• Non ci sono risultati.

La riscoperta dell'appartenenza ebraica attraverso la memoria familiare e il confronto culturale: la narrativa di Barbara Honigmann. Traduzione di Chronik meiner Straße (2015)

N/A
N/A
Protected

Academic year: 2021

Condividi "La riscoperta dell'appartenenza ebraica attraverso la memoria familiare e il confronto culturale: la narrativa di Barbara Honigmann. Traduzione di Chronik meiner Straße (2015)"

Copied!
116
0
0

Testo completo

(1)

DIPARTIMENTO DI

FILOLOGIA, LETTERATURA E LINGUISTICA

CORSO DI LAUREA IN TRADUZIONE

LETTERARIA E SAGGISTICA

TESI DI LAUREA

La riscoperta dell’appartenenza ebraica attraverso la

memoria familiare e il confronto culturale:

la narrativa di Barbara Honigmann

Traduzione di Chronik meiner Straße

(2015)

CANDIDATO RELATORE

Maria Immacolata Spinosa Chiar.ma Dott.ssa Serena Grazzini

(2)

1

I

NDICE

PARTE

I

0.INTRODUZIONE ... p.4

1.PERCHÉ TORNARE: SULLA VOLONTÀ EBRAICA DI RICOSTRUZIONE DELLA GERMANIA E SULLA DIFFIDENZA DELLE ISTITUZIONI TEDESCHE ... p. 10

1.1. Un ritorno osteggiato... p. 13 1.2. Assimilazione e antisemitismo ... p. 15 1.2.1. Un percorso controverso ... p. 17 1.2.2. Antisemitismo di sinistra ... p. 19 1.3. Schuldfrage e revisionismo: il difficile percorso della memoria ... p. 21 1.3.1. L’atteggiamento delle due Germanie nei confronti del passato ... p. 23 1.3.2. Tra ricordo e oblio ... p. 26 1.3.2.1. La memoria indiretta: la generazione dei Nachgeborene ... p. 28 2.ROMAN VON EINEM KINDE ... p.30

2.1. Roman von einem Kinde ... p. 31 2.1.1. Ridefinire l’identità ... p. 31 2.1.2. Incapacità di relazionarsi con la realtà circostante ... p. 32 2.1.3. Elementi religiosi e storici ... p. 33 2.2. Eine Postkarte für Herr Altenkirch ... p. 36 2.3. Wanderung: il tema del viaggio tra rivisitazione romantica ed echi

Religiosi ... p. 37 2.4. Doppeltes Grab ... p. 39 2.5. Marina Roža ... p. 41 2.6. Bonsoir, Madame Benhamou ... p. 42

3. LA “TRILOGIA DELLA MEMORIA”: CORRELAZIONE TRA FAMIGLIA, EBRAISMO ED ESILIO IN EINE LIEBE AUS NICHTS, DAMALS, DANN UND DANACH E EIN KAPITEL AUS MEINEM LEBEN ... p.45

(3)

2

3.1. Identità e memoria: un percorso famigliare di ritorno alle origini ... p. 47 3.1.1. Assimilazione mancata e crisi identitaria ... p. 47 3.1.2. Ricostruire il silenzio dei genitori ... p. 49 3.2. La riscoperta dell’identità ebraica fuori dalla Germania... p. 52 3.2.1. Heimatlosigkeit e patria letteraria ... p. 54 3.2.1.1. „Das Leben zwischen den Welten“ ... p. 56 3.2.2. Strasburgo e l’ebraismo transculturale ... p. 58 4.IL CONFRONTO CON L’IDENTITÀ ESTERIORE: L’EBRAISMO COME COSTRUZIONE DEGLI ALTRI IN ALLES, ALLES LIEBE!,SOHARAS REISE E BILDER VON A. ... p.62

4.1. L’esilio come nucleo dell’esperienza ebraica ... p. 65

4.1.1. Ebrei sefarditi e appartenenza geografica ... p. 65 4.1.2. La Diaspora al tempo d’Israele: esperienze di sefarditi e askenaziti ... p. 68 4.2. Ebrei e tedeschi: la convivenza nella Germania divisa degli anni Settanta ... p. 72 4.2.1. L’emigrazione dalla DDR come desiderio comune a ebrei e tedeschi ... p. 76 5.CHRONIK MEINER STRAßE: ANALISI LETTERARIA E COMMENTO TRADUTTIVO ... p.79 5.1. La «cronaca» tra genere testuale e letteratura minore ... p. 80

5.1.2. «Im Meer der Fremdheit»: vivere l’ebraismo nella multiculturalità di Strasburgo ... p. 85

5.2.Commento alla traduzione... p. 89 5.2.1. Riferimenti culturali ... p. 90 5.2.2. Parole straniere e lessico specialistico ... p. 93 5.2.3. Espressioni idiomatiche ... p. 96 5.2.4. Ripetizione ... p. 97 5.2.5. Usi retorici della lingua ... p. 101 5.2.6. Costruzione del discorso ... p. 103 5.2.7. Konjunktiv I e oralità ... p. 104 5.2.8. Livello intertestuale ... p. 105 6.CONCLUSIONI ... p.108 BIBLIOGRAFIA ... p.111

(4)

3

P

ARTE

II

(5)

4

0.

I

NTRODUZIONE

L’obiettivo di questa tesi è approfondire il rapporto di un’autrice tedesca con le sue origini ebraiche nel particolare contesto socio-culturale della DDR. La scrittrice oggetto d’analisi è Barbara Honigmann, nata a Berlino est nel 1949 e trasferitasi nel 1984 a Strasburgo, dove vive tutt’oggi. Per raggiungere tale scopo, si traccerà il processo di riavvicinamento alla tradizione biblica attraverso la rielaborazione letteraria che si delinea nell’intera produzione.

L’aspetto più interessante della sua narrativa è proprio la descrizione del ritorno all’ebraismo. Tale volontà si attesta come controtendenza rispetto al rapporto dei suoi genitori, entrambi ebrei, con la religiosità. Incontratisi a Londra dove si erano rifugiati durante la persecuzione razziale, al termine della guerra e dopo la caduta del nazismo Georg Honigmann e Alice Kohlmann tornarono in Germania, pervasi dalla volontà di trovarsi in prima linea nella costruzione del neues Deutschland, ossia di un nuovo paese che sarebbe stato eretto su princìpi democratici e antifascisti. La loro decisione comportava però l’annullamento dell’appartenenza ebraica.

Gli eventi e le scelte del passato dei genitori hanno un forte impatto sulla vita di Barbara Honigmann e sulla sua produzione letteraria: ne rappresentano il fattore scatenante e ne costituiscono il Leitmotiv ricorrente. I suoi testi ruotano attorno alla componente ebraica che, nel suo caso, deriva la centralità proprio dalla sua assenza. Nonostante la sua origine, infatti, la Honigmann non è cresciuta all’interno di un ambiente familiare in cui il calendario era scandito da festività e cerimonie della tradizione ebraica: vista la delicata situazione, i suoi genitori erano convinti che l’obiettivo di contribuire alla fondazione di una società di uguali fosse da preferirsi alla propria cultura distintiva. D’altra parte, entrambi avevano tagliato già da tempo il loro legame spirituale con il giudaismo: il padre perché la sua famiglia era ormai fortemente assimilata alla società tedesca; la

(6)

5

madre, benché originaria di un villaggio ungherese nel quale sopravviveva qualche tratto di Yiddishkeit, per via dei suoi ideali politici.

Contrariamente all’educazione ricevuta, la scrittrice intuisce ben presto che non è possibile rinunciare a una parte costitutiva della propria identità senza ritrovarsi con una personalità lacerata, in quanto l’elemento che si cerca di distruggere continua a far sentire patologicamente la sua presenza.

Le vicende della Honigmann sono in questo senso rappresentative di un’intera generazione di ebrei nati dopo la Shoa, i cosiddetti Nachgeborene o ebrei di «seconda generazione». Il carattere dominante delle loro famiglie era il silenzio sul passato, il che ha portato spesso e in modo talvolta drammatico all’incomunicabilità tra genitori e figli. I giovani ebrei però vogliono conoscere le storie delle proprie famiglie e ne varcano il muro di reticenza per riappropriarsi dell’elemento nucleare dell’identità che vogliono costruire e che i loro genitori avevano tentato di sopprimere: l’ebraicità. Il riavvicinamento alle tradizioni assume dunque uno scopo ben preciso: avendo osservato la personalità divisa e dilaniata dei genitori, conseguenza dell’irrealizzabile desiderio di inclusione nella società tedesca anche dopo aver riposto l’ebraismo nell’armadio, i figli ritornano alle origini con la speranza di crearsi una personalità integra1. Del resto, se l’abbandono del retaggio ebraico non ha prodotto il risultato desiderato, il suo recupero può quanto meno garantire l’accettazione all’interno di una comunità alla quale si appartiene per diritto di nascita.

Ciò che tuttavia rende singolare l’esperienza della Honigmann, rispetto a quella di altri autori della «seconda generazione», risiede innanzitutto nel luogo in cui è nata e vissuta fino al suo trasferimento: la Germania dell’est, luogo in cui l’appartenenza ebraica era completamente ignorata dalle istituzioni in virtù del principio di uguaglianza al quale si ispiravano. Per questo motivo, la Honigmann decide di abbandonare la terra d’origine alla quale, del resto, è legata solo per affinità culturale.

1 Nel saggio Eine »ganz kleine Literatur« des Anvertrauens, contenuto nella raccolta Das Gesicht

wiederfinden (d’ora in poi abbreviato in GW) la Honigmann descrive così il processo di

emancipazione degli ebrei dell’Europa occidentale: «Eine halbhoffene Gesellschaft also, die einzelnen Juden unter der Bedingung Eingang gewährt, daß sie ihr Judentum ein für allemal an der Garderobe abgeben», p. 19.

(7)

6

L’esordio narrativo avviene, infatti, dopo aver oltrepassato i confini tedeschi e la sua caratteristica fondante è proprio il processo di scoperta e di riappropriazione del legame con il mondo spirituale ebraico, intrinsecamente vincolato alla conoscenza e alla comprensione delle storie dei genitori come passaggio necessario verso la tradizione biblica. Tale riavvicinamento ha luogo a Strasburgo eletta a nuova città d’adozione, se non altro perché vanta una delle più nutrite ed eterogenee comunità ebraiche d’Europa. Inoltre la città francese, come non manca di osservare la Honigmann, non è molto lontana dai confini tedeschi. Tale constatazione è senz’altro significativa, poiché mostra come la scrittrice resti indissolubilmente legata alla sua terra d’origine, in particolare per quanto riguarda la lingua e la letteratura. Del resto, l’intera produzione è stata originariamente redatta in tedesco.

Esiste dunque un rapporto inscindibile che unisce la scrittura all’affermazione identitaria e che vincola entrambe alla questione della memoria. Per giustificare tale correlazione è necessario definire il comportamento dei genitori della Honigmann, in quanto rappresentanti di un’intera generazione di ebrei fuggiti dalla Germania durante il nazismo e tornati in seguito nel settore orientale, sotto il controllo sovietico. Questa tendenza comune a molti altri ebrei, perlopiù intellettuali affini alle ideologie di sinistra, deve essere contestualizzata nel particolare momento storico del dopoguerra, laddove le istituzioni tedesche speravano di lasciarsi il peso del passato recente alle spalle il prima possibile e gli esponenti intellettuali e politici di origine ebraica, da parte loro, preferivano contribuire alla fondazione di un nuovo paese che non condividesse alcun retaggio ideologico con il Terzo Reich.

Pertanto, nel primo capitolo l’attenzione verrà posta sull’alto grado di assimilazione degli ebrei tedeschi che, più delle altre comunità sparse in Europa, avevano sacrificato l’identità culturale per l’accettazione sociale. Sarà tratteggiata la situazione nella Germania del dopoguerra e il comportamento delle istituzioni nei loro confronti, in particolare per quanto riguarda il lungo e controverso dibattito sulla responsabilità e sul dovere morale di corrispondere il pagamento delle riparazioni di guerra (le Wiedergutmachungen) per la persecuzione e i lavori forzati. Verrà inoltre brevemente delineata la condizione della comunità ebraica di

(8)

7

Berlino est e il perdurare dell’antisemitismo tra i rappresentanti del partito comunista tedesco, sentimento che ha accompagnato la DDR per tutta la sua esistenza.

Questo breve approfondimento storico sulla situazione degli ebrei nella Repubblica democratica dal dopoguerra agli anni Ottanta rappresenta un passo necessario prima di proseguire con l’analisi dell’intera produzione narrativa della Honigmann. I testi presi in esame permettono di delineare la sua personale riappropriazione delle tradizioni ebraiche come evoluzione che attraversa la memoria storica e familiare e necessita del confronto con altre dimensioni socio-culturali e religiose. Essi sono presentati in ordine di pubblicazione, oltre che per affinità tematica. Sebbene la sua scrittura sia sostanzialmente omogenea, infatti, alcuni testi permettono di creare collegamenti più profondi.

La prima opera analizzata è Roman von einem Kinde (1986) che rappresenta l’esordio narrativo della Honigmann, premiato con lo Aspekte-Literaturpreis assegnato alla scrittrice nello stesso anno della pubblicazione. Il testo è una raccolta di sei racconti, esaminati singolarmente. La ragione per cui gli è stato dedicato un intero capitolo è che esso contiene in nuce temi che l’autrice riprende e approfondisce, anche da diverse prospettive, nei testi successivi. Ad esempio, viene introdotto il desiderio di evasione dalla ristrettezza culturale e politica della DDR, della quale è oltremodo sottolineata la carenza di legami umani e la repressione di qualunque aspirazione artistica non conforme ai precetti del realismo socialista. Nei racconti, inoltre, si fa strada l’onnipresente discussione sulle colpe e sulle responsabilità dei genitori.

Il terzo capitolo è incentrato sull’analisi trasversale dei tre testi che vincolano il riavvicinamento all’ebraismo alla riscoperta delle radici e del passato della propria famiglia. Eine Liebe aus nichts (1991), Damals, dann und danach (1999) e Ein Kapitel aus meinem Leben (2004) riproducono a livello finzionale le tappe fondamentali della vita della Honigmann stessa, dal rapporto controverso con il padre alla conoscenza parziale del passato della madre, passando per l’esposizione del mutamento degli ebrei tedeschi rispetto alle proprie tradizioni millenarie.

Il quarto capitolo si focalizza invece su una diversa concezione dell’appartenenza ebraica, vale a dire sul suo aspetto esteriore e sull’apparenza

(9)

8

sociale. Attraverso l’analisi dei testi Soharas Reise (1996), Alles, alles Liebe! (2000) e Bilder von A. (2011) sarà affrontato il confronto fra i due maggiori raggruppamenti interni all’ebraismo, come anche quello tra ebrei e tedeschi nella DDR permettendo così di presentare la quotidianità della Germania orientale e le sue restrizioni sociali. Inoltre, con Soharas Reise per la prima volta l’attenzione si sposta sulla variegata comunità ebraica di Strasburgo e sul diverso modo di rapportarsi alla spiritualità. In questo modo la diaspora assume il carattere di elemento costitutivo della natura giudaica e trasversale ai suoi diversi raggruppamenti interni.

L’ultimo capitolo è dedicato all’analisi letteraria e al commento traduttivo del testo più recente della Honigmann: Chronik meiner Straße, edito nel 2015. Nonostante l’allontanamento dalle tematiche finora presentate, l’analisi dell’intera produzione narrativa permette di includere anche la cronaca all’interno di un percorso letterario compatto che ripercorre le tappe della riappropriazione della cultura ebraica da parte della scrittrice. Del testo è evidenziata l’affinità alla «letteratura della confidenza» e la semplicità stilistica attraverso la quale esso vuole immedesimarsi nella quotidianità che racconta. Gli episodi della cronaca sono attinti dalle esperienze vissute dagli abitanti di Rue Edel, strada periferica di Strasburgo. Pur restando ancorata al delimitato contesto geografico nel quale si inserisce, essa assume comunque valore documentaristico e i suoi avvenimenti apparentemente insignificanti potrebbero, in futuro, servire da testimonianza della vita quotidiana di una piccola comunità in un preciso momento storico. È questo, dopotutto, l’obiettivo del testo.

Chronik meiner Straße si inserisce nell’ambito della letteratura transnazionale in lingua tedesca, sebbene da un diverso punto di vista. Il tedesco è infatti la madrelingua della scrittrice, la quale è tuttavia una migrante in Francia. Per tale ragione, nel testo si incontrano riferimenti a entrambe le culture, tedesca e francese, ma anche ebraica, che in sede di traduzione sono stati valutati affinché potessero essere trasportati nel contesto italiano salvaguardando la loro connotazione originale. Pur essendo un testo stilisticamente semplice, il processo di traduzione si è rivelato alquanto difficoltoso, proprio a causa della necessità di rispettare e riproporre la semplicità del testo originale.

(10)

9

Un altro aspetto fondamentale del testo è il suo legame intertestuale sia con la precedente produzione dell’autrice, sia con altri testi delle letterature francese e tedesca, oltre a riferimenti ai testi della religione ebraica. I riferimenti alle varie opere non sono sempre esplicitati per mezzo di citazioni fedeli, e questo ne ha condizionato la traduzione.

Barbara Honigmann ha ottenuto, nel corso della sua carriera, diversi premi tra cui il Kleist-Preis nel 2000, lo Jeanette-Schocken-Preis nel 2001, il Max-Frish-Preis nel 2011 e il Ricarda-Huch-Max-Frish-Preis, assegnato nel 2015 all’intera produzione letteraria. È inoltre membro del PEN Club e affianca la letteratura all’arte. I suoi quadri sono stati utilizzati, tra l’altro, per le copertine di molti dei suoi libri.

(11)

10

1.

P

ERCHÉ TORNARE

:

SULLA VOLONTÀ EBRAICA DI RICOSTRUZIONE DELLA

G

ERMANIA E SULLA DIFFIDENZA DELLE ISTITUZIONI TEDESCHE

Per contestualizzare la narrativa di Barbara Honigmann e per analizzare criticamente le tematiche dominanti nei suoi testi è necessario comprendere la situazione nella quale sono cresciuti gli ebrei di «seconda generazione», categoria nella quale rientra la scrittrice stessa2.

Lo scopo del presente capitolo è fornire un breve inquadramento della situazione politica e dell’atmosfera socio-culturale dominanti nella Repubblica democratica tedesca in modo da presentare le problematiche irrisolte e i conflitti ideologici che hanno caratterizzato il rapporto tra la comunità ebraica tedesca e le istituzioni del paese, tanto durante la sua divisione quanto dopo la riunificazione. Tale contestualizzazione è prerogativa necessaria all’analisi delle scelte narrative e delle tendenze argomentative di Barbara Honigmann e al fine di iscrivere la sua produzione narrativa all’interno di un contesto culturale più ampio.

Al termine della Seconda guerra mondiale alcuni ebrei, perlopiù intellettuali scampati alla deportazione riparando all’estero, tornarono in Germania. A più di mezzo secolo di distanza, una decisione del genere appare alquanto infondata e incomprensibile: perché gli ebrei avrebbero voluto tornare nel luogo in cui si era consumato il loro genocidio? Eppure, alla fine degli anni Quaranta il loro ritorno passò inosservato, o quanto meno le istituzioni e la società tedesche, per dimenticare prima possibile un passato indesiderato, ostentavano indifferenza nei confronti dei sopravvissuti e degli esuli tornati.

Questo evento richiede un’attenzione particolare perché quella decisione influì sulla politica che la Germania adottò nei confronti della comunità ebraica e, dopo la sua fondazione, anche verso lo stato di Israele, oltre ad aver avuto forti

2 Sono definiti di «seconda generazione» gli ebrei nati in seguito alla Shoa e che, di conseguenza,

(12)

11

ripercussioni all’interno della stessa comunità ebraica, in particolare in riferimento al rapporto con le generazioni nate dopo la Shoa.

Dopo l’emanazione delle Leggi di Norimberga nel 1935, i cittadini di origine ebraica presenti in Germania che ne ebbero la possibilità emigrarono, e coloro che restarono morirono quasi tutti nei campi di concentramento. Il numero di ebrei che si trovava in Germania alla fine del secondo conflitto mondiale era dunque esiguo e si trattava perlopiù di Ostjuden, ossia ebrei provenienti dall’Europa dell’est, che si trovavano temporaneamente in Germania in attesa dei visti per poter emigrare nei paesi occidentali. Alessandro Costazza sottolinea che essi «talvolta non avevano nemmeno conosciuto direttamente la Shoa e nella Germania non vedevano tanto la patria dei loro persecutori, quanto piuttosto la protezione degli alleati»3. Tuttavia, non per tutti gli Ostjuden dei campi per Displaced Persons il soggiorno in Germania rappresentò un periodo limitato4. Alcuni di loro, pur volendo far ritorno nei propri paesi d’origine, furono costretti a restare per ragioni più economiche che ideali e, come non manca di osservare sempre Costazza, «più per necessità che per scelta decisero di ″fare l’impensabile″ (Gay 2001), rimanendo nella terra dei ′carnefici′ e parlando la loro lingua»5

. Dalla parte opposta c’erano gli ebrei che avevano scelto volontariamente di tornare in Germania dai loro esili. Si trattava perlopiù di intellettuali vicini all’ideologia comunista e di letterati che avevano trovato la propria Heimat spirituale nella lingua e nella cultura tedesche. Da tempo essi avevano accantonato le proprie tradizioni religiose e culturali: non tornavano come ebrei, bensì perché si sentivano tedeschi e per tale ragione volevano essere in prima linea nella costruzione di un nuovo paese che si poggiasse sui pilastri della democrazia e dell’antifascismo, così come avrebbe dovuto essere la DDR. Questa volontà

3

COSTAZZA, Alessandro: Emigrare o restare in Germania? Tre differenti risposte di autrici ebree

tedesche di seconda generazione (Lea Fleischmann, Barbara Honigmann, Esther Discherheit),

p.157, in «Otras Modernidades», Rivista di studi letterari e culturali, Università di Milano, Numero speciale Letteratura ebraica ′al femminile′, 2014.

4

I campi per Displaced Persons furono istituiti alla fine della Seconda guerra mondiale come rifugi per i sopravvissuti ai campi di concentramento e per rifugiati, soprattutto dell’est Europa, in attesa di essere rimpatriati.

5 C

OSTAZZA, Alessandro: Emigrare o restare in Germania? Tre differenti risposte di autrici ebree

tedesche di seconda generazione (Lea Fleischmann, Barbara Honigmann, Esther Discherheit),

p.157, in «Otras Modernidades», Rivista di studi letterari e culturali, Università di Milano, Numero speciale Letteratura ebraica ′al femminile′, 2014.

(13)

12

condivisa dagli intellettuali di origine ebraica è stata espressa chiaramente in un’intervista da Alice Zadek, ebrea e funzionaria del partito comunista:

quando tornai, nutrivo ancora l’illusione di partecipare all’edificazione di una Germania democratica, una nuova Germania. Fummo felici quando nell’autunno del 1949 fu creata la Rdt. Noi comunisti ci credevamo pienamente. Non negavamo di essere ebrei, ma non sentivamo alcun legame con la religione. Ci consideravamo ebrei tedeschi; come tali – e anche come comunisti – volevamo lottare contro l’antisemitismo6

.

Anche Helmut Eschwege, illustre studioso di storia ebraica della Germania dell’est, spiegò di essere tornato in Germania (nel suo caso, addirittura dalla Palestina dove si era diretto in esilio nel 1936, compiendo così la Yerida, ossia l’emigrazione dalla terra d’Israele) proprio con «[l]’idea di edificare un vero paese socialista»7. Secondo Eschenazi, Eschwege è l’icona di quegli ebrei emigrati che

non avevano mai perso la speranza di tornare in Germania e negli anni dell’esilio avevano sviluppato una solidarietà con i tedeschi antinazisti più forte di quella che li legava al mondo ebraico. Avevano la sensazione di tornare in Germania da vincitori, non come ebrei scampati all’eccidio bensì come uomini di sinistra. Non sentivano la Shoà come un fatto esclusivamente ebraico, ma come una tragedia che aveva investito tutta la Germania. L’antidoto al nazismo per loro era il comunismo, una sorta d’ideologia purificatrice di una società che era stata “inquinata” da Hitler8

.

Attraverso le motivazioni di Alice Zadek e di Helmut Eschwege è possibile individuare una tendenza diffusa tra gli ebrei tedeschi emigrati prima della guerra, i quali avevano anteposto i principi politici alla propria identità ebraica proprio in conseguenza dell’esperienza dell’emigrazione. Senza più una patria, infatti, avvertirono la necessità di trovare un nuovo elemento che rinsaldasse i legami della comunità dispersa, e lo trovarono nell’antifascismo. Frank Stern ha definito questa attitudine come sentimento che non rappresentava soltanto una visione del mondo o un’ideologia, bensì come «Lebensgefühl and Lebensweise, the experience of a cultural totality and a way of life in this huge waiting room outside the German borders, called exile»9.

6 L’intervista ad Alice Zadek fu rilasciata a Gabriele Eschenazi (co-autore di Ebrei invisibili), a

Berlino nel giugno del 1992 – cit. in ESCHENAZI, Gabriele/ NISSIM, Gabriele: Ebrei invisibili –

I sopravvissuti dell’Europa orientale dal comunismo a oggi; Le Scie, Arnoldo Mondatori Editore,

Milano, p. 434.

7 Ibidem. 8 Ibidem.

9

STERN, Frank: The Return to the Disowned Home-German Jews and the Other Germany, pp. 63-64, in «New German Critique», No. 67, Legacies of Antifascism (Winter, 1996), pp. 57-72.

(14)

13

Oltre ad aver funto da elemento di coesione per la comunità dispersa, l’antifascismo era stato il principio che aveva guidato gli ebrei nel loro ritorno in Germania. Tuttavia, che tornassero nella zona degli alleati a ovest o nella SBZ (Sovjetische Besatzungszone) a est, gli ebrei in Germania nel dopoguerra andarono incontro a una sorte comune, proprio per il loro essere ebrei: diventarono “invisibili”.

1.1. Un ritorno osteggiato

Il sogno di vivere in un paese che li accettasse senza ritenerli diversi sembrò realizzarsi il 7 ottobre 1949 con la fondazione della Repubblica democratica tedesca. In effetti, all’inizio, gli ebrei ottennero molti benefici: ai sopravvissuti dei campi di concentramento fu corrisposta una pensione molto più alta rispetto a quella di cui godeva il resto dei tedeschi; inoltre, nel suo testo Lorenzini conferma che «vennero stanziati generosi contributi per la ricostruzione e il mantenimento di sinagoghe, cimiteri, sedi della comunità e altre istituzioni ebraiche (ospedali e ospizi)»10. Oltre agli aspetti materiali, la nuova Costituzione riconosceva la libertà di culto. L’apertura dello stato aveva però uno scopo ben preciso: infatti, come sottolinea Gabriele Eschenazi, «[i] provvedimenti concernenti la tolleranza religiosa erano stati accuratamente studiati dal regime comunista, convinto peraltro che anno dopo anno sempre più giovani avrebbero spontaneamente abbandonato la religione per abbracciare il comunismo»11. Si trattava quindi di un opportunistico atteggiamento di facciata basato sulla convinzione che l’assimilazione degli ebrei alla cultura tedesca sarebbe continuata, ma in un altro senso, più politico che culturale, portando a un graduale e volontario abbandono delle tradizioni bibliche.

Del resto, la linea seguita dal partito rispecchiava il comportamento alquanto diffidente della società tedesca con il quale gli ebrei si ritrovarono a dover fare i conti. Costazza spiega che a causa di questa ostilità, gli ebrei vissero «come in un

10

LORENZINI, Sara: Il rifiuto di un’eredità difficile – La Repubblica Democratica Tedesca, gli

ebrei e lo stato di Israele, La Giuntina, Firenze, 1998, p. 53.

11 ESCHENAZI, Gabriele/ NISSIM, Gabriele: Ebrei invisibili – I sopravvissuti dell’Europa

(15)

14

limbo, praticando in casa i resti di una religiosità che fuori di casa dovevano nascondere»12. Erano “invisibili” anche quando ricoprivano cariche importanti all’interno del partito comunista o dell’apparato statale e burocratico. In questi casi, anzi, erano loro stessi a occultare l’origine ebraica in quanto anche nella DDR, che si autodefiniva stato democratico e antifascista per antonomasia, l’atteggiamento antisemita continuava a dominare gli animi e gli ebrei rappresentavano i bersagli ideali per le accuse di spionaggio o di infedeltà alla patria. Osserva a tal proposito Stern: «[t]he dialectics of return oscillated between political integration and temporary negation of Jewish traditions and identities»13.

Sebbene avessero condotto un lungo cammino sulla strada dell’assimilazione, per gli ebrei sembrava ormai impossibile conciliare la propria origine con la cultura e la società tedesche; così nelle famiglie cominciò a imporsi un atteggiamento di rimozione nei confronti della propria identità. Molti figli di ebrei non sentirono mai pronunciare il termine Shoa in casa, perché quell’evento era diventato un tabù anche per i loro genitori, i quali ora si definivano antifascisti. Tuttavia, poiché non furono tagliati tutti i ponti con il passato, l’antifascismo non riusciva ad imporsi come nuova identità, ma appariva come surrogato instabile di una individualità confusa che continuava a dibattersi tra il preservamento di una cultura antica e l’esigenza dell’accettazione all’interno della comunità tedesca.

Ad ogni modo, che scegliessero una strada o l’altra, la terra in cui avevano scelto di tornare, nella cui fondazione avevano riposto tutte le loro speranze e che avrebbe dovuto essere un paese democratico e antifascista, chiarì presto ogni dubbio: che rinnegassero o meno le proprie origini, gli ebrei sarebbero stati considerati Fremde anche lì.

12 COSTAZZA, Alessandro: Emigrare o restare in Germania? Tre differenti risposte di autrici

ebree tedesche di seconda generazione (Lea Fleischmann, Barbara Honigmann, Esther Discherheit), p. 158, in «Otras Modernidades», Rivista di studi letterari e culturali, Università di

Milano, Numero speciale Letteratura ebraica ′al femminile′, 2014.

13 STERN, Frank: The Return to the Disowned Home - German Jews and the Other Germany,

(16)

15

1.2. Assimilazione e antisemitismo

La maggior parte degli ebrei che decise volontariamente di tornare in Germania al termine del conflitto lo fece principalmente a causa del legame spirituale con quella che considerava la propria Heimat. Guardando alla produzione letteraria, ai progressi in campo scientifico, alle teorie filosofiche e psicologiche, alle arti e alla musica non si può fare a meno di constatare il ruolo centrale che la comunità ebraica ha giocato all’interno della vita socio-culturale della Germania tra l’Ottocento e il Novecento.

Tuttavia, questa fiorente attività intellettuale non fu mai vista di buon occhio dai tedeschi. Se da una parte gli ebrei rendevano grande la cultura tedesca, dall’altra i tedeschi non perdevano occasione di sottolineare la distinzione tra Staatsangehörigkeit e Volkszugehörigkeit, ossia tra diritti civili e appartenenza nazionale14. Pertanto non consideravano gli ebrei parte integrante del proprio Volk, ma elementi estranei al mondo germanico, che rischiava di essere deturpato e contaminato nello spirito, senza tenere conto del fatto che se il livello culturale e artistico della Germania si era elevato era proprio grazie al contributo degli ebrei. A tal proposito, Traverso, che nel suo testo ha analizzato storicamente e culturalmente il fenomeno della simbiosi ebraico-tedesca, ha formulato nel modo seguente la vana utopia di appartenenza: «l’idea di un “dialogo ebraico-tedesco” non è stata inventata a posteriori dagli storici, ma designa un fenomeno realmente esistente, vale a dire l’illusione ebraica di appartenere alla Germania»15.

Ciononostante, l’illusione era talmente forte e radicata che, pur di essere accettati e inclusi nella vita sociale tedesca, gli ebrei non esitavano a nascondere la propria origine e a volte se ne allontanavano del tutto, convinti che la modernità della cultura tedesca fosse da preferirsi a delle tradizioni religiose ormai consunte e anacronistiche. Ovviamente questa rinuncia non era semplice da realizzare, perché tanto una componente quanto l’altra aveva grande importanza nelle loro vite. Di conseguenza, benché tentassero di occultarla, gli ebrei non potevano rimuovere la loro cultura originaria, e questa incapacità portava talvolta a disturbi

14 Cfr. T

RAVERSO, Enzo: Gli ebrei e la Germania – Auschwitz e la «simbiosi ebraico-tedesca», il Mulino, Bologna, 1994, pp. 8-9.

(17)

16

come l’odio della propria persona (Selbsthass), che spesso non era altro che il riflesso interiorizzato del disprezzo che i tedeschi continuavano a mostrare nei loro confronti. È interessante notare che quanto più gli ebrei si assimilavano, tanto più l’intolleranza antisemita aumentava. Riguardo questa conseguenza inaspettata dell’assimilazione, Enzo Traverso ha osservato che

[l]a fine dei ghetti, la concessione dei diritti civili agli ebrei, il loro ingresso nella società e la loro adozione della lingua tedesca generarono una cultura ebraico-germanica, che tuttavia non fu mai il prodotto di un’autentica simbiosi. Anziché avviare un dialogo tra ebrei e tedeschi, l’assimilazione lasciò il posto a un monologo

ebraico, che si svolgeva nel mondo tedesco, si esprimeva attraverso la lingua e si

nutriva dell’eredità culturale tedesca ma che, in fondo, ebbe sempre un fantasma per interlocutore16.

Le cause di questa intolleranza sono da ricercarsi nel sentimento antisemita che è sempre stato latente nel sostrato della società tedesca, e al quale mostrarono di non essere immuni neanche i comunisti della Germania est17.

Ovviamente, il fenomeno dell’antisemitismo non è un prodotto del XX secolo, ma ha radici lontane che precedono di gran lunga la propaganda delle teorie sulla razza e sull’eugenetica, e costituisce un fenomeno culturale perdurante all’interno della società tedesca, come in genere in tutti i paesi europei, che non è scomparso neanche dopo Auschwitz.

L’intolleranza non si diffonde esclusivamente attraverso i discorsi politici. La letteratura del XIX secolo abbonda di stereotipi antisemiti propagati attraverso la creazione di personaggi letterari che incarnano i peggiori vizi attribuiti agli ebrei, eppure questi ultimi continuavano a dimostrare la loro fedeltà alla “patria” tedesca, ad esempio con l’arruolamento volontario durante la Prima guerra mondiale. I tentativi di portarsi allo stesso livello dei tedeschi furono però spesso vani e inutili. In ogni momento di crisi, gli ebrei venivano additati a responsabili della situazione in cui si trovava la Germania. Ciononostante, lo spirito di vicinanza alla cultura e alla terra tedesche non aveva confini all’interno della comunità ebraica, neanche tra chi protendeva per le idee sioniste, al contrario Traverso sottolinea che il legame della comunità ebraica tedesca con la Germania era così profondo da escludere un possibile ritorno nella Terra promessa:

16 T

RAVERSO, Enzo: Gli ebrei e la Germania – Auschwitz e la «simbiosi ebraico-tedesca», il Mulino, Bologna, 1994, pp. 81-82.

(18)

17

[a]ll’inizio, i sionisti proclamavano con orgoglio il loro radicamento nella civiltà occidentale e nella cultura tedesca; la creazione di uno stato ebraico in Palestina appariva ai loro occhi come una prospettiva valida per gli Ostjuden oppressi e perseguitati dell’impero zarista, non per gli ebrei tedeschi18

.

Secondo loro, del resto, «il sionismo sarebbe stato una capitolazione di fronte all’antisemitismo»19

e anche Theodor Herzl sosteneva che «il germanesimo rimaneva una fonte essenziale della rigenerazione nazionale dell’ebraismo»20

. Per quanto riguarda la Repubblica democratica, il fatto di aver voluto rappresentare l’inizio di una nuova Germania, affinché fossero dissolti tutti i legami con il Terzo Reich, aveva impedito un effettivo confronto con le colpe del passato e ci si era affidati alla convinzione, distorta e alquanto pretensiosa, che lì l’antisemitismo non esisteva. Tra l’altro, come sottolineano gli autori di Ebrei invisibili, questa ambizione velleitaria portò la DDR a costruirsi una «sorta d’identità “in negativo”»21

, in quanto si profilava come paese senza passato.

1.2.1. Un percorso controverso

Coloro che lasciarono la Palestina e gli altri paesi occidentali per tornare volontariamente in Germania incarnavano più di altri l’ideale secondo il quale il rapporto tra il popolo ebraico e la cultura tedesca affondava le proprie radici in un periodo di gran lunga antecedente il tragico epilogo dell’intolleranza razziale ed esprimevano la sensazione che tra i due popoli esistesse un’unione che non si sarebbe sgretolata insieme alle macerie della guerra.

La convinzione di appartenere alla Germania trovava il suo fondamento nelle conquiste sociali e politiche che gli ebrei avevano realizzato in un secolo e mezzo di assimilazione. La haskalah, ossia il movimento illuminista ebraico che aveva rivisitato la religione sotto l’influenza della ragione, aveva espresso la necessità di far convivere la cultura tedesca e la religione ebraica già nel XVIII secolo, dunque

18

TRAVERSO, Enzo: Gli ebrei e la Germania – Auschwitz e la «simbiosi ebraico-tedesca», il Mulino, Bologna, 1994, p. 54.

19 LORENZINI, Sara: Il rifiuto di un’eredità difficile – La Repubblica Democratica Tedesca, gli

ebrei e lo stato di Israele, La Giuntina, Firenze, 1998, p. 27.

20

TRAVERSO, Enzo: Gli ebrei e la Germania – Auschwitz e la «simbiosi ebraico-tedesca», il Mulino, Bologna, 1994, p. 55.

21 ESCHENAZI, Gabriele/ NISSIM, Gabriele: Ebrei invisibili – I sopravvissuti dell’Europa

(19)

18

con netto anticipo rispetto al momento in cui gli ebrei diventarono cittadini tedeschi a tutti gli effetti (il che coincise con l’unificazione dello stato nel 1871). Rappresentante illustre della haskalah fu Moses Mendelssohn il quale, tra l’altro, tradusse il Pentateuco in tedesco proprio come atto di comunicazione tra i due popoli. Egli sosteneva la necessità di modificare lo stile di vita ebraico affinché le tradizioni millenarie potessero accordarsi alla modernità della società tedesca.

Tuttavia, nel momento in cui l’ebraicità viene posta dinanzi alla modernità si delineano due diversi modi di confrontarsi con il proprio retaggio culturale. Nelle comunità ebraiche dell’Europa occidentale fa la sua comparsa la figura del parvenu, che trova la sua controparte nel paria, tipica condizione fisica e spirituale degli Ostjuden. Il prototipo del parvenu si era formato in seguito all’assimilazione e all’emancipazione degli ebrei, in quanto il desiderio di essere accettati nella società occidentale era tale da portare a rinnegare il proprio popolo nonostante la consapevolezza che l’origine non avrebbe mai potuto essere cancellata.

Il paria, d’altro canto, è il tipico esempio dell’ebreo rinchiuso nel ghetto e disprezzato da tutti, ma custode di una tradizione pura e originale. In seguito all’assimilazione il mondo dei paria, ossia quello della Yiddischkeit dei territori slavi, è guardato con nostalgia da quegli ebrei che si trovano lacerati tra il bisogno di essere accettati e la necessità si preservare le proprie tradizioni. Riguardo questo sentimento, Traverso sostiene che

[l]’ebreo esteuropeo possedeva una cultura, una memoria e s’identificava a un passato; non conosceva il sentimento angoscioso di estraneità nei confronti di se stesso e delle sue radici che caratterizzava, secondo Kafka, la condizione della westjüdiche Zeit22.

Naturalmente il processo di assimilazione apportò un consistente miglioramento dello stile di vita dei membri delle comunità ebraiche tedesche e della loro condizione economica in quanto poterono finalmente svolgere professioni redditizie alle quali prima non erano ammessi. Entrarono nel campo della medicina, del giornalismo, dell’avvocatura senza mai abbandonare del tutto l’attività commerciale che avevano praticato per secoli. In questo senso, il desiderio di assimilazione si traduceva in un processo di imborghesimento: essere

22 TRAVERSO, Enzo: Gli ebrei e la Germania – Auschwitz e la «simbiosi ebraico-tedesca», il

(20)

19

nobilitati con il «von» era un’aspirazione diffusa. Ad ogni modo, l’ambito accademico rimaneva esclusivo: gli ebrei non potevano accedere all’insegnamento per timore che potessero fare delle scuole e delle università il terreno della propaganda sionista. In conclusione, «[g]li ebrei potevano vivere come ma molto raramente con i borghesi tedeschi»23.

Questa affermazione sintetizza appieno l’atteggiamento dei tedeschi nei confronti dell’assimilazione. Se da una parte furono essi stessi a promuoverla, dall’altra si sentirono minacciati dal mito della giudaizzazione (Verjudung), ossia dalla paura che gli ebrei potessero finire a governare ogni ambito della vita socio-culturale della Germania, fino a disintegrarne l’identità. Gli stessi Ostjuden comprendevano che il vantaggio economico di cui godevano gli ebrei occidentali non aveva cancellato la loro condizione di emarginati sociali.

In seguito alla fondazione della DDR la situazione non è mutata, anzi, pur di contribuire alla costruzione della nuova Germania, gli ebrei tedeschi erano disposti a rinunciare alla propria identità. A tal proposito va considerata anche l’influenza della teoria comunista, secondo la quale l’antisemitismo avrebbe cessato di esistere nel momento in cui l’assimilazione degli ebrei fosse stata completa. In quest’ottica risulta evidente che il principio di uguaglianza, che avrebbe dovuto essere la colonna portante della nuova Germania, celava l’annullamento di qualsiasi elemento rendesse gli ebrei diversi dagli altri.

1.2.2. Antisemitismo di sinistra

Ben presto, infatti, la situazione cominciò a deteriorarsi e ricomparve lo spettro delle purghe sovietiche. Sebbene cercassero di addossare la responsabilità dell’intolleranza antisemita alla Repubblica federale, le istituzioni del mondo comunista della Germania dell’est non erano immuni a questo atteggiamento. Il ricordo dei pogrom staliniani era ancora vivido e le epurazioni erano un pericolo costante. Con il caso Slánský in Cecoslovacchia nel 195224 e il «complotto dei

23 Ivi, p. 43.

24 Rudolf Slánský, ebreo e membro del Partito comunista cecoslovacco, fu vittima delle epurazioni

(21)

20

medici»25 dell’anno successivo, i comunisti di origine ebraica furono costretti a fare di nuovo i conti con le proprie radici e constatarono che neppure la Repubblica democratica, come il resto dei paesi comunisti, era immune al risentimento antiebraico. Fu proprio nel 1953, inoltre, che iniziò la migrazione verso ovest dei cittadini di origine ebraica residenti nella DDR. Queste fughe assestarono un ulteriore colpo alla comunità ebraica di Berlino est, la quale si ritrovò completamente isolata dal resto delle organizzazioni gemelle che si trovavano ad ovest e che vedeva al suo interno sempre più figure attive anche tra le file della SED (il partito socialista tedesco).

Le epurazioni degli alti funzionari statali venivano giustificate adducendo a un loro fittizio coinvolgimento nell’organizzazione sionistica che, in quanto tale, rappresentava una minaccia per la DDR poiché avrebbe condotto all’imperialismo, oltre al fatto di essere sostenuta dagli Stati Uniti. Lo stesso trattamento era riservato a coloro che avevano avuto legami con l’American Jewish Joint Distribution Committee, un’organizzazione fondata alla fine della Prima guerra mondiale da ebrei americani, con lo scopo iniziale di sostenere economicamente gli ebrei in situazioni disagiate.

Il caso Slánský ebbe forti ripercussioni nella Germania est tanto che si tentò di allestire un processo simile, altrettanto infondato e fazioso, nei confronti di Paul Merker. Per le sue posizioni filosemitiche e per la sua insistenza riguardo le riparazioni di guerra, Merker era il bersaglio ideale, pur non essendo ebreo. Nel 1950 fu espulso dalla SED e cinque anni dopo venne processato con l’accusa di essere una spia sionista. Il suo caso non ebbe lo stesso epilogo di quello Slánský in quanto Merker fu condannato a otto anni di reclusione. Tuttavia, gli atti del suo processo restarono segreti fino all’apertura degli archivi della Stasi nei primi anni Novanta.

Ad ogni modo, in Unione Sovietica le purghe antisemite erano cominciate già nel 1948 con l’eliminazione di scrittori di lingua yiddish accusati di nazionalismo ebraico e con la rimozione di intellettuali e di alte cariche istituzionali, accusati di

membri di origine ebraica. Ingiustamente accusato di essere una spia sionista, fu processato e giustiziato dopo aver cercato di suicidarsi mentre era in prigione.

25 Il ”complotto dei medici” fu un caso giudiziario che vide coinvolti nove medici, sette dei quali

ebrei, accusati di aver congiurato per assassinare Stalin. La sua morte, avvenuta lo stesso anno, mise a tacere l’accaduto e smorzò i toni della situazione.

(22)

21

“cosmopolitismo”. In questo atteggiamento è possibile constatare che di norma i primi bersagli dei cambiamenti politici sono persone vicine al mondo culturale e letterario, in quanto potrebbero diffondere idee contrarie attraverso i loro scritti.

1.3. Schuldfrage e revisionismo: il difficile percorso della memoria

In pochi anni la barbarie nazista ha disintegrato ciò che gli ebrei hanno ottenuto alla fine di un lungo processo di assimilizzazione durato un secolo e mezzo. Da terra dell’Aufklärung si è trasformata nel luogo in cui è stata messa in atto in modo sistematico la Endlösung di un’intera comunità.

Nell’immediato dopoguerra le organizzazioni ebraiche sparse per il mondo intimarono agli ebrei rimasti in Germania di lasciare quel luogo di distruzione e di morte; la comunità ebraica tedesca rimase così isolata e abbandonata a se stessa, e coloro che tornarono in Germania per continuare a viverci, soprattutto in seguito alla fondazione dello stato di Israele nel 1948, furono giudicati al pari dei traditori della patria. D’altra parte, gli ebrei in Germania avevano alle spalle una lunga storia di convivenza con il popolo tedesco; si consideravano parte integrante della società e della cultura che era stata resa grande dal loro impegno in campo artistico, letterario e scientifico.

Ciononostante dopo la guerra, Auschwitz e la capitolazione della Germania, il risentimento dei tedeschi nei confronti degli ebrei si era addirittura inasprito. Più volte è stato sottolineato come i tedeschi non abbiano mai perdonato Auschwitz agli ebrei. È senz’altro un’affermazione caustica, ma rispecchia l’atteggiamento che assunsero i tedeschi di fronte ai sopravvissuti ai campi di concentramento: li ignoravano, non erano disposti ad ascoltare le loro storie e imputavano loro lo stato di distruzione in cui riversava il paese. In particolare, rifiutavano in modo deciso di sentirsi colpevoli, o quantomeno responsabili, per la sorte toccata agli ebrei. Del resto, Lorenzini osserva che «[l]a “colpa collettiva” del popolo tedesco venne negata sia in occidente sia a Mosca, per timore che una condanna dura e

(23)

22

senza possibilità di riscatto inducesse nei tedeschi un atteggiamento disfattistico e di passività politica»26.

La Schuldfrage rappresentava però una questione delicata che andava al di là delle esigenze richieste dalle mirate operazioni di politica internazionale. Nel suo saggio «Colpa organizzata e responsabilità universale», Hannah Arendt ha scritto:

[c]omunque , il vero problema non è dimostrare quel che è evidente da sé, cioè che i tedeschi non sono stati nazisti fin dai tempi di Tacito, né quel che è impossibile, cioè che tutti i tedeschi aderiscono al nazismo. Occorre piuttosto valutare come comportarci e come superare la prova di un confronto con un popolo in cui i confini che separano i criminali dalle persone normali, il colpevole dall’innocente, sono stati completamente cancellati, tanto che nessuno, in Germania, avrà più modo di dire se ha a che fare con un eroe nascosto o con qualcuno che in passato si è reso colpevole di genocidio27.

È stata proprio la definizione di questo debole limite tra colpevoli e responsabili a dominare la scena politica della Germania del dopoguerra. I due maggiori protagonisti di questo dibattito furono Wilhelm Koenen, membro del gruppo londinese Freies Deutschland, e Paul Merker, segretario della KPD (il partito comunista tedesco) emigrato in Messico e tornato in Germania nel 1946. Koenen era convinto della Mitschuld del popolo tedesco poiché esso non si era mai realmente opposto alle politiche del Führer.

Merker, d’altro canto, era più sottile e distingueva tra Mitschuld e Mitverantwortung, inserendo il popolo tedesco nella seconda categoria.28 Fu proprio Merker, tra l’altro, a parlare di Wiedergutmachungen, gli indennizzi economici che avrebbero dovuto essere corrisposti agli ebrei per la detenzione nei campi di concentramento e per il lavoro forzato. Queste restituzioni, benché monetarie, se corrisposte avrebbero significato l’ammissione di colpa da parte delle istituzioni tedesche. Nel suo saggio sulla questione ebraica nella Germania est, Jeffrey Herf sostiene che per Merker la vicenda delle restituzioni «was a matter of simple justice and decency, but also part of an effort to reconstitute

26 LORENZINI, Sara: Il rifiuto di un’eredità difficile – La Repubblica Democratica Tedesca, gli

ebrei e lo stato di Israele, La Giuntina, Firenze, 1998, p. 33.

27

ARENDT, Hannah: Ebraismo e modernità, (traduzione e cura di Giovanna Bettini), Saggi - Universale Economica Feltrinelli, Milano, 2003, pp. 67-8.

28 Cfr LORENZINI, Sara: Il rifiuto di un’eredità difficile – La Repubblica Democratica Tedesca,

(24)

23

German-Jewish life in postwar Germany»29. Le riparazioni di guerra avrebbero

dovuto includere, tra l’altro, anche la restituzione della cittadinanza tedesca agli ebrei, così come il fatto di dichiarare l’antisemitismo crimine contro lo stato.

Anche la Arendt si è espressa in merito alla dicotomia colpa/responsabilità e in proposito ha scritto:

[i]l numero di quelli che sono responsabili e colpevoli sarà relativamente basso. Molti condividono la responsabilità senza che vi sia alcuna visibile prova di colpevolezza. Ancora di più sono quelli divenuti colpevoli senza avere alcuna responsabilità. Tra i responsabili, in senso lato, devono essere inclusi quelli che hanno continuato ad appoggiare Hitler per tutto il tempo che è stato loro possibile, che lo hanno aiutato a conquistare il potere e che lo hanno acclamato in Germania e negli altri paesi europei […] Ma, in senso stretto, nulla può essere imputabile a queste persone, le quali sono state, in senso lato, corresponsabili dei crimini di Hitler. Costoro, che sono stati i primi complici dei nazisti e i loro migliori collaboratori, non sapevano davvero quello che stavano facendo, né con chi avevano a che fare30.

A causa della delicatezza della questione, della problematicità ideologica e pratica di distinguere nettamente tra colpevoli e innocenti, tanto la Repubblica democratica quanto quella federale hanno ridimensionato l’aspetto dell’intolleranza ebraica del nazismo e hanno costruito una memoria storica in cui non si teneva conto delle storie e delle esperienze dei deportati sopravvissuti.

1.3.1. L’atteggiamento delle due Germanie nei confronti del passato

Nella DDR il processo di Entnazifizierung fu drastico: «nel 1948, 520.000 ex membri della NSDAP erano stati licenziati e quasi 13.000 sentenze erano state pronunciate contro i criminali di guerra»31. Potrebbe sembrare che la Repubblica democratica, la quale voleva ergersi a nuova patria di tutti i tedeschi antifascisti, volesse davvero fare i conti con l’immediato passato in modo da poter rappresentare un reale Neueanfang per la Germania. Ma non fu così. Jeffrey Herf, infatti, osserva che

29 HERF, Jeffrey: East German Communists and the Jewish Question: The Case of Paul Merker,

p.631, in «Journal of Contemporary History», Vol. 29, No. 4 (Oct., 1994), pp. 627-661.

30

ARENDT, Hannah: Ebraismo e modernità, (traduzione e cura di Giovanna Bettini), Saggi - Universale Economica Feltrinelli, Milano, 2003, p. 68.

31 TRAVERSO, Enzo: Gli ebrei e la Germania – Auschwitz e la «simbiosi ebraico-tedesca», il

(25)

24

Before 1945 most German communists, and after 1945 most East German communists, viewed 'the Jewish question', that is, the whole complex of anti-semitism, the Holocaust and the place of the Jews in Germany and Europe, as peripheral to the main drama of class struggle and anti-fascism32.

Proprio per il carattere antifascista che doveva essere la colonna portante del nuovo stato, la DDR rigettava il passato nazista e si dichiarava estranea a ogni implicazione con esso. In conseguenza di questo atteggiamento l’esistenza della Judenfrage veniva meno e, in ogni caso, era considerata una questione con la quale doveva confrontarsi la Repubblica federale, in quanto stato consecutivo al Terzo Reich.

Non voler scendere a patti con il passato non equivaleva però alla libertà degli ebrei di continuare a praticare i loro riti e di far rivivere le proprie tradizioni. La Jüdische Gemeinde di Berlino est, infatti, subiva forti pressioni e interferenze statali tanto che molti ebrei evitavano di iscriversi alle associazioni religiose proprio per non finire nel mirino della Stasi. D’altro canto, fu proprio lo stato a incoraggiare la memoria ebraica con il restauro dei cimiteri e la commemorazione della Notte dei cristalli. Tuttavia, la componente antisemita del Terzo Reich fu semplicemente ignorata, in quanto considerata un mero fattore collaterale della guerra dei nazisti contro i loro veri nemici, ossia i comunisti e non gli ebrei. Nella sua analisi del rapporto tra la Germani est e la comunità ebraica, Traverso osserva che «[l]a RDT oscillò in tal modo tra una condanna radicale dell’antisemitismo e la denuncia rituale e ossessiva del sionismo (sotto la pressione dell’URSS) che faceva apparire come un potenziale “agente imperialista” ogni ebreo praticante»33

. Altro colpo inflitto alla comunità ebraica fu la proposta avanzata dalla SED per distinguere tra coloro che erano morti combattendo contro il nazismo in nome della resistenza comunista e coloro che erano stati sterminati senza aver opposto una effettiva resistenza: tra Kämpfer gegen den Faschismus e Opfer des Faschismus34.

32 HERF, Jeffrey: East German Communists and the Jewish Question: The Case of Paul Merker,

p.627, in «Journal of Contemporary History», Vol. 29, No. 4 (Oct., 1994), pp. 627-661.

33 TRAVERSO, Enzo: Gli ebrei e la Germania – Auschwitz e la «simbiosi ebraico-tedesca», il

Mulino, Bologna, 1994, p. 226.

34 Nel suo libro, la Lorenzini scrive che gli organi della SBZ contavano 4.614 combattenti, 1.902

vittime del fascismo e 9.286 vittime delle Leggi di Norimberga (p.50). Un tale comportamento evidenzia ulteriormente la scarsa considerazione che veniva concessa agli ebrei sopravvissuti.

(26)

25

Motivazioni ideologiche furono anche alla base del netto rifiuto della Germania est di corrispondere i risarcimenti di guerra che Israele aveva chiesto nel 1950. Il motivo del rifiuto, sottolinea Lorenzini, era che

[l]’antifascismo era carattere costitutivo e criterio di legittimazione dell’esistenza della Repubblica Democratica. Così, le richieste di Wiedergutmachung rivolte da Israele minavano proprio la credibilità della svolta antifascista, ne mettevano in dubbio la completezza, svelavano le debolezze della politica delle riparazioni, rinnovando le discussioni su quel capitolo dichiarato chiuso, ponendo un blocco allo sviluppo svincolato dalle ombre del nazismo35.

In questo senso, corrispondere le riparazioni di guerra avrebbe significato l’assunzione di responsabilità nei confronti della comunità ebraica e, di conseguenza, la dichiarazione della propria colpevolezza in quanto erede di un capitolo buio della storia tedesca. Ma per la DDR quel capitolo non aveva alcun collegamento con il nuovo stato, e semmai ne era l’altra Germania, la Repubblica federale, l’erede. In questo modo, negava qualsiasi dovere morale nei confronti delle vittime della Shoa, in particolare a causa della convinzione infondata secondo la quale i nazisti non c’erano più in quanto, a differenza dell’altra Germania, in quella democratica il processo di denazificazione era stato drastico. Oltre al rifiuto su base ideologica, esistevano anche ragioni strettamente finanziarie che impedivano di corrispondere le riparazioni: la situazione economica a est era ben peggiore rispetto a quella dell’ovest, che godeva degli aiuti del piano Marshall.

Nella Repubblica federale, d’altro canto, si optò per la reintegrazione di personaggi dal passato inequivocabilmente nazista. Traverso giudica in questo modo la scelta di questa linea politica:

[p]oiché il nazismo e il comunismo erano l’incarnazione, sotto diverse spoglie, dello stesso “male totalitario”, il nuovo stato tedesco alleato dell’Occidente trovava ora una sua legittimità e saldava il suo conto col nazismo combattendo la minaccia comunista36.

In tal modo, la questione della colpa fu ignorata giudicando i funzionari della macchina nazista come cittadini tedeschi che avevano «semplicemente» eseguito degli ordini.

35

LORENZINI, Sara: Il rifiuto di un’eredità difficile – La Repubblica Democratica Tedesca, gli

ebrei e lo stato di Israele, La Giuntina, Firenze, 1998, p. 74.

36 TRAVERSO, Enzo: Gli ebrei e la Germania – Auschwitz e la «simbiosi ebraico-tedesca», il

(27)

26

Un ulteriore colpo alla memoria dei sopravvissuti fu la visita di Helmut Kohl e Ronald Reagan al cimitero militare di Bitburg, dove erano sepolti 47 soldati delle SS. Il fatto di averli definiti «vittime del nazismo»37 come quelle di Bergen-Belsen voleva raggiungere, secondo Traverso, lo «scopo mal celato di riabilitare i carnefici calpestando la memoria delle vittime»38.

1.3.2. Tra ricordo e oblio

Al di là delle riflessioni sul comportamento del popolo tedesco e del trattamento riservato agli ebrei nella Germania postbellica, resta il fatto che occorreva tenere viva la memoria di quanto era accaduto e bisognava riflettere su Auschwitz, divenuto ormai uno spartiacque indelebile nel corso della storia tanto tedesca quanto mondiale. A tal fine Traverso sostiene che era necessario «integrare la riflessione storica con un’altra dimensione: la memoria dei protagonisti, e soprattutto dei sopravvissuti, che non pretende di spiegare razionalmente l’avvenimento ma ne costituisce una “testimonianza dall’interno”»39

. Nell’immediato dopoguerra, tuttavia, nessuno era disposto a riflettere a caldo sul significato di un evento unico nella storia40.

Il silenzio protrattosi per quarant’anni, oltre a impedire un confronto reale con la Shoa, ha anche lasciato campo libero alla formazione di teorie negazioniste che hanno ulteriormente minacciato la già flebile memoria delle Opfer della barbarie nazista, e che continuano a farlo. Sulla pericolosità dell’insorgenza di rivisitazioni storiche infondate, Traverso ha osservato che «il negazionismo non è il solo modo di “assassinare la memoria”. Ce n’è anche un altro, per certi versi più sottile e

37

Cit. in TRAVERSO, Enzo: Gli ebrei e la Germania – Auschwitz e la «simbiosi

ebraico-tedesca», il Mulino, Bologna, 1994, p. 238.

38 Ibidem. 39

TRAVERSO, Enzo: Gli ebrei e la Germania – Auschwitz e la «simbiosi ebraico-tedesca», il Mulino, Bologna, 1994, p. 191.

40 Nel suo libro, Enzo Traverso dimostra come la singolarità della Shoa dipenda da due elementi

fondamentali: “la sua modernità e la sua razionalità strumentale”(p.214). Tiene conto, tra i tanti genocidi della storia, anche dei pogrom zaristi e del comportamento degli Stati Uniti nelle diverse guerre intraprese, in tal modo chiarisce che le vittime di Auschwitz non sono “superiori” a quelle di altri tragici episodi storici, ma che la natura della Shoa è unica e irripetibile per il modo “razionale” con cui i nazisti cercarono di giustificarla, e per le condizioni storiche durante le quali ebbe luogo.

(28)

27

insidioso delle menzogne di un Faurisson41, che non consiste nella negazione ma piuttosto nella “relativizzazione” e nella banalizzazione di Auschwitz»42

.

La pericolosità di un simile atteggiamento sta nell’accettare che la Shoa e tutto il meccanismo di distruzione nazista abbiano effettivamente avuto luogo; tuttavia, si esclude che l’accaduto abbia avuto carattere di eccezionalità. Una posizione del genere assolve da ogni responsabilità la politica nazista, la quale viene declassata a uno dei tanti momenti della storia tedesca, e la Shoa si ritrova ad essere sminuita a inevitabile conseguenza della protezione dalla minaccia “asiatica” del bolscevismo. Da questa prospettiva il nazismo viene svuotato della sua natura antisemita, in quanto esso sarebbe stato soltanto un meccanismo di difesa dal pericolo comunista (linea che, del resto, era seguita dagli stessi rappresentanti della KPD e, in seguito, della SED).

Proprio questa tendenza alla relativizzazione della Shoa ha caratterizzato il dibattito tra storici revisionisti della Repubblica federale avvenuto negli anni Ottanta e che va sotto il nome di Historikerstreit. Gli storici si sono confrontati in merito al peso della Shoa e sulla responsabilità della Germania. Generalmente, non negavano l’esistenza dei campi di concentramento, ma sostenevano che questi non erano stati altro che una replica dei gulag sovietici. Si manifestava dunque la volontà di privare la Shoa del suo carattere di unicità all’interno della lunga lista di genocidi che hanno avuto luogo nel corso della storia.

In ultima analisi, Enzo Traverso sottolinea che l’Historikerstreit ha rappresentato «un evento simbolico che segna una semplice metamorfosi dell’oblio, la fine della fuga davanti a un passato troppo pesante da assumere e l’inizio di una nuova forma di rimozione, fondata sulla «normalizzazione» di un passato accettato ormai come aproblematico»43.

Ad ogni modo, la questione della memoria assume toni controversi all’interno della stessa comunità ebraica. A tal proposito è interessante leggere alcune riflessioni di Gerschon Scholem sull’importanza e sul valore della memoria all’interno della comunità ebraica:

41

Robert Faurisson è un saggista francese ed è conosciuto per le sue teorie negazioniste.

42 TRAVERSO, Enzo: Gli ebrei e la Germania – Auschwitz e la «simbiosi ebraico-tedesca», il

Mulino, Bologna, 1994, p. 239.

(29)

28

[c]’è l’abitudine di dire – a proposito di noi Ebrei – che abbiamo un’ottima memoria: non è vero. Noi dimentichiamo più di ogni altro popolo colto. L’oblio è doppio: contiene elementi che ricompariranno in futuro, come pure elementi che si sono deteriorati, che sono rimasti senza vitalità, e perciò sono caduti nell’abisso dell’oblio. L’oblio non è solo perdita: è una forza non meno reale del ricordo. [...] Ogni valore già definito, che affiora alla nostra memoria storica, in certa misura è dubbio proprio per il fatto di essere ricordato44.

È proprio sulla dualità oblio/ricordo che si è costruito un intero movimento letterario, ossia quello dei Nachgeborene. La principale differenza rispetto alle opere dei sopravvissuti è proprio l’assenza del ricordo, della memoria diretta della Shoa. Ciononostante, gli ebrei «di seconda generazione» vivono nell’ombra delle storie dei propri genitori e, nei loro testi, rivelano diverse risposte alla stessa problematica: continuare a vivere in Germania o abbandonare il paese.

1.3.2.1. La memoria indiretta: la generazione dei Nachgeborene

È evidente che il peso della Shoa non ha segnato soltanto chi l’ha vissuta personalmente, è anzi caduta come un macigno sulla coscienza degli ebrei nati durante e dopo la guerra, ossia sugli ebrei della «seconda generazione». Benché non avessero testimonianza diretta del nazismo e della sua politica di distruzione, i Nachgeborene si sono trovati attanagliati, come scrive Traverso, tra

l’impossibilità del ricordo e l’impossibilità dell’oblio. La prima è un dato oggettivo – non si può ricordare un evento che non si è vissuto –, la seconda è assunta da alcuni come un dovere etico e da altri come un’ossessiva persecuzione, come un handicap di cui ci si vorrebbe liberare al più presto45.

Il silenzio persistente sulla Judenfrage e sulla Shoa si interruppe nel 1961 con il processo a Eichmann. Nello stesso periodo, i figli degli ebrei sopravvissuti cominciano a esibire la volontà di ripercorrere il proprio passato con spirito critico per poterlo comprendere. I loro genitori, osservano gli autori di Ebrei invisibili, solo dopo essere

[u]sciti dal comunismo, si rendono conto di aver vissuto in un sistema totalitario che soffocava la loro identità, ma nello stesso tempo sono consapevoli si aver censurato

44

SCHOLEM, Gershom: Mistica, utopia e modernità – saggi sull’ebraismo, Casa Editrice Marietti, Genova, 1998, pp. 38-39.

45 TRAVERSO, Enzo: Gli ebrei e la Germania – Auschwitz e la «simbiosi ebraico-tedesca», il

(30)

29

una parte di sé, di essere stati – per paura o, addirittura, per libera scelta – parte dell’ingranaggio […]Comune a tutti è il desiderio di recuperare una memoria bloccata dal totalitarismo46.

È di questa memoria che i loro figli vogliono tornare in possesso. In questo percorso di riscoperta, tuttavia, sono ostacolati sia dal silenzio dei propri genitori, sia dal fatto di vivere in un contesto storico-culturale in cui le comunità ebraiche hanno ormai perso la loro funzione di custodi dell’identità tradizionale e religiosa. I Nachgeborene vivono in un momento in cui la memoria e le tradizioni ebraiche non trovano nessun luogo per la propria conservazione né tantomeno per la loro continuazione. Forse proprio a causa dell’ostilità e dell’indifferenza dell’ambiente circostante, i figli scelgono di intraprendere un cammino opposto a quello dei loro genitori, animati dalla volontà di riscoprire tradizioni abbandonate e, in particolare, anche perché finalmente constatano che l’illusione di anteporre un’ideologia politica alla propria identità non ha condotto ad altro che un’ulteriore dispersione della loro comunità.

La riscoperta delle proprie radici passa anche attraverso l’arte, e soprattutto attraverso la letteratura, perché in essa l’atto di scrivere assolve il compito di difendere la memoria e di tramandare antiche tradizioni che sono alla base di un’identità ritrovata. È in questo contesto che si inserisce la produzione narrativa di Barbara Honigmann, dalla quale si fa strada il desiderio di riappropriarsi dell’appartenenza ebraica attraverso il confronto con le esperienze passate dei genitori e con le altre culture, interne ed esterne rispetto alla comunità ebraica.

46 ESCHENAZI, Gabriele/ NISSIM, Gabriele: Ebrei invisibili – I sopravvissuti dell’Europa

Riferimenti

Documenti correlati

This kind of progressive ethos is dominant in Richardson’s works – especially in Pamela – and the representation of Pamela’s bodily signs in Pamela II is, I want to suggest,

La casa ovale di Ficana fu abitata fino alla fine del VI secolo a.C., come indicano i materiali della fase di distruzione in seguito ad un incendio, quando ne fu costruita una

A sketch of fabricated whisker-contacted diodes and planar quasi-vertical structures is shown in Figure 1a and Figure 1b respectively. One of main advantages of a

Il se borne, dans la première partie, à rappeler la politique de la France de Giscard à l’égard des pays de l’Afrique méditerranéenne (notamment la Libye) ; et, dans la

Abstract: We study the algebras for the double power monad on the Sierpi´nski space in the cartesian closed category of equilogical spaces and produce a con- nection of the

Ho osservato che tutti e tre gli allievi per svolgere la prima copiatura si sono concentrati sulla forma e sul contorno dell’animale senza approfondire i particolari, invece

Methods for dealing with symmetries within the Density Matrix Renormalization Group framework were already known before the acknowledgement of Tensor Network states [5], still,

be attributed to the lift-off of the coolant jets, which does not guarantee a correct wall protection at the first rows of holes, while after the sixth row and for higher blowing