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La preservazione della fertilità nella paziente adulta e pediatrica: analisi degli outcome del Centro PMA di Pisa.

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Academic year: 2021

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Università degli Studi di Pisa

Dipartimento di Medicina Clinica e Sperimentale

Scuola di Specializzazione in Ginecologia e Ostetricia

La preservazione della fertilità nella paziente oncologica

adulta e pediatrica: analisi degli outcome del Centro di

PMA di Pisa

Relatori

Prof. Tommaso Simoncini Dr. Vito Cela

Specializzando

Dr.ssa Francesca Vergine

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Riassunto

Negli ultimi venti anni, grazie alla crescente complessità dei trattamenti oncologici integrati ed all’aumento delle diagnosi tumorali in fase precoce, il tasso di mortalità correlato a neoplasia si è ridotto considerevolmente; ciò ha messo in risalto l’esigenza di porre speciale attenzione alla qualità della vita dei sopravvissuti, infatti un importante effetto collaterale delle terapie antineoplastiche nelle donne in età fertile è rappresentato dall’esaurimento ovarico precoce (POI) chemio-indotto. La classificazione del rischio di insorgenza di POI è stata stabilita secondo il tasso di amenorrea permanente dei singoli trattamenti oncologici. Tuttavia, alcune terapie possono determinare una importante deplezione della riserva follicolare senza la concomitante assenza di cicli mestruali, pertanto la fertilità potrebbe già essere severamente compromessa da anni prima del momento della scomparsa dei cicli. Il rischio di POI dovrebbe essere valutato il più precocemente possibile mediante un counseling con uno specialista di fertilità, così da offrire alla paziente le migliori strategie di tutela della fertilità futura. Le tecniche di preservazione della fertilità, pur essendo ampiamente riconosciute valide dalla letteratura, vengono offerte ancora solo a una minoranza di pazienti oncologiche, soprattutto in età pediatrica.

Il nostro studio si propone di valutare l’outcome del percorso di preservazione della fertilità nelle pazienti afferite al Centro di Procreazione Assistita di Pisa dal 2013 ad oggi, quanto a sicurezza ed efficacia della procedura. In questo studio retrospettivo di coorte sono state incluse 115 pazienti: 11 pazienti (pediatriche e non) sottoposte a prelievo di tessuto ovarico dal 2014 al 2019 e 104 pazienti sottoposte a prelievo ecoguidato di ovociti dal 2013 al 2019. Nelle pazienti oncologiche sottoposte a prelievo ecoguidato di ovociti sono stati recuperati in media 8,1 ovociti a paziente, e solo in 4 cicli non sono stati recuperati ovociti idonei alla criopreservazione. Nessuna paziente ha sviluppato complicanze significative che abbiano ritardato l'inizio delle terapie antineoplastiche. In tutte le pazienti affette da carcinoma mammario (46 pz) è stato effettuato un protocollo di stimolazione con aggiunta di antiestrogeni (letrozolo). Delle 11 pazienti sottoposte a criopreservazione di tessuto ovarico, in 6 pazienti il tessuto è stato prelevato e criopreservato presso il Nostro Centro, mentre in 5 pazienti il tessuto prelevato è stato inviato in una criobanca esterna. Tra le pazienti in cui il tessuto è stato criopreservato presso il nostro Centro, in 5 su 6 sono stati evidenziali follicoli primari all'esame

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istologico delle biopsie ovariche e in nessuna paziente è stata evidenziata la presenza di cellule neoplastiche. In una sola paziente non sono stati riscontrati follicoli all'esame istologico.

Sebbene una elevata percentuale di donne tornino a mestruare dopo la fine delle terapie oncologiche, la ricomparsa dei cicli non garantisce l’integrità del potenziale riproduttivo. Pertanto, la migliore strategia di tutela della fertilità deve prevedere anche la crioconservazione preventiva degli ovociti, qualora le tempistiche oncologiche lo permettano, o la criopreservazione del tessuto ovarico nelle bambine o in caso di immediata necessità di iniziare un trattamento chemioterapico. Riteniamo dunque di massima importanza l’ampliamento dell’accesso alle tecniche di preservazione di fertilità, anche in età pediatrica, per garantire la massima qualità di cura possibile, che tenga conto della qualità della vita futura delle giovani pazienti oncologiche.

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4 INDICE

INTRODUZIONE

1. La funzionalità ovarica e la fertilità femminile 1.1 La funzionalità ovarica

1.2 La riduzione della riserva ovarica 1.3 Insufficienza ovarica precoce

2. Patologie oncologiche in età riproduttiva 2.1 Il Carcinoma Mammario

2.2 Neoplasie Ematologiche 2.3 Neoplasie Ginecologiche

3. Gli effetti gonadotossici dei trattamenti antineoplastici 3.1 Fattori che influenzano la gonadotossicità

4. Tecniche di preservazione della fertilità 4.1 Trasposizione ovarica

4.2 Crioconservazione del tessuto ovarico 4.3 Crioconservazione degli ovociti 4.4 Maturazione degli ovociti in vitro 4.5 Crioconservazione degli Embrioni 4.6 Analoghi del GnRH

PARTE SPERIMENTALE 1. Razionale dello studio 2. Materiali e Metodi 3. Risultati

4. Discussione 5. Conclusioni

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INTRODUZIONE

Negli ultimi venti anni, grazie alla crescente complessità dei trattamenti oncologici integrati ed all’aumento delle diagnosi tumorali in fase precoce, il tasso di mortalità correlato a neoplasia si è ridotto considerevolmente; ciò ha messo in risalto l’esigenza di porre speciale attenzione alla qualità della vita dei sopravvissuti [1].

Circa il 10% di tutte le nuove diagnosi di tumore viene effettuata in età riproduttiva, stando ai dati riportati dalla American Cancer Society, e ciò rende obbligatoria già in fase di programmazione terapeutica un’attenta valutazione delle conseguenze derivanti dalla gonadotossicità dei trattamenti [2]. Infatti, nelle donne in cui viene riscontrata neoplasia prima dei 45 anni, un importante effetto collaterale delle terapie antineoplastiche è rappresentato dall’esaurimento ovarico precoce (POI) chemio-indotto [3][4].

Il rischio di POI dovrebbe essere valutato il più precocemente possibile, così da offrire alla paziente le migliori strategie preventive di tutela della fertilità [6]. Il congelamento preventivo sia di ovociti che di embrioni, prima dell’inizio delle terapie antineoplastiche, è una metodica ormai consolidata, entrata nella regolare pratica clinica, che mira alla salvaguardia del desiderio riproduttivo delle pazienti che si trovano ad affrontare l’infertilità iatrogena e la necessità di ritardare la prima gravidanza. Questa tecnica risulta tuttavia inefficace nel contrastare l’insorgenza di POI. In tale ottica, più recentemente, è stato studiato l’utilizzo degli analoghi del GnRH (GnRHa) durante la chemioterapia per indurre una temporanea soppressione ovarica che riduca l’impatto della terapia sulle gonadi, diminuendo quindi il rischio di insufficienza ovarica. [7] Altra tecnica, ancora sperimentale ma di crescente impiego clinico, è la criopreservazione del tessuto ovarico, il cui reimpianto dopo il termine delle terapie antineoplastiche permette la ripresa della funzione endocrina dell'ovaio oltre che di quella riproduttiva.

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Il nostro studio si propone di valutare l’outcome del percorso di preservazione della fertilità nelle pazienti oncologiche afferite al Centro di Procreazione Assistita di Pisa dal 2013 ad oggi quanto a sicurezza ed efficacia della procedura: sono state incluse 115 pazienti, 11 pazienti (pediatriche e non) sottoposte a prelievo di tessuto ovarico e 104 pazienti sottoposte a prelievo ecoguidato di ovociti .

1. La funzionalità ovarica e la fertilità femminile

1.1

La funzionalità ovarica

La riserva ovarica è la capacità funzionale della ovaie, quanto a numero e qualità degli ovociti. La funzionalità ovarica riproduttiva inizia con la pubertà e termina con la menopausa, a seguito dell’esaurimento del patrimonio follicolare ovocitario [11]. Questo arco di tempo dura generalmente circa 35 anni. Si ipotizza che la fine della capacità riproduttiva sia determinata dalla presenza di un pool follicolare già prestabilito che cala progressivamente nel tempo fino al pressoché totale esaurimento [12]–[14]. Anche se recenti studi hanno suggerito l’esistenza di cellule staminali ovariche (oogonia stem cells, OSCs) che permetterebbero la formazione di nuovi ovociti anche durante il corso della vita, il pool follicolare si riduce inevitabilmente con il passare degli anni fino al cessare della capacità riproduttiva quando si raggiunge una soglia critica (Figura 1) [12], [15]. La riserva ovarica inizia a costituirsi attorno alla seconda e terza settimana di sviluppo embrionario ed il numero massimo di oogoni/ovociti viene raggiunto al quarto mese di crescita fetale. Per ragioni tuttora non chiare, più di due terzi di queste cellule geminali inizia a degenerare progressivamente andando in atresia. Alla nascita il numero di ovociti presenti varia tra 500.000 e

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2.000.000 e continua a ridursi, risultando in 300.000/400.000 ovociti alla pubertà e meno di 1.000 al momento della menopausa [16].

Figura 1: Numero di follicoli primordiali in relazione all’età [17]

Per valutare la riserva ovarica, attualmente non esiste nessun test dotato del 100% di sensibilità e specificità.

I parametri più utilizzati sono l’ormone follicolo stimolante (FSH), la conta dei follicoli antrali (AFC) e l’ormone antimülleriano (AMH), preferibilmente combinati tra loro per avere una performance più accurata. (Figura 2) [18].

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Figura

2: I test di riserva ovarica [18]

1.1.1 L’ormone follicolo-stimolante (FSH)

L’ormone follicolo stimolante è una gonadotropina secreta dalle cellule gonadotrope dell’adenoipofisi, la cui secrezione è regolata dal GnRH. La secrezione dell’FSH è inibita da meccanismi a feedback negativo degli steroidi sessuali (testosterone, estrogeni e progesterone) e dall’Inibina secreta dalle gonadi. Nella donna, l’FSH permette la maturazione di un ristretto numero di follicoli all’inizio della fase follicolare del ciclo ovarico ed induce la selezione del follicolo dominante. La sua concentrazione cala progressivamente a partire dal momento dell’ovulazione fino a tornare ai livelli basali. L’FSH inoltre, controlla le vie enzimatiche che presiedono la sintesi di estrogeni a partire dagli androgeni tecali (aromatizzazione) a livello delle cellule della granulosa.

I livelli di FSH variano in funzione all’età e alla fase del ciclo mestruale. Nell’adulto, i livelli di gonadotropine risentono dell’effetto esercitato dagli ormoni sessuali e dalla gametogenesi, rappresentando un parametro affidabile e specifico della funzione gonadica [19]–[21]. Il dosaggio

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dell’FSH durante la terza giornata del ciclo mestruale è un indicatore indiretto della riserva ovarica, in quanto riflette l’effetto feedback determinato da estrogeni ed inibina-B prodotti dai follicoli antrali sotto stimolo ipofisario. Non esiste un cut-off di FSH riconosciuto a livello internazionale per definire la riserva ovarica normale o ridotta. Le variazioni all’interno delle varie fasi del ciclo ovarico e tra cicli ovarici differenti, assieme alla mancanza di precisi cut-off, costituiscono il limite principale nell’utilizzo di questo parametro nella valutazione della riserva ovarica [22].

1.1.2 La conta dei follicoli antrali

Nonostante nella pratica clinica non sia possibile effettuare una misurazione diretta dei follicoli primordiali, è stato dimostrato che il loro numero all’interno delle ovaia è proporzionalmente correlato con il numero dei follicoli antrali. La conta dei follicoli antrali (AFC) viene normalmente eseguita tramite ecografia transvaginale (TV) bidimensionale 2D) e tridimensionale (ETV-3D) e rappresenta un ottimo metodo per eseguire una valutazione quantitativa diretta della riserva ovarica [23]. Essa consiste nella valutazione ecografica del numero di follicoli con diametro compreso tra i 2 ed i 10 mm. La conta follicolare viene considerata normale se la somma dei follicoli presenti nelle due ovaie è > 10. Valori di AFC inferiori a 10 riflettono una riserva ovarica

ridotta, mentre valori compresi tra 4-6 rappresentano una riserva ovarica critica. La misurazione effettuata nella fase follicolare precoce mostra una ridotta variabilità tra ciclo e ciclo [24]. La conta dei follicoli antrali tramite ecografia transvaginale 2D (Figura 3), pur essendo operatore dipendente, rappresenta il gold standard.

L’introduzione dell’ecografia 3D alla fine degli anni ’80 ha permesso l’acquisizione e l’analisi dei diametri standardizzata. Grazie all’impiego di specifici algoritmi per il calcolo del volume all’interno della pratica clinica, si è ora in grado di valutare le ovaia con una maggiore sensibilità ed accuratezza. L’ecografia 3D è accurata ed affidabile e permette di ridurre la variabilità inter operatore [25].

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1.1.3 L’ormone antimülleriano (AMH)

Ormone glicoproteico prodotto dalle cellule della granulosa dei follicoli preantrali e dai piccoli follicoli antrali, l'AMH viene secreto a partire dall'inizio della crescita del primo follicolo primordiale e continua fino a che i follicoli sono capaci di rispondere all’FSH, ossia fino a che non raggiungono una dimensione pari a circa 4-6 mm [26]. L’AMH è quindi un marker indiretto del numero di follicoli primordiali quiescenti e per estensione del potenziale numero di follicoli antrali e di ovociti presenti nelle ovaia di una donna [27]–[29]. La concentrazione di AMH è indipendente dalle gonadotropine e non mostra variazioni signficative nelle varie fasi del ciclo mestruale e tra i vari cicli [30]. L’espressione dell’AMH si osserva già a partire dalla 36° settimana gestazionale, successivamente i livelli sierici aumentano gradualmente fino ai primi 3-4 anni di vita per mantenersi poi stabili fino alla pubertà. Dato che il numero e la qualità degli ovociti

diminuiscono durante il corso della vita della donna, le concentrazioni sieriche di AMH

diminuiscono gradualmente fino a diventare indosabili al momento dell’insorgenza della menopausa. [33].

1.2

La riduzione della riserva ovarica

L’invecchiamento riproduttivo è determinato dal progressivo calo del pool follicolare, fino all’esaurimento della riserva ovarica, determinando generalmente l’inizio della menopausa. La riduzione della quantità e della qualità degli ovociti è una condizione che viene considera fisiologica a partire dai 40 anni di età e che viene definita con il termine “ridotta riserva ovarica” (Diminished Ovarian Reserve: DOR) [34]. Come specificato dal Practice Commitee dell’ASRM nel 2012, la definizione di DOR non è standardizzata né specifica e la sua incidenza è sottostimata

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[35]. Tuttavia, nella pratica clinica la riserva ovarica ridotta è diagnosticata tramite l’alterazione dei vari test di riserva ovarica con: elevazione non menopausale dei livelli di FSH, riduzione della AFC e dell’AMH [36]–[38]. Tra i vari test, sembra che la riduzione dei livelli di AMH si presenti più precocemente rispetto alla crescita dell’FSH [40]. È importante ricordare che non esistendo un test altamente specifico per valutare la riserva ovarica, il giudizio clinico è fondamentale (Figura 4).

Figura 3: Test di riserva ovarica ridotta [41]

Si stima che circa l’1% delle donne vada incontro ad esaurimento ovarico prima dei 40

anni e lo 0,1% prima dei 30. Tale condizione patologica viene chiamata insufficienza

ovarica precoce (POI), in inglese Premature Ovarian Failure [11], [42].

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1.3 Insufficienza ovarica precoce

L’insufficienza ovarica precoce (POI) è una condizione clinica caratterizzata dalla cessazione della funzionalità ovarica prima dei 40 anni a causa di un prematuro esaurimento del numero di follicoli primordiali costituenti il pool della riserva ovarica [43]. La POI si associa ad amenorrea per almeno 4 mesi contestualmente all’elevazione dei livelli di FSH > 40 IU/l (ipogonadismo ipergonadotropo) [44]. L’incidenza nelle donne di ipogonadismo ipergonadotropo prima del compimento del 40° anno di età è del 1-2% [45]. La diagnosi tempestiva di POI rimane ad oggi estremamente difficile, data l’eterogeneità della presentazione e la scarsa conoscenza della patologia. L’esatta eziologia della POI nella maggior parte dei casi rimane incerta, anche se una serie di cause specifiche sono state identificate.

Le forme spontanee di insufficienza ovarica precoce includono patologie genetiche (Sd. Turner e X-Fragile), autoimmuni (APS, Addison, Sd. da anticorpi anti-Ovaio…), infiammatorie, deficit enzimatici o metabolici specifici e più spesso cause idiopatiche [47], [48].

Le forme acquisite di POI sono da attribuirsi prevalentemente a processi iatrogeni conseguenti a trattamenti oncologici di tipo chirurgico, chemioterapico e radioterapico.

Dal punto di vista della salute e del benessere delle pazienti, la comparsa di POI presenta delle conseguenze a breve e lungo termine. La sintomatologia è altamente variabile e può includere manifestazioni correlate all’ipoestrogenismo come anche manifestazioni caratteristiche della condizione che ha scatenato il manifestarsi della POI.

Conseguenze a lungo termine della POI

Le conseguenze a lungo termine della POI comprendono infertilità, osteoporosi, disturbi cardiovascolari, neurologici e aumento del rischio di morte prematura (Figura 5) [50]. Inoltre, le donne con POI, spesso, presentano problemi psicologici associati all’inaspettata diagnosi.

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Figura 4: Conseguenze a lungo termine dell’insufficienza ovarica precoce [51]

Fertilità: La rapida e anticipata conclusione della vita riproduttiva della donna affetta da POI è una

delle sequele più stressanti che accompagnano la paziente in seguito a tale diagnosi. Anche se la fertilità di queste pazienti risulta marcatamente ridotta, circa il 25% delle POI ha andamento intermittente ed imprevedibile delle ovulazioni e si calcola che le chance di gravidanze spontanee siano tra il 4 ed il 10% [50], [52]. Purtroppo non ci sono trattamenti, oltre alla ovodonazione, che incrementino la capacità procreativa delle donne con POI [53], [54].

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2. Patologie oncologiche in età riproduttiva

Nel 2018 in Italia sono stati diagnosticati circa 373.000 nuovi casi di tumore maligno, di cui 194.000 negli uomini e 178.000 nelle donne.

L’incidenza delle varie patologie neoplastiche risulta influenzata oltre che dal genere, anche dall’età: si stima che circa il 10% di tutti i tumori venga diagnosticato durante l’età riproduttiva. I dati raccolti dal National Cancer Institute dal 2007 fino al 2011 sulla frequenza delle varie neoplasie prima dei 45 anni (Figura 15), evidenziano come il carcinoma mammario rappresenti la neoplasia più frequente (41% di tutte le diagnosi tumorali nella donna giovane), seguito da tumore al polmone, carcinoma colon-rettale, carcinoma ovarico, uterino e cervicale. [62]

La percentuale di sopravvivenza delle pazienti tra i 15 ed i 45 anni è passata da 1/1.000 nel 1990 a 1/250 nel 2010 [63] ed è tutt’ora in aumento.

Questo costante incremento dell’aspettativa di vita rende ragione del crescente di donne che si trova ad affrontare le conseguenze a lungo termine dei trattamenti antineoplastici, incluso l’esaurimento ovarico precoce (POI).

In campo oncologico, le principali indicazioni alla tutela della funzionalità ovarica ed alla preservazione della fertilità sono rappresentate dalle pazienti affette da neoplasie Ematologiche (Linfoma di Hodgkin, Linfoma Non Hodgkin e Leucemie), dalle pazienti con neoplasia Mammaria e dalle pazienti con tumori ginecologici (Carcinoma Ovarico, Uterino e della Cervice) [65].

Queste neoplasie infatti, comportano l’utilizzo di chemioterapie, radioterapie, ed interventi chirurgici, che compromettono maggiormente la funzionalità ovarica, determinando un elevato tasso di incidenza di POI [66]. [67]. I trattamenti antineoplastici che hanno il maggior impatto gonadotossico sono le radiazioni a livello ipotalamico in dose superiore a 30 Gray (Gy), le irradiazioni a livello ovarico ed uterino maggiori di 5 Gy, l’utilizzo di agenti chemioterapici alchilanti ed il trattamento con ciclofosfamide [68].

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L

a classificazione del rischio di insorgenza di POI è stata stabilita secondo il tasso di amenorrea

permanente (Figura 6) [65].

Tuttavia, alcune terapie possono determinare una importante deplezione della riserva follicolare senza la concomitante assenza di cicli mestruali, pertanto la fertilità potrebbe già essere severamente compromessa da anni prima del momento della scomparsa dei cicli. [77], [78].

Figura 5: Valutazione del rischio di POI iatrogena secondo il tasso di amenorrea [65]

2.1 Il Carcinoma Mammario

La neoplasia femminile più frequente è il carcinoma della mammella, che rappresenta il 41% di tutte le diagnosi di tumore nelle donne tra gli 0 ed i 45 anni. In Italia solo nel 2018 sono state registrate circa 52.800 nuove diagnosi [79].

Il carcinoma mammario presenta numerosi fattori di rischio: età, etnia, pregressa patologia mammaria benigna, pregresso carcinoma mammario o familiarità, mutazione dei geni BRCA1 e 2, esposizione a livelli ormonali elevati, a radiazioni ionizzanti e a svariati fattori ambientali.

Il 91% di sopravvivenza a 5 anni nelle giovani donne rende mandatoria una attenta pianificazione degli effetti collaterali delle terapie comunemente utilizzate nel trattamento della neoplasia.

La maggior parte dei tumori mammari nelle giovani donne sono ormonosensibili (70% circa), esprimendo recettori per estrogeni e progesterone.

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2.2 Neoplasie Ematologiche

Globalmente, le patologie ematologiche maligne rappresentano circa il 7-9% nei nuovi casi di tumore nelle donne. Le forme più comuni sono i linfomi (48%), le leucemie (35%) ed il mieloma (18%). Linfomi e leucemie sono patologie che insorgono precocemente nell’infanzia, nell’adolescenza e durante l’età riproduttiva. [81]. Il tasso complessivo di sopravvivenza a 5 anni è salito fino al 80% per i linfomi ed al 60% per le forme leucemiche [82].

2.2.2 Linfoma Non-Hodgkin (NHL)

I NHL si manifesta tendenzialmente negli adolescenti e nei giovani adulti. Sebbene l’incidenza dei NHL nella popolazione generale sia più alta rispetto al linfoma di Hodgkin, questo rapporto si inverte nei pazienti con meno di 20 anni. I NHL hanno una aspettativa cumulativa di vita del 69% a 5 anni nella popolazione generale. Questo dato sale fino all’84% per pazienti donne attorno ai 20 anni [81]–[85]. Sfortunatamente, la maggioranza dei regimi chemioterapici utilizzati per i NHL come CHOP (cyclofosfamide, hydroxydaunorubicina, oncovina, prednisone) e R-CHOP (rituximab, cyclofosfamide, hydroxydaunorubicina, oncovina, prednisone) includono agenti alchilanti (cyclofosfamide). L’accumulo di agenti alchilanti determina maggiori effetti gonadotossici e consequenzialmente POI iatrogena nel 80% dei casi [84].

2.2.3 Linfoma di Hodgkin (LH)

Il Linfoma di Hodgkin viene diagnosticato prevalentemente in giovani adulti, con età media di insorgenza di circa 35 anni [86]. Il trattamento sistemico per questa patologia fino a pochi anni fa, prevedeva l’utilizzo di agenti alchilanti, farmaci ad elevato potere gonadotossico . Attualmente, a seconda dello stadio di presentazione della neoplasia, vengono utilizzati vari regimi come irradiazioni locali, chemioterapia e nei casi più gravi, trapianto di cellule staminali (HSCT). Lo

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schema chemioterapico di prima linea per il trattamento del LH è rappresentato dal regime ABVD (Doxorubicina, Bleomicina, Vinblastina e Dacarbazina), che garantisce la sopravvivenza libera da malattia nel 75% dei pazienti [87] ed è associato ad una gonadotossicità inferiore rispetto ai trattamenti utilizzati in passato [88]. I pazienti con un elevato rischio di recidiva possono beneficiare di una intensificazione dei trattamenti, come lo schema BEACOPP (bleomicina, etoposide, doxorubicina, cyclofosfamide, vincristina, procarbazina e prednisolone) che è però associato ad altissimi tassi di infertilità, inducendo amenorrea nel 95% delle pazienti con più di 30 anni [75].

2.2.4 Leucemia Acuta

La Leucemia Linfatica Acuta (ALL) ha un tasso di sopravvivenza medio a 5 anni del 68,1% che sale al 90% nelle pazienti con meno di 20 anni, mentre la Leucemia Mieloide Acuta (AML) raggiunge appena il 60% nella stessa categoria di pazienti [81], [82], [85]. Fortunatamente i trattamenti disponibili per queste patologie non prevedono agenti alchilanti, rendendo il trattamento sicuro dal punto di vista riproduttivo. Unica eccezione è rappresentata dalla necessità di ricorrere al trapianto di cellule staminali ematopoietiche (HSCT), preceduto da chemioterapie estremamente gonadotossiche [80], [89]–[93].

2.2.5 Il trapianto di cellule staminali Ematopoietiche (HSCT)

Il trapianto di cellule staminali viene riservato alle pazienti con linfomi o leucemie refrattarie ai trattamenti meno tossici e a quelle che presentino recidiva. In questi casi, si è costretti ad utilizzare regimi mieloablativi che inducano immunosoppressione, prima di procedere con il HSCT. I regimi pre-trapianto spesso includono radiazioni total body (TBI) e/o dosi massicce di agenti alchilanti, rendendo questa procedura sterilizzante nel 100% dei casi [94]–[97].

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2.3 Neoplasie Ginecologiche

Le neoplasie ginecologiche rappresentano un sottogruppo particolare a causa del coinvolgimento diretto degli organi dell’apparato riproduttivo femminile, in quanto il loro trattamento può comportare la rimozione dell’organo riproduttivo e/o irradiazione pelvica. Le indicazioni alla chirurgia fertility sparing sono ancora limitate. Nella tabella 1 sono riassunte le raccomandazioni AIOM 2018 alla chirurgia fertility sparing.[107]

2.3.1 Il carcinoma della Cervice

Secondo i dati raccolti dal National Cancer Institute (NCI) dal 2007 al 2011, le pazienti con meno di 20 anni rappresentano lo 0,1% delle diagnosi, quelle con età compresa tra i 20 ed i 34 anni rappresentano il 13,8% mentre quelle tra i 35 ed i 44 rappresentano il 24,9%, per un totale di 17.233 nuovi casi all’anno [82]. Grazie alla diffusione delle vaccinazioni contro i ceppi a maggior rischio di HPV (16 e 18), ci si aspetta un importante calo dell’incidenza e della mortalità [98]. Per le pazienti in età fertile con stadio IA o IB1, la chirurgia fertility sparing rappresenta una nuova alternativa terapeutica che risparmia l’utero e permette una futura gravidanza; la tecnica prevede la rimozione del focolaio neoplastico attraverso conizzazione coldknife o trachelectomia e asportazione dei linfonodi pelvici per via laparoscopica. Generalmente, i chemioterapici utilizzati sono il cisplatino, combinato con il 5-Fluorouracile [99]–[101].

2.3.2 Il carcinoma endometriale

Secondo i dati raccolti dal NCI dal 2007 al 2011, la pazienti tra i 20 ed i 34 anni, rappresentano l’ 1.6% dei nuovi casi di carcinoma endometriale, mentre le donne in fascia di età 35-44 ne costituiscono il 5,6%, per un totale di 57.667 nuovi casi.

Le giovani donne a maggior rischio sono quelle con BMI > 30, con cicli cronicamente anovulatori come nella sindrome dell’ovaio policistico, o con sindromi familiari come la Sd. Lynch [103].

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Opzioni di fertility sparing che preservino l’utero sono indicate per categorie di pazienti ben selezionate con basso rischio di recidiva e carcinoma confinato all’endometrio. Queste tecniche prevedono la somministrazione di alte dosi di terapia progestinica (Megesterolo per os o Levonorgestrel intra uterino) con stretto follow-up [104].

2.3.3 Carcinoma Ovarico

I dati del NCI raccolti dal 2007 al 2011 hanno rilevato un’incidenza dal 1,2% nelle pazienti con età inferiore a 20 anni, del 3,7% tra i 20 ed i 34 anni e del 7,2% tra i 35 ed i 44 anni, per un totale di 29.010 nuovi casi annui.

Gli istotipi di neoplasia ovarica più frequenti in età riproduttiva sono quelle derivanti dalle cellule dello stroma e dalla linea germinale. I tumori della linea stromale comprendono i tumori delle cellule della granulosa, tecomi, fibromi, delle cellule del Sertoli e del Sertoli-Leydig. I tumori della linea germinale includono i disgerminomi, tumori del sacco vitellino, coriocarcinoma e teratoma. Sono spesso indicazione alla chirurgia fertility sparing nelle giovani donne le neoplasie ovariche epiteliali borderline e i carcinomi in stadio Ia e in casi selezionati Ic G1.

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Tabella 1: Indicazioni alla chirurgia ginecologica fertility sparing [107]

TUMORE ISTOTIPO STADIO ALTRI

PARAMETRI INTERVENTO DATI DISPONIBIL I CERVICE Carcinoma squamoso o adeno carcinoma o carcinoma adeno - squamoso IA1 -invasione stromale < 3 mm; -spazi linfovascolari non coinvolti; -margini negativi; -curettage negativo Conizzazione Ampia e dettagliata -IA1 con LVSI -IA2 -IB1 (<2cm) -diametro < 2 cm; -invasione stromale < 10 mm; -diametri superficie maggiori con invasione minore e LVSI negativo Trachelectomia radicale > 2000 casi Trachelectomia semplice > 500 casi IB1 > 2cm Chemio - conizzazione 294 casi OVAIO BORDERLINE Borderline Tutti gli stadi -impianti non invasivi del tutto resecabili; -parte di ovaio sano. Tumorectomia o salpingo ovariectomia monolaterale Ampie casistiche OVAIO INVASIVO Tumori non epiteliali Tutti gli stadi Monolaterale Ovariectomia monolaterale + staging Tumori epiteliali Ia G1 (G2) Salpingo ovariectomia monolaterale + staging > 1000 casi Ic Interessamento ovarico unilaterale e istologia favorevole G1 Salpingo ovariectomia monolaterale + staging + trattamento chemioterapico adiuvante a base di platino

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3. Gli effetti gonadotossici dei trattamenti antineoplastici

La fertilità può essere compromessa da qualsiasi trattamento che riduca il numero dei follicoli primordiali, che colpisca l'equilibrio ormonale o che interferisca con il funzionamento delle ovaie, delle tube, dell’utero o della cervice. Cambiamenti anatomici o della vascolarizzazione a carico delle strutture genitali (chirurgia e/o radioterapia) possono impedire il concepimento naturale e il successo della gravidanza anche in presenza di funzione ovarica conservata. Un qualsiasi declino della riserva ovarica può tradursi in minori probabilità di concepimento e in maggior rischio di menopausa precoce: anche se le donne sono inizialmente fertili dopo i trattamenti antitumorali, la durata della loro fertilità può essere abbreviata. Sono stati studiati dei modelli di previsione del decadimento della funzionalità ovarica e del precoce invecchiamento ovarico iatrogeni, con conseguente accorciamento della finestra riproduttiva (Figura 6).

(22)

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Figura 6: Declino della riserva ovarica con l'età

3.1

Fattori che influenzano la gonadotossicità

Il counseling riproduttivo della paziente oncologica dovrebbe tenere in considerazione l’età, il tipo e la dose di terapia prevista, l’istotipo e la localizzazione del tumore, i livelli basali di AMH, il desiderio riproduttivo ed il rischio di coinvolgimento ovarico nei tumori ormono sensibili. (Figura 8). La discussione con la paziente deve essere precoce e riguardare l’impatto delle terapie sulla funzione ovarica, sul potenziale riproduttivo e sulle conseguenze sulla salute globale della donna [109].

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Figura 6: Considerazioni per il counseling delle pazienti in procinto di iniziare terapie anti

neoplastiche

3.1.1 Età

L’età della paziente al momento della chemioterapia è il fattore più importante per determinare la prevalenza, la durata e la reversibilità dell’amenorrea chemio indotta, in quanto correla in modo inversamente proporzionale alla probabilità di amenorrea post trattamento. Nelle donne con carcinoma mammario, il tasso di insufficienza ovarica iatrogena risulta essere del 15%-40% per le pazienti con meno di 30 anni ed aumenta drammaticamente al 49%-100% nelle pazienti con più di 40 anni (Figura 9) [110]. Il motivo per questa grossa differenza fra le varie fasce di età è verosimilmente da ricercarsi nella maggiore riserva ovarica basale delle pazienti più giovani. Secondo lo studio condotto da Oktem e da Otkay, la gonadotossicità di alcuni regimi terapeutici potrebbe determinare un invecchiamento ovarico di circa 10 anni in termini di riserva ovarica [111].

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Figura 8: Rischio di infertilità nelle pazienti con carcinoma mammario per età

Secondo i dati riportati dalla ricerca di Ruddy e colleghi nel 2014, ogni incremento di 1 anno di età si traduce in un 18% in più di probabilità di sviluppare amenorrea post chemioterapia a 18 mesi di distanza [114].

Ad ogni modo, a prescindere dall’età, si prospetta l’insorgenza anticipata della menopausa a tutte le donne anche prepuberi che siano state sottoposte ad agenti gonadotossici. Di conseguenza, la preservazione della fertilità dovrebbe essere offerta il più precocemente possibile a tutte le pazienti, indipendentemente dall’età [115].

3.1.2 La riserva ovarica

In letteratura sono riportati moltissimi studi in cui viene valutato il potere predittivo dei marker di riserva ovarica per la valutazione dello sviluppo di insufficienza ovarica nelle pazienti con carcinoma mammario. Al contrario, sono pochi gli studi finalizzati alla validazione di tale correlazione anche in altre tipologie di patologie neoplastiche, per cui l’affidabilità dei marker di riserva ovarica come predittivi generalizzati di amenorrea, non è ancora sufficientemente chiara. Svariati lavori hanno dimostrato che i valori di AMH pretrattamento possono essere un valido indicatore di amenorrea da 1 a 5 anni dopo la fine delle terapie tumorali [114], [120]–[125]. Anderson et Al., utilizzando una classificazione a mosaico basata sui valori pretrattamento di età

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(maggiore o minore di 38,6 anni) e AMH, ha riportato un 98,2% di sensibilità e un 80% di specificità per il recupero dell’attività ovarica. AMH < 3,8 pmol/l, era un predittivo per amenorrea permanente, mentre AMH > 20,3 pmol/l risultava predittivo per il ripristino del ciclo ovarico (Figura 23). D’Avila et Al., ha suggerito che per pazienti con età maggiore a 32 anni, le strategie di tutela della fertilità dovrebbero essere messe in atto qualora i livelli basali di AMH fossero inferiori a 3.32ng/mL (23.7 pmol/l). Una così forte correlazione tra marker ovarico e recupero della funzionalità ovarica non è altrettanto evidente per FSH o Inibina [126]. Per quanto riguarda la AFC, valori < 8 o 9, sono risultati predittivi di amenorrea post terapia, mentre ad una AFC > 19 corrisponde il recupero dell’attività [122], [123].

L’amenorrea chemioindotta provocata da insufficienza ovarica acuta è un evento frequente, tuttavia molte donne manifestano un recupero tardivo dell’attività ovarica: anche questa ripresa risulta strettamente associata all’età della paziente [127]. L’insufficienza ovarica precoce che ne deriva, può essere immediata e permanente se il pool di follicoli primordiali si esaurisce completamente oppure può verificarsi a distanza di anni dalla fine delle terapie gonadotossiche, a causa di una perdita parziale di follicoli (Figura 9).

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Figura 7: Effetto gonadotossico sull’ovaio [128]

In Figura 10 è riportato lo schema della deplezione follicolare da insulto gonadotossico. Le tre linee rappresentano una donna con una riserva ovarica alta, normale e bassa (con relative concentrazioni di AMH). Il trattamento antineoplastico produce una rapida caduta di questi livelli in tutti e 3 i gruppi di donne. Le pazienti con bassa riserva ovarica (linea rossa), hanno maggiori probabilità di sviluppare POI durante il trattamento e che questa persista alla fine delle terapie. Per contro, le donne dotate di alta riserva ovarica mostrano molta variabilità nel recupero della funzione gonadica ed alcune svilupperanno POI più precocemente di altre.

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Figura 10 : Effetto gonadotossico sulla riserva ovarica [124]

3.1.3 Tipo di Neoplasia

La valutazione della correlazione tra tipo di neoplasia e rischio di insufficienza ovarica, ha mostrato diversi tassi di declino della funzione ovarica nel confronto tra le varie patologie. Specificamente, nello studio di Meirow et Al., solo il 14,9% delle LAM ha mostrato segni di insufficienza ovarica acuta post chemioterapia. Al contrario, il tasso di POI iatrogena è stato del 44,4% per i NHL, del 31,9% per LH e del 50% per le pazienti con neoplasia mammaria. Questa differenza tuttavia, non sembra da attribuire alla neoplasia di per sé, ma al differente approccio terapeutico che ciascun tumore comporta [129].

3.1.4 Schema terapeutico e dose ricevuta

L’impatto dei trattamenti citotossici sull’ovaio può variare dall’essere totalmente inerte al determinare la completa atrofia ovarica, passando per stadi intermedi di danno parziale e riduzione della fertilità [130], [131]. Il grado di danneggiamento ovarico e la conseguente infertilità dipende in grossa misura dal tipo di chemioterapico utilizzato e dalla dose ricevuta oltre che dall’età della

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paziente [132]–[136]. Secondo questi parametri, il rischio individuale di sviluppare POI può essere distinto in basso (<20%), medio (20-80%) e alto (>80%) [92].

Si possono identificare sette principali famiglie di farmaci chemioterapici. Ciascuna famiglia viene identificata sulla base del modello di azione: agenti alchilanti, derivati del platino, antracicline antibiotiche, alcaloidi, antimetaboliti, taxani e agenti biologici.

1.

Gli agenti alchilanti sono estremamente dannosi per l’ovaio e sono i principali responsabili del fallimento ovarico [137]–[139].

2.

I composti a base di platino come il cisplatino comportano un rischio moderato di amenorrea. Il cisplatino induce danni a livello del DNA ovocitario, probabilmente attraverso la via delle tirosinchinasi c-abl e attraverso l’attivazione di p63, producendo elevati tassi di abortività e aneuploidie negli embrioni[129], [140]–[143].

3.

Le antracicline antibiotiche come la doxorubicina (DXR) determinano danni ossidativi, mutazioni della fase luteale ed incremento dei tassi di aneupolidia negli ovociti. Clinicamente il loro impatto sulla fertilità rientra tra i farmaci a medio o basso rischio. Uno studio del 1986 ha riscontrato che il tasso di amenorrea nelle pazienti trattate con doxorubicina varia in correlazione all’età della paziente. Donne con età < 30 anni hanno riportato lo 0% di possibilità di amenorrea, 33% per le donne tra i 30 ed i 39 e 96% sopra i 40 anni [110], [144]–[146].

4.

Gli alcaloidi come la vinblastina sono considerati induttori di aneuplidie, mentre il tasso di insufficienza ovarica non sembra essere aumentato [129], [144], [148].

5.

Nonostante la scarsa disponibilità di dati che analizzino l’effetto degli antimetaboliti sull’ovaio, sembra che questi non abbiano un significativo impatto sulla fertilità. L’utilizzo di metotrexate e 5FU assieme agli agenti alchilanti non incrementa l’occorrenza di insufficienza ovarica post trattamento. Il metotrexate viene

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29

comunemente utilizzato per trattare la gravidanza ectopica senza alcun effetto sulla fertilità [149]–[151].

6.

In letteratura esistono solamente dati limitati e contrastanti sull’effetto della famiglia dei taxani sull’attività ovarica. Mentre molti studi hanno riscontrato basso o nullo incremento del rischio di amenorrea [152]–[156], altri hanno documentato una tossicità gonadica analizzando l’incremento dei valori di FSH [131] e l’incidenza di amenorrea secondaria [127], [154].

7.

Le terapie con farmaci biologici sono relativamente nuove ed il loro utilizzo come farmaci antineoplastici è in crescita. I biologici sono agenti progettati per interferire in maniera specifica con le molecole espresse dal tumore (herceptina o tamoxifene) o attivando il sistema immunitario (rituximab). Dato che questi farmaci sono entrati nella partica clinica da poco tempo, non ci sono ancora sufficienti dati per poter stabilire il loro effetto sull’ovaio, seppur questo sembri improbabile considerando che sono studiati per avere un effetto target specifico. È da considerare però che questi farmaci sono generalmente somministrati come adiuvanti per lunghi periodi di tempo dopo l’inizio delle terapie e le nuove linee guide suggeriscono di estendere la durata oltre i 5 anni [157]. Dato che i farmaci biologici sono teratogeni e non possono essere assunti durante la gravidanza, l’utilizzo di queste molecole obbliga a posticipare la ricerca della gravidanza ed espone quindi la paziente al declino della fertilità correlato all’invecchiamento.

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Figura 8: rischio di POI per le terapie antineoplastiche

3.1.5 Effetti della radioterapia sulla fertilità

A differenza delle terapie citotossiche, l’effetto gonadotossico della radioterapia è molto più prevedibile. Gli ovociti e le cellule dello stroma ovarico sono estremamente sensibili alle radiazioni. Wallace et Al., utilizzando una equazione matematica, hanno calcolato che la dose richiesta per distruggere il 50% degli ovociti (LD50) è inferiore ai 2 Gy [189]. Gli stessi autori, in uno studio di follow up, hanno calcolato la dose di radiazione che porterebbe ad insufficienza ovarica acuta in 97,5% delle pazienti in relazione all’età: alla nascita servono 20.3 Gy, a 10 anni 18.4 Gy, a 20 anni 16,5 Gy e a 30 bastano solamente 14,3 Gy [190]. Si può dunque concludere che tutte le terapie radianti in regione pelvica, causano probabilmente un danno ovarico.

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4. Tecniche di preservazione della fertilità

Un numero sempre maggiore di cancer survivor si rivolge ai Centri di Medicina della Riproduzione per problemi di infertilità. La principale causa della ridotta fertilità in queste coppie deriva dagli effetti gonadotossici delle terapie. Considerando che l’impatto delle terapie oncologiche sull’attività ovarica è stato largamente dimostrato, le opportunità per minimizzare e prevenire le disfunzioni ovariche sono oggetto di grande interesse per la comunità scientifica del settore. Le principali preoccupazioni che riguardano la paziente oncologica sottoposta a stimolazione ovarica riguardano i possibili effetti negativi della neoplasia in sé sulla fertilità, nonché gli effetti negativi dei trattamenti antineoplastici sulla fertilità, sulla gravidanza e sulla futura prole, gli effetti che una eventuale gravidanza potrebbe avere in pazienti con diagnosi di neoplasia ormono sensibile (Figura 32).

Le strategie di tutela della fertilità dovrebbero sempre essere discusse con i pazienti oncologici ed offerte prima dell’inizio delle terapie. È pertanto indispensabile prevedere, per questi pazienti, dei percorsi diagnostici, terapeutici e assistenziali condivisi in grado di assicurare loro un percorso privilegiato e tempestivo per l’attuazione delle strategie di preservazione della fertilità, e che consenta contemporaneamente l’accesso ai trattamenti oncologici nei tempi appropriati, senza ritardi che possano comprometterne l’efficacia. Questo risulta particolarmente importante per le pazienti oncologiche pediatriche. Terminati gli opportuni trattamenti antineoplastici, laddove le condizioni cliniche lo consentano, i pazienti potranno ricorrere alle tecniche di fecondazione assistita con i gameti precedentemente prelevati e crioconservati. Le strategie di preservazione della fertilità nelle giovani donne che devono sottoporsi a trattamenti antitumorali dipendono da diversi fattori: età e riserva ovarica della paziente, tipo di trattamento, diagnosi, presenza o meno di un partner, tempo a disposizione prima di iniziare il trattamento, e rischio tumore-specifico che la neoplasia abbia dato metastasi alle ovaie. Le principali tecniche di preservazione della fertilità, standard e sperimentali, nelle pazienti oncologiche sono rappresentate da: crioconservazione di

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embrioni o ovociti, crioconservazione di tessuto ovarico, soppressione gonadica con GnRH analoghi, trasposizione ovarica, e chirurgia conservativa (Figura 14). Tra le tecniche di crioconservazione, solo la crioconservazione di embrioni e la crioconservazione di ovociti maturi sono considerate tecniche standard. Tuttavia, la crioconservazione di tessuto ovarico, sebbene ancora considerata sperimentale, viene comunemente proposta come alternativa quando non è possibile effettuare la stimolazione ovarica. La crioconservazione di ovociti immaturi o maturati in vitro è una tecnica ancora sperimentale, offerta solo in pochi centri con esperienza specifica. Nella donna l’utilizzo di alcune di queste tecniche necessita di alcune settimane: da qui l’importanza di avviare le pazienti il più precocemente possibile a un counseling riproduttivo per non ritardare l'inizio delle terapie antitumorali.

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4.1

Trasposizione ovarica

I tumori che richiedono la trasposizione ovarica nelle pazienti adulte sono il tumore della cervice e del retto, pertanto nella maggior parte dei casi le ovaie devono esser spostate lateralmente ed in alto.

A causa di una possibile “migrazione” delle ovaie precedentemente trasposte, questa procedura dovrebbe essere eseguita quanto più possibile vicino nel tempo al trattamento radiante stesso. Il tasso di successo di questa tecnica varia dal 33% al 91% nelle varie casistiche. I principali motivi del fallimento di questa tecnica sono rappresentati dalla possibile dispersione di radiazioni al tessuto gonadico e da una possibile alterazione della perfusione ovarica; inoltre, parametri importanti sono rappresentati dalla dose totale di radiazioni somministrate e dalla quota di esse effettivamente ricevute dall’ovaio. Anche l’età della paziente influenza il successo della metodica: non è indicato eseguire la trasposizione ovarica dopo i 38 anni [191], [192].

Per quanto riguarda la preservazione della funzione riproduttiva, esistono piccole serie di casi in letteratura che dimostrano gravidanze dopo trasposizione ovarica. I risultati migliori, con 14 gravidanze e 12 nascite su 11 pazienti trattate sono riportati in uno studio italiano [193]. In questo studio però, le ovaie erano state spostate medialmente, dietro l’utero prima di una irradiazione a Y invertita per linfoma Hodgkin e l’età media al trattamento era 13 anni (range 9-22). Le gravidanze riportate dopo trasposizione ovarica laterale in pazienti adulte sono poche. Una revisione di 8 studi con un follow-up a lungo termine di 347 donne adulte sottoposte a trasposizione ovarica per varie indicazioni, quali cancro della cervice uterina, cancro del retto, linfoma di Hodgkin, ependimoma e cancro della vagina, segnala solo 9 gravidanze [194]. Non c’è accordo sulla necessità di eseguire un intervento per riposizionare le ovaie alla fine dei trattamenti. In caso si debba ricorrere a tecniche di riproduzione assistita dopo trasposizione ovarica, il riposizionamento delle ovaie potrebbe essere indicato per facilitare il recupero degli ovociti per via transvaginale poiché il prelievo ovocitario risulterebbe più complicato per via percutanea trans-addominale. Una possibile

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complicanza della trasposizione ovarica è una disfunzione ovarica dovuta allo sviluppo di cisti con una incidenza del 14%. Le raccomandazioni AIOM alla trasposizione ovarica sono riportate nella Tabella 2.

Tabella 2: Raccomandazione clinica trasposizione ovarica [107]

Qualità globale dell’evidenza SIGN Raccomandazione clinica Forza della raccomandazione clinica D

La trasposizione ovarica deve essere proposta a tutte le giovani donne candidate a irradiazione pelvica: il tasso

di successo di questa tecnica, valutato come preservazione della funzione mestruale a breve termine,

varia dal 33% al 91% a seconda delle casistiche.

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35

4.2

Crioconservazione del tessuto ovarico

Il rischio di fallimento ovarico prematuro post-chemioterapia dipende in larga parte dall'interazione tra due fattori: tipo e dose di farmaco ricevuto ed età della paziente al momento del trattamento. La stima del rischio paziente-specifico può essere fatta valutando questi due fattori; tuttavia, a causa della variabilità inter-individuale, è consigliabile proporre tecniche di preservazione della fertilità anche quando il rischio calcolato risulterebbe moderato o basso (ad esempio in pazienti molto giovani).

Il trapianto di tessuto ovarico è una delle procedure che mirano a preservare la fertilità di queste pazienti, che può ripristinare anche la funzione endocrina dell'ovaio [264-267]. In alcune situazioni cliniche in cui la chemioterapia deve essere iniziata il prima possibile, la criopreservazione del tessuto ovarico è l'unica strategia attuabile per la tutela della fertilità. Pur persistendo l'etichetta di procedura sperimentale, è stato raccomandato di implementare questa strategia nei centri oncologici per la preservazione della fertilità, specialmente nelle pazienti prepubere o in quelle che devono sottoporsi immediatamente alla chemioterapia [268].

Per la criopreservazione del tessuto ovarico non è stato stabilito un limite superiore di età riconosciuto che garantisca un outcome di successo. La maggior parte dei clinici ritiene non utile criopreservare il tessuto oltre i 35 anni, considerando che la maggior parte delle gravidanze in letteratura sono state descritte in pazienti giovani. Tuttavia, nonostante i tassi di successo siano maggiori in pazienti più giovani di 35 anni, essendo state descritte gravidanze e nascite anche tra 35 e 39 anni, non si dovrebbe porre un limite d'età troppo stretto ma si dovrebbero valutare nella decisione anche gli altri markers di riserva ovarica.

Per quanto riguarda i pazienti oncologici pediatrici, si è assistito negli ultimi anni a un aumento della sopravvivenza a 5 anni dal 58% registrato negli anni 70' all'83% (dati 2002-2008). Nelle pazienti sopravvissute al cancro, il tasso di insufficienza ovarica (POI) acuta successiva ai

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trattamenti oncologici è del 6,3%, mentre nell'8% dei casi la POI insorge negli anni successivi. [269] Il rischio di POI iatrogena dipende in larga parte dallo schema terapeutico utilizzato, e i trattamenti con rischio superiore all'80% danno indicazione alla preservazione della fertilità a prescindere dall'età della paziente. [270] Per le pazienti pediatriche la criopreservazione di tessuto ovarico rappresenta l'unica strategia attuabile per la tutela della fertilità e in diversi centri è stata effettuata anche in bambine di età inferiore all'anno di vita. L'accesso a tale tecnica è tuttavia ancora limitato, in parte per l'etichetta sperimentale, in parte per la riluttanza a sottoporre bambine molto giovani a un ulteriore intervento chirurgico. Inoltre non sono ancora disponibili i dati sulle gravidanze ottenute da tessuto ovarico prelevato in bambine prepubere, essendo tale tecnica relativamente “giovane”. [271]

Non è ancora chiaro se il tessuto ovarico possa essere criopreservato con successo dopo la chemioterapia. Nel 2008 Abir et al. hanno dimostrato che il numero di follicoli preantrali risultava ancora alto nel tessuto dopo la chemioterapia, ma solo nelle pazienti al di sotto di 20 anni. La criopreservazione potrebbe pertanto essere proposta a pazienti giovani anche dopo la chemioterapia, ma sono ancora attesi dati clinici sui tassi di gravidanza.[272] In uno studio del 2011 di Fabbri et al. sono state analizzate la densità e qualità follicolare in biopsie ovariche pre e post chemioterapia in pazienti pediatriche: la correlazione inversa tra età e densità follicolare risultava particolarmente evidente in entrambi i gruppi di pazienti, e nonostante la ridotta qualità follicolare nelle pazienti postchemioterapia (aumentata vacuolizzazione ovocitaria e distacco dell'ovocita dalle cellule della granulosa) la densità dei follicoli risultava ancora alta, spingendo gli autori a concludere che la preservazione del tessuto ovarico andrebbe proposta anche dopo la chemioterapia in pazienti molto giovani che non abbiano avuto accesso alla tecnica prima del trattamento oncologico [273].

Il trapianto di tessuto ovarico può essere classificato come trapianto di tessuto corticale o dell'intero ovaio. Per quanto riguarda il sito di reimpianto invece, può essere definito ortotopico (nella pelvi

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stessa sull’ovaio residuo, sulla fossetta ovarica o sul legamento largo) o eterotopico (siti extrapelvici come il tessuto sottocutaneo della parete addominale o dell'avambraccio). La procedura può essere autologa (con tessuto dello stesso paziente), allogenica (da donatore), o uno xeno-trapianto (con tessuti di altre specie) [274, 275]. Attualmente nelle pazienti oncologiche viene eseguito il prelievo autologo del tessuto ovarico prima di chemio o radioterapie, con lo scopo di criopreservare tessuto ovarico normofunzionante. Al termine delle terapie antineoplastiche, il tessuto ovarico viene reimpiantato nella paziente per ripristinare sia le funzioni riproduttive che endocrine [276].

Nelle pazienti pediatriche il trapianto di tessuto ovarico crioconservato prima dei trattamenti oncologici permette inoltre, tramite la ristorazione della funzione steroidogenica, l'induzione della pubertà. In letteratura sono riportati diversi casi di induzione della pubertà tramite trapianto di tessuto ovarico. [277] In alternativa, queste pazienti possono essere sottoposte a terapia ormonale sostitutiva e induzione medica della pubertà fino al desiderio di maternità. [275].

La criopreservazione di tessuto ovarico (OTC) è attualmente considerata sperimentale da gruppi di lavoro internazionali. Tra i centri che per primi hanno riportato esperienze di OTC per la preservazione della fertilità sono da ricordare l'Università Cattolica di Louvain in Belgio nel 1995, il Groupe Hospitalier Pitie-Salpetriere di Parigi, che ha introdotto l'OCT per pazienti adulte nel 1998 e nelle ragazze prepubere nel 2000, nonché la Libera Università di Brussels nel 1999. Tutti questi centri hanno iniziato i loro programmi di OCT con il protocollo di slow freezing sviluppato da Godsen et al. [278]

Per quanto riguarda la scelta dei siti di reimpianto, essa costituisce un fattore essenziale, coinvolto sia nella longevità del trapianto che nella competenza ovocitaria. Il tessuto ovarico può essere trapiantato nel sito originario (ortotopico) o in siti alternativi (eterotopici). Il primo trapianto ortotopico di tessuto ovarico criopreservato è stato descritto da Oktay nel 2000 [280]. Per quanto riguarda i siti eterotopici, si sceglie il tessuto sottocutaneo (della parete addominale o

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dell'avambraccio) per la ridotta invasività e la facilità dell'accesso chirurgico; da alcuni autori è stato descritto un trapianto eterotopico associato a un trapianto ortotopico, come da Callejo nel 2001 [281], Oktay nel 2001, 2003 e nel 2006 [282-284], Wolner-Hanssen nel 2005 [285] e Demeestere nel 2006 [286]. Sono stati testati anche altri siti eterotopici, come l'utero, il muscolo retto dell'addome, lo spazio tra il tessuto mammario e la fascia superficiale del muscolo pettorale, il tessuto sottoperitoneale tra la fascia addominale nell'area tra l'ombelico e l'osso pubico. [275]

Con una grande variabilità interindividuale, dopo l'autotrapianto ortotopico di corticale ovarica criopreservata, la funzione ovarica può ristabilirsi entro 2-9 mesi e persistere fino a sette anni.

Nel 2015 è stata riportata la prima nascita dopo trapianto di corticale ovarica criopreservata durante l'infanzia [287]. La sopravvivenza del tessuto trapiantato è influenzato da una serie di fattori, come l'età della paziente al momento del prelievo di tessuto, dal tipo di terapia gonadotossica e al volume di tessuto ovarico trapiantato, tuttavia non è sempre facile stabilire una correlazione tra questi fattori e la durata del tessuto trapiantato. Sia la chemioterapia precedente alla criopreservazione sia il sito di reimpianto possono interagire con il processo di rivascolarizzazione del tessuto trapiantato. Inoltre, la procedura di criopreservazione in sé, come anche la chemioterapia pregressa, possono interferire con la neovascolarizzazione attraverso un meccanismo di danno corticale, che induce un aumentato tasso di fibrosi nel trapianto [275].

Nelle pazienti sottoposte al trapianto di tessuto ovarico, nonostante il ripristino del ciclo mestruale, si osservano spesso alti livelli basali di FSH, il che rifletterebbe la scarsa riserva ovarica [279]. La persistenza di livelli elevati di FSH è legata probabilmente alla scarsa qualità ovocitaria e a un inadeguato stadio maturativo degli ovociti [275].

Fino ad ora, la maggior parte delle gravidanze descritte in letteratura sono state ottenute dopo trapianti ortotopici, sia da concepimento spontaneo (Donnez et al. 2004; Demeestere et al. 2007; Silber et al. 2008) che da tecniche di procreazione in vitro (Meirow et al. 2005; Andersen et al.

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2008). Nel 2005 Meirow et al. hanno descritto la prima nascita dopo PMA in una paziente sottoposta a trapianto ortotopico di tessuto ovarico per insufficienza ovarica precoce dopo chemioterpia. In un ciclo naturale modificato è stato recuperato un singolo ovocita maturo, nove mesi dopo il reimpianto del tessuto, con la formazione di un embrione di 4 cellule traferito in utero in seconda giornata [266].

Dopo il trapianto eterotopico di tessuto ovarico criopreservato, è mandatorio ricorrere alla fecondazione in vitro. Nel 2014 si è ottenuta la prima gravidanza da questa tecnica, con la nascita di due gemelli [288].

Sulla base dei dati della letteratura, i tassi di reimpianto di tessuto ovarico dopo criopreservazione sono piuttosto bassi, oscillando tra il 3 e il 5%. Ciò nonostante, il 30% delle pazienti che si sottopongono al trapianto di tessuto ottengono una gravidanza, con una pregnancy rate del 27-33% riportata nei tre principali centri europei di preservazione della fertilità. Questo ha portato, nel mondo, alla nascita di più di 130 bambini da questa tecnica. [289-292]

La tecnica standard di prelievo di tessuto ovarico prevede, per via laparoscopica, l'asportazione con forbici a freddo di una striscia di corticale ovarica per ciascun ovaio, lungo una linea che connette il legamento infundibolo pelvico con il legamento utero-ovarico.

Nelle bambine, a causa delle dimensioni ridotte delle ovaie, la tecnica chirurgica raccomandata è l'ovariectomia con successiva decorticazione ovarica e non l'asportazione bilaterale di ampie porzioni di corticale, per evitare esiti aderenziali a carico di entrambe le ovaie [293]. In uno studio del 2019 su 64 pazienti tra i 5 mesi e i 23 anni, infatti, l'ovariectomia monolaterale è stata la tecnica scelta nel 84% dei pazienti [270] Inoltre, nelle pazienti pediatriche la laparoscopia per il prelievo di tessuto ovarico viene spesso associata ad altre procedure che richiedono l'anestesia generale (es. prelievo di midollo osseo), con brevissimo tempo di intervento (media di 30 minuti) e di recupero delle pazienti (dimissione entro 24 ore nel 96% dei casi) [270].

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Figura 13 : Crioconservazione e OCT del tessuto ovarico

Il tessuto ovarico può essere criopreservato con tecnica di slow freezing o con vitrificazione; tuttavia, ma i dati sulla comparabilità dell’efficacia delle due tecniche sono ancora conflittuali. Nel 2015, Klocke et al. hanno confrontato i risultati della preservazione di tessuto su 23 pazienti in età premenopausale, divise tra slow freezing e vitrificazione. I risultati dello studio mostravano integrità morfologica tissutale simile dopo la criopreservazione, così come livelli simili di estradiolo rilasciato in coltura e tassi paragonabili di proliferazione follicolare e apoptosi dopo la coltura [294].

Ad oggi, il metodo standard per la criopreservazione di tessuto ovarico è lo slow freezing con medium contenente albumina sierica umana, propandiolo, dimetilsulfossido o glicole etilenico come crioprotettore, combinati con sucrosio. Sebbene sembri che la tecnica di vitrificazione abbia dei vantaggi, gli studi di confronto tra i risultati della vitrificazione rispetto alla slow freezing hanno prodotto negli anni risultati contrastanti. In una recente metanalisi del 2016 però, Zhou e colleghi hanno comparato la proporzione di follicoli primordiali intatti nel tessuto ovarico criopreservato con lo slow freezing convenzionale o con la vitrificazione. Sono stati inclusi sei studi e i risultati hanno mostrato assenza di differenze significative nella proporzione di follicoli primordiali, portando gli autori a concludere che nel tessuto ovarico umano le due tecniche producono risultati equivalenti rispetto al numero di follicoli primordiali intatti, ma che servono ulteriori studi per stabilire quale tecnica sia il gold standard. [295]

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Recentemente, il trapianto di tessuto ovarico è stato proposto anche in pazienti con insufficienza ovarica prematura (POI). Si potrebbe obiettare che la procedura non sia utile in queste pazienti, in cui le funzione endocrine e riproduttive sono già cessate. Tuttavia, dal 2010 sono stati studiati gli effetti sul tessuto ovarico di inibitori enzimatici di PTEN e attivatori della fosfatdil-inositolo 3 kinasi, in quanto potrebbero attivare la pathway di AKT nei follicoli dormienti, sia in ovaie murine che umane. I dati emersi da questi studi di base hanno suggerito la possibilità di attivare i follicoli residui di pazienti con POI a svilupparsi in follicoli preovulatori per il prelievo ovocitario [296]. Studi seguenti hanno suggerito che la frammentazione ovarica possa interferire con il signaling della pathway Hippo, il che porterebbe a una crescita follicolare. Kawamura et al. [297] hanno descritto un approccio di attivazione in vitro (IVA) per trattare l'infertilità in pazienti con POI, attraverso la combinazione di queste tecniche: dopo l'ovariectomia, i follicoli residui venivano attivati in vitro usando stimolanti di AKT, con successivo trapianto di tessuto ovarico. Tale approccio ha portato alla nascita di due bambini sani [297, 298]. Usando il metodo IVA, nel 2016 anche il gruppo di Zhai ha riportato una nascita da fecondazione in vitro dopo il trapianto di tessuto ovarico in una paziente con POI, un bambino sano partorito a 37 settimane di gravidanza. [299] La criopreservazione di tessuto ovarico è stata proposta anche nelle pazienti con s. di Turner: Borgstrom nel 2009 ha studiato 57 pazienti tra gli 8 e i 20 anni e sono state definite le cinque caratteristiche predittive per la presenza di follicoli nella corticale dopo biopsie ovariche: cariotipo, bassi livelli di FSH, alto AMH, menarca spontaneo e pubertà spontanea. [300]

Per quanto riguarda le peculiarità di stimolazione ovarica e fecondazione in vitro in queste pazienti, dopo trapianto ortotopico di tessuto ovarico criopreservato sono stati riportati sia un aumentato rischio di sindrome del follicolo vuoto, sia un'aumentata incidenza di ovociti anomali o immaturi [301]. Tuttavia, solo una piccola coorte di studi ha investigato la qualità ovocitaria dopo trapianto di tessuto ovarico criopreservato. Nel caso dei trapianti ortotopici, Meirow et al. [302] hanno descritto 4 cicli di tentato prelievo ovocitario in una paziente, di cui 3 non hanno portato a recupero ovocitario e nel quarto ciclo il singolo recupero di un ovocita maturo ha portato allo sviluppo di un

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embrione di 4 cellule, con successiva nascita (la prima dopo fecondazione in vitro). Andersen et al. [303] hanno riportato i risultati di 28 cicli di stimolazione ovarica in 6 pazienti sottoposte a trapianto ortotopico di tessuto ovarico, con il recupero di 25 ovociti e 11 embrioni trasferiti, risultati in due bambini nati sani, un aborto e una gravidanza biochimica. In questa serie, tuttavia, non sono stati specificati il tasso di follicoli vuoti né la qualità ovocitaria ed embrionaria.

Nel caso dei trapianti eterotopici, come possiamo immaginare, è obbligatorio ricorrere alla fecondazione in vitro. Il gruppo di Oktay ha riportato i risultati del prelievo ovocitario in 2 pazienti sottoposte a reimpianto del tessuto ovarico nel sottocute della parete addominale: nella prima paziente, durante 8 prelievi ovocitari percutanei sono stati recuperati 20 ovociti, con lo sviluppo di un unico embrione di 4 cellule, che non si è impiantato [304]. La seconda paziente è stata sottoposta a un singolo prelievo ovocitario, con il recupero di un ovocita MII che non si è fertilizzato. [305]. Kim e colleghi [306] hanno riportato il follow up a 27 mesi di due pazienti oncologiche dopo il trapianto eterotopico tra il muscolo retto dell'addome e la fascia. Sono stati recuperati 6 ovociti e fecondati 4 embrioni, ma gli autori dello studio non hanno riportato informazioni sul numero totale di ovociti recuperati, il tasso di follicoli vuoti né la qualità degli ovociti ed embrioni. Va sottolineato che il tasso di ovociti MII ottenuti da prelievo in trapianti eterotopici è significativamente più basso che in quello ortotopico [285].

Nelle pazienti sottoposte a trapianto di tessuto ovarico, Dolmans in uno studio del 2009 ha riportato un tasso di follicoli vuoti del 29%, a differenza dell'incidenza stimata del 0,6-7% nella popolazione generale della PMA [307]. Nello stesso studio veniva analizzata anche la proporzione di ovociti anomali (immaturi o degenerati), risultata molto maggiore nel tessuto trapiantato dopo criopreservazione (38%) che nelle altre pazienti sottoposte a ICSI, nonché il tasso di fertilizzazione, che in queste pazienti risultava del 50%, contro il 70% della popolazione generale sottoposta a ICSI [307]. Per spiegare questi risultati, gli autori hanno ipotizzato una follicologenesi

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disregolata, l'asincronia tra la maturazione delle cellule della granulosa e dell'ovocita o un danno ovocitario legato al congelamento.

Livelli elevati di FSH basale durante la fase follicolare precoce potrebbero portare a una follicologenesi disregolata per via dello sbilanciamento ormonale presente nelle pazienti sottoposte a trapianto. L'asincronia tra maturazione delle cellule della granulosa e ovocita è stata descritta in xenotrapianti di ovaie umane [308]; essa potrebbe essere causata dalla stimolazione della crescita follicolare dopo ischemia tissutale e stress ossidativo legati al trapianto o alla rimozione di alcuni meccanismi inibitori che normalmente sono attivi nell’ovaio “integro”. Tale asincronia potrebbe essere responsabile del riscontro di follicoli vuoti al prelievo ovocitario, in cui si riscontrano cellule della granulosa spesso mature ma ovociti immaturi.

Lo stesso ovocita potrebbe essere danneggiato dal congelamento, dallo scongelamento o al momento del trapianto, portando ad un aumentato tasso di follicoli vuoti o di anomalie ovocitarie, mentre le cellule della granulosa potrebbero essere più resistenti [309]. Le cellule della granulosa potrebbero essere asincrone rispetto agli ovociti durante la maturazione follicolare, o potrebbero reagire in modo diverso ai processi di congelamento, scongelamento e trapianto; la maggiore differenza tra i due comparti sta nel fatto che l'ovocita è una grande cellula unica, mentre le cellule della granulosa sono molteplici e la perdita di alcune di esse sarebbe compensata tramite la mitosi delle cellule sopravvissute. Inoltre, nello studio Dolmans veniva studiato il tasso di fertilizzazione (FR) degli ovociti recuperati dall'autotrapianto di tessuto ovarico criopreservato, con una FR del 50%, di molto inferiore rispetto alla FR della popolazione generale in PMA. L'ipotesi per spiegare il fallimento nella fecondazione dopo ICSI è stata quella di difetti funzionali (e non chiaramente visibili morfologicamente) portati da questi ovociti recuperati da tessuto trapiantato dopo criopreservazione. [301]

Per quanto riguarda il problema dell'efficacia della criopreservazione del tessuto ovarico, nel 2017 Jadoul e colleghi hanno pubblicato una casistica di più di 500 pazienti: in queste, la OCT era stata

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eseguita a un'età media di 22.3 ± 8.8 anni, per indicazioni oncologiche nel 79%, per patologie ginecologiche benigne nel 17,5% o per rischio genetico di POF nel 3,5%. Delle 545 pazienti, il 29% era al di sotto di 18 anni e il 15% erano prepubere. Mentre il 10% delle pazienti in studio era deceduta per la patologia, 21 pazienti (3.9%) si erano sottoposte al reimpianto del tessuto, e 7 di loro avevano successivamente partorito bambini sani, con una live birth rate dopo il trapianto del 33%. Inoltre, da un questionario di follow up inviato alle 451 pazienti sopravvissute (risposte ottenute nel 32% delle pazienti), emergeva che il 68,5% delle pazienti dimostravano funzione ovarica persistente, mentre nel 31,5% le pazienti erano in menopausa (nel 36% il dato non era valutabile). Delle 52 pazienti che avevano cercato il concepimento spontaneo, 37 avevano avuto successo (il 71%). [292]

Per quanto riguarda l'efficacia della criopreservazione di tessuto ovarico nella paziente pediatrica, non è ancora possibile valutare le percentuali di successo della tecnica. In letteratura sono riportati diversi casi di induzione della pubertà tramite trapianto di tessuto ovarico [277] ma rimane da stabilire lo status di fertilità perché spesso passano molti anni prima di poter valutare il successo del reimpianto in questo gruppo di pazienti. Ad ogni modo, nel 2015 è stata riportata la prima nascita da trapianto di tessuto ovarico conservato prima della pubertà [287].

Permangono delle “questioni aperte” nel campo della criopreservazione e trapianto di tessuto ovarico. Nel 2016 in un lavoro di Meirow et al. [310] è stata sottolineata la necessità di rivedere alcuni criteri restrittivi, ponendo il focus su tre punti principali:

Trapianto di tessuto ovarico dopo trattamento chemioterapico: in dieci casi analizzati

nello studio, le pazienti erano state sottoposte al prelievo di tessuto dopo il completamento della chemioterapia o tra due cicli; in tutte tranne in una, erano stati dimostrati il ripristino del ciclo mestruale e della funzione endocrina ovarica. Di questo gruppo, 7 pazienti avevano ottenuto almeno una gravidanza (per un totale di 13 gravidanze) e 4 avevano partorito (con 7 bambini nati). Tali outcome risultavano non inferiori a quelli ottenuti nelle

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