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Agraharam. Genealogie bramine ed etnografia di villaggio in Kerala

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Agraharam

Genealogie Bramine ed Etnografia di Villaggio in Kerala

Ester Gallo

Etnografia di villaggio in India: glorie e miserie

Negli anni ’50 l’etnografia di villaggio in India si sviluppa come reazione alle rappresentazioni indologiche e coloniali dei ‘villaggi Indiani’ come ‘piccole e mitizzate repubbliche’ (Atal et al., 2005). Il tentativo era quello di controbilanciare le posizioni di studiosi come Dumont e Pocock che minimizzavano l’importanza storica e sociologica del villaggio inidano a fronte di altre forme di appartenenza come quella di casta (Dumont and Pockock 1957). Gli studi critici di Srinivas (1955), Marriott (1955) e Beteille (1965) sono pionieri nell’analisi delle molteplici interrelazioni fra casta, classe parentela e potere nell’India rurale e dei rapporti fra villaggi e unitá politiche più ampie. Questi lavori hanno contribuito allo slittamento metodologico da quella che Beteille (1965) ha più volte chiamato, criticando Dumont, una visione letteraria dell’India verso una comprensione basata su una ricerca di campo,i

e hanno nel tempo

contribuito a porre le basi dell’antropologia sudasiatica contemporanea (Fuller e Spencer, 1990: 85, 6).

Allo stesso tempo questo passaggio metodologico non ha di per sé comportato, almeno fino agli anni ’80, la presa in considerazione da parte di molti antropologi del ruolo della storia coloniale nel trasformare sia le strutture di potere economico e politico dei villaggi, sia

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parentela condotti nei villaggi Indiani nei primi decenni dopo l’indipendenza (1947) erano volti o alla comprensione di aspetti normativi e strutturali concepiti come tipici di un un contesto a suo modo destoricizzato (Gough, 1952; Mencher e Goldberg, 1967) o a tracciare il destino di forme familiari congiunte di fronte a processi di modernizzazione (Epstein, 1962). In entrambe i casi, gli studi di villaggio erano volti ad analizzare strutture di parentela e organizzazioni familiari percepiti come ‘tradizionali’ e ‘tipici’, un atteggiamento che in parte reiterava l’assunto coloniale di un’India tipica e unica (Inden, 1990). Come recentemente notato da Dube (2010: 36-38), il villaggio Indiano era collocato in questi studi dentro la storia a livello descrittivo, ma non a livello analitico. Fino a che punto i resoconti antropologici di quel periodo riflettevano l’esistenza di strutture e ideologie parentali tradizionali, e quanto invece ‘la parentela e la famiglia Indiana’ erano anche il frutto di politiche coloniali e di attività riformiste della classe media nazionalista Indiana sviluppatesi in gran parte del continente sin dai primi decenni del XX secolo? Tale domanda è stata, sin dagli anni ’90, uno dei cardini della critica storica e femminista verso le rappresentazioni antropologiche ‘classiche’ sul rapporto fra parentela, casta e villaggio: una critica volta a sottolineare come i rapporti di genere, le gerarchie familiari e le strutture parentali percepite come tipicamente indiane da molti studiosi fossero in realtà il frutto di processi storici e politici ben più complessi e profondi (Uberoi, 1996; Devika, 2007).

I primi anni ’90 assistono ad una congiuntura se vogliamo negativa, per gli studi sudasiatici di villaggio. L’identificazione del ‘villaggio Indiano’ come un prodotto

dell’immaginazione coloniale si somma alla critica postmoderna più generale verso le pratiche antropologiche ‘classiche’ e a una crisi (temporanea e mai totale) degli studi di parentela che seguono alla critica di Schneider sulla validità di tale campo d’indagine (Carsten, 2000). Secondo Mines e Yazgi tale congiuntura ha avuto l’effetto di gettare il bambino insieme

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all’acqua sporca, vale a dire di marginalizzare l’etnografia di villaggio in Asia Meridionale, nonostante i villaggi continuino a rappresentare una realtà importante per milioni di indiani, pakistani o cingalesi.

Nonostante concordi con i due studiosi sulla necessità di indagare in che modo la realtà rurale indiana sia stata trasformata negli ultimi decenni e sugli approcci di ricerca

contemporanei, credo che il supposto abbandono dell’etnografia di villaggio rimanga più ad un livello retorico che fattuale. Negli ultimi tre decenni l’etnografia di villaggio in Asia meridionale ha piuttosto metabolizzato critiche storiche e femministe e seguito percorsi innovativi di

ricerca.Il lavoro di Raheja e Gold (1994), ad esempio, mostra come l’etnografia di villaggio permetta di cogliere la poliedricità del rapporto fra genere e parentela attraverso un’analisi sottile dell’uso che le donne Rajasthani fanno dell’ironia per mettere in discussione le fondamenta del patriarcato moderno. Similmente, Helen Lambert (1996; 2000) porta alla luce come un’analisi di genere permetta di comprendere l’importanza del principio di localitá e di inter-castalitá nei rapporti familiari di villaggio. Da un altro punto di vista, il lavori di Katy Gardner (1995) e di Caroline e Filippo Osella (2000) hanno mostrato come l’etnografia di villaggio possa

perfettamente coniugarsi con un interesse verso forme di transnazionalismo.

In generale, recenti etnografie mostrano come gli studi di villaggio non soltanto non siano spariti dal panorama sudasiatico, ma riflettano anche la tendenza a coniugare questioni

‘classiche’ di parentela, casta e classe con rinnovati interessi verso questioni relativamente ‘nuove’ di genere, migrazioni globali, consumo e transnazionalismo.

In questo contributo mi propongo di analizzare come l’etnogtrafia di villaggio possa rivelarsi utile nella comprensione dei rapporti di parentela fra le classi medie Indù in ascesa che hanno da lungo tempo intrapreso processi di migrazione. Mi occupo nello specifico di come

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l’interesse genealogico delle nuove generazioni bramine di migranti verso la storia del proprio villaggio di origine (agrharam) sia volta alla riaffermazione di nuovi esclusivismi sociali, e di quali dilemmi e scelte metodologiche la comprensione di tali processi abbia posto allo

svolgimento della ricerca di campo. L’analisi si basa su circa quattro anni di ricerca condotta fra il Kerala, quattro città indiane (Chennai, Mumbay, Kolkata e Nuova Delhi), Italia e Regno Unito, in un arco di tempo che va dal 2000 al 2011.

Agraharam: villaggi urbani

La mia decisione di andare in Kerala nel 2000 per la mia ricerca di dottorato era in parte motivata da una ricerca precedentemente condotta a Roma sugli emigranti Malayali, e in particolare sul rapporto fra genere, religione e reti familiari. Con il tempo quello che era inizialmente una serie di domande e curiosità relativamente vaghe su come, dove, e con chi proseguire la ricerca, mi sono focalizzata su un aspetto particolare che è tuttora centrale nei miei progetti di scrittura: quello del rapporto fra classi-medie, famiglia e memoria fra le élite

tradizionali.

Nonostante abbia trascorso una parte considerevole della mia ricerca in un villaggio del Kerala centrale, che chiamerò Krishnapuram, l’area interessata è stata più ampia ed è andata a comprendere sia le città confinanti di Kochi, Trichur e Ankamali, sia destinazioni migratorie in India (Nuova Dehli, Chennay, Mumbay, Kolkata, Bangalore) e all’estero (Roma, Londra). La dispersione di molti lignaggi che è seguita alla messa in atto delle politiche coloniali rende necessario ad un ricercatore interessato al rapporto fra famiglia, classe e memoria di andare a ricercare diverse testimonianze familiari in contesti interrelati. Forme di emigrazione interna e internazionale hanno infatti coinvolto in modi diversi generazioni di emigranti sin dagli anni ’20

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del XX secolo, offrendo diverse opportunità di ascesa sociale sia alle élite tradizionali, sia a strati precedentemente marginalizzati. La scelta di coniugare l’etnografia di villaggio con periodi di ricerca in altre destinazioni è stata progressivamente motivata dall’intenzione di comprendere fino a che punto, ed in quali termini, famiglie da tempo emigrate siano disposte ad essere coinvolte in progetti politici e culturali legati al villaggio ‘di origine’ e a riaffermare forme rinnovate di appartenenza.

L’identificazione del ‘villaggio’ come luogo e filtro della ricerca è stato un processo relativamente tortuoso. Nel Kerala centrale i molti villaggi sono stati negli ultimi tre decenni assorbiti all’interno di maglie urbane, tanto da non essere facilmente identificabili. L’espansione della città portuale di Kochi, da un lato, e la crescita di aree tradizionalmente rurali grazie agli investimenti degli emigranti, dall’altro, ha portato alla nascita di cosiddetti ‘villaggi urbani’, vale a dire conformazioni territoriali dai contorni sfumati, dove villaggi, piccole cittadine e metropoli si snodano in una linea di relativa continuità. I villaggi del Kerala centrale devono inoltre il loro carattere sfumato al fatto di essersi storicamente sviluppati intorno alle dimore aristocratiche di lignaggi Bramini Nambudiri. Fino alla metà del XIX secolo, questi ultimi hanno goduto di un’autorità religiosa e amministrativa sia sulle proprietà che sugli abitanti (Mencher e Unni, 1976). Molti Nambudiri oggi hanno memoria dei confini territoriali e simbolici dell’agraharam di appartenenza: il nucleo sacro delle loro dimore, in passato inviolabile dalle caste inferiori e considerato dagli abitanti del villaggio come il luogo sacro per eccellenza in quando dimora di persone assimilabili, come in altre parti dell’India, a divinità terrene.

Sin dalla fine del XIX secolo le politiche britanniche hanno trasformato profondamente il rapporto fra lignaggi aristocratici, territorio e comunità di villaggio. Le politiche agrarie, volte primariamente ad agevolare classi intermedie di affittuari a sfavore dell’aristocrazia terriera,

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intaccano le strutture di potere rurale. Il periodo compreso fra il 1870 e gli anni ’30 del Novecento assistono alla progressiva delegittimazione politica ed economica dei Bramini Nambudiri e all’ascesa di comunità Indù e Cristiane, in particolare i Nair e i Cristiano-Siriani. Sono questi strati che si mostrano inoltre inclini ad approfittare delle opportunità di istruzione e di emigrazione offerte dal regime coloniale (Kurien, 2002). In particolare, sin dagli anni ’20 del Novecento villaggi come Krishnapuram subiscono trasformazioni profonde in seguito

all’emigrazione verso nascenti metropoli indiane e altre colonie. Uomini e donne, formatisi come insegnanti, dottori e infermieri o avvocati, lasciano il Kerala per entrare nelle file di emigranti pionieri ‘specializzati’, andando progressivamente a consolidare i processi di formazione di una classe media Malayali attraverso le rimesse (Gallo, 2013).

Con la creazione dello stato del Kerala nel 1956, nuovi panchayat – unità di villaggio – vengono creati attraverso la separazione e riunione di antichi agraharam. Il nucleo tradizionale bramino viene marginalizzato tanto a livello territoriale che socio-politico: gli uffici

amministrativi del panchayat vengono collocati lontano dai nuclei residenziali aristocratici, che sin dagli anni ’60 perdono potere nel villaggio. Negli anni ’70 l’emigrazione di massa verso i paesi del Golfo Persico contribuisce a creare una classe media più eterogenea che va ad abbracciare anche comunità precedentemente escluse dalle politiche migratorie coloniali. É in questo periodo che Krishnapuram subisce un cambiamento radicale. L’intensificazione dei flussi delle rimesse è visibile nei progressivi investimenti sia privati, a livello familiare, che pubblici, di natura filantropica. Le reti di parentela transnazionali si attivano infatti non solo in rapporto al miglioramento delle condizioni di vita familiare, attraverso cioè investimenti in istruzione superiore delle generazioni più giovani, la costruzione di case moderne e spesso lussuose , o forme di consumo molteplici. Esse si sovrappongono anche a reti più estese di casta e religione e

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si materializzano in progetti collettivi di sviluppo rurale: investimenti in scuole e ospedali privati, in attività commerciali, nella ristrutturazione/costruzione di luoghi di culto e nel finanziamento di attività religiose collettive come festival o pellegrinaggi (Kurien, 1994; Osella ad Osella, 2009). Nei luoghi dove sorgevano un tempo i templi, granai e residenze Nambudiri si trovano oggi residenze lussuose, chiese, moschee, associazioni di casta, scuole cristiane o attività commerciali di diversa natura. In questo panorama mutevole, i bramini Nambudiri hanno solo dai primi anni ’90 attuato in modo esteso politiche di mobilità sociale, ma sono stati in grado di raggiungere progressivamente le classi medie Indù e Cristiane da un punto di vista

dell’emigrazione specializzata.

I processi storico-politici a cui si è brevemente accennato hanno cambiato profondamente il modo in cui ‘il villaggio’ viene percepito e vissuto dai suoi abitanti e anche i processi di

orientamento che guidano l’antropologo nei periodi di ricerca di campo. In effetti, le mie

difficoltà e goffaggini iniziali (e a volte durature!) derivavano soprattutto dal fatto che le persone con cui avevo cominciato a fare ricerca sembravano possedere codici identificativi molto diversi rispetto a quello che io cercavo di delineare come ‘villaggio’. Un estratto dal mio diario di campo può contribuire a chiarire questo punto. Si riferisce a due visite preliminari

rispettivamente al capo del ward (sub-unità amministrativa del villaggio)ii Panchayat di Krishnapuram, un bramino Nambudiri e al capo del Panchayat, una donna Pulaya eletta nel 2004:

“Oggi il mio assistente di ricerca Anil mi ha portato a conoscere alcune autorità di villaggio locale, per ottenere il permesso di condurre ricerca di archivio e per farmi conoscere dalle autorità del posto. Dietro richiesta di Narayanan Nambudiri, il capo del ward dove vivo

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attualmente, Anil ha spiegato che mi interessa fare ricerca sul rapporto fra famiglia ed emigrazione nel villaggio. Con aria fra il sarcastico e il provocatorio abbiamo avuto come risposta: Il villaggio di chi? Di quale villaggio parlate? Curiosamente, la stessa domanda mi è stata chiesta dal capo del panchayat. Entrambe appartengono a Krishnapiram da generazioni, ma sembrano vivere e riferirsi a realtà completamente diverse”.

(Krishnapuram, diario di campo Gennaio 2005)

Come suggerito da questo breve resoconto, la mia tendenza ad identificare ‘il villaggio’ come unità di ricerca non trova risonanza immediata o univoca nei miei interlocutori. In effetti, se da un lato i processi di modernizzazione hanno con il tempo eroso gli antichi confini interni fra aristocrazia e caste inferiori e i limiti che un tempo separavano villaggi e aree urbane, dall’altro, simili confini persistevano – seppur in modo rinnovato – nelle memorie e nelle esperienze degli abitanti. L’élite tradizionale tendeva spesso ad identificare ‘il villaggio’ in termini di diritti genealogici: per i miei interlocutori bramini ‘il villaggio’ era l’antico agraharam, luogo degli antenati, dove la presenza di antiche dimore e templi – spesso rasi al suolo – segnava il limite dei rapporti con ‘il mondo inferiore’. Tuttavia, molte famiglie risiedono oggi al di fuori degli spazi dell'agraharam, o si trovano ad essere ‘invasi’ dalla presenza materiale di persone un tempo subordinate. Per le élite, ‘il villaggio’ sembrava costituire più il frutto di memorie storiche e suggestioni nostalgiche che avevano limitata risonanza nel presente. Se l’agraharam era il luogo di privilegi perduti, il moderno panchayat corrispondeva al luogo di sviluppo di moderni rapporti politici, economici e culturali: era per definizione lo spazio dove antiche forme di gerarchia si erano sostituite a competizioni moderne, necessarie quanto disdegnate da molti Nambudiri conservatori. Nonostante a livello storico e territoriale l’agraharam e il panchayat costituiscano

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realtà sovrapposte, le memorie familiari continuavano a tracciare dei confini mentali ancora importanti: molti Nambudiri evitavano di recarsi in certe area del villaggio, di mischiarsi con ‘le masse’ in attività comunitarie di carattere celebrativo, religioso e di semplice consumo

quotidiano. Diversamente, il panchayat non veniva considerato per sua natura diverso dal nagaram, termine indifferenziato con cui si indicano sia le cittadine circostanti che nuclei urbani come Kochi: entrambe erano il simbolo di edaparakkiuga, la necessitá di coesistere e mischiarsi con persone di classe, casta e religione diverse. La capacitá di andare al di lá di un milieu

esclusivo di casta e di mischiarsi con persone appartenenti a caste, classi e comunitá religiose diverse é visto oggi da molti, almeno a livello ufficiale, più come uno dei simboli della classe-media Malayali moderna e come una forma di distinzione rispetto a forme passate

discriminazione su base castale.

Le classe medie di status inferiore avevano verso il villaggio un’attitudine che può essere al contempo definita come redentoria e difensiva. La creazione moderna di ward e panchayat ha segnato l’entrata in politica e l’ascesa economica di famiglie/comunità un tempo marginalizzate, nonché la possibilità di violare antichi confini partecipando allo sviluppo materiale e culturale di molte aree di villaggio. Molte famiglie, oggi benestanti, di status inferiore sono spesso

combattute fra i sentimenti di orgoglio volti a sottolineare l’appropriazione dell’agraharam da parte di caste inferiori e lo sdegno verso le aree anticamente sacre del villaggio. L’agraharam, nonostante tutto, continua spesso a suscitare memorie di umiliazione e di dipendenza passate, mentre il panchayat viene identificato con le forme di ‘uguaglianza’ e ‘benessere’ moderni.

La ricerca di campo, soprattutto nei primi mesi, è stata dedicata alla comprensione di queste mappe mentali e relazionali e alla comprensione di come tali percorsi di orientamento influivano sui rapporti di campo. La mia collocazione a Krishnapuram ha richiesto un

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coinvolgimento costante nelle dinamiche di inclusione, esclusione, apertura e chiusura dei confini mentali, geografici e relazionali del villaggio, quest’ultimo difficilmente rappresentabile in termini di ‘spazio rurale’ o in opposizione ad ‘aree urbane’ (Mines and Yazgi, 2010). I

complessivi ventiquattro mesi che ho passato a Krishnapuram sono stati certamente importanti per comprendere in che modo decenni di emigrazione hanno portato al (relativo) declino di gerarchie tradizionali e all’ascesa di nuove comunità. Questo periodo di ricerca ha anche aperto nuove vie da percorrere, attraverso i contatti creati con emigranti di ritorno da diverse

destinazioni migratorie. In generale, la ricerca di campo a Krishnapuram é stata per me indispensabile per comprendere il rapporto fra famiglia, rimesse e formazione storica di una classe media sempre più eterogenea da un punto di vista dei rapporti di classe, casta, religione e genere. La decisione di spostarmi frequentemente in altre città indiane o di tornare a Roma o Londra per periodi interrelati di ricerca è stata fondamentale per comprendere le esperienze familiari di coloro che avevano lasciato il villaggio sin dagli anni ’30 ma che erano rimasti legati ad esso sia da un punto di vista emotivo che materiale. Quali motivi, progetti o aspirazioni motivavano l’uso delle rimesse o il coinvolgimento in attività collettive di sviluppo. Quali aspetti materiali – beni di consumo, denaro, diari, memorie scritte, genealogie o altro – diventavano parte del processo di ‘fare famiglia’ anche a distanza, e di riappropriarsi di spazi avvertiti come sbiaditi. In tal senso, come emergerà in maggior dettaglio nel paragrafo successivo, la mia decisione di combinare una ricerca prolungata di villaggio con periodi di ricerca relativamente più breve (due/tre mesi) in altre località non ha costituito di per sé una reale rottura con

l’etnografia di villaggio, ma parte integrante di quest’ultima.

Come notato da Mines e Yazgi (2010: 11, 19), è possibile concepire i ‘villaggi’ indiani contemporanei come un aspetto territoriale ed affettivo importante nelle forme contemporanee di

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di appartenenza dei migranti (e non). In tal senso, la partecipazione delle classi medie Malayali nella diaspora allo sviluppo del villaggio fa parte di quel processo di ‘creazione, distruzione e rigenerazione’ delle comunità rurali che caratterizza oggi molte realtá di villaggio Indiane. Krishnapuram emerge infatti come un registro identitario importante, sia per le persone che vi risiedono sia per chi è da tempo nella diaspora. La scoperta, di per sé, non credo abbia molto di originale, ma ha senso comunque interrogarci su quali siano le implicazioni metodologiche di tale riconoscimento. Scegliere il villaggio come luogo di ricerca, come Geertz (1973: 22-23) suggerisce più di cinquant’anni fa, non implica necessariamente adottarlo come unico filtro concettuale dell’indagine antropologica: senza voler ricorrere a metafore facili che identificano nel luogo più remoto un microcosmo (“a world in a tea cup”, diceva Gertz), i processi sociali che costituiscono un luogo sono sempre imbricati in processi più ampi, e ci invitano a riflettere su questioni di più ampio respiro. In tal senso, l’analisi delle politiche identitarie di un villaggio come Krisnapuram offre qualche spunto di comprensione su dinamiche più ampie di

globalizzazione delle classi medie indiane. In modo opposto ma interrelato, se intendiamo il villaggio non tanto (o non solo) come luogo fisico di ricerca sul campo quanto come prisma concettuale di questioni e riflessioni antropologiche, allora allontanarsi da esso per svolgere ricerca in altri contesti (ad esempio destinazioni migratorie) appare in continuità e non in dicotomia con la più ‘convenzionale’ interpretazione di etnografia di villaggio. I periodi di ricerca nelle metropoli indiane o straniere con gli emigranti di Krishnapuram hanno contribuito a rendere ‘il villaggio’ più comprensibile da un punto di vista del rapporto fra territorio,

emigrazione e politiche identitarie. Nella parte che segue mi propongo pertanto di offrire una breve analisi etnografica sul modo in cui il villaggio viene rappresentato e vissuto attraverso la ricostruzione di genealogie da parte delle classi media bramine a Krishnapuram e nella diaspora.

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Politiche identitarie e villaggio

Uno degli aspetti che ha maggiormente catturato la mia attenzione durante la ricerca sul campo é il rinnovato interesse nutrito da parte delle classi medie Malayali verso la propria storia

parentale.iii Tale slancio conoscitivo non può dirsi unicamente ristretto alla sfera privata: da sempre infatti, i bramini sono conosciuti in tutta l’India per la vocazione, squisitamente elitaria, verso la collezione genealogica o la produzione letteraria di memorie familiari. Sin dagli anni ’90 Krishnapuram è stato teatro di pubblicazioni in Malayalam o in Inglese sulla storia del villaggio o di specifici lignaggi, della creazione di siti web sulla storia di diverse comunità. Fra le tante attività è degna di nota la pubblicazione di diari scritti da Malayali di diversa estrazione sociale sulle loro esperienze dei movimenti di riforma coloniali, di partecipazione alla lotta di

indipendenza o di emigrazione. Fra le élite indù come i Bramini Nambudiri l’interesse verso la produzione materiale di storie familiari e comunitarie ha origini molteplici. Da un lato, la ricerca di produzioni materiali sulla storia collettiva riflette la volontà di rendere familiare un passato a volte percepito come incontrollabile e perturbatore degli assetti tradizionali (Bloch, 1998; Cole, 1998). Dall’altro, progetti di memoria collettiva rappresentano un tentativo di ricostruire, almeno a livello letterario e simbolico, i rapporti che caratterizzavano l’agraharam passato, fornendo ai Nambudiri uno spazio della memoria dove poter riaffermare pubblicamente privilegi violati.

Nel 2002, diversi segmenti di un lignaggio patrilineare (Ambalayat), residenti a Krrishnapuram, Nuova Delhi, Chennay, Londra, Roma, Dubai e Singapore abbracciano un progetto collettivo di riscoperta della storia del mana (lignaggio) di appartenenza. Gli iniziatori di quello che divenne famoso nel villaggio come ‘Ambalayal Kudumba (Family) Project’ sono stati dei giovani e rampanti Bramini di età compresa fra i venticinque e i quarant'anni, che

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maggiormente hanno beneficiato dell’emigrazione specializzata in destinazioni prestigiose e che sono oggi coinvolti nella riaffermazione di politiche identitarie di casta elevata. Nonostante ciò, lo slancio giovanile si è affidato all’esperienza e alla conoscenza delle generazioni più anziane, che per esperienza diretta o familiare hanno sperimentato più da vicino la storia di declino e rinascita della comunità Bramina, e hanno memoria della storia coloniale Malayali. Il progetto prevedeva lo scambio tramite posta e internet delle informazioni disponibili sulla vita famigliare del lignaggio: nascite, matrimoni, divorzi, professioni, livello di istruzione, stili di vita,

celebrazioni o eventi importanti che potessero ridare vitalità ad un senso di appartenenza collettiva all’agraharam di origine.

Durante le mie interviste a Krishnapuram e in altre destinazioni mi sono

progressivamente resa conto di come famiglie diverse avessero idee spesso molto distanti fra loro sulle finalità del progetto. Per i Bramini di Krishnapuram o per le giovani generazioni di Nambudiri di Londra o Dubai, il progetto era primariamente volto alla riaffermazione di una purità di casta rispetto alla storia del panchayat più ampio. La ricerca di eclusività in parte derivava da forme di ansia nel sentirsi collocati ‘nel mezzo’ di una indifferenziata classe media Malayali: un disagio derivante non solo dalle precarie condizioni economiche, legali e politiche della classe media in un Kerala neoliberista o in destinazioni migratorie (Dickey, 2011), ma anche dal sentirsi assimilati a comunità che continuano ad essere considerate come inferiori.

Diversamente, per i Nambudiri più anziani o per gli emigranti di età media, ricomporre la storia di Krishnapuram aveva un significato più ambivalente: significava mettere in luce molte storie private di conflitti familiari, di matrimoni intercastali, di rotture legate alla decisione di emigrare, e in generale mostrare come il rapporto fra lignaggio e villaggio fosse segnato da momenti di forte instabilità ma anche di cambiamenti necessari, volti a desacralizzare la

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superiorità dei Nambudiri. Uno dei miei interlocutori londinesi, un dottore Nambudiri di circa 58 anni, motivava nel modo che segue il suo iniziale coinvolgimento nel progetto e la sua

successiva fuoriuscita in seguito a dissensi interni:

‘Ho lasciato l’agraharam molti anni fa....a quel tempo emigrare era considerato un atto impuro, scandaloso dai membri del mio lignaggio. Avendo poi sposato una donna Punjabi di casta diversa, molti parenti non mi hanno voluto vedere. Per molti anni non sono tornato a Krishnapuram, anche se spesso mandavo soldi a casa. Quando mi hanno coinvolto in questo progetto ho pensato che fosse una buona occasione per far sentire anche il mio punto di vista: quello che vuol dire vivere all’estero, sposare una donna non della tua comunità...io ho spesso tenuto un diario e cercavo di prendere nota anche delle cose che succedevano ai miei familiari in Kerala o in altri posti....ho parenti un po’ dappertutto’.

E ancora:

‘Progressivamente mi sono reso conto che il desiderio non era quello di confrontare le differenze, di ascoltare anche storie spiacevoli, ma quello di far vedere quanto sono superiori i Bramini, e questo non posso accettarlo. Questi giovani sono tutti affascinati dal fondamentalismo Indù, anche se magari votano il Congresso.iv Per loro Krishnapuram é il villaggio degli antenati ma per molti di noi é il posto da cui siamo stati scacciati per le nostre scelte politiche o

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Per molti giovavi emigranti, la formazione dei panchayat moderni diviene il simbolo di privilegi perduti, ma per gli emigranti di vecchia generazione sono le storie di conflitti generazionali e i limiti dell’esclusività bramina ad essere messi in primo piano. Alla tendenza a costruire una storia collettiva basata su ideologie di purezza ed esclusività, molti membri del lignaggio nella diaspora opponevano la considerazione di storie di ibridizzazione dell’identità di casta ed il riconoscimento di quelle storie familiari ibride ed ambivalenti, fatte di matrimoni misti, conflitto ed esclusione. Se, da un lato, le memorie familiari tendevano verso la ricostituzione di un passato armonico e lineare e alla marginalizzazione di conflitti e rotture (Carsten, 2007), voci dissonanti portavano alla luce esperienze emotive e relazionali molto più cariche di tensione.

Il dibattito interno su quale forma dovesse prendere la ricostruzione storica del lignaggio Ambalayat riflette a mio avviso due orientamenti contrastanti nel modo in cui le classi medie bramine percepiscono il rapporto fra la loro collocazione sociale, i rapporti di parentela e memoria. Da un lato, una parte della società bramina tende a concepire la ricostruzione genealogica nei termini di un processo di purificazione del rapporto fra lignaggio e territorio: memorie legate a conflitti familiari, a forme di esclusione di casta (outcasting), a matrimoni intercastali e religiosi vengono in tal senso marginalizzati nei resoconti ufficiali, e un ideale di appartenenza castale all’agraharam e di armonia lignatica viene riaffermato come prioritario. In tal senso, molte famiglie Nambudiri tendono a riaffermare la loro identità di classe media facendo riferimento a valori di casta elevata di purezza, sobrietà e decenza, atteggiamento peraltro frequente anche in altre parti dell’India contemporanea (Donner e De Neve, 2011; Dickey, 2011). La genealogia viene qui concepita in modo relativamente convenzionale come forma di autenticazione di una continuità generazionale e di una trasmissione di valori sentiti come esclusivi ad un milieu ben definito (Bamford and Leach, 2009).

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Dall’altro, una parte più progressista della società bramina tende a concepire la ricostruzione della storia lignatica nei termini di dispersione di qualità generazionali legate al passato aristocratico, dispersione sentita come necessaria per una legittima rivendicazione di un'identità moderne come classe media. In questa interpretazione, la raccolta genealogica deve abbracciare quelle storie individuali e familiari che non si conformano all’ideale di purezza bramina, ma accettare e rendere espliciti quei percorsi parentali che hanno condotto i Nambudiri ad unirsi, mischiarsi e confrontarsi con comunità diverse da un punto di vista di casta, religione e classe. In tale senso è necessario comprendere l’insistenza di molti Nambudiri che vivono oggi nella diaspora nel voler includere nelle genealogie e nelle memorie scritte storie di matrimoni misti, di esclusione sociale e di conflitti familiari. Per molti Nambudiri la possibilità di lasciare il villaggio o di sposare donne di casta inferiore ma di classe elevata ha aperto strade di mobilità sociale per lungo tempo precluse ad un’aristocrazia tanto conservatrice quanto in declino. Per questi strati della classe media Nambudiri nella diaspora, il progetto di storia familiare non nasceva tanto dal tentativo di resistere a forme di ibridizzazione e crescente eterogeneità, tanto a livello di villaggio che lignatico (vedi ad esempio: Taylor and Crandall, 1986). Al contrario, per parafrasare un’espressione recente di Nash (2002: 20-21), nasce da una concezione indigenizzata della storia genealogica come ‘insubordinata, e non necessariamente contenibile all’interno di griglie rigide’ (vedi anche: Kramer, 2011). Se da un lato, la genealogia rappresenta in tentativo di inscrivere vite individuali all’interno di una rete parentale più ampia, dall’altro può anche riflettere il tentativo di mettere in evidenza quei percorsi familiari che non si conformano a modelli endogamici a livello di località o di casta.

Tuttavia, l’esito finale del progetto Ambalayat riflette la prevalenza delle posizioni delle nuove generazioni bramine, più interessate ad una rappresentazione del rapporto fra lignaggio e

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agraharam incentrata su ideali di purezza ed esclusività. La pubblicazione del libro che è seguita a tale progetto, e le genealogie in esso contenute, contenevano solo in minima parte le storie ‘eterodosse’ narrate da molti Nambudiri che vivono a Krishnapuram e nella diaspora. Resoconti imbarazzanti di donne del lignaggio sposate con uomini musulmani e oggi residenti nei paesi del Golfo Persico, o di uomini Nambudiri coniugati con donne di casta inferiore e che avevano da tempo lasciato il villaggio sono stati omessi dalla storia collettiva. Il libro, scritto in inglese per essere accessibile anche alle generazioni più giovani di Nambudiri residenti all’estero, riafferma l’appartenenza esclusiva dei Nambudiri nell’antico agraharam. Immagini sullo splendore passato delle antiche dimore e dei templi Nambudiri evocano un passato ormai corroso dai processi di modernizzazione analizzati in precedenza, ma convivono allo stesso tempo con foto di giovani Nambudiri di successo oggi residenti all’estero in qualità di medici, ingegneri o accademici. In tal senso l’appartenenza all’agraharam viene rivendicata insieme ad un orientamento cosmopolita da parte delle generazioni più giovani.

Da un punto di vista metodologico, il mio coinvolgimento personale nel progetto Ambalayat ha portato a momenti di vicinanza ma anche di distanza dalle diverse posizioni Nambudiri. Essendo conosciuta a Krishnapuram come ‘quella che si occupa di genealogie e di storie familiari’ la mia partecipazione era stata data inizialmente per scontata da molte famiglie. Agli occhi di alcuni Nambudiri, il mio interesse antropologico era di per sé prova del mio status elitario in quanto donna occidentale e in procinto di scrivere una tesi di dottorato. Nonostante ciò, il mio interesse verso la storia genealogica non era tanto concepito dai miei interlocutori nei termini di ‘validazione’ esterna del loro progetto di memoria collettiva, quanto piuttosto una delle possibili voci e rappresentazioni di una storia verso cui, in modi e con finalità in gran parte diverse, mostravamo interesse.

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Tale comunanza di interessi ha trasformato i miei rapporti di campo in modo

ambivalente, in particolare in seguito all’inizio ufficiale del progetto Ambalayat. Nei primi mesi sono stata progressivamente coinvolta in attività sociali a cui ero stata precedentemente esclusa, come la visita in alcune dimore antiche o nei templi di famiglia. Allo stesso tempo, questo coinvolgimento ha posto in modo quasi immediato dei limiti alla mia mobilità interna al

villaggio. Il fatto che io avessi scelto sin dall’inizio di non vivere nell’agraharam ma nella parte moderna del panchayat - nella casa di una famiglia di casta inferiore - era avvertito come un ostacolo alla mia partecipazione al progetto. Molti Nambudiri ortodossi si aspettavano infatti che io abbandonassi tale area per spostarmi a vivere in un ambiente ‘più consono’ allo svolgimento dell’impresa. Il mio rifiuto è stato motivato sia da considerazioni pratiche – la scelta di spostarmi frequentemente fra diversi villaggi e aree urbane – sia dall’intento di mantenere una certa

distanza da forme di discriminazione castale tuttora in atto nel villaggio. Una delle scelte di campo più difficili da mantenere durante la mia residenza a Krishnapuram è stata quella di muovermi in un modo relativamente libero all’interno dei diversi confini territoriali e simbolici del villaggio: frequentare case di diversa estrazione castale, di classe e religione, adattarmi alle varie pratiche di purezza quando necessario senza però lasciare che questo andasse ad intaccare in modo troppo profondo i miei rapporti di ricerca e di amicizia con persone non bramine. Tale scelta risultava non soltanto da un personale orientamento ideologico, ma anche dall’interesse a comprendere il rapporto contemporaneo fra classe e casta attraverso una comparazione fra comunità di status elevato – come i Nair, i Cristiano-Siriani o i Nambudiri - e comunità di status inferiore, come i Cattolici di rito latino, i Musulmani o gli Ezhavas. Anche all’interno della stessa comunità Nambudiri, come è emerso nella discussione precedente, diverse posizioni ideologiche coesistevano: mentre molte famiglie erano inclini a preservare un’idea dell’agraharam come

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‘puro’ rispetto a relazioni contaminanti, altri costruivano il proprio status moderno di classe media a partire da pratiche di ibridizzazione sociale e di attraversamento di confini territoriali.

La mia vicinanza e distanza dall’élite bramina può essere compresa facendo riferimento ad alcune considerazioni di Jodhka (1998) su quella che l’autore definisce nei termini di ansia tradizionale di molti antropologi rispetto al grado di accettazione nella comunità di villaggio, accettazione sentita come uno dei capisaldi del metodo di osservazione partecipante. Per Jodhka, nel contesto indiano, tale ansia metodologica ha a lungo limitato l’accesso dell’antropologo alla sfera elitaria del villaggio, vale a dire ad un milieu di casta elevata, aspetto che spesso si riflette nella rappresentazione parziale e troppo omogenea dei rapporti di potere rurali (Ibidem, 328-9). Allo stesso tempo, riflessioni metodologiche (Fortier, 196; Gallo, 2011) hanno messo in luce come divergenze di posizioni fra l’antropologo e le persone incontrate durante la ricerca sul campo, nonché momenti di tensione o aperto conflitto, non costituiscono tanto deviazioni da una concezione/pratica normalizzata di ricerca quanto parte integrante dei percorsi di indagine e di riflessione etnografica. Nella mia esperienza, la decisione di concepite e praticare l’agrahamam – e il panchayat di Krishnapuram – all’interno di una rete di luoghi e relazioni di campo più ampia ha creato conflitti nei miei rapporti di ricerca. Il mio ritorno a Krishnapuram dopo periodi

relativamente lunghi di ricerca in altre città indiane o all’estero era visto da alcuni Nambudiri con sospetto, e molte domande mi venivano rivolte su come e cosa mi fosse stato raccontato rispetto alle storie familiari di alcuni componenti del lignaggio. Allo stesso tempo tale strategia ha permesso di comprendere anche rappresentazioni dissonanti nel rapporto fra lignaggio, territorio e memoria, nonché il ruolo della diaspora nelle politiche di costruzione e

rappresentazione moderna dei rapporti di villaggio.

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Riflessioni conclusive

Gli antropologi che scelgono oggi di condurre ricerca nei villaggi indiani si confrontano con una realtà in gran parte diversa da quella incontrata dai nostri predecessori solo cinquant’anni fa. Al di là dell’impatto di tali trasformazioni oggettive sui tempi e le modalità della ricerca

antropologica, molti ricercatori che scelgono oggi di recarsi in ‘un villaggio Indiano’ sono

invitati dal dibattito antropologico attuale a prendere in considerazione una serie di ammonimenti metodologici. Tali ammonimenti mettono in evidenza la necessità di rendere esplicito le

motivazioni e le finalità di una tale scelta. Ugualmente importante è il riconoscimento che le persone con cui facciamo ricerca hanno sviluppato, in parte attraverso esperienze migratorie e in parte a seguito di un coinvolgimento politico con la storia coloniale e postcoloniale, sensibilità e atteggiamenti spesso critici verso il lavoro degli antropologi, aspetto che – come sostenuto da Comaroff e Comaroff (2003: 152) – ci richiede di riconoscere come ‘il nostro linguaggio’ e le ‘nostre rappresentazioni etnografiche’ abbiano ‘perso parte del loro potere persuasivo’. Come questo breve resoconto etnografico ha cercato di mostrare il nostro interesse verso il rapporto fra lignaggio, memoria e territorio coesiste oggi con progetti indigeni di riscoperta della storia collettiva, progetti spesso finalizzati alla riaffermazione di esclusività di casta squisitamente moderne.

In generale, la differenza enfatizzata da Clifford Gertz negli anni ’70 (1973: 22-3) fra ‘luogo della ricerca’ e ‘oggetto della ricerca’ permea riflessioni metodologiche contemporanee su come ‘il campo della nostra ricerca non vada tanto considerato in termini di localizzazione ed estensione geografica’ quanto come un ‘processo relazionale’ che puó assumere contorni diversi

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a seconda degli obiettivi di comprensione che ci proponiamo (Cook, Laidlaw e Mair, 2009: 63). Traendo spunto da queste considerazioni, il presente contributo ha cercato di analizzare in che modo la comprensione del rapporto fra villaggi urbanizzati e globalizzazione delle classi medie in India possa basarsi su una strategia di ricerca in cui etnografia ‘classica’ di villaggio e strategie multi-situate coesistono in un continuum piuttosto che in un rapporto dicotomico. Se

consideriamo il villaggio non tanto come una unità territoriale ma come un ‘campo di relazioni’, risulta allora relativamente più agevole concepire il rapporto di sinergia che può emergere fra periodi di ricerca condotti in località diverse. Periodi interrelati di ricerca hanno permesso di mettere in evidenza la molteplicità e la complessità dei rapporti che migranti di diverse generazioni intrattengono con i luoghi sentiti come propri, e in che modo partecipano dalla diaspora alla trasformazione delle aree di villaggio. Se consideriamo il villaggio come un ‘campo di relazioni’ diviene anche più facile superare false dicotomie che, come sottolineato

nell’introduzione, oppongono, da un lato, costruzioni postmoderne del villaggio di stampo funzionalista come ‘esotico’, ‘isolato’ e ‘chiuso’ e, dall’altro, atteggiamenti difensivi che identificano nel villaggio un luogo privilegiato dove comprendere questioni antropologiche classiche come la parentela, la famiglia o la casta. Reazioni difensive tendono spesso anche a ricorrere anche ad una retorica catastrofica sulla ‘fine moderna dell’etnografia di villaggio’ (vedi: Ferguson, 2011). Tanto le posizioni provocatorie quanto difensive non tengono conto del lavoro svolto da molti antropologi sin dalla fine degli anni ’80 verso una rielaborazione critica

dell’etnografia di villaggio, lavori che hanno continuato a porre questioni ‘classiche’ di parentela, casta e politica unitamente a questioni (relativamente) ‘moderne’ di genere, consumo, e

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assumere contorni nuovi se analizzato alla luce delle trasformazioni contemporanee del rapporto fra casta, migrazioni, territorio, e memoria.

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i

Nella formulazione originaria di Beteille si parla di una book view dell’India, implicita nella tradizione indologica e coloniale e di field view, quest’ultima basata su studi di campo.

ii

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iii

Questo é il tema di un volume attualmente in preparazione e dal titolo: ‘The Fall of Gods. Memory and

Middle-Class Kinship in South India’.

iv

Il riferimento é qui al partito fondamentalista indù il BJP, che assieme al braccio militante del partito il RSS, promuove ideologie di sperioritá religiose fortemente ispirate alla cultura delle caste elevate. Il partito é stato in carica nell’India negli anni ’90 e fino al 2004, quando é stato sconfitto nelle elezioni nazionali dal Partito del Congresso, il partito forndato da Nehru e tradizionalmente associati ai valori secolari e democratici della lotta per l’Indipendenza e dell’India postcoloniale fino agli anni ’90. Nonostante la maggior parte dei Bramini con cui ho condotto interviste voti pervalentemente il Partito del Congresso o Il Parito Comunista, nelle giovani generazioni le idee promosse dal fondamentalismo indù hanno trovato terreno fertile, soprattutto in relazione all perdita di status del XX secolo, che viene motivata facendo riferimento all’ascesa e ai vantaggi goduti dagli strati tradizionalmente inferiori.

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