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Ignoranti, irrazionali ed egoisti? A proposito dei “no” locali ad opere sgradite

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Academic year: 2021

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Ignoranti, irrazionali ed egoisti? Contro la lettura in chiave Nimby delle opposizioni locali all’installazione di opere sgradite

di Michele Roccato, Dipartimento di Psicologia, Università di Torino1

Negli ultimi anni la diffusione e l’efficacia delle opposizioni messe in atto dalle comunità locali all’installazione di opere considerate strategiche, ma loro sgradite, sono andate aumentando. Molti movimenti di opposizione che – al di là dell’oggetto delle loro rivendicazioni (Tav, No-Mose, No-Ponte, No-Dal Molin, recentemente No-Discariche…) – sono accomunati da

caratteristiche organizzative simili si sono addirittura uniti nel 2006 in un «Patto nazionale di solidarietà e di mutuo soccorso» (www.pattomutuosoccorso.org). Perché si sviluppano tali

opposizioni? Quali sono le ragioni alla base del loro radicalismo? I principali punti di vista con cui non solo i proponenti delle opere e gli amministratori, ma anche gli studiosi, i mass media e le persone comuni tentano di rispondere a queste domande sono essenzialmente tre: sono tre approcci, che proponiamo di etichettare tradizionale, economicista e concertativo, che si differenziano fra loro in funzione dei loro postulati. In questo articolo ne verranno delineati i tratti peculiari, tentando di mostrare come il tipo di rappresentazione delle ragioni degli oppositori sviluppato da proponenti e amministratori possa esercitare una rilevante influenza sul tipo di condotte che essi metteranno in atto e, in ultima analisi, sull’esito dei conflitti fra loro e le popolazioni locali.

L’approccio tradizionale

Chi muove dai presupposti dell’approccio tradizionale legge le opposizioni locali

all’installazione di opere sgradite alla popolazione residente nel luogo in cui esse dovrebbero essere collocate in chiave assai svalutativa: le considera infatti l’esito di un’esecrabile sindrome Nimby (Not In My Back Yard, Non Nel Mio Giardino), riassumibile sinteticamente nella formula

«costruite pure l’opera, purché non lo facciate nel territorio in cui vivo». Sviluppato a partire dagli anni ’70, questo approccio spiega le inaspettate opposizioni manifestate nei confronti di opere che in teoria dovrebbero perseguire l’interesse collettivo considerandole manifestazioni di «eco isteria», o di «tecnofobia», o come «spasmodici tentativi di marciare all’indietro verso la sicurezza

immaginaria di feudi difesi da muri Nimby». Anche i mass media trattano tipicamente le 1 Questo articolo è la rielaborazione della prima parte del capitolo Interessi particolari e interessi generali, redatto

insieme a Gianluca Bo e ad Alberto Rovere e pubblicato nel volume Oltre il Nimby: La dimensione psico-sociale della protesta contro le opere sgradite, a cura di Angela Fedi e Terri Mannarini (Milano, Angeli, 2008).

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opposizioni locali come manifestazioni di un «ambientalismo del no» che, mai abbastanza vituperato, reagisce a ogni innovazione con un’opposizione ciecamente aprioristica: basti come esempio il sarcastico Bonsai pubblicato su Repubblica da Sebastiano Messina il 2 giugno 2008.

Grande successo a Chiaiano della manifestazione di protesta. Accanto ai «No discarica» sono scesi in campo i «No Dal Molin», i «No Tav», i «No Ponte» e naturalmente i «No Global». È dunque scattata una inaspettata

trasversalità non solo geografica ma anche ideologica. Chi contesta in blocco la base vicentina, la discarica napoletana, il treno superveloce e il Ponte sullo Stretto dev’essere – proviamo a immaginarlo – un pacifista nazionalista, nemico della velocità, ostile alla delocalizzazione e assolutamente contrario agli «sversatoi». Benissimo. Ma quale sarà il valore fondante di questa strana alleanza contro le armi, contro i treni, contro i ponti, contro le multinazionali e contro i termovalorizzatori? Il rifiuto della fretta, la fretta del rifiuto o il rifiuto del rifiuto? Vorremmo tanto chiederlo ai diretti interessati, ma temiamo di conoscere già la loro inesorabile risposta: «No».

Questa posizione così sprezzante si fonda su tre principali presupposti. Il primo è etico: esiste un bene comune, da perseguire in ogni modo, anteponendo gli interessi generali della collettività a quelli particolaristici delle comunità che si oppongono alla localizzazione dell’opera sul loro territorio. Alcuni, prendendo spunto dalle moderne analisi di Dahl sulla democrazia2 hanno tuttavia

messo in dubbio il postulato che le decisioni prese dagli esperti siano necessariamente e

inevitabilmente più utili all’interesse collettivo di quelle che prenderebbero le persone meno esperte dal punto di vista tecnico ma implicate più direttamente nei lavori. Il secondo presupposto è

epistemologico: operando in maniera scientificamente corretta è possibile quantificare con esattezza e imparzialità i costi e i benefici derivanti dalla costruzione delle opere sgradite, minimizzandone il rapporto. Questo presupposto è stato messo in discussione negando che sia possibile condurre un’analisi completamente «oggettiva» dei costi e dei benefici legati alla costruzione di un’opera: nel calcolare tale bilancio, infatti, anche gli esperti e i politici spesso non sono neutrali e, come i

cittadini comuni, muovono – talvolta in modo inconsapevole – da valori, preferenze e punti di partenza parziali e ovviamente discutibili. Il terzo presupposto è scientifico: le popolazioni locali, a differenza degli esperti, non hanno sufficiente motivazione e abilità cognitiva per maturare

un’opinione razionale sull’opera da localizzare nel loro territorio. Sono dunque costrette a

costruirsene una rappresentazione fondata massicciamente sulle euristiche del pensiero, i processi di radicale semplificazione della realtà individuati dalla psicologia cognitivista. Ne deriverebbe un’opposizione caratterizzata dall’ignoranza nei confronti delle caratteristiche tecniche dell’opera sgradita e dall’irrazionalità di un giudizio visceralmente negativo fondato su basi emotive più che su un adeguato soppesare i suoi costi e i suoi benefici. Tuttavia, la ricerca cognitivista più avanzata ha mostrato che, come le persone comuni, anche gli esperti prendono le loro decisioni ricorrendo 2 Dahl, R. (1989). Democracy and its critics. New Haven, CT: Yale University Press.

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sistematicamente alle euristiche del pensiero, finendo sovente per selezionare opzioni tutt’altro che ottimali.

Ma non è tutto. Le principali caratteristiche attribuite a queste opposizioni sono infatti assai spesso smentite dalla ricerca empirica. Innanzitutto, la probabilità di sviluppare atteggiamenti o comportamenti di opposizione alla costruzione di un’opera sgradita sovente non dipende dalla sua prossimità al luogo in cui si risiede. Inoltre, quote cospicue dei partecipanti a queste forme di opposizione tendono a mettere in atto nel corso del periodo della loro opposizione un processo di

salita in generalità, consistente nel metaforico «allargamento del proprio giardino» dal punto di

vista organizzativo (la sua superficie si amplia, superando antiche divisioni campanilistiche fra comunità vicine), e tematico (cambia il focus delle rivendicazioni, che passano dalla difesa del proprio territorio a quella della qualità della propria vita, fino ad arrivare in certi casi alla proposta – magari velleitaria – di un modo diverso di organizzare l’intera attività produttiva ed economica della società occidentale). Ancora, fra le persone favorevoli e quelle contrarie all’installazione (e talvolta anche fra queste ultime e gli stessi proponenti) sovente non emergono differenze di conoscenza in merito al tema dibattuto. In certi casi alcuni oppositori diventano addirittura veri e propri «controesperti», sviluppando una conoscenza delle caratteristiche tecniche del progetto superiore a quella di molti dei proponenti dell’opera: questo è avvenuto emblematicamente nel conflitto sul «Tav» sviluppatosi in Val di Susa negli ultimi 15 anni. Infine, molte indagini hanno evidenziato che fra gli oppositori è assai frequente trovare persone che si oppongono alla loro costruzione perché hanno sviluppato un’opposizione tout-court a essa: in questo senso, non la vorrebbero in alcun giardino, indipendentemente dal suo proprietario e dalla sua collocazione.

Quando muovono da questi presupposti teorici, apparentemente sensati ma piuttosto fragili, gli attori istituzionalmente preposti a promuovere la costruzione di un’opera potenzialmente sgradita tendono a comunicare alla popolazione locale destinata a ospitarla che non esistono

alternative alla costruzione. Inoltre, presupponendo di essere decisori informati, razionali e investiti del compito di perseguire l’interesse collettivo, accade sovente che si considerino gli unici soggetti che hanno titolo a prendere la decisione sul perché, sul dove e sul come costruire l’opera. Ne consegue che adottino tipicamente un modello decisionale chiuso, paternalista, di solito strutturato in tre tappe: la decisione di localizzare l’opera, l’annuncio di tale decisione e la sua difesa.

Quest’ultima consiste generalmente in una campagna di «marketing dell’opera» (sui mass media, attraverso l’organizzazione di conferenze, l’affissione di manifesti, la distribuzione di volantini…) in cui vengono impartite vere e proprie lezioni alla popolazione locale, spiegando razionalmente e spassionatamente che i rischi derivanti dall’opera (il cui progetto è già deciso e inemendabile) sono molto bassi e che ogni possibile contromisura per prevenirli è stata messa in atto (il che, nei casi

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migliori, è vero). A questo punto i proponenti si aspettano che la comunità annuisca, rimanendo increduli quando (sempre più spesso) essa muove sì la testa, ma in senso opposto a quello atteso. Fra l’altro la terza tappa è talvolta addirittura assente e i proponenti procedono dritti verso la meta senza curarsi di un’opposizione che considerano basata su fondamenta superficiali e poco legittime, magari nella maniera meno trasparente possibile, nell’illusione di evitare inutili perdite di tempo.

Si noti che dal punto di vista esclusivamente tecnico si può trattare di un modello tutt’altro che criticabile: si fonda infatti sulla scelta del luogo ottimale in cui costruire l’opera, in base ai vincoli (fisici) e alle risorse (fisiche) del territorio. Tuttavia, ricorrere a esso tende sistematicamente a promuovere tre conseguenze negative: (a) veicolare alla comunità locale il messaggio che la si considera aprioristicamente contraria all’opera; (b) rinunciare all’expertise non necessariamente tecnica della popolazione locale e dunque – ammesso che ci si riesca – finire per costruire un’opera che avrebbe potuto essere migliore; e (c) suggerire che i criteri economici e gestionali che

guideranno la costruzione dell’opera saranno tutt’altro che limpidi. Tutto questo tende a stimolare la comunità locale a mettere in atto un’opposizione radicale e intransigente e a sviluppare una

percezione del rischio derivante dall’opera potenzialmente sproporzionata alla realtà dei fatti, dato che essa si sviluppa tendenzialmente basandosi sulla qualità della relazione instaurata dai

proponenti con le popolazioni locali.

Fra l’altro, ricorrere a questo modello lascia «libere» le comunità locali di scegliere la meno peggio fra due diverse forme di vittimizzazione: diventare sede dell’opera sgradita oppure venire stigmatizzate come nocive per l’interesse collettivo ed essere trattate come tali dalle istituzioni politiche (che tipicamente ridurranno negli anni a venire le risorse economiche investite in esse). Non stupisce che ne derivino relazioni particolarmente conflittuali fra proponenti e comunità locali, né che sempre più spesso la comunità locale – piccola, apparentemente fragile e a prima vista poco efficace dal punto di vista politico ed economico – riesca a fermare il fronte dei proponenti; o che renda così tortuosa e dispendiosa la realizzazione del progetto da finire per far pagare ai proponenti costi (economici e di tempo) assolutamente soverchianti rispetto a quelli preventivati. Perché? Per capirlo è necessario volgere il nostro sguardo agli altri due punti di vista da cui si possono guardare le opposizioni locali.

L’approccio economicista

L’approccio economicista condivide con quello tradizionale il presupposto etico (esiste un bene comune, da perseguire non curandosi delle eventuali opposizioni locali) e quello

epistemologico (a differenza dei residenti, gli esperti sono in ogni occasione in grado di valutare razionalmente se e come costruire un’opera potenzialmente sgradita alla comunità che la dovrebbe

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ospitare, prescindendo dal proprio interesse particolare). Tuttavia, se ne differenzia per il presupposto scientifico: postula infatti che lo sviluppo di un’opposizione locale è la risposta «razionalmente» e «fisiologicamente» egoista messa in atto da una comunità che, a seguito della costruzione dell’opera, si troverebbe a fronteggiare un’allocazione dei costi e dei benefici

svantaggiosa, pagando costi (sociali, economici ed ambientali) assai elevati a fronte di (eventuali) benefici diffusi su scala molto più ampia, addirittura nazionale o internazionale. Nella logica self

interest di questo approccio, perde di centralità il presupposto di ignoranza degli oppositori su cui si

fonda l’approccio tradizionale: infatti, poco conta che essi conoscano nel dettaglio le caratteristiche del progetto e che calcolino con accuratezza i suoi costi e i suoi benefici. E il presupposto della loro irrazionalità viene addirittura a franare rovinosamente: mettere in atto processi di free riding

comunitario, con cui un territorio cerca di viaggiare senza pagare il biglietto della corsa (ossia, fuor di metafora, agisce per permettere che l’opera venga sì costruita, ma – giustappunto – fuori dal proprio «giardino») è infatti considerato assolutamente razionale.

Per quel che concerne le critiche ai primi due presupposti di questo approccio, basti quel che abbiamo riportato nel paragrafo precedente. Tuttavia, anche il suo presupposto scientifico è molto meno solido di quanto non appaia a prima vista. Innanzitutto, la ricerca mostra che non è detto che avere interessi legati alla difesa e alla promozione del proprio circoscritto ambiente di vita sia necessariamente sinonimo di egoismo e particolarismo. Oltretutto, chi fonda i propri ragionamenti sui presupposti dell’approccio economicista, spiegando le ragioni delle opposizioni in base a un calcolo dei costi e dei benefici tende a dimenticare costi personali (in termini di tempo, di fatica, di stress, di stigmatizzazione…) talvolta molto rilevanti, il che fa dubitare di un loro fondamento esclusivamente egoistico. Nella realtà accade poi sovente che gli oppositori – coerentemente con la

salita in generalità che caratterizza buona parte delle opposizioni locali – non manifestino

motivazioni egoistiche e non ragionino rigidamente in termini di costi e benefici per sé e per la propria comunità. A parere di alcuni, questo dato va interpretato con cautela, dal momento che motivare con ragioni self interest la propria opposizione è socialmente indesiderabile: la salita in

generalità potrebbe dunque essere l’esito di una strategia retorica volta ad apparire portatori di

posizioni legittime più che la risultante di un genuino «allargamento del giardino». Vedremo nel prossimo paragrafo che questa obiezione può essere meno calzante di quanto non appare a prima vista.

Nel complesso, rispetto a quello tradizionale, l’approccio economicista porta a una lettura meno svalutante delle opposizioni locali e a improntare relazioni abbastanza pragmatiche con esse. Se la posta in gioco è rappresentata da interessi tutto sommato legittimi, si tratta semplicemente di lavorare facendo sì che l’opera possa essere fonte di guadagni (occupazionali, infrastrutturali ed

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economici) per le popolazioni locali, operando strenuamente per minimizzare i rischi derivanti da essa, e dunque i suoi costi per la comunità locale. Può però accadere che, anche così facendo, nessuna comunità manifesti la disponibilità a ospitare l’opera. A questo punto i proponenti che muovono da questo approccio si trovano a un bivio. Da una parte, se possibile, possono localizzare l’opera sgradita sul territorio di una comunità particolarmente svantaggiata, caratterizzata da minime risorse di mobilitazione. I dati mostrano che questo accade piuttosto spesso, al punto che alcune comunità si trovano a diventare sede di molteplici opere sgradite, il che contribuisce ad amplificare il loro svantaggio sociale. Dall’altra possono lavorare per promuovere l’utilità attesa dell’opera presso le popolazioni locali, offrendo loro adeguate compensazioni (generalmente

consistenti nella riduzione delle tasse per un certo periodo di tempo o nella costruzione di opere utili al territorio, come impianti sportivi, case di edilizia pubblica, centri culturali, ecc.).

Le possibili strategie di «trattativa» con cui negoziare le compensazioni sono molte,

generalmente fondate sui medesimi presupposti: (a) un’opera sgradita può essere costruita solo nei territori che la accettano; (b) si deve fare tutto quanto è possibile per minimizzazione il rischio ambientale e tecnologico che ne deriva; (c) non esiste il sito ottimale in cui localizzare l’opera; e (d) la comunità che abita nel territorio in cui l’opera viene costruita deve essere adeguatamente

compensata per il rischio, anche «solo» percepito, che accetta di correre accogliendola. A partire da questi presupposti si possono organizzare vere e proprie aste, così strutturate. In prima battuta, i proponenti comunicano alle comunità potenzialmente interessate i criteri di massima che chi intende candidarsi a ospitare l’opera deve soddisfare (ad esempio, in termini di composizione del suolo, di densità abitativa, di presenza di acqua nel sottosuolo, di composizione etnica…). Dopo aver comunicato la natura e l’entità delle compensazioni offerte a chi accetterà di essere sede dell’opera, chiedono alle comunità che soddisfano i criteri indicati di formalizzare la loro candidatura, se interessate a farlo, entro una data stabilita. Nel frattempo, le comunità possono usufruire – senza per questo impegnarsi ad accettare l’opera – del supporto di tecnici, scelti da loro ma pagati dai proponenti, cui affidare lo studio dei rischi derivanti dall’opera. Se una sola comunità si candida, l’asta si chiude. Se non si presenta alcun candidato, si alza la posta fino a quando non lo si trova: sarà una comunità per la quale è soddisfacente l’equilibrio fra costi (la localizzazione dell’opera) e benefici (le compensazioni). Se invece si presenta più di un candidato, si seleziona quello più adeguato in base ai criteri di massima individuati nella prima fase del processo. A questo punto si versa una parte consistente della cifra promessa (anche i due terzi) in un fondo temporaneo, controllato in modo paritario dai proponenti e dalla comunità provvisoriamente prescelta, e si dà avvio all’analisi sistematica dell’adeguatezza del territorio candidato ai criteri stabiliti a priori. Se si scopre che essi sono soddisfatti – come tende generalmente ad accadere, grazie agli studi

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preliminari condotti dagli esperti scelti dalla comunità – si dà inizio ai lavori e si versa l’intera somma pattuita. In caso contrario, si riapre l’asta.

Si tratta evidentemente di strategie onerose sia dal punto di vista economico sia da quello del tempo che richiedono, anche se generalmente molto meno costose di un lungo conflitto con

un’opposizione locale radicale e intransigente. Presentano però anche alcuni rischi, derivanti dalla loro natura intrinsecamente competitiva. Dalla possibile «lotta» fra le comunità interessate alle compensazioni può infatti derivare una scelta di ospitare l’opera presa dagli amministratori locali in modo frettoloso e verticistico, andando contro il volere della maggioranza della popolazione

residente. Questo ha potenzialmente tre esiti negativi: il conflitto che si sperava di prevenire può instaurarsi nonostante l’asta; la mancata consultazione della popolazione residente può precludere la possibilità di considerare punti di vista diversi da quelli meramente tecnici, talvolta utili ad arrivare a un miglioramento effettivo dell’opera progettata; si può finire per deprimere la fiducia che gli abitanti della comunità provano per le loro istituzioni locali, promuovendo effetti politici negativi a lungo termine.

Fra l’altro, le compensazioni funzionano soprattutto quando i residenti non considerano l’installazione troppo rischiosa nel presente e nel futuro, quando hanno un elevato grado di fiducia nelle istituzioni che ne propongono la costruzione (fiducia a sua volta fondata in larga misura sulla qualità della relazione che esse instaurano con la popolazione locale) e quando sono stati

attivamente coinvolti in ogni fase del processo decisionale che porta alla sua costruzione. Sarebbe dunque fuorviante ragionare meccanicamente in termini di costi da compensare: ci sono soglie di rischio percepito al di là delle quali non ha senso nemmeno cominciare il negoziato e certi costi, considerati troppo elevati dalle comunità locali, sono virtualmente non compensabili.

L’approccio concertativo

L’approccio concertativo muove dalla constatazione che nelle dispute in questione proponenti e oppositori hanno in mente opere diverse e si muovono in mondi interazionali differenti,

rappresentando in maniera spesso incompatibile l’opera il territorio designato a ospitarla. I suoi principali presupposti teorici sono tre. Il primo è che occorre capire davvero le ragioni

dell’opposizione, perché esse sono da considerare legittime quanto quelle dei proponenti. Ne deriva – e questo è il secondo presupposto teorico – che le opposizioni locali, anche quando le loro

richieste appaiono insopportabilmente miopi o egoiste, devono essere lette come forme di

opposizione voice a processi decisionali di localizzazione dell’opera caratterizzati da forti deficit di rappresentatività, inefficaci e dunque quasi inevitabilmente vissuti come iniqui. Molte ricerche mostrano in effetti come il senso di ingiustizia sovente sviluppato dagli oppositori nella loro

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relazione con i proponenti costituisca spesso una fortissima spinta alla mobilitazione e al tentativo di riappropriarsi del proprio ambiente quotidiano, soprattutto quando ci si trova a immaginare che esso venga «invaso» (dai cantieri, dalle maestranze che ci lavoreranno, dall’opera stessa) e a dover fronteggiare strategie decisionali fondate sulla contrapposizione e non sulla concertazione. Il terzo postulato teorico dell’approccio è che la chiave di lettura con cui si guarda alle opposizioni locali deve mutare radicalmente rispetto a quella fondata sugli altri due approcci: dall’attribuire agli oppositori un’illegittima ed egoistica posizione di aprioristica contrapposizione al riconoscere loro il diritto di concertare con proponenti e amministratori la localizzazione dell’opera.

L’approccio concertativo si fonda anche su due presupposti pragmatici. Il primo è che se i proponenti intendono evitare di promuovere nelle popolazioni locali il senso di esclusione e di frustrazione e dunque di spingerle a mettere in atto comportamenti non cooperativi o apertamente oppositivi è indispensabile che agiscano tenendo conto del loro punto di vista. Questo anche perché in molti casi diventa davvero troppo arduo costruire un’opera sgradita alle popolazioni locali, specie se la costruzione è tecnologicamente complessa e lunga. Ne deriva che la scelta sul se, sul come e sul dove costruire un’opera sgradita deve fondarsi su questioni politiche almeno quanto su questioni

tecniche; la strategia da seguire è dunque la sistematica negoziazione con le popolazioni locali. Nel

farlo bisogna – questo è il secondo presupposto pragmatico dell’approccio – evitare due errori speculari: impedire loro di esercitare, se adeguatamente fondato, un legittimo diritto di veto sulla costruzione dell’opera, ma anche arrivare – con una specie di curioso «effetto rimbalzo» – a

rivolgersi loro chiedendo il permesso di costruirla. La negoziazione deve essere insomma genuina e profonda; il processo decisionale deve essere improntato alla giustizia procedurale, fondandosi sulla partecipazione della comunità locale e sulla condivisione completa e sincera delle

informazioni rilevanti. Oltretutto, in molti casi prendere in attenta considerazione le rivendicazioni degli oppositori (anche quelle che a prima vista appaiono più grette e miopi) può portare al

miglioramento dell’opera progettata, a un risparmio economico derivante dal controllo esercitato dalla comunità locale nei confronti di ogni dettaglio della costruzione dell’opera e, addirittura, a evitare di costruire opere che sarebbero state dannose per la collettività.

Visti i presupposti dell’approccio concertativo, non stupisce che chi muove da esso individui l’origine delle opposizioni locali in «luoghi» molto diversi da quelli in cui lo fanno i sostenitori degli altri due approcci. Innanzitutto, nella diversa posta in gioco simbolica che, per i diversi attori, è implicata dalla costruzione dell’opera: se per i proponenti si tratta di risolvere un problema presente e futuro, per la comunità locale si tratta di stabilire chi e come debba pagare i costi della soluzione di tale problema nell’ambito di un processo decisionale equo. In questo senso si può dire che si contrappongono due diverse forme di razionalità: da un lato quella tecnica dei proponenti e

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dall’altro quella degli oppositori, improntata all’equità sociale e anche a una legittima paura o all’altrettanto legittima difesa di interessi considerati importanti. È evidente che ignorare qual è la posta in gioco per la controparte e qual è la forma prevalente di razionalità che essa utilizza tende quasi inevitabilmente a promuovere l’incomprensione, il conflitto e l’escalation simmetrica. Si può dunque sostenere che i conflitti in esame abbiano come fondamento dispute di giustizia ambientale: le popolazioni locali si trovano – legittimamente – a pretendere un trattamento equo e un

significativo coinvolgimento nella promulgazione di leggi, di regolamenti e di politiche ambientali che le riguardano.

Ma la prospettiva può essere ancora allargata: i dati empirici mostrano infatti che, almeno negli Stati Uniti, i principali predittori della localizzazione in un territorio di un’opera sgradita sono la composizione etnica della comunità che lo abita e il suo status sociale: più la comunità è

svantaggiata, più è probabile che diventi sede di opere sgradite. In questa logica, per capire le opposizioni locali e per sviluppare strategie di intervento adeguate a gestirle è utile leggerle come sintomi di conflitti per la giustizia sociale: e in effetti una delle basi fondamentali di tali conflitti è proprio il senso di ingiustizia che le popolazioni locali sviluppano per una distribuzione dei costi ambientali considerata iniqua, prima ancora che l’opposizione nei confronti dei contenuti tecnici dell’opera sgradita.

Questi presupposti costituiscono una vera e propria rivoluzione copernicana rispetto a quelli degli altri due approcci. Infatti, ne deriva quasi inevitabilmente una lettura dei conflitti in esame si che evita in ogni modo le vetuste categorie del Nimby, considerandoli invece «lotte» fra diversi centri di potere in competizione per stabilire chi potrà godere dei benefici delle opere sgradite e chi dovrà pagarne i costi. In quest’ottica, le coalizioni di attori in conflitto si impegnano al fine di rendere il più possibile legittime e universali le proprie rivendicazioni, anche particolaristiche, sovente trasmettendo un’immagine dell’altra coalizione come mossa da interessi miopi ed egoistici, mediante la mobilitazione di ogni risorsa simbolica, politica ed economica disponibile. Fra le risorse a disposizione dei proponenti c’è appunto la possibilità di etichettare gli oppositori come mossi dalla sindrome Nimby: l’uso di questa categoria può dunque essere considerato come un tentativo di delegittimare le rivendicazioni degli oppositori e di trasmettere il messaggio che essi non hanno titolo a partecipare alle decisioni pubbliche. Se si accetta questa chiave di lettura, sembra tutto sommato diventare poco interessante interrogarsi sulla «genuinità» della salita in generalità operata da queste forme di opposizione: in una battaglia per conquistare l’egemonia discorsiva, il tentativo degli oppositori di «allargare il giardino» può infatti essere letto come un tentativo di ricorrere a una retorica argomentativa globalizzatrice volta a rispondere alle accuse di irrazionalità e di egoismo di cui sono bersaglio.

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Non stupisce che le strategie di gestione di questi conflitti usate da chi si riconosce

nell’approccio concertativo siano radicalmente diverse da quelle adottate da chi muove dagli altri due approcci. Il loro principale presupposto è che le comunità locali devono essere coinvolte in tutto il processo di localizzazione dell’opera, non solo per ragioni etiche, ma anche per motivi

pragmatici: come si è visto, se si ricorre alle strategie fondate sui presupposti degli altri due approcci accade di frequente che Davide sconfigga Golia, il che non fa certo gli interessi del gigante. Scrive a questo proposito Luigi Bobbio che per costruire un’opera sgradita è indispensabile ottenere qualche forma di consenso dalla comunità che la dovrebbe ospitare, attraverso la sua partecipazione attiva al processo decisionale: «Se la sindrome Nimby costituisce una sfida alla democrazia, essa può essere […] superata con più democrazia»3.

In questa logica si tratta dunque di mettere in atto processi decisionali aperti, fondati sul presupposto che in questi conflitti tutte le parti in gioco devono avere la possibilità di partecipare alla ricerca della soluzione. Un modello efficace è il seguente: (a) individuare criteri ambientali generali da tenere in considerazione nella costruzione dell’opera; (b) mettere in atto un’ampia consultazione dell’opinione pubblica; (c) invitare le comunità interessate a partecipare alle fasi successive del processo; (d) consultare le comunità interessate a farlo; (e) indagare la rispondenza dei siti candidati ai criteri tecnici e ambientali individuati; (f) indire un referendum nelle comunità locali candidatesi, prendendo in considerazione solo quelle la cui maggioranza abbia dichiarato il proprio favore all’installazione; e (g) decidere dove localizzare l’opera. In questo processo, le comunità candidate possono tirarsi indietro in qualsiasi momento e per qualsiasi ragione, il che le tutela dal rischio di dover subire decisioni imposte dall’alto e testimonia la natura genuinamente concertativa dell’approccio.

In definitiva, la differenza fondamentale fra gli approcci chiusi basati sui presupposti dell’approccio tradizionale e quelli aperti basati sui presupposti dell’approccio concertativo sta nell’uso che si fa del potere decisionale. I primi, a differenza dei secondi, lo usano in modo autocratico, senza condividerlo con la comunità locale: ne deriva, anche al di là di ogni

considerazione ideale, un’aprioristica rinuncia al tentativo di ridurre la probabilità di instaurarsi di lotte di potere, la cui manifestazione più esteriore è costituita dalle risposte particolariste tanto violentemente stigmatizzate da chi le ha incoraggiate più o meno inconsapevolmente. Bisogna però notare che gli approcci aperti non costituiscono la panacea per tutti i mali: anche nei casi in cui la costruzione dell’opera è effettivamente sensata e portata avanti con criteri trasparenti, infatti, essi non portano inevitabilmente all’individuazione di una comunità adatta a ospitarla, né consentono

3 Bobbio, L. (1999). Un processo equo per una localizzazione equa. In L. Bobbio e A. Zeppetella (a cura di), Perché

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con certezza di prevenire l’instaurarsi di situazioni di stallo, né, ancora, sono «indolori» dal punto di vista del conflitto e delle risorse necessarie per affrontarlo. Richiedono infatti investimento, risorse, capacità di confronto e, perché no, una rara disponibilità a impegnarsi per individuare il buono e il costruttivo anche nelle eventuali opposizioni più miopi e grette, senza peraltro garantire il successo della relazione. Ma, come abbiamo cercato di argomentare, le alternative disponibili sono di gran lunga peggiori. E purtroppo – come ci mostrano quasi quotidianamente i mass media – in Italia si tende tuttora a ricorrere quasi solo a esse.

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