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Regionalismo differenziato e specialità regionale: problemi e prospettive

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Academic year: 2021

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Regionalismo differenziato e specialità regionale:

problemi e prospettive

A cura di Cristina Bertolino, Alessandro

Morelli, Giorgio Sobrino

Regionalismo differenziato

e specialità regionale:

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QUADERNI DEL DIPARTIMENTO DI GIURISPRUDENZA DELL’UNIVERSITÀ DI TORINO

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Regionalismo differenziato

e specialità regionale:

problemi e prospettive

Atti del IV Convegno annuale della rivista

Diritti regionali. Rivista di diritto delle autonomie territoriali a cura di

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Opera finanziata con il contributo del Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Torino e del Centro di ricerca di Diritto costituzionale e Istituzioni politiche avente sede presso il Dipartimento di Giurisprudenza, Economia e Sociologia dell’Università Magna Graecia di Catanzaro.

Il presente volume è stato preliminarmente sottoposto ad una revisione da parte di una Commissione di Lettura interna nominata dalla Commissione ricerca del Dipartimento di Giurisprudenza. Detta Commissione ha formulato un giudizio positivo sull’opportunità di pubblicare l’opera.

Quaderni del Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Torino

Regionalismo differenziato e specialità regionale: problemi e prospettive, a cura di Cristina

Bertolino, Alessandro Morelli e Giorgio Sobrino

© 2020 - Università degli Studi di Torino Via Verdi, 8 – 10124 Torino

www.collane.unito.it/oa/ openaccess@unito.it

ISBN: 9788875901554 Prima edizione: Maggio 2020

Grafica, composizione e stampa: Rubbettino Editore

Quest’opera è distribuita con Licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate 4.0 Internazionale

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Indice

Presentazione

Cristina Bertolino, Alessandro Morelli, Giorgio Sobrino

Regionalismo differenziato e specialità regionale:

le ragioni di un Convegno 15 Parte prima Relazioni Enrico Grosso Intervento introduttivo 31 Stefano Piperno

Il regionalismo differenziato: profili politologici,

economici e di finanza pubblica 39

Raffaele Bifulco

Differenziazioni e asimmetrie nella teoria federale

contemporanea 59

Anna Maria Poggi

Gli ambiti materiali e i modelli organizzativi

della differenziazione regionale 85

Giacomo D’Amico

Regionalismo differenziato, sistema finanziario

(9)

Parte seconda Interventi

Prima sessione

Federalismo asimmetrico e regionalismo differenziato Anna Mastromarino

Asimmetria, fiducia, integrazione 139

Daniele Camoni

Il sistema costituzionale delle Comunidades

Autónomas spagnole: un breve confronto

con l’ordinamento regionale italiano 151

Giacomo Delledonne

Omogeneità costituzionale e federalismo

asimmetrico: un’antinomia? 169

Giorgio Grasso

Elementi di asimmetria nell’ordinamento federale

elvetico: la disciplina dei c.d. trattati intercantonali 189

Francesco Duranti

Asimmetrie costituzionali nordiche 207

Daniele Casanova

Osservazioni sulla procedura parlamentare di approvazione del c.d. regionalismo differenziato

ex art. 116, terzo comma, Cost. 227

Carlo Iannello

Il Parlamento di fronte alla determinazione dei contenuti

e dei limiti dell’autonomia differenziata 247

Giuseppe Lauri, Massimiliano Malvicini

Il Presidente delle Autonomie? Il capo dello Stato tra unità nazionale e regionalismo asimmetrico

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Valentina Pupo

Le problematiche relative alla legge di attribuzione

dell’autonomia differenziata 281

Maria Grazia Rodomonte

Il Parlamento che c’è e il Parlamento che dovrebbe esserci:

riflessioni su autonomia differenziata e ruolo delle Camere 299

Seconda sessione

Gli ambiti materiali e i modelli organizzativi della differenziazione regionale

Simone Scagliarini

Gli ambiti di differenziazione regionale:

virtù (del modello) e vizi (della sua attuazione) 325

Andrea Bonomi

Un possibile nuovo “rapporto” fra legge regionale e legge statale: “abrogazione territoriale” o “deroga-sospensione”

sul modello dello “stato d’assedio”? 347

Leonardo Brunetti

I possibili effetti dell’attuazione delll’art. 116, c. 3, Cost., sulla disciplina del “Terzo settore” (D.Lgs. 3 luglio 2017,

n. 117). Quale destino per la legislazione statale? 367

Luca Buscema

La dimensione regionale della gestione dei fenomeni

migratori 385

Alessandro Candido

Prove di regionalismo differenziato. La richiesta

della Regione Emilia-Romagna 407

Rossana Caridà

Il procedimento di differenziazione ex art. 116 Cost.

(11)

Claudia Bianca Ceffa

Alcune considerazioni a margine dell’esperienza della Regione Lombardia su limiti e opportunità

della differenziazione come metodo 445

Elena di Carpegna Brivio

L’applicazione del regionalismo differenziato

per la sperimentazione delle politiche pubbliche 465

Francesco Gallarati

Le conseguenze dell’attuazione del regionalismo differenziato sul riparto di competenze legislative

tra differenziazione e sussidiarietà 483

Antonella Galletti

Integrazione europea e regionalismo differenziato.

Le iniziative di Emilia Romagna, Lombardia e Veneto 497

Dimitri Girotto

La configurazione della potestà legislativa regionale “differenziata” e la “tenuta” dei principi di unità

ed eguaglianza 515

Leonardo Maria Moscati

La differenziazione regionale nei rapporti con l’Unione europea. Il terzo comma

dell’art. 116 per un’Europa delle Regioni 533

Carolina Pellegrino

Autonomia regionale differenziata per politiche specifiche:

l’energia e la Regione Basilicata 547

Alessandro Sterpa

La differenziazione possibile: istituire le macro-Regioni

per ridisegnare la mappa delle diversità 561

Michele Troisi

L’istruzione nelle proposte di regionalismo differenziato: attuazione o abbandono del modello costituzionale

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Terza sessione

Regionalismo differenziato, sistema finanziario e specialità regionale

Alessandro Morelli

Regionalismo differenziato e autonomia speciale:

un quadro complesso 607

Guido Rivosecchi

Autonomia finanziaria e regionalismo differenziato 623

Giorgio Bonerba

Il finanziamento delle funzioni nell’autonomia

differenziata: una nuova forma di specialità? 641

Omar Caramaschi

Dalla specialità regionale alla differenziazione

ex art. 116, terzo comma, Cost.: verso un sistema

regionale asimmetrico? 659

Tanja Cerruti

Regioni speciali e differenziate: verso una convergenza? 681

Francesca Donà

Tra differenziazione e partecipazione: i nuovi percorsi delle autonomie. Una strada condivisa verso

una maggiore uguaglianza? 701

Laura Letizia

I nodi finanziari del regionalismo asimmetrico 717

Alessandro Oddi

Regionalismo differenziato e coordinamento

della finanza pubblica 737

Valentina Prudente

“Differenziazione” e specialità regionale alla luce del recente tentativo delle Regioni del Nord di ottenere

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Maria Letteria Quattrocchi

Quali “forme e condizioni particolari di autonomia”? I limiti della potestà legislativa regionale tra specialità

e differenziazione 769

Claudio Ragusa

Differenziazione e specialità del regionalismo

nell’unità della Repubblica 787

Stefano Maria Ronco

Considerazioni in merito all’autonomia tributaria e agli spazi di equità orizzontale nel tempo

del regionalismo differenziato 805

Chiara Sagone

La specialità regionale: verso un ineluttabile declino

o prospettive di un nuovo inizio? 831

Giorgio Sobrino

La proposta di differenziazione regionale del Piemonte e le sue motivazioni e prospettive, con particolare riferimento alla gestione dei piccoli Comuni e alla tutela dei territori montani: verso un Piemonte

“più vicino” alla Valle d’Aosta? 857 Conclusioni

Beniamino Caravita di Toritto

Un doppio binario per l’approvazione

del regionalismo differenziato? 881

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Cristina Bertolino, Alessandro Morelli, Giorgio Sobrino

Regionalismo differenziato e specialità regionale:

le ragioni di un Convegno

In merito al diritto delle autonomie territoriali, il biennio appena concluso ha segnato la decisa, e forse più convinta, ripresa del tema del regionalismo differenziato nel nostro Paese. La maggior parte delle Re-gioni ordinarie (precisamente dieci su quindici1), tra la fine della XVII

Legislatura e l’inizio dell’attuale, ha presentato una proposta volta a ottenere «forme e condizioni particolari di autonomia» ai sensi dell’art. 116, comma 3, Cost., con riferimento a svariate (e, spesso, rilevanti) materie. Tali proposte sono state discusse in sede politica, tra le Regioni e i diversi Governi che si sono succeduti2, dando luogo, in alcuni casi,

ad «accordi preliminari» alla stipula dell’intesa prevista dalla norma costituzionale3.

Si tratta peraltro, come evidenziato sopra, della “ripresa”, sebbene su scala più ampia, di questo tema, poiché in passato c’era già stato qualche tentativo di alcune Regioni di dare attuazione all’art. 116, comma 3,

do-1. Si tratta di Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna, Campania, Liguria, Lazio, Marche, Piemonte, Toscana e Umbria: v. il Dossier del Servizio Studi del Senato n. 104, febbraio 2019, su Il processo di attuazione del regionalismo differenziato, testo disponibile all’indi-rizzo www.senato.it/service/PDF/PDFServer/BGT/01103442.pdf (consultato il 7/2/2020), nonché A. Poggi, Qualche riflessione sparsa sul regionalismo differenziato (a margine del

Convegno di Torino), in Diritti regionali, 2, 2019, 2 s.

2. Prima il Governo Gentiloni, poi – dopo le elezioni del 4 marzo 2018 – il Governo Conte I, sostenuto dalla maggioranza c.d. gialloverde (Movimento 5 Stelle e Lega), e da ultimo il Governo Conte II, sostenuto dalla maggioranza c.d. giallorossa (tra Movimento 5 Stelle, Partito democratico e Liberi e Uguali).

3. È il caso delle Regioni Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna, che hanno siglato tale «accordo» (o «pre-intesa») tutte il 28 febbraio 2018, con l’allora Governo Gentiloni; il testo degli «accordi» è allegato al Dossier del Servizio Studi del Senato n. 16, maggio 2018, su

Il regionalismo differenziato e gli accordi preliminari con le regioni Emilia-Romagna, Lom-bardia e Veneto, consultabile all’indirizzo https://www.senato.it/service/PDF/PDFServer/

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po la legge costituzionale n. 3/20014. Nello specifico, la Regione Toscana

(in materia di beni culturali), il Piemonte (nelle materie dei beni pae-saggistici e culturali, delle infrastrutture e dell’autonomia universitaria e ricerca scientifica), il Veneto (nelle materie dell’istruzione, della tutela della salute, della tutela e valorizzazione dei beni culturali, e molte altre5)

e la Lombardia (nelle materie dell’organizzazione della giustizia di pace, della tutela dell’ambiente e dei beni culturali), tra il 2003 e il 2007, ave-vano avviato il procedimento di differenziazione previsto da tale norma e i relativi negoziati con il Governo (allora Prodi II). Quest’ultimo – a sua volta – il 30 ottobre 2007 aveva presentato un disegno di legge volto a disciplinare in modo puntuale tale procedimento rispetto al contenuto della disposizione costituzionale6. Sia le iniziative regionali che quella

governativa, tuttavia, non erano giunte a conclusione a causa dell’incerta situazione politica e della fine anticipata della XV Legislatura, avvenuta nella primavera del 2008.

Oggi come allora, pur in un quadro politico complessivo profonda-mente diverso, sembra peraltro di potere affermare che le richieste di differenziazione provenienti dalle Regioni trovino la loro origine in un “clima culturale”, per così dire, fortemente influenzato da istanze – o pul-sioni – di tipo autonomistico, non riconducibili al modello di regionalismo (né di società e di cittadinanza tout court) delineato dalla Costituzione nel 1948, improntato alla solidarietà politica, economica e sociale tra tutti i cittadini e, dunque, tra i territori in cui essi risiedono.

Si tratta, peraltro, di un clima che non coinvolge soltanto Regioni amministrate dalla Lega (o dal centrodestra), partito che tradizionalmente ha veicolato le istanze federaliste del Settentrione, ma sembra influenzare anche governi regionali di diversa ispirazione politica, come quello

dell’E-4. Li ricorda, da ultimo, A. Poggi, Il regionalismo italiano ancora alla ricerca del “modello

plurale” delineato in Costituzione, in federalismi.it, 1, 2020, 2 s. V. anche Id., Esiste nel Titolo V un “principio di differenziazione” oltre la “clausola di differenziazione” del 116 comma 3?,

Relazione al Convegno su Esperienze di regionalismo differenziato. Il caso italiano e quello

spagnolo a confronto, Università degli studi di Torino e Centro studi per il federalismo,

Torino, 23-24 novembre 2007, ora in Esperienze di regionalismo differenziato. Il caso italiano

e quello spagnolo a confronto, a cura di A. Mastromarino e J.M. Castellà Andreu, Milano,

2009, 27 ss.

5. Ricerca scientifica e tecnologica, potere estero, giustizia di pace, tutela dell’ambiente, comunicazioni, previdenza complementare ed integrativa, protezione civile, infrastrutture casse di risparmi e casse rurali a carattere regionale e lavori pubblici.

6. Il testo di tale d.d.l., di iniziativa del Ministro per gli Affari regionali Lanzillotta, e la relazione illustrativa sono consultabili al link http://www.astrid-online.it/static/upload/ protected/ipot/ipotesi-ddl-attuaz-116c3-Cost-_-per-CdM-30-ott-07.pdf.

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milia-Romagna (di centrosinistra), suscitando il dubbio che, in qualche caso, le richieste di differenziazione non siano scaturite dall’esigenza di perseguire un autonomo disegno politico, bensì da quella di “rincorrere” la Lega sul terreno dell’autonomia, al fine d’intercettare le istanze profonde del suo elettorato7.

D’altro canto, non sarebbe corretto, anche da un punto di vista stori-co, sottovalutare le esigenze di potenziamento delle forme di autonomia diffusamente avvertite in tutto il Nord del Paese, che hanno un’origine risalente e, di certo, meritano attenzione, pur compatibilmente con il quadro dei principi costituzionali. Basti pensare che l’idea di un’unione sovraregionale padana (la “Lega del Po”) era stata già prospettata nel 1975 da Guido Fanti, esponente del Partito comunista, sindaco di Bologna e primo presidente della Regione Emilia-Romagna. Un’idea, quella della “Padania”, poi promossa da Gianfranco Miglio e posta al centro del pro-gramma politico della prima Lega Nord.

Il problema principale sembra piuttosto essere costituito dal fatto che tali istanze trovano espressione in un contesto segnato dalla tendenza, marcata e persistente, a quello che è stato definito l’“uso congiunturale” dell’autonomia8. Con tale espressione si è inteso denotare l’inclinazione, 7. Sottolinea il fatto che la proposta di differenziazione dell’Emilia-Romagna è addirit-tura più ampia di quelle della Lombardia e del Veneto (Regioni invece a guida leghista) ad essa coeve, in ambiti importanti come la sanità, l’ambiente, il governo del territorio ed altri, F. Pallante, Nel merito del regionalismo differenziato: quali «ulteriori forme e condizioni

particolari di autonomia» per Veneto. Lombardia ed Emilia- Romagna?, in federalismi.it,

6, 2019, 17 s.

8. Sull’«uso congiunturale dell’autonomia», cfr. A. Morelli, Le relazioni istituzionali, Testo riveduto e aggiornato della relazione tenuta al XXXIII Convegno dell’Associazio-ne Italiana dei Costituzionalisti (AIC) su La geografia del potere. Un problema di diritto

costituzionale, Firenze, 16-17 novembre 2018, in Riv. AIC, 3, 2019,114 ss. e spec. 121 ss.;

Id., Dinamiche del regionalismo differenziato e declinazioni congiunturali dell’autonomia

territoriale, in Dir. pubbl. eur. rass. online, n. spec. 2, 2019, 18 ss., nonché Id., Obbligato-rietà delle forme associative dei Comuni e visione congiunturale delle autonomie locali, in Le Regioni, 2, 2019, 523 ss. Cfr. ora anche A. Patroni Griffi, Regionalismo differenziato e uso congiunturale delle autonomie, in Dir. pubbl. eur. rass. online, n. spec. 2, 2019, 29 ss.

L’espressione riprende la formula «uso congiunturale della Costituzione», impiegata in dottrina per indicare la tendenza ad applicare la Costituzione o a progettarne revisioni per esigenze politiche contingenti: cfr. A. Ruggeri, Il federalismo all’italiana e l’uso

«congiun-turale» della Costituzione, in www.forumcostituzionale.it, 9 luglio 2001; Id., Devolution, “controriforma” del titolo V e uso congiunturale della Costituzione, ovverosia quando le “ragioni” della politica offuscano la ragione costituzionale, ivi, 24 aprile 2003; Id., Anomalie di una crisi di governo e rischio di un uso congiunturale della Costituzione, in A. Morelli

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propria delle classi dirigenti nazionali, d’intendere l’autonomia rispetti-vamente come un valore o come un disvalore in base alle convenienze politiche del momento, senza perseguire un disegno unitario e coerente di sviluppo del pluralismo istituzionale rispettoso del principio di unità nazionale.

Lo stesso art. 116, comma 3, Cost. – introdotto, com’è noto, dalla legge costituzionale n. 3 del 2001 – presenta questa sorta di “vizio d’origine”. Tale norma, infatti, fu inserita nella riforma del Titolo V dalla maggioranza di centrosinistra, in modo improvviso e senza una previa, adeguata ponde-razione dei possibili effetti di sistema, in vista delle elezioni politiche di quell’anno, proprio per cercare di attirare il consenso dell’elettorato delle grandi Regioni del Nord.

I molti nodi problematici della disposizione – a partire dalla defini-zione del procedimento da seguire per realizzare la differenziadefini-zione delle Regioni che ne facciano richiesta – e quelli che emergono dall’attuale fase di negoziato tra le Regioni e il Governo derivano dunque, in buona misura, da tale vizio d’origine.

Scendendo più nello specifico in ordine al processo in corso, occorre evidenziare che delle dieci Regioni che – come accennato sopra – hanno avviato il procedimento previsto dall’art. 116, comma 3, Cost., tre (Lom-bardia, Veneto ed Emilia- Romagna) hanno concluso con il Governo, all’inizio del 2018, un «accordo preliminare» alla stipula dell’«intesa» e sono perciò ad uno stadio di trattative più avanzato (sebbene ancora lontano dal concludersi); le altre sette (Campania, Liguria, Lazio, Mar-che, Piemonte9, Toscana e Umbria) hanno presentato una proposta di

differenziazione che, a sua volta, è in corso di esame congiunto nel c.d.

crisi istituzionale senza precedenti, Napoli, 2018, 43 ss.; Id., Editoriale. Attuazione dell’art. 116, III c., Cost. e prospettive della specialità regionale, in Dir. reg., 1, 2020, 22, nota 36; E.

Balboni, Uso congiunturale della Costituzione: le proposte di riforma dell’art. 79, in Quad.

cost., 1, 2003, 147 ss.

9. La Regione Piemonte aveva approvato, il 6 novembre 2018, una delibera di Consi-glio contenente una proposta di differenziazione complessivamente circoscritta e meno incisiva di quelle della Lombardia, del Veneto e dell’Emilia- Romagna (testo disponibi-le al link http://www.regione.piemonte.it/governo/boldisponibi-lettino/abbonati/2018/46/attach/ aa_aa_deliberazione%20del%20consiglio%20regionale_2018-11-09_65731.pdf, consultato il 7/2/2020); dopo le elezioni regionali del 26 maggio 2019 ed il conseguente cambiamento di maggioranza politica a favore della coalizione di centrodestra guidata da Alberto Cirio, essa ha adottato una nuova delibera – sostitutiva della precedente –, che contiene richie-ste di «forme e condizioni particolari di autonomia» di portata più ampia e riguardanti un numero più elevato di materie consentite dall’art. 116, comma 3, Cost. (D.C.R. 19 dicembre 2019, n. 47 - 27474, testo disponibile al link http://www.regione.piemonte.it/

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«tavolo tecnico» istituito presso il Dipartimento degli Affari regionali. Va ricordato, inoltre, che altre tre Regioni ordinarie (Basilicata, Calabria e Puglia), pur non avendo avviato dal punto di vista formale i negoziati, hanno assunto iniziative ad essi prodromiche, consistenti nell’approva-zione di «atti di indirizzo» volti ad impegnare la Giunta regionale in tal senso. Sicché – in definitiva – può rilevarsi che solo due Regioni, allo stato attuale (Abruzzo e Molise), non hanno mosso alcun passo nella direzione della differenziazione di cui all’art. 116, comma 310.

Come emerge dai numerosi contributi pubblicati in questo Volume, il contenuto delle proposte avanzate (e, dove esistenti, degli «accordi preli-minari» siglati tra lo Stato e le Regioni), inerenti alle «forme e condizioni particolari di autonomia» richieste dalle Regioni ordinarie e alle materie su cui esse insistono, appare molto eterogeneo. Al riguardo, la dottrina ha fatto riferimento (richiamando un’espressione presente nel c.d. «contratto di governo» alla base del primo Governo Conte11) ad una «logica della

geometria variabile» che caratterizza le richieste regionali12: esse – sia per

i margini lasciati dall’art. 116, comma 3, sulla scelta delle «forme e con-dizioni particolari di autonomia» e delle relative materie, sia per i diversi contesti e orientamenti politici regionali – non sembrano riconducibili, allo stato, a un disegno unitario e coerente.

Le molte iniziative regionali sopra citate e l’interesse per lo sviluppo della differenziazione dimostrato in sede governativa13 hanno, peraltro, governo/bollettino/abbonati/2020/02/attach/aa_aa_deliberazione%20del%20consiglio%20 regionale_2019-12-31_71060.pdf, consultato il 7/2/2020).

10. Per quanto precede, e per il contenuto delle molte proposte presentate dalle Regioni, v., oltre ai contributi di questo Volume, ancora il Dossier del Servizio Studi del Senato n. 104, febbraio 2019, cit., 14 ss. e 23 ss.

11. V. meglio infra, nota 13.

12. A. Poggi, Qualche riflessione sparsa sul regionalismo differenziato, cit., 2, e Id., Il

regionalismo italiano ancora alla ricerca del “modello plurale”, cit., 5.

13. Interesse esplicitamente affermato, per quanto concerne il Governo Conte I, nel punto n. 20 del «Contratto per il governo del cambiamento», sottoscritto tra il Capo politico del MoVimento 5 Stelle Luigi Di Maio e il Segretario Federale della Lega Matteo Salvini (testo disponibile al sito http://download.repubblica.it/pdf/2018/politica/contratto_governo. pdf, consultato il 7/2/2020); e, per quanto riguarda il Conte II, nel punto n. 20 delle cc.dd. «linee programmatiche» del Governo, sottoposte all’approvazione degli iscritti del MoVimento 5 Stelle sulla piattaforma Rousseau, e poi esposte dal Presidente Conte davanti alle Camere prima del voto di fiducia, dove si afferma: «È necessario completare il processo di autonomia differenziata giusta e cooperativa, che salvaguardi il principio di coesione nazionale e di solidarietà … Nella ricognizione ponderata delle materie e delle competenze da trasferire e delle conseguenti ricadute … che questo trasferimento

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suscitato immediatamente, come già avvenne nel periodo successivo alla riforma del Titolo V14, l’interesse della dottrina giuspubblicistica, che è

tor-nata a interrogarsi – anche alla luce del mutato contesto socio-economico nazionale ed europeo – sulle molte questioni rimaste ancora “aperte” in re-lazione all’art. 116, comma 3, e sull’istituto della differenziazione regionale. In particolare, paiono soprattutto due le questioni di fondo rispetto alle quali si possono ricondurre le numerose riflessioni teoriche sviluppate dalla dottrina e i plurimi interrogativi, sia formali che sostanziali, che si presentano.

Un primo profilo problematico concerne il modello di differenziazione delineato dall’art. 116 e il suo necessario inserirsi nel sistema di rapporti tra livelli di governi periferici e livello di governo centrale, nonché il possibile grado di differenziazione all’interno di una Repubblica che prima di tutto, richiamando l’art. 5 Cost., è, e deve essere, «una e indivisibile». Un modello rispetto al quale, anzitutto, occorre valutare e determinare i limiti, onde evitare il rischio che se ne realizzi un’attuazione confliggente con il sistema costituzionale complessivo e che, quindi, può in nuce risultare illegittima. Occorre, in particolare, riflettere su come la differenziazione di cui all’art. 116, comma 3, si ponga in relazione, e con quali modalità, con gli altri due modelli di regionalismo: quello delle Regioni ordinarie e quello delle autonomie speciali. Solo sciogliendo questo primo interrogativo si

determina occorre procedere con la massima attenzione. In questa prospettiva, decisivo e centrale sarà il ruolo del Parlamento, che andrà coinvolto anche preventivamente, non solo nella fase legislativa finale di approvazione».

14. V. in particolare, al riguardo, A. Poggi, Esiste nel Titolo V un “principio di

differen-ziazione”, cit., 67 ss.; F. Palermo, Il regionalismo differenziato, in La Repubblica delle autonomie (a cura di T. Groppi e M. Olivetti), Torino, 2003, 55 ss.; R. Bin, “Regionalismo differenziato” e utilizzazione dell’art. 116, terzo comma, Cost. Alcune tesi per aprire il di-battito, in Le Istituzioni del Federalismo, 1, 2008, 10 ss.; G. Di Cosimo, Sui contenuti del regionalismo differenziato, ivi, 63 ss.; M. Cecchetti, La differenziazione delle forme e condizioni di autonomia regionale nel sistema delle fonti, in Osservatorio sulle fonti, 2002,

135 ss. Per quanto concerne il periodo più recente e la ripresa del tema del regionalismo differenziato alla quale si fa qui riferimento, v. per es. E. Grosso - A. Poggi, Il regionalismo

differenziato: potenzialità e aspetti problematici, in Il Piemonte delle Autonomie, 2, 2018;

M. Dogliani, Quer pasticciaccio brutto del regionalismo differenziato, ivi, 3, 2018; R. Bin,

L’insostenibile leggerezza dell’autonomia differenziata: allegramente verso l’eversione, in Forum di Quaderni costituzionali - Rassegna, 3, 2019; M. Olivetti, Il regionalismo diffe-renziato alla prova dell’esame parlamentare, in federalismi.it, 6, 2019; G. Piccirilli, Gli accordi preliminari per la differenziazione regionale. Primi spunti sulla procedura da seguire per l’attuazione dell’art. 116, terzo comma, Cost., in Diritti regionali, 2, 2018; E. Catelani, Nuove richieste di autonomia differenziata ex art. 116 comma 3 Cost: profili procedimentali di dubbia legittimità e possibile violazione dei diritti, in Osservatorio sulle fonti, 2, 2018.

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può infatti realisticamente pensare di trovare risposte convincenti agli altri quesiti che da esso discendono; risposte, soprattutto, che possano utilmente consentire il realistico inveramento del regionalismo differen-ziato nel nostro ordinamento, a quasi vent’anni dall’inserimento della relativa previsione in Costituzione.

A titolo meramente esemplificativo, è evidente che il modo di risol-vere le varie questioni aperte, da quella inerente alle materie che possono costituire oggetto di differenziazione, a quelle concernenti il ruolo, le modalità di partecipazione degli enti locali e del Parlamento, i possibili passaggi procedurali e quelli necessari affinché la differenziazione possa essere portata a termine, il carattere reversibile o meno del processo di differenziazione e la necessità di una legge statale attuativa dell’art. 116, comma 3, è condizionato dal modello di regionalismo al quale si intenda fare riferimento. Sempre che – ma qui si tratta, probabilmente, di un tema possibile oggetto di altro studio – davvero si intenda dare convintamente un “senso” al regionalismo e al sistema delle autonomie in Italia.

Una seconda questione – come la prima, “di sistema”, e altrettanto indifferibile – è quella che riguarda il nodo delle risorse e degli equilibri della finanza pubblica. È infatti evidente che il regionalismo differenziato e la sua attuazione possono essere inquadrati in due diverse e opposte prospettive: una coerente con il sistema costituzionale complessivo, l’altra in contrasto con quest’ultimo. In base alla prima, la differenziazione e la necessaria, correlata perequazione delle risorse finanziarie dovrebbe-ro assicurare una maggiore efficienza nella gestione dei servizi pubblici connotando una modalità organizzativa idonea a garantire, in ultimo, i diritti e le libertà degli individui in un sistema fondato sull’eguaglianza e in una società improntata al principio di solidarietà politica, economica e sociale. In base alla seconda prospettiva, invece, il regionalismo differen-ziato si tradurrebbe in un modello prettamente competitivo, implicante peraltro, laddove non correttamente limitato e guidato, una esacerbazione della originaria diseguaglianza socioeconomica dei territori e, quindi, degli individui che in essi risiedono, nonché la violazione di quel delicato equilibrio tra unità e differenziazione, posto come mèta del procedimento definito dall’art. 116, comma 3, Cost.15.

15. Per una prospettazione recente di questi due modelli – o, appunto, “lenti” per leggere il fenomeno del regionalismo differenziato ed i suoi attuali tentativi di attuazione – si vedano E. Grosso - A. Poggi, Il regionalismo differenziato: potenzialità e aspetti problematici, cit., 3 ss.; e M. Dogliani, Quer pasticciaccio brutto del regionalismo differenziato, cit., 2 ss.

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A prescindere dall’orientamento che alla fine prevarrà, è comunque certo che, qualora giungesse a compimento, il processo di differenziazione avviato cambierebbe radicalmente la fisionomia dell’ordinamento repub-blicano sotto il profilo dell’articolazione territoriale dei poteri. E così, data la rilevanza del tema, è apparsa una scelta obbligata quella di dedicare al regionalismo differenziato il Convegno annuale di Diritti regionali.

La giornata di studi si è svolta il 21 giugno 2019, presso il Dipartimen-to di Giurisprudenza dell’Università di Torino, ed è stata organizzata in collaborazione con il Consiglio regionale del Piemonte e con il contributo della Fondazione Cassa di Risparmio di Torino.

Tutte le questioni, procedurali e sostanziali, sopra menzionate hanno costituito oggetto di approfondimento da parte delle relazioni introduttive e dei tanti papers discussi nei panel del Convegno, con una particolare attenzione per la prospettiva comparata, che ha condotto ad analizzare le esperienze di altri ordinamenti che hanno sviluppato al proprio interno forme di c.d. federalismo asimmetrico, e sullo sfondo di una sensibilità comune per l’esigenza di salvaguardare l’unità dell’ordinamento repub-blicano16. Si è inoltre inteso tornare a riflettere sul senso della specialità

regionale e sulle sue prospettive, per esaminarne eventuali sviluppi e po-nendola in rapporto con la possibile realizzazione di forme di regionalismo differenziato.

La giornata di studi è stata dunque aperta da Enrico Grosso, il quale, presiedendo i lavori della mattinata, ha tenuto a evidenziare come il dibat-tito sul regionalismo differenziato investa di fondo, come si sottolineava sopra, la questione del rapporto tra differenziazione ed eguaglianza, tra competizione e cooperazione, tra particolarismo e coesione sociale.

Com’è oramai consuetudine per la Rivista, incline all’adozione di un metodo interdisciplinare, la relazione iniziale è stata affidata a Stefano Piperno, ex vicedirettore dell’Istituto Ricerche Economico-Sociali del Piemonte, nonché Responsabile del Polo di Specializzazione “Innova-zione Pubblica” del medesimo Istituto, esperto di economia e politiche pubbliche. Piperno si è soffermato sui diversi profili politico-economici e finanziari della differenziazione regionale, sottolineando come, in un sistema di sostanziale interdipendenza tra livelli di governo, quale quello italiano, «solo la negozialità e la cooperazione» potrebbero garantire un equilibrio tra le esigenze di coordinamento centrale, da un lato, e quelle di autonomia, dall’altro. La differenziazione, in tale prospettiva, dovrebbe ancorarsi maggiormente a politiche regionali legate a

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vi intersettoriali, superando l’attuale, esclusivo approccio per materie. Solo così potrebbe risultare, nel complesso, di stimolo per il rilancio del regionalismo in funzione di sviluppo e per la riapertura del «cantiere del federalismo fiscale».

A questa prima relazione hanno poi fatto seguito quelle di Raffaele Bifulco, Anna Maria Poggi e Giacomo D’Amico, che hanno introdotto i principali aspetti giuridici della tematica oggetto di studio.

Raffaele Bifulco, dopo avere esaminato le cause che hanno portato alla preponderante emersione di asimmetrie nel diritto costituzionale, ha focalizzato la propria attenzione sui «rischi che una ipostatizzazione del fenomeno può comportare» e sulle forme costituzionali dell’asimmetria, ipotizzando che le richieste regionali di asimmetria non siano esclusiva-mente legate alla necessità di un riconoscimento delle identità, ma possano essere il portato di più ampi mutamenti strutturali delle attuali forme di Stato composte (in particolare, il contestuale declino dello Stato sociale e del federalismo cooperativo), che potrebbero aprire «la porta a forme differenti di relazioni intergovernative». L’asimmetria regionale potrebbe effettivamente divenire una di queste.

Anna Maria Poggi ha inteso invece chiarire, nella sua relazione, a quali «ambiti materiali» e a quali «modelli organizzativi della differenziazione» si riferisca l’art. 116, in particolare nell’incipit del comma 3, ritenendo che occorra interpretarlo nell’ambito dell’intero Titolo V della Costituzione. A tale disposizione, ha ancora sottolineato, deve essere necessariamente conferito un significato diverso da quello desumibile da altre previsioni normative costituzionali, allo scopo di evitare, in primo luogo, di sovrap-porre indebitamente istituti diversi (a titolo esemplificativo, il trasferimen-to di funzioni amministrative di cui all’art. 118) e, in secondo luogo, di attribuire all’art. 116 «compiti non propri», con il rischio, in caso contrario, che venga posto in essere «un potenziale ideologico che certamente non giova all’attuazione della norma stessa».

Giacomo D’Amico ha affrontato, infine, il tema delle autonomie re-gionali speciali in rapporto al rere-gionalismo differenziato, prendendo in esame «la “stagione” degli accordi in materia finanziaria che ha riguardato i rapporti tra Stato e Regioni speciali nell’ultimo decennio e l’attuale fase caratterizzata dalle c.d. pre-intese tra lo Stato e alcune Regioni ordina-rie». Consapevole del rischio di una pericolosa accentuazione delle già profonde differenze esistenti tra le diverse parti del Paese, che potrebbe derivare da «una differenziazione costruita prescindendo da una cornice unitaria», D’Amico auspica, in conclusione, che il processo di differenzia-zione regionale si fondi, in primis, «sui principi di equità che pervadono, in

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filigrana, la trama costituzionale: equità previdenziale, equità territoriale ed equità nazionale».

Alla proficua mattinata è seguito un pomeriggio d’intenso studio, articolato su tre panel tematici, nei quali si è avuta la presentazione degli interventi selezionati a seguito di una call for papers diffusa dalla Rivista nei mesi precedenti.

Nel primo panel – dedicato al tema Federalismo asimmetrico e

regio-nalismo differenziato e presieduto da Raffaele Bifulco – le relazioni sono

state discusse in apertura da Anna Mastromarino, la quale ha inteso altresì proporre alcuni spunti di riflessione intorno al concetto di asimmetria. Muovendo dagli studi compiuti sul tema della fiducia, come percorso di interazione sociale in corrispondenza di ordinamenti caratterizzati da forti clivages di natura etnica, linguistica e nazionale, Mastromarino ha suggerito, in particolare, che si valuti la possibilità che «l’accettazione dell’asimmetria come paradigma dello Stato costituzionale contempora-neo e, dunque, della diversità come condizione di base, rappresentino un passaggio obbligato nel consolidamento di alcune dinamiche di natura sociale che, proprio come accade per la fiducia, potrebbero, in ultima istanza, rivelarsi utili per instaurare un clima di integrazione e unità sociale in contesti di conflitto tra i diversi gruppi del corpo sociale e rappresen-tare un passaggio fondamentale nel consolidamento dell’affidamento dei cittadini nei confronti delle istituzioni statali».

A questo intervento iniziale è seguito un primo gruppo di interventi di carattere comparatistico, tra cui quello di Giacomo Delledonne, che ha inteso riflettere sull’utilità e sulla pertinenza del concetto di omogeneità costituzionale nello studio delle dinamiche asimmetriche che caratteriz-zano la vita istituzionale degli ordinamenti composti; quelli di Daniele Camoni, Diana Castano Vargas, Giorgio Grasso e Francesco Duranti, nei quali il potenziale regionalismo differenziato italiano è stato esaminato in chiave comparata con il sistema spagnolo delle Comunidades Autonómas, l’ordinamento colombiano, l’ordinamento federale elvetico e con gli ordi-namenti costituzionali dei Paesi del nord Europa (Danimarca, Finlandia, Norvegia e Svezia).

Sempre nel primo panel è stato poi presentato un secondo gruppo di interventi – in particolare di Daniele Casanova, Carlo Iannello, Giuseppe Lauri, Massimiliano Malvicini, Valentina Pupo e Maria Grazia Rodomon-te – nei quali si è inRodomon-teso rifletRodomon-tere sul ruolo del Parlamento e del PresidenRodomon-te della Repubblica rispetto al procedimento di cui all’art. 116, comma 3, Cost.

Il secondo panel – dedicato al tema Gli ambiti materiali e i modelli

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introdotto dalla discussione dei papers e dalle arricchenti riflessioni di Simone Scagliarini e Maurizio Malo, i quali hanno messo in evidenza come criticabile non sia tanto il modello in sé di differenziazione di cui all’art. 116, 3 co., Cost. (che non costituirebbe quindi uno “stravolgimento” della forma di Stato, ma, anzi, come supra si acccennava, potrebbe divenire ‘volano’ per una seria realizzazione del regionalismo in Italia), quanto l’attuazione che di esso è sinora stata data e l’incapacità e l’insensibilità della classe politica rispetto ad esso.

Il panel ha poi ospitato alcuni contributi che hanno analizzato la dif-ferenziazione regionale partendo dallo studio di singoli ambiti materiali in cui le Regioni stanno chiedendo l’attribuzione di «condizioni e forme particolari di autonomia» e altri che hanno inteso prendere in esame aspetti più specifici del procedimento di differenziazione.

In particolare, Andrea Bonomi ha riflettuto sulla cessazione d’efficacia della legge statale ad opera della legge regionale che intervenga nelle ma-terie oggetto di differenziazione; Elena di Carpegna Brivio ha sostenuto che la differenziazione potrebbe consentire alle Regioni di sperimentare politiche pubbliche innovative con minori vincoli, rispetto al presente, imposti dal livello centrale di governo. Rossana Caridà ha poi approfondito l’impatto che il processo di differenziazione potrebbe avere sulla concreta articolazione e sull’esercizio delle funzioni amministrative, a livello re-gionale e locale. Francesco Gallarati ha sottolineato come il regionalismo differenziato potrebbe rivelarsi, in realtà, un modo di attuare i principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza, ponendo interrogativi sulla tenuta della teoria del “trasferimento” di competenze legislative.

Alessandro Candido e Claudia Bianca Ceffa hanno esaminato, più nel dettaglio, le richieste di differenziazione, rispettivamente, della Regione Emilia-Romagna e della Regione Lombardia, mettendone in luce anche le criticità.

Sono seguiti numerosi interventi nei quali sono stati analizzati più nello specifico alcuni settori rispetto ai possibili ambiti materiali della differenziazione. In particolare, Leonardo Brunetti ha esaminato gli ef-fetti del regionalismo differenziato sulla disciplina statale del c.d. Terzo settore e Luca Buscema si è soffermato sulla dimensione regionale della gestione dei fenomeni migratori. Antonella Galletti e Leonardo Moscati hanno analizzato l’ambito dei rapporti internazionali e con l’Unione Eu-ropea; Dimitri Girotto, quelli del governo del territorio e dei rapporti con l’Unione Europea; Carolina Pellegrino, il settore dell’energia, in relazione specialmente alla Regione Basilicata; ancora, Michele Troisi si è soffer-mato sull’ambito dell’istruzione, riflettendo sulla tenuta dei principi e del

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modello delineato in Costituzione. Alessandro Sterpa ha argomentato, infine, che, per potere «ridisegnare la mappa delle diversità», sarebbero più opportuni (e meno problematici della differenziazione di cui all’art. 116, co. 3) interventi volti a impiegare le intese tra Regioni di cui all’art. 117, co. 8, oppure a realizzare le modifiche territoriali consentite dalla procedura di cui all’art. 131 della Costituzione, al fine di costruire in forma funzionale (nel primo caso) o strutturale (nel secondo) poche ma differenziate macro-Regioni.

Nel terzo panel – dedicato al tema Regionalismo differenziato, sistema

finanziario e specialità regionale e presieduto da Giacomo D’Amico – i

contributi dei panelisti sono stati introdotti e poi discussi da Alessandro Morelli e Guido Rivosecchi, i quali, nel mettere in evidenza i rischi della differenziazione regionale sul piano finanziario e su quello politico-culturale, e immaginando un possibile rilancio del disegno costituzionale di autonomia, hanno anch’essi auspicato, da un lato, la valorizzazione della natura dell’ente statale come «comunità di comunità» (secondo la felice espressione di Giandomenico Falcon)17, che consentirebbe di

assicurare, in modo efficiente, pari tutela e soddisfazione tanto ai diritti fondamentali quanto alle identità territoriali, attraverso i diversificati strumenti dell’autonomia; dall’altro lato, la valorizzazione degli stru-menti di concertazione tra Stato e Regioni, e, quindi, delle procedure e delle sedi collaborative, nelle quali potrebbe essere garantito un con-fronto sulle funzioni che le Regioni devono svolgere e, in seguito, sulle risorse da trasferire.

Nel panel sono stati poi presentati gli interventi di Giorgio Bonerba, Omar Caramaschi, Tanja Cerruti, Francesco Donà, Laura Letizia, Ales-sandro Oddi, Valentina Prudente, Maria Letteria Quattrocchi, Claudio Ragusa, Stefano Maria Ronco, Chiara Sagone e Giorgio Sobrino, i qua-li hanno inteso mettere in rapporto il regionaqua-lismo differenziato con la specialità regionale e valutare, da un lato, l’opportunità della ‘resistenza’ delle Regioni speciali a fronte dell’eventuale concretizzarsi del primo e, dall’altro, analizzare più approfonditamente il nodo della finanza pubblica e della distribuzione delle risorse. Agli interventi, vista la centralità delle problematiche e le interessanti considerazioni emerse dalla presentazione dei papers, è poi seguito uno stimolante dibattito.

17. Cfr. G. Falcon, A che servono le Regioni?, in Le Regioni, 4, 2012, 770. La formula è stata ripresa, di recente, da D. Girotto, L’autonomia differenziata delle Regioni a statuto

ordinario. Tentativi di attuazione dell’art. 116, comma 3, Cost. e limiti di sistema, Torino,

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Il Convegno si è infine concluso con la relazione di Beniamino Ca-ravita di Toritto, il quale, per la prosecuzione del processo di differen-ziazione – che pare al momento ‘arroccato’ su pleonastiche posizioni politiche e culturali –, ha ipotizzato, dal punto di vista metodologico, la realizzazione di un innovativo «doppio binario». Esso prevederebbe, da un lato, la presentazione di un apposito disegno di legge, sottoposto all’approvazione ordinaria delle Camere e contenente gli otto articoli comuni alle bozze d’intesa tra lo Stato e le Regioni già concordate con qualche ulteriore disposizione necessaria all’attuazione dell’art. 116, comma 3, Cost.; dall’altro, che le bozze d’intesa – approvate da ogni Giunta regionale, previo passaggio in Consiglio regionale e al Consiglio delle autonomie locali –, dopo essere state approvate dal Consiglio dei ministri, fossero presentate in Parlamento per l’esame da parte delle Commissioni parlamentari, per poi eventualmente tornare all’Esecutivo statale e a quelli regionali ed essere infine presentate in Parlamento per l’approvazione ex art. 116 Cost.

Ci sembra, nel complesso, che il Convegno abbia offerto una preziosa occasione di studio e di confronto, consentendo la condivisione di idee e proposte tra studiosi provenienti da tutto il territorio nazionale.

Ancora molto incerti sono peraltro, allo stato attuale, i tempi e le modalità di conclusione delle procedure attuative dell’art. 116, comma 3, della Costituzione. Al riguardo, mentre a livello regionale – come si è visto sopra – si assiste alla formulazione di proposte di differenziazione dal contenuto eterogeneo e “a geometria variabile”, sul versante dello Stato, il Governo, in attuazione delle sue «linee programmatiche»18, ha

elaborato, alla fine del 2019, una bozza di «disegno di legge quadro sull’autonomia differenziata», volta a disciplinare in via generale i prin-cipi per l’attribuzione alle Regioni delle forme e condizioni particolari di autonomia e la procedura di approvazione delle «intese» con le stesse (bozza su cui è in corso il confronto con le Regioni e anche con le parti sociali)19; dall’altro lato, ha istituito, con decreto del Ministro per gli

Af-fari regionali e le Autonomie del 3 dicembre 2019, una Commissione di studio incaricata dell’analisi, dello studio e della valutazione delle norme connesse all’attuazione dell’autonomia ai sensi dell’articolo 116 Cost.

18. V. retro, nota 13.

19. Il testo della bozza è reperibile al link https://www.lavoce.info/wp-content/uplo-ads/2019/12/legge-cornice-federalismo-differenziato.pdf (consultato il 7/2/2020).

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e della valutazione delle intese con le Regioni20. Nei prossimi mesi sarà

possibile verificare il risultato concreto di queste iniziative, che peraltro sembra dipendere, in larga parte, dall’evoluzione del dibattito politico su una questione evidentemente cruciale per le sorti della forma di Stato.

Il presente Volume, che raccoglie gli atti del Convegno, fornisce al-tresì una testimonianza di come il dibattito sul regionalismo differenziato possa essere svolto – per usare le parole di Enrico Grosso in apertura dell’incontro di studio – «con pacatezza e spirito critico», riflettendo sulle modalità con cui la differenziazione incide sugli assetti della forma di Stato, su come essa influisca sugli equilibri della finanza pubblica e, più in generale, sull’impatto che l’attribuzione ad alcune Regioni di ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia potrebbe avere sull’equilibrio dei principi costituzionali, primi fra tutti quelli di eguaglianza, formale e sostanziale, di autonomia e di solidarietà.

20. Il testo del decreto istitutivo è consultabile al link http://www.affariregionali.gov.it/ media/506647/decreto-costituzione-commissione-studio-per-le-autonomie.pdf (consul-tato il 7/2/2020).

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Parte prima

Relazioni

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Enrico Grosso

Intervento introduttivo

Il quarto convegno annuale della rivista Diritti regionali affronta un tema che si trova oggi al centro dell’attenzione degli studiosi e del dibattito politico (benché, negli ultimi mesi, quest’ultimo sembri segnare il passo, travolto dai veti incrociati che paralizzano ormai quotidianamente le re-lazioni tra le forze politiche, di governo come di opposizione).

In questa sede interessa e rileva, ovviamente, il discorso costituzio-nale che sta alla base della riflessione sul regionalismo differenziato, ed è su questo che abbiamo ritenuto di invitare a confrontarsi – intorno alle tre tematiche che animeranno i panels pomeridiani – i vari studiosi che interverranno nel corso della giornata.

Il dibattito sul regionalismo differenziato si può affrontare – cercando di non scadere in un “derby politico” semplificatorio tra gli asseriti alfieri dell’autonomia a tutti i costi e i presunti paladini della difesa dell’unità della Repubblica – come un’occasione per riflettere scientificamente con pacatezza e spirito critico sulle modalità con cui la differenziazione incide sugli assetti della forma di stato, su come essa influisce sugli equilibri della finanza pubblica, più in generale sull’impatto che l’attribuzione a (solo) alcune regioni di ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia (e delle relative risorse) può avere nell’equilibrio dei principi costituzionali, nell’effettività dalla garanzia dei diritti e delle prestazioni sociali fonda-mentali, nel loro corretto bilanciamento.

Qui la questione centrale, al di là delle dissertazioni “di principio” su presunti “modelli ideali” di autonomia che non esistono in natura, mi sembra risiedere – molto concretamente – nel rapporto tra uso efficiente delle risorse pubbliche e tutela del principio di uguaglianza.

Per questa ragione, a svolgere la relazione introduttiva del nostro con-vegno abbiamo invitato Stefano Piperno, ex vicedirettore di Ires Piemonte nonché Responsabile del Polo di Specializzazione “Innovazione Pubblica” dello stesso istituto. Stefano Piperno è un economista che da tutta la vita studia le dinamiche della finanza regionale e locale, il federalismo fiscale,

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le questioni legate alla dimensione economico-finanziaria dei processi di autonomia e decentramento. Ed è proprio dalla finanza pubblica che occorre partire: dalle dinamiche della spesa pubblica, dal problema della crescente insofferenza verso i meccanismi perequativi, dai diversi scenari macroeconomici che quel tipo di modello “differenziato” di governo delle autonomie suggerisce.

Perché una cosa a me pare chiara. Il tema della differenziazione investe uno dei totem della statualità moderna: la questione dell’uniformità di trattamento tra individui-cittadini, a sua volta connessa alla concezione individualistica della società su cui è stato edificato lo Stato liberale di diritto nel corso del secolo XIX.

La forza evocativa del principio di uniformità (parità di trattamento di tutti i cittadini da parte dello Stato, uguale sottoposizione di tutti alla medesima legge, uguale imposizione – proporzionale o progressiva – dei medesimi oneri, uguale accesso ai medesimi diritti e ai medesimi servizi) è ideologicamente potente, coinvolgendo direttamente il discorso sull’u-guaglianza. Si può dire che il collegamento tra il principio di uniformità e l’uguaglianza (formale) è stato identificato tout court, per lungo tempo, con la modernità.

È bene rievocare queste radici lontane, in quanto del principio di differenziazione (e dunque dell’autonomia differenziata che ne costituisce una delle declinazioni più avanzate nel nostro tempo) si può parlare in due accezioni molto diverse:

a) come strumento organizzativo (ossia in risposta alla domanda su quale sia l’organizzazione istituzionale più efficiente ed equa per organizza-re e articolaorganizza-re le funzioni pubbliche nei diversi settori e garantiorganizza-re la migliore gestione dei servizi pubblici, la migliore garanzia dei diritti, la migliore gestione e distribuzione delle risorse, all’interno di una società fondata sul rispetto del principio di uguaglianza);

b) ovvero come principio servente a una concezione dei rapporti sociali (non, quindi, meramente istituzionali) che implica e rivendica invece il diritto di chi vive e opera in certe parti del territorio dello Stato ad utilizzare e distribuire le risorse (scarse) complessivamente a di-sposizione in modo differenziato, in funzione e in conseguenza della differenziazione socio-economica di partenza, e al fine di mantenerla o addirittura aumentarla.

È la dicotomia tra modello di differenziazione “solidaristico” (o co-operativo), di impronta più tradizionalmente novecentesca (teso a equi-parare e rendere il più possibile equivalenti le condizioni di vita tra le

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diverse componenti dello Stato regionale) e modello “competitivo”, che comincia ad emergere a seguito dei profondi sconvolgimenti dell’assetto socio-politico conseguenti ai processi di globalizzazione, di prevalenza del libero mercato, di drastica riduzione delle risorse disponibili.

È chiaro che l’equilibrio tra unità e differenziazione, nei due casi, può realizzare assetti molto diversi.

Nei casi di differenziazione (meramente) organizzativa, le autonomie differenziate negli stati regionali sono sempre autonomie “costruite”, e si giustificano sul piano istituzionale in funzione delle “peculiarità di ciascun territorio e di ciascuna popolazione”, cui andrebbero sempre strettamente correlate. Tutt’altra filosofia è alla base del secondo modello. Qui la pre-messa non è che esistano specifiche ragioni organizzative che giustifica-no modalità speciali di esercizio del govergiustifica-no connesse alle peculiarità di un territorio (montano, insulare, di confine, …), e dunque in funzione “compensativa”, ma che esista un più generale principio in forza del qua-le è la stessa uguaglianza di ogni cittadino della Repubblica di fronte al pubblico potere a non essere più considerata di per sé un valore. Anzi, sarebbe compito delle istituzioni regionali o locali proteggere i “propri” cittadini dall’effetto di tendenziale livellamento derivante dall’operare del principio di uniformità.

La riforma del regionalismo italiano del 2001 (e prima ancora la ri-forma del c.d. “federalismo amministrativo” degli anni 1997-1999) era orientata al primo modello. Si riteneva che la nuova allocazione delle funzioni legislative e amministrative, ispirata ai principi di sussidiarietà, adeguatezza e differenziazione, fosse diretta a garantire maggiore efficienza di governo e migliore gestione delle risorse, contribuendo così allo svilup-po della società italiana nel suo complesso. Non a caso si apprestavano, a questo proposito, idonei presidi statali e meccanismi di tenuta: sia il nuovo art. 117, comma 2, lett. m) in tema di livelli essenziali, sia il nuovo art. 119, con la previsione di obblighi perequativi che compensassero i naturali e non eliminabili squilibri, erano pensati a tale scopo.

Lo stesso art. 116 u.c. era immaginato in questa chiave: poiché vi è consapevolezza del fatto che le “peculiarità di ciascun territorio e di cia-scuna popolazione” possono riguardare – oltre a quegli specifici territori e popolazioni che nel 1946 avevano giustificato l’introduzione della spe-cialità – anche altri territori e popolazioni, è bene prevedere la possibilità di ulteriori strumenti organizzativi, che consentano la differenziazione ai medesimi fini anche per altre regioni. E poiché è opportuno coinvolgere le stesse Regioni nel processo di discussione e decisione relativo alla mi-gliore allocazione delle funzioni, si introduceva un processo “partecipato”,

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in cui fossero eventualmente le stesse regioni interessate a chiedere – e contrattare – tali modalità differenziate di esercizio delle funzioni stesse.

Il modello asimmetrico nella distribuzione delle competenze accre-ditato dal 116 u.c., insomma, scommette sul fatto che la differenziazione, assecondando le vocazioni territoriali, le esperienze e le opportunità che i territori offrono, interpretando, sostenendo e sviluppando l’azione locale attraverso una specificità delle competenze regionali, possa offrire alla Repubblica lo strumento per meglio garantire il governo della diversità, di incrementare il benessere complessivo della società, di rilanciare la capacità economica del paese e le politiche di tutela sociale. Insomma, di fare – meglio di quanto sia garantito dalle politiche centralizzate – lo stesso mestiere dello Stato centrale, con la predisposizione di presidi che impediscano alle dinamiche dell’autonomia di produrre disuguaglianze nel godimento dei diritti civili e sociali. In questo modo, si ottiene che «l’asimmetria non [sia] un modo con cui il divario si accentua, ma semmai un modo nel quale può essere superato, consentendo anche di dare con-tenuti precisi alle politiche perequative dello Stato, valutando le gestioni in base ai risultati ottenuti con le risorse trasferite» (cfr. S. Mangiameli,

L’attuazione dell’articolo 116, terzo comma, della Costituzione, con parti-colare riferimento alle recenti iniziative delle Regioni Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna, in Issirfa.cnr.it, 2017).

Si tratta di un processo perfettamente compatibile con il principio di uguaglianza. Può ritenersi anzi addirittura funzionale alla sua più comple-ta realizzazione, nella prospettiva secondo cui: a) le differenze esistono (in natura); b) le differenze vanno progressivamente ridotte e infine rimosse; c) una più efficiente gestione delle risorse e un migliore esercizio delle funzioni cui tali risorse sono destinate contribuirebbe – nel tempo – a “rimuovere gli ostacoli” che impediscono di fatto la piena realizzazione dell’uguaglianza. Per inciso, se le cose stanno così, la domanda “chi paga il regionalismo differenziato?” diventa secondaria. C’è chi sostiene che sarebbe impossibile far pagare la differenziazione dallo Stato. Mi chie-do francamente perché: anzi! Se il problema è solo “organizzativo” (chi svolge una funzione è dotato delle risorse per finanziarla) non c’è davvero alcuna ragione perché lo Stato, nel momento in cui attribuisce una fun-zione alla regione, spogliandosene, non possa immaginare di trasferire le relative risorse. È già avvenuto, è un modello sperimentato e consolidato, è perfettamente logico e corrispondente a un’idea coerente e matura di “differenziazione istituzionale”.

Tutto diverso è l’altro modello ispiratore della differenziazione, il qua-le invece potrebbe investire prepotentemente la tenuta del principio di

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uguaglianza. Perché qui la critica investe proprio la “sostenibilità” (ide-ologica) dell’uniformità come uguale trattamento. In tale prospettiva, la differenziazione è intesa come risposta a una domanda di distinzione anche “sociale” (e non solo istituzionale o organizzativa), a partire dalla contestazione del principio di universalità dello Stato sociale (e forse dello stesso principio solidaristico radicato nell’art. 2).

Questo nodo deve essere sciolto. Se infatti la rivendicazione della dif-ferenziazione viene fatta a partire dalla polemica sul cd. “residuo fiscale”, è chiaro che ciò che viene rivendicato non è una migliore allocazione delle funzioni (che in teoria, come detto, può anche comportare un aumento del trasferimento dallo Stato delle risorse destinate a finanziare le funzioni che esso non svolge più e che sono attribuite agli enti che “si sentono” di poterle gestire meglio). Ciò che viene rivendicato è un trattamento differenziato (e migliore quanto all’effettivo godimento dei diritti) delle popolazioni residenti nelle regioni che si differenziano, legato al maggior gettito fiscale che quelle regioni sono in grado di produrre rispetto alle altre. È chiaro che, se si imposta il dibattito in base a tale seconda prospettiva, non ci si deve poi stupire che vengano organizzate iniziative, e diffuse pubblicazioni, che fanno riferimento a «una nuova questione meridionale» in un contesto in cui si trasferisce «Zero al sud» (per citare il titolo di un recente scrit-to di Marco Esposiscrit-to), alla «secessione dei ricchi» (evocata dal fortunascrit-to

pamphlet recentemente pubblicato da Gianfranco Viesti) o, come scrive

Massimo Villone, ad una «Italia divisa e diseguale». Perché gli squilibri economici territoriali esistono, e quindi quel problema va affrontato di petto, non negandolo, senza coprirlo sotto un velo di ipocrisia.

È bene ricordare che i produttori di gettito non sono le regioni. Sono i cittadini e le imprese. E dunque non vi è alcuna intrinseca razionalità nel pretendere che le regioni “mantengano sui loro territori il gettito”, perché non sono le regioni che producono il reddito generatore di quel gettito. E dunque, se così impostato, il problema della differenziazione diventa prettamente – direi quasi esclusivamente – un problema di uguaglianza: fino a che punto è ammissibile che esistano differenze, su queste basi, nel godimento dei diritti? Fino a che punto lo Stato centrale può tollerare che l’aspettativa di vita a Napoli sia di quattro anni inferiore rispetto all’aspet-tativa di vita a Bolzano, che cioè le disparità territoriali nella distribuzione della ricchezza producano disparità così abissali in termini di diritti indi-viduali fondamentali? Il tema della fiscalità non può essere considerato un elemento interno al tema della differenziazione. Anzi, dal momento che la fiscalità non fa parte delle materie “negoziabili” all’interno del 119 u.c., dovrebbe stare, oltre che fuori dalla trattativa “istituzionale”, anche fuori

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dal discorso politico concernente l’attribuzione delle “ulteriori forme e condizioni” di autonomia ai sensi dell’art. 116 terzo comma.

Giorgio Pastori (cfr. G. Pastori, Il pluralismo sociale dalla

Costituzio-ne repubblicana ad oggi: attuazioCostituzio-ne del pluralismo sociale Costituzio-nel trentennio repubblicano, in Aa.Vv., Il pluralismo sociale nello Stato democratico, Mi-lano, 1980, 13 ss.) scriveva qualche anno fa che il principio

democratico-pluralista si applica tenendo insieme il duplice profilo dell’unità dei fini (la realizzazione dell’uguaglianza, la garanzia dei diritti individuali e collettivi, la rimozione degli ostacoli…) e della pluralità dei mezzi (ossia del plura-lismo istituzionale nella realizzazione di quei fini). Il problema è capire se – per qualcuno – sono cambiati i fini, se quindi la differenziazione non è più intesa come uno strumento per meglio realizzare i compiti del potere pubblico (che giustifica quindi l’abbandono della logica dell’uniformiz-zazione – della tendenza all’appiattimento e all’omologazione che è stato consacrato dalla riforma del 2001 – in funzione di una migliore allocazione delle risorse e in definitiva di una migliore realizzazione dell’uguaglianza sostanziale), ma al contrario, è intesa – e comunque è raccontata – come il mezzo politico per “trattenere” e “drenare” le risorse a favore di speci-fiche parti del territorio nazionale, aggirando i doveri solidaristici cui la Costituzione impegna tutti.

Come si difende dunque l’uguaglianza nella differenziazione in un paese come l’Italia (non il Canada, la Spagna o la Svizzera…)? Il para-metro costituzionale di riferimento non può che essere l’articolo 120, secondo comma, della Costituzione, che richiede che sia mantenuta «la tutela dell’unità giuridica o dell’unità economica e in particolare la tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali». Inoltre, le forme e le condizioni particolari di autonomia non esonerano la regione che le ha ottenute dall’obbligo di dare il suo contributo solidale alle altre regioni e alla Repubblica. Le regioni con maggiore capacità fiscale devono dare alla perequazione territoriale una parte del loro gettito.

Un’ultima osservazione. Mi pare chiaro che, in questa prospettiva, la decisione finale sulle concrete modalità di attuazione e sui contenuti effet-tivi del regionalismo differenziato, e dunque sulle specifiche attribuzioni di “ulteriori forme e condizioni” di autonomia alle singole regioni che le hanno chieste (e alle altre che le chiederanno), non può che spettare al Parlamento. Davvero speciosa, e fuori luogo, appare, a tale proposito, la pretesa di taluni esponenti politici (incomprensibilmente appoggiata da qualche commentatore) che la legge “approvata a maggioranza assoluta sulla base di intesa tra lo Stato e la regione interessata” sia la mera formale ratifica di un accordo precedentemente raggiunto tra la regione e il

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gover-no, rispetto al quale non sarebbero ammesse modifiche. Al contrario, la necessaria composizione di contrapposti interessi che il processo di diffe-renziazione comporta, e l’impatto non irrilevante che esso potrebbe avere sulla garanzia dell’uguaglianza nel godimento dei diritti fondamentali, sul mantenimento dei livelli essenziali delle prestazioni sociali su tutto il territorio nazionale, in definitiva sulla tenuta del legame sociale, impone che l’ultima parola sia assegnata, con pienezza di potere di emendamen-to, all’organo ove si esprimono al massimo livello i necessari processi di integrazione del pluralismo politico, sociale ed istituzionale. Il richiamo all’art. 8 della Costituzione appare, in tale contesto, davvero fuori luogo e fuorviante. La garanzia della conservazione dei contenuti dell’intesa ex art. 8 Cost. rappresenta, per le confessioni religiose diverse dalla cattolica, la protezione assicurata a una minoranza (religiosa). Le regioni non sono enti esponenziali di minoranze, e non sono minoranze i loro cittadini, i quali sono, al contrario, garantiti nei loro diritti civili e sociali alla pari e in condizioni di uguaglianza rispetto a quelli di tutte le altre regioni. Il Parlamento costituisce, in tale contesto, l’organo cui va riconosciuta l’indispensabile funzione di “integrazione politica” posta a presidio, fra l’altro, del principio di unità e indivisibilità della Repubblica.

Spetterà pertanto al Parlamento, nella futura fase di discussione delle varie “bozze” concordate tra il governo e le regioni richiedenti, il compito di valutare se le singole richieste di “differenziazione” siano da considerarsi eccessive sotto il profilo della creazione di trattamenti irragionevolmente differenziati, frutto di troppo libere e incontrollate determinazioni. Sarà cioè, in prima battuta, dal confronto politico parlamentare (non solo nella dialettica maggioranza/opposizione ma anche nella inevitabile dinamica rappresentativa territoriale che lo caratterizza) che emergerà una pos-sibile composizione tra le diverse rivendicazioni. Ma se la politica non sarà in grado di trovare un equilibrio ragionevole e costituzionalmente ammissibile, lo scontro si sposterà inevitabilmente sul piano della legalità costituzionale. Fuor di metafora, la legge potrà escludere, all’esito della trattativa politica che eventualmente si svilupperà, alcune richieste di specializzazione con riferimento a talune materie (o meglio, taluni inte-ressi), avendo riferimento a parametri che siano in qualche modo “con-trollabili” (livelli essenziali, perequazione, solidarietà…) e non forgiati “ad personam” sulla base delle mere volontà politiche degli enti richiedenti. E se non sarà in grado di farlo, o lo farà la Corte costituzionale all’esito dell’inevitabile contenzioso che sorgerà tra le opposte visioni della diffe-renziazione, oppure – più tragicamente – lo “scontro tra territori” finirà per condurre all’esplosione delle contraddizioni sociali che si porta dietro.

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A quel punto la partita (finale) non si giocherà più sul piano della legalità costituzionale, ma – inevitabilmente e con esiti al momento imprevedibili e incontrollabili – su quello della mera e brutale “legittimità” schmittiana. Il che non mi pare affatto una prospettiva allettante per la tenuta complessiva del nostro ordinamento costituzionale.

Il dibattito sul regionalismo differenziato, per concludere, gioca oggi su una serie di ambiguità che dovranno prima o poi essere sciolte, che investono la questione di fondo del rapporto tra differenziazione e ugua-glianza, tra competizione e cooperazione, tra particolarismo e coesione sociale. È su questo che nel corso dei nostri lavori saremo impegnati a riflettere e discutere.

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1. Introduzione

Il disposto dell’art. 116, 3°c., della Costituzione consente alle Regioni a statuto ordinario di sviluppare condizioni ulteriori di autonomia legislativa e amministrativa rispetto a tre funzioni residuali (esclusive) dello Stato1

e a tutte le 20 funzioni concorrenti come definite dall’art. 117, 3°comma. A tale fine si richiede una iniziativa regionale, in accordo con gli enti locali, recepita con una intesa dal governo che deve poi tradursi in una proposta legislativa ed approvata dalle Camere a maggioranza assoluta dei suoi componenti. Dopo un lungo letargo, che ha fatto seguito ad al-cune iniziative senza esito nel biennio 2007-2008, la richiesta nel 2017 da parte delle Regioni Veneto, Lombardia e Emilia e Romagna di attuare tali previsioni costituzionali garantendo l’autonomia rafforzata per una gran parte delle funzioni previste ha risvegliato un notevole interesse su questo assetto istituzionale definito come “regionalismo asimmetrico” o “differenziato”, un modello da tempo sperimentato, con luci e ombre, nelle Regioni a Statuto speciale. Negli ultimi mesi del 2017 il processo attua-tivo dell’art.116, 3°comma della Costituzione, che prevede una richiesta formale delle Regioni al Governo, è stato preceduto dallo svolgimento di due referendum consultivi (formalmente non necessari) in merito alle proposte in Veneto e Lombardia, ambedue con esito favorevole, mentre l’Emilia e Romagna ha seguito la via ordinaria. Le richieste iniziali co-privano tutte le 23 materie per il Veneto, e un ventaglio più limitato per la Lombardia e l’Emilia e Romagna. Successivamente (Febbraio 2018),

1. Precisamente: a) organizzazione della giustizia di pace b) norme generali sull’istru-zione c) tutela dell’ambiente dell’ecosistema e dei beni culturali. Va ricordato come la Costituzione (art. 118) preveda anche forme di coordinamento nelle materie statali esclu-sive immigrazione, ordine pubblico e sicurezza, e tutela dei beni culturali, da regolare con legislazione ordinaria.

Stefano Piperno

Il regionalismo differenziato:

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