
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consolidamento memorie. Spesso, a questo primo sintomo, si associano altri disturbi quali: difficoltà nell’esecuzione delle attività quotidiane, con conseguente perdita dell’autonomia; disturbi del linguaggio con perdita della corretta espressione verbale dei pensieri, denominazione degli oggetti oppure impoverimento del linguaggio e ricorso a frasi stereotipate. Altre volte il sintomo che si associa al disturbo di memoria può essere rappresentato anche dal disorientamento spaziale, temporale e topografico. Frequenti sono anche alterazioni della personalità: più precisamente l’anziano appare meno interessato ai propri hobby o al proprio lavoro, oppure ripetitivo. La capacità di giudizio è diminuita spesso precocemente, cosicché il paziente manifesta un ridotto rendimento lavorativo e può essere incapace di affrontare e risolvere problemi anche semplici relativi ai rapporti interpersonali o familiari. Talvolta l’inizio della malattia è contrassegnato dalla sospettosità nei confronti di altre persone, accusate di sottrarre oggetti o cose che il malato non sa trovare. Nella grande maggioranza dei casi, solo a distanza di 1-2 anni dall’esordio della malattia il disturbo della memoria è tale che i familiari ricorrono all’aiuto di uno specialista perché i sintomi iniziali dell’Alzheimer sono spesso attribuiti all’invecchiamento, allo stress oppure a depressione.
Tra i fattori di rischio di questa malattia troviamo quelli non modificabili e quelli modificabili. Tra i fattori di rischio non modificabili troviamo l'età e la familiarità. Per quanto riguarda quelli modificabili troviamo il fumo di sigaretta, esposizione ad agenti tossici, livello di istruzione e di attività intellettuale, fattori di rischio cardiovascolari. In aggiunta, alcuni studi hanno dimostrato come anche l’ipercolesterolemia sia un
potente fattore di rischio.
Le terapie farmacologiche per i disturbi cognitivi, sia in termini di evidenze scientifiche sia di esperienza clinica, rilevano l’efficacia di alcuni inibitori delle colinesterasi nel
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miglioramento delle capacità cognitive e delle capacità di eseguire le diverse attività della vita quotidiana [33].
Per quanto riguarda la terapia non farmacologica, il concetto di riabilitazione e di cognitività che si è cercato di definire giustifica quindi una rosa possibile di metodi, obiettivi e tecniche riabilitative applicate alle persone con demenza di Alzheimer. Gli interventi possibili sulle funzioni mentali superiori, che sono numerosi e di cui si hanno revisioni basate sulla evidenza in altri campi patologici, trovano la letteratura che ne esamina le applicazioni per la demenza piuttosto negativa. Nell’articolo sul “management” della demenza, l’American Academy of Neurology fa menzione degli interventi non farmacologici solo in applicazione ai sintomi non cognitivi della demenza. La pubblicazione dell’“Expert Panel – Documento di consenso – Malattia di Alzheimer” dice: “Nella Malattia di Alzheimer sono state proposte psicoterapie orientate alle capacità cognitive sotto forma di training della memoria o dell’orientamento. I benefici riportati per queste procedure devono essere oggetto di ulteriori sperimentazioni”, con un livello 4, cioè basso, di consenso (affermazione né provata né contraddetta dagli studi pubblicati). In una revisione di letteratura sul tema delle terapie non farmacologiche per la demenza, la conclusione generale fa riferimento al fatto che non vi sono prove di efficacia, mancando studi randomizzati controllati; tuttavia nel testo le conclusioni sono soprattutto di necessità di rilancio della ricerca su questi temi. Ma vedremo che ultimamente qualche studio di questo tipo è stato condotto, con risultati interessanti. La applicazione concreta di questi interventi, allo stato attuale, riguarda soprattutto la Reality Orientation Therapy (ROT). L’obiettivo della ROT è riorientare il paziente con l’uso di una stimolazione continua attraverso la ripetizione dell’orientamento all’ambiente. In realtà questa tecnica nacque
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per i veterani della guerra e successivamente adoperata per gli anziani confusi e solo alla fine degli anni ’70 applicata alle persone con demenza. Ebbe un certo sviluppo negli anni ’80 e poi fu un po’ trascurata. Vi sono dei limiti di applicabilità piuttosto seri: lo stato del registro sensoriale, la possibilità cognitiva di feed back sulle informazioni trasmesse, la accettazione della terapia da parte della persona con demenza. Questo ne restringe il campo sia in senso negativo (non utile a persone troppo deteriorate) sia in senso positivo (persone troppo intatte), ed è quindi stato individuato un range di massima efficacia (nelle situazioni moderate, meglio che in quelle iniziali), cosa che del resto è comune a tutti i trattamenti riabilitativi. Secondo la maggior parte degli autori i benefici della terapia della realtà sono assicurati solo nel momento in cui si protrae l’intervento, mentre non vi sono dimostrati effetti a lungo termine. Altri dati interessanti dimostrerebbero invece effetti positivi a lungo termine sulla progressione della demenza e sull’istituzionalizzazione. La ROT comporta un rischio relativo di 0,60 per il declino cognitivo e di 0,42 per l’istituzionalizzazione, con un guadagno di sette mesi per il declino cognitivo e di sei mesi per l’istituzionalizzazione nel confronto dei non trattati. In uno studio di neuroimaging molto interessante Rapaport ci ha dato una possibile interpretazione fisiopatologica per la limitata efficacia della stimolazione cognitive nelle fasi avanzate della demenza, correlandola con la funzione delle fosforilazioni ossidative che si mantiene nelle prime fasi simile, se stimolata, a quella dei sani, per poi declinare gravemente. La Cochrane review afferma che: “Vi è qualche evidenza che la ROT abbia benefici sia sulla cognizione che sulle abitudini. Tuttavia non è chiaro fino a che punto i benefici della ROT si estendono dopo la fine del trattamento , ma sembra che un programma di continuo può essere necessario per sostenere i potenziali benefici ”. Per la “terapia della realtà”, quindi vi sono alcune evidenze di
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beneficio sia sulla cognitività che sul comportamento, ma tali benefici necessitano di un programma continuo.
E 'stato suggerito che lo squilibrio ossidativo e, danno neuronale conseguente, possono giocare un ruolo critico nella iniziazione e la progressione di malattia di Alzheimer [34]. L'eccessivo accumulo di ROS nei pazienti può indurre disfunzione mitocondriale. L'accumulo di beta-amiloide sembra aumentare lo stress ossidativo e portare a disfunzioni anche in fase precoce di malattia di Alzheimer [35]. Studi precedenti hanno implicato che lo squilibrio ossidativo indotto da questa malattia può aumentare i livelli dei sottoprodotti legati alla perossidazione lipidica (ad esempio 4-hydroxynonal, malonidialdehyde), ossidazione proteica (es carbonil) e DNA / ossidazione RNA (ad esempio 8-hydroxyldeoxyguanosine e 8 hydroxylguanosine ). Al contrario, i livelli di antiossidanti (ad esempio l'acido urico, vitamina C ed E) o enzimi antiossidanti (ad esempio superossido dismutasi, catalasi, ecc) sono stati trovati diminuiti in pazienti con . Inoltre, la proteina mutante precursore dell'amiloide (APP) e la presenilina-1 (PS-1) hanno mostrato un aumento dei livelli di H2O2 e di perossidazione di proteine e lipidi, il che implica che le placche amiloidi possono aumentare lo stress ossidativo nella malattia di Alzheimer [36] [37]. Lo stress ossidativo può anche aggravare la produzione e aggregazione delle placche amiloidi e promuovere la fosforilazione delle proteine TAU, che potrebbero indurre un circolo vizioso di patogenesi [36]. Numerosi studi precedenti hanno dimostrato che lo stress ossidativo promuove anche la produzione di placche amiloidi. E 'stato riferito che i difetti nei meccanismi di difesa antiossidanti causano un aumento dello stress ossidativo e un aumento delle deposizioni di queste placche in topi transgenici con APP mutazione [36]. Ci sono diverse prove che suggeriscono disfunzione mitocondriale. In primo luogo, il ridotto metabolismo
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energetico del cervello è stato spesso osservato in persone con malattia di Alzheimer [34]. Un precedente studio ha anche riferito che è diminuito il metabolismo del glucosio cerebrale, questo è stato associato a riduzioni di espressione neuronale dei geni che codificano le subunità della catena di trasporto degli elettroni mitocondriale. In secondo luogo, l'attività di enzimi chiave del metabolismo ossidativo, tra cui α-chetoglutarato deidrogenasi, piruvato deidrogenasi, e citocromo ossidasi sono stati trovati ridotti [34]. Essi erano significativamente correlati con la gravità clinica e la placche senili [38]. In terzo luogo, Aβ induce disfunzione mitocondriale e contribuisce alla compromissione dell'omeostasi del calcio [34]. Questo processo si osserva in seguito con il risultato di un aumento del sovraccarico del calcio e una sua diminuita ricaptazione [39]. L'accumulo di calcio mitocondriale può essere correlato ad un aumento della produzione di ROS e l'apertura dei pori di transizione della permeabilità (PTP) [40]. Esso può essere responsabile per la traslocazione di molecole pro-apoptotici dai mitocondri al citosol e apoptosi. Incrementi di calcio intracellulare possono essere misurati indirettamente valutando l'attività della chinasi calmodulina-dipendenti e calpaina. È interessante notare che una maggiore attività in chinasi calmodulina-dipendente e calpaina è stata osservata nella fase iniziale di malattia di Alzheimer [34].
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2.5 Il morbo di Parkinson
La prima descrizione della Malattia di Parkinson si deve a James Parkinson, il quale nel 1817, definì questa patologia "Paralisi Agitante". Citando le sue parole, la Malattia di Parkinson è caratterizzato da: "tremori involontari in parti non in movimento, con tendenza a piegare il tronco in avanti e a passare dal camminare al correre, mentre la sensibilità e l'intelligenza sembrano intatte" (Parkinson, 1817). Stranamente, la classica descrizione del Dott. Parkinson non fa riferimento alla rigidità e alla lentezza dei movimenti (acinesia) che questa malattia più frequentemente induce nei pazienti, e che, con il tremore, costituiscono la cosiddetta triade sintomatologica (ovvero i tre segni principali) della Malattia di Parkinson. Si tratta infatti, di un'affezione molto più frequente di quanto comunemente si creda: circa 20 nuovi casi di malattia ogni 100.000 abitanti compaiono ogni anno, interessa i due sessi in eguale maniera e colpisce tutte le razze [41]. La Malattia di Parkinson colpisce invece i soggetti di età superiore ai 40 anni [42]. Studi epidemiologici recenti suggeriscono addirittura un aumento progressivo nell'incidenza di questa patologia: in ogni caso con il progressivo aumentare della durata media della vita, la Malattia di Parkinson costituirà un problema medico-sociale sempre più importante [43]. Lo studio di Bennett [44], su 467 soggetti di età superiore ai 65 anni, 159 (34%) erano parkinsoniani, con un aumento progressivo della prevalenza della malattia all'aumentare dell’età (65-74, 14.9%; 75-84, 29.5%; >85 anni, 52,4%). La Malattia di Parkinson fa parte del gruppo delle malattie degenerative del Sistema Nervoso Centrale (SNC). Queste malattie vengono classificate insieme per via di diverse caratteristiche comuni: causa sconosciuta, insorgenza insidiosa dopo un lungo periodo di normale funzionamento del
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SNC; decorso gradualmente progressivo, che può continuare per molti anni; lenta distruzione dei neuroni o di certi gruppi neuronali specifici, tanto che queste malattie vengono anche chiamate "Atrofie neuronali". La malattia di Parkinson è la più frequente tra le malattie degenerative del SNC; essa rispecchia tutte le suddette caratteristiche e anzi può essere considerata il prototipo delle malattie degenerative del SNC. Spesso il paziente si accorge tardi di avere dei problemi e anche i familiari, inizialmente, possono non accorgersi della presenza dei segni della malattia, proprio perché all'esordio i sintomi possono essere molto sfumati e non creare grosse disabilità al paziente. Sempre per questo motivo è difficile per il medico riuscire a risalire alla data di inizio dei disturbi. Una volta stabilita la diagnosi di Malattia di Parkinson, il decorso della patologia è inesorabilmente progressivo. Tuttavia nei diversi pazienti il decorso può essere estremamente variabile, da casi in cui si ha una progressione repentina dei disturbi ad altri in cui esistono lunghi periodi di stabilità della malattia [42]. Nel cervello dei pazienti affetti da Malattia di Parkinson avviene una scomparsa progressiva delle cellule della Substantia Nigra: un gruppo di neuroni localizzato nella porzione antero-superiore del Mesencefalo. Queste cellule contengono un pigmento detto "melanina neuronale" responsabile della loro tipica colorazione nera, per questo il loro insieme si chiama Sostanza Nera. Dalle cellule della Sostanza Nera si dipartono delle terminazioni nervose che entrano in contatto ("sinapsi") con i neuroni dello Striato, un nucleo dei Gangli della Base. Queste terminazioni costituiscono la "via nigrostriatale", la quale è parte integrante del cosiddetto Sistema Extrapiramidale, deputato al controllo del movimento, della postura, dell'equilibrio e della marcia. Il Sistema Extrapiramidale a sua volta è costituito da diverse strutture: il Nucleo Caudato e il Putamen, che insieme formano lo "Striato", il Globus Pallidus, la Sostanza Nera, il
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Nucleo Subtalamico del Luys, il Nucleo Rosso, la Formazione Reticolare del troncoencefalo. Tutte queste strutture formano un "circuito" neuronale che lavora di concerto con la Corteccia Cerebrale e con il Talamo, con la funzione di facilitare quelle parti della corteccia cerebrale che attivano la memoria dei gesti e i movimenti "automatici". In realtà la Malattia di Parkinson è caratterizzata dalla presenza di un gruppo di sintomi come rigidità, acinesia, tremore in grado più o meno marcato ed in forma progressiva. Questi sintomi si trovano però anche in altre malattie, in cui la degenerazione non è principalmente del sistema dopaminergico, e che non sono caratterizzate dalla presenza di Corpi di Lewy, o che sono causate da sostanze tossiche note. Per questo motivo è necessario fare delle distinzioni tra i Parkinsonismi, ovvero tra le possibili affezioni caratterizzate da rigidità, acinesia e tremore. La classificazione presenta questa distinzione, separando in maniera netta la Malattia di Parkinson propriamente detta o Parkinsonismo Idiopatico, dalle Atrofie Multisistemiche e Parkinsonismi secondari, che rappresentano all’incirca il 20% (con esclusione del Parkinsonismo iatrogeno) di tutte le forme Parkinsoniane.
35 CLASSIFICAZIONE DEI PARKINSONISMI.
 Malattia di Parkinson Idiopatica
 Parkinsonismi secondari a :
o Infezione: Encefalite letargica Encefalitidi Sifilide
o Tossici: Mn (Manganese) CO (Monossido di Carbonio) CS2 (Solfuro di Carbonio) CN (Cianuro) Metanolo MPTP
o Farmaci: Neurolettici fenotiazine butirrofenoni tioxanteni benzamidi Reserpina, Tetrabenazina metil DOPA flufenazina, cynnarizina ciproeptadina
o Cause Metaboliche: Ipoparatiroidismo degenerazione-epatocerebrale
 Parkinsonismi associati ad altre affezioni degenerative del SNC Atrofia multipla sistemica: Degenerazione striato-nigrica OPCA/atrofia olivopontecerebellare Shy-Drager Paralisi Sopranucleare Progressiva (PSP) Atrofia pallidale primaria Distonia-Parkinsonismo Degenerazione Corticobasale Pick Alzheimer Creutzfeld-Jakob Gerstmann Straussler Malattia di Rett etc.
 Parkinsonismo in altre affezioni del SNC Idrocefalo normoteso Infarti cerebrali Tumori cerebrali Traumi Ematoma subdurale
 Parkinsonismi associati a malattie ereditarie Wilson Hallervorden-Spatz Huntington Parkinson con atassia e neuropatia Parkinson con iperventilazione alveolare.
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La diagnosi del morbo di Parkinson è piuttosto agevole in presenza dei sintomi principali. Sovente non sono presenti tutti questi sintomi e ne compaiono solo alcuni in forma incompleta. Inoltre, il procedere lento e subdolo della malattia rende difficile la sua identificazione fin dal suo esordio [45]. I sintomi iniziali della Malattia di Parkinson possono essere molto difficili da riconoscere e spesso vengono trascurati dallo stesso paziente. In età avanzata gli arti e la colonna vertebrale diventano caratteristicamente meno flessibili ed elastici, i passi si accorciano fino a ridursi ad un passo strascicato, la voce tende a farsi flebile ed uniforme. Di conseguenza è facile comprendere come nella gran parte dei casi i primi segni della malattia vengono attribuiti facilmente agli effetti dell'invecchiamento [46]. Il paziente può non essere cosciente dell'insorgere della malattia per molto tempo; inizialmente infatti può lamentarsi esclusivamente per un dolore diffuso aspecifico, per una sensazione di faticabilità e per la presenza di debolezza muscolare. La rigidità e la lentezza, se lievi, vengono ignorate fino al giorno in cui non viene in mente ad un familiare o ad un medico che il paziente ha la Malattia di Parkinson. La ridotta frequenza dell'ammiccamento è un segno precoce che spesso può aiutare nella diagnosi: infatti, la frequenza usuale di ammiccamento nei soggetti normali si aggira intorno ai 20 battiti al minuto; nel paziente parkinsoniano, invece, può essere ridotta fino a 5-10 battiti palpebrali al minuto. Si può avere inoltre un lieve aumento di ampiezza delle rime palpebrali (Segno di Stellwag). Quando è seduto, il paziente compie dei cambiamenti e degli assestamenti della posizione meno frequenti rispetto ad una persona normale. Il tremore caratteristico, che di solito colpisce una mano, viene spesso indicato come il sintomo di inizio della malattia (circa nel 60-65% dei casi) ed è il sintomo che, nella maggioranza dei casi, fa giungere il paziente dal medico; tuttavia, in almeno la metà dei casi, interrogando i familiari che osservavano il
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paziente, si deduce che l’immobilità relativa e la scarsità dei movimenti erano già presenti da tempo prima che insorgesse il tremore [42]. Altri sintomi di allarme sono i dolori al collo, alle spalle, alla schiena e alle anche, che però possono essere scambiati per dolori artrosici, tanto che frequentemente il paziente affetto da Malattia di Parkinson giunge all'osservazione del Neurologo dopo essere passato dal Reumatologo o dall'Ortopedico. la Malattia di Parkinson, nella sua forma più tipica, è caratterizzato dalla presenza di una triade sintomatologica rappresentata da: 1. Tremore 2. Rigidità 3. Bradicinesia Oltre a questi disturbi che costituiscono i sintomi primari della malattia, spesso si associano altri sintomi secondari non caratteristici; ovvero che non compaiono nella maggioranza dei pazienti. Molti dei sintomi secondari presentati dal paziente parkinsoniano sono dovuti agli effetti di uno o più dei sintomi primari su un gruppo muscolare specifico: ad esempio la difficoltà del linguaggio deriva dagli effetti della rigidità, del tremore e della bradicinesia sui muscoli della gola usati nella fonazione [41]. Tra i sintomi secondari troviamo: depressione, disturbi del sonno, alterazioni psichiche e cognitive, chiusura forzata delle palpebre, disturbi del linguaggio, incapacità di ingoiare, perdita di saliva, perdita di peso, stitichezza, problemi respiratori, disturbi urinari, vertigini, gonfiore dei piedi, problemi sessuali, postura flessa, crampi e dolori muscolari.
Sebbene l'esatto meccanismo rimane ancora poco chiaro, lo stress ossidativo è stato considerato come uno dei più importanti meccanismi fisiopatologici alla base del morbo di Parkinson [47] [48]. Precedenti studi hanno trovato ridotta attività della catena respiratoria nel SNc di pazienti con morbo di Parkinson, che possono contribuire alla generazione di ROS eccessivo che, a sua volta, induce l'apoptosi [49]. Carenze di mitocondri nei lobi frontali della corteccia, di fibroblasti e piastrine nel sangue sono
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stati riscontrati in pazienti con questa malattia [48]. E 'stato anche riferito che le mutazioni genetiche in proteine, tra cui α-sinucleina, Parkin e fosfatasi e tensin homologinduced chinasi putativo (rosa) sono stati collegati alle forme familiari di Parkinson [48]. Le mutazioni di questi geni sono noti per influenzare la funzione mitocondriale e aumentare lo stress ossidativo [48]. Una crescente evidenza ha sostenuto che l'accumulo di mutazioni puntiformi e delezioni nel DNA mitocondriale può essere associata a disfunzione mitocondriale [50]. Le modifiche delle molecole antiossidanti sono stati riportati anche nella fase iniziale della malattia di Parkinson [50]. Ad esempio, i livelli di GSH, una grande molecola antiossidante, sono stati trovati ridotti nella sostanza nigra pars compacta (SNc) di queste persone sebbene questo dato non fosse specifico per la malattia [51]. Inoltre, sono stati trovati livelli elevati di ferro nel SNc nei soggetti con malattia di Parkinson rispetto a quella di controllo, che possono derivare dalla disfunzione del trasporto di ferro nei mitocondri dei neuroni dopaminergici [52]. E 'stato anche riportato che i livelli di ferro sono aumentati in neuroni dopaminergici in persone con malattia, che può consentire una più facile interazione di ferro ferroso con H2O2 e aumentare la produzione di radicali idrossilici altamente tossici (OH) [50]. Alti livelli di ferro nel Snc, di conseguenza, possono potenzialmente avere effetti nocivi per le sopravvivenze di neuroni dopaminergici.
Lo scopo principale della terapia del morbo di Parkinson è quello di rimuovere o ridurre la sintomatologia mantenendo, quanto più possibile, una condizione di autosufficienza funzionale [32].
Non sempre quando viene formulata la diagnosi di malattia di Parkinson occorre iniziare subito una terapia farmacologica. Medico e paziente decidono insieme quando
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i sintomi diventano tanto gravosi da rendere necessaria la somministrazione di farmaci. Ciò dipende tra l’altro anche dalla situazione professionale, sociale o strettamente personale del malato. Spetta ai medici curanti (nel caso ideale un neurologo in collaborazione con il medico di famiglia) stabilire individualmente per ciascun paziente – alla luce della sintomatologia e della sua intensità – quali farmaci o combinazioni di farmaci, e in quale posologia, occorre prescrivere. Di norma la terapia farmacologica viene avviata lentamente e a piccole dosi, poiché non tutti i pazienti denotano la stessa reazione a un determinato medicamento, e in alcuni si manifestano addirittura segni di intolleranza (ad es. allergie o gravi effetti secondari). Una terapia farmacologica efficace è il risultato di una collaborazione intensa fra medico e paziente.
Oltre alla terapia farmacologica esiste anche l’opzione chirurgica, sia per distruggere le cellule nervose malfunzionanti sia per autotrapiantare cellule cerebrali in grado di produrre dopamina. La prima soluzione ha però esito positivo solo nei confronti del tremore, inoltre può essere applicata solo monolateralmente. Gli ultimi sviluppi hanno visto l’introduzione di una tecnica che consiste nella neurostimolazione delle cellule mediante l’impianto di elettrodi nel cervello. Un’ulteriore sperimentazione in corso prevede il trapianto di cellule nervose dopaminergiche nel cervello dei soggetti malati.
È possibile impiegare anche terapie complementari: l’esercizio fisico e la fisioterapia (per aiutare la coordinazione dei movimenti), la dieta e l’integrazione alimentare (antiossidanti e calcio; per chi assume levodopa, riduzione di tutti i cibi grassi che, rallentando lo svuotamento intestinale, ne riducono l’assorbimento, e di cibi proteici perché anch’essi diminuiscono l’assorbimento del farmaco), logoterapia.
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3. LA TEORIA OSSIDATIVA
La teoria dei radicali liberi (RL) dell’invecchiamento fu proposta per la prima volta nel 1957 e si basa sull’evidenza che tutti gli organismi vivono in un ambiente contenente ROS: la respirazione mitocondriale, la base della produzione d’energia in tutti gli eucarioti, genera ROS per fuoriuscita di intermedi dalla catena di trasporto degli elettroni. I radicali liberi, specie chimiche con un elettrone spaiato nel loro orbitale più esterno, dotate di elevata reattività ed instabilità chimica, hanno la capacità di reagire con svariate molecole con cui vengono in contatto e dalle quali sottraggono o alle quali cedono un elettrone nel tentativo di acquisire stabilità, producendo in tal modo altri radicali secondo reazioni che si propagano spesso a catena. I radicali liberi dell’ossigeno (ROS) sono fisiologicamente prodotti dalle cellule ed includono una larga varietà di specie chimiche quali l’anione superossido, i radicali idrossilici ed il perossido di idrogeno. Il termine “stress ossidativo” generalmente viene riferito all’instaurarsi di uno squilibrio tra la produzione di ROS e l’attività di difesa dei sistemi antiossidanti (di tipo enzimatico e non) i quali possono risultare deficitari sia per consumo degli stessi che per una loro ridotta sintesi. I tre principali sistemi enzimatici di difesa contro l’attività radicalica sono rappresentati dalla superossido dismutasi, dalla catalasi e dalla glutatione-perossidasi; tra i composti non enzimatici le vitamine A, C, E ed i polifenoli (flavonoidi, procianidine). Diversi meccanismi di “stress ossidativo” interagirebbero nell’invecchiamento: un aumento della velocità con cui vengono prodotte le ROS, un declino dei sistemi di difesa antiossidante ed una diminuita efficienza nel riparare le molecole danneggiate. La teoria radicalica, formulata da Harman nel 1956, e successivamente corroborata da numerose osservazioni, sostiene infatti che
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l’invecchiamento sarebbe il prodotto della serie di reazioni ossidative di natura radicalica (non più bilanciate da un efficiente sistema antiossidante) in grado di accelerare la degradazione dei sistemi biologici determinando un’usura somatica; la longevità dipenderebbe dunque dall’efficienza dei sistemi di protezione antiossidante [53]. Ad essa si ricollega la più recente teoria mitocondriale di Miquel, secondo cui il mitocondrio, sede del metabolismo ossidativo cellulare, è il maggior produttore di ROS [54]. Come è noto, i mitocondri sono la sede della fosforilazione ossidativa, processo fondamentale per la formazione di ATP. La forza motrice di tale processo è il trasferimento degli elettroni dall’NADH all’O2, accettore ideale terminale degli elettroni. Tale complesso meccanismo nasconde però un pericolo: nel corso del processo di produzione mitocondriale di ATP circa l’1-4% dell’ossigeno si trasforma in ROS. Tale produzione aumenta in presenza del substrato ADP (stato 4) poiché si verifica il concomitante aumento della concentrazione di O2 e di donatori di elettroni (comeNADH). I siti di maggior produzione di ROS a livello della catena respiratoria sono il complesso (NADH deidrogenasi) e (ubiquinone-citocromo c ossidoreduttasi). Lo stress ossidativo a livello mitocondriale innesca quindi un circolo vizioso nel quale il mitocondrio stesso, a seguito del danno indotto dai radicali liberi, produce ulteriori ROS portando, in ultima analisi, ad una progressiva distruzione cellulare. È stato dimostrato che alti livelli di ROS possono alterare direttamente la struttura di macromolecole come lipidi, proteine e acidi nucleici; questi ultimi risultano particolarmente suscettibili all’azione delle ROS, andando incontro ad ossidazione con successive mutazioni e delezioni nel DNA nucleare e mitocondriale (mtDNA). Le mutazioni del mtDNA tendono ad accumularsi e a condurre a morte principalmente le cellule post-mitotiche, particolarmente quelle dove il metabolismo ossidativo è elevato come i neuroni e i