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SCIENZA &POLITICA, vol. XXVII, no. 53, anno 2015, pp. 307-325

S

CIENZA

&

P

OLITICA

p e r u n a s t o r i a d e l l e d o t t r i n e

Rete, Plasma, Plebe.

Margini della città globale.

Net, Plasma, Plebs. Margins of the Global City

Matteo Vegetti

Università della Svizzera italiana matteo.vegetti@usi.ch

A

B S T R A C T

L'articolo si propone di leggere il paradigma spaziale, oggi dominante, basato sui flussi, le reti, il networking, come ele-mento di un discorso complesso volto a fornire legittimazione epistemologica agli effetti di ristrutturazione economico-spaziale indotti dalla globalizzazione. Un paradigma il cui funzionamento opera esclusioni, selezioni, tagli, e che forse costituisce lo strumento di nuove politiche governamentali. Il termine "plasma", introdotto da Latour per indicare ciò che eccede tale modellizzazione viene qui declinato in un concetto più classico, quello di plebe. In Hegel come in Foucault, la plebe è uno scarto sociale che dipende dalle forme di organizzazione materiale e ideale che la società liberale di volta in volta assume, e che problematizza il centro politico del discorso sulla città proprio perché ad esso irriducibile.

PAROLE CHIAVE: Rete; Plasma; Plebe; Globalizzazione; Scarto.

*****

This essay aim at reading the spatial paradigm, dominant today, based on the flows, the net, the networking, as element of a complex discourse designed to offer epistemological legitimation to the economic-spatial restructuring effects generated by globalization. A paradigm whose functioning produces exclusions, selections, cuts and it maybe constitutes the instrument of new governamental policies. The term “plasma”, introduced by Latour to indicate what is exceeding that model, is here used to refine the more classical concept of plebs. In Hegel as in Foucault, the plebs is a social spread that depends on the forms of material and ideal organizations which liberal society assumes time by time, and that problematizes the political centre of the discourse on the city exactly because is not reducible to it.

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«In one way or another, we are all in this room responsible for having given to the notion of network an immense, and some could say,

a hegemonic extension»1.

1) L’eccezionale numero di studi urbani (politici, geografici, economici, oltre che ovviamente sociologici) pubblicati durante gli ultimi quindici anni dimo-stra indirettamente che la città è tornata ad essere uno snodo discorsivo decisi-vo e altamente problematico, un po' come accaduto all'inizio dell'età moderna, quando il governo dello spazio – del territorio – cominciò a imporsi come la questione fondamentale nel rapporto tra le politiche nazionali e lo sviluppo dell'economia liberale2. Vi sono per ciò, ovviamente, delle buone ragioni. I vet-tori della globalizzazione che attraversano la città contemporanea sono all'ori-gine di una progressiva decostruzione dei principi territoriali sui quali la mo-dernità urbana basava le sue operazioni di ordinamento, controllo e discipli-namento dello spazio. Uso qui il termine di “decostruzione” nel senso che Der-rida gli ha accordato nell’ultima fase della sua produzione, quando, in riferi-mento ai processi di globalizzazione, esso non nomina tanto una strategia er-meneutica, ma l’accadere reale di un processo che investe e decompone le strutture dello spazio sociale, si chiamino queste Stato, città, cittadinanza, ap-partenenza, soggettività3. In una simile accezione, uno dei campi più interes-santi nei quali si possono apprezzare gli effetti decostruttivi della globalizza-zione è certamente quello delle scale. Detto semplicemente, contro il tradizio-nale aristotelismo della politica (ciò che Derrida chiama l'«ontopologia»), non è più ovvio che forme più grandi debbano contenere quelle minori, così come una città è idealmente e spazialmente contenuta in una certa regione, e questa in organismo politico più ampio, come uno stato.

Attualizzando il discorso di Lefebvre circa l'«esplosione generalizzata degli spazi» quale esito della tensione tra i processi di integrazione globale e quelli della differenziazione territoriale, Neil Brenner ha riproposto in tal senso un «approccio dialettico ai processi scalari sotto il dominio capitalistico». Concetti pseudo-naturali quali luogo, città, regione, nazione, globo mascherano infatti, dal suo punto vista, «una profonda e mutua sovrapposizione di tutte le scale e delle dense reti interscalari attraverso cui queste ultime vengono continuamen-te prodotcontinuamen-te e riconfiguracontinuamen-te»4.

1

Cfr. B.LATOUR, Networks, Societies, Spheres: Reflections of an Actor-Network Theorist, «Interna-tional Journal of Communications», 5/2011, pp. 796-810.

2

Rimando a proposito allo splendido libro di S.ELDEN, The Birth of Territory, Chicago and London, The University of Chicago Press, 2013.

3

Si veda in particolare, J.DERRIDA, Spettri di Marx (1993), Milano, Cortina, 1994. 4

Cfr. N.BRENNER, The Urban Question as a Scale Question. Reflections on Henry Lefebvre, Urban

Theory and the Politics of Scale, in «International Journal of Urban and Regional Research», 24,

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Come a suo modo aveva già compreso Lefebvre:

«nessuno spazio scompare durante i processi di crescita e di sviluppo: la mondializ-zazione non abolisce il locale ... (questo) non viene mai assorbito dal livello regiona-le e neppure da quello mondiaregiona-le (...). Tutti questi spazi, intanto, vengono attraversati da una miriade di flussi»5.

Il globale non esiste dunque che nella dimensione della ri-territorializzazione di scale geografiche intrecciate e non isolabili l'una dall'al-tra come fossero contenitori di cose. Questo modo di pensare presenta indub-biamente un duplice vantaggio: da un lato scarta ogni ipotesi circa il presunto effetto di omologazione e annichilimento del locale di cui globalizzazione sa-rebbe responsabile; dall'altro promuove un tipo di approccio nel quale, per usa-re una fortunata espusa-ressione di Saskia Sassen, il fenomeno urbano appausa-re sem-pre più il prodotto di «assemblaggi» di spazi radicalmente diversi, che svilup-pano tra loro logiche connettive e interattive disomogenee o addirittura scon-nesse.

I nuovi paesaggi globali sono il risultato di pianificazioni che attraverso grandi investimenti in infrastrutture, strategie territoriali di larga scala e nuove ghettizzazioni devono fungere da supporto per la crescita accelerata e l'espan-sione degli agglomerati capitalistici lungo l'intero pianeta6. Più che moltiplica-re le categorie descrittive del fenomeno post-metropolitano, occormoltiplica-remoltiplica-rebbe in tal senso leggere le trasformazioni territoriali in atto alla luce di una nuova critica dell’economia politica ricentrata sulla variabile spaziale, e dunque parzialmente affrancata dalla matrice storicista ed evoluzionista del pensiero marxista. La metamorfosi dello spazio urbano è un fenomeno che appartiene a una profonda riorganizzazione geografica del capitalismo. Al contrario del tempo, lo spazio sedimenta le contraddizioni, tollera la pluralità, la diversificazione e persino la reversibilità. Perciò appunto, non senza buone ragioni, David Harvey (e prima di lui, naturalmente, Lefebvre) hanno rimproverato al materialismo storico il fatto di aver colpevolmente sottovalutato la sfera spaziale7, sfera della quale lo sviluppo capitalistico avrebbe per contro da sempre sfruttato il potenziale. Gra-zie alla sua plasticità lo spazio nasconde nella lontananza, isola i corpi, le prassi e le funzioni, consente sperimentazioni e ristrutturazioni locali, assemblaggi e

5

Cfr. H.LEFEBVRE, La produzione dello spazio (1974), Milano, Moizzi, 1976, vol. I, p. 216. 6

Di conseguenza, secondo Neil Brenner, «se un'epoca urbana globale sta iniziando adesso, questa circostanza non può essere compresa adeguatamente in riferimento alla formazione delle città glo-bali o di regioni di mega-città su larga scala, ma richiede un'analisi sistematica della tendenziale, seppur diseguale, trasformazione funzionale dell'intero pianeta – inclusi lo spazio terrestre, sotter-raneo, oceanico e atmosferico –, al servizio di uno sviluppo urbano industriale che si sta intensifi-cando in modo accelerato»; Cfr. N.BRENNER, Pensare lo spazio urbano senza più esterno, «I&C», 6/2015, pp. 23-34, p. 33. Si veda anche N.BRENNER (ed), Implosions/Explosions. Towards a Study of

Planetary Urbanization, Berlin, Jovis, 2013.

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diversificazioni strutturali, congiunzioni e disgiunzioni su ogni scala. Lo spa-zio, potremmo dire, è la materia docile dell’accumulazione capitalistica, e in questo senso presenta un grado di affinità al corpo che a Foucault non è sfuggi-ta. Naturalmente gli strumenti delle tele-tecnologie8, della rete in particolare, hanno enormemente ampliato le possibilità del capitalismo post-fordista di manipolare lo spazio, fino a condurlo al punto di eludere, almeno in parte, la mediazione politica dei territori.

Grazie alla rivoluzione spaziale delle comunicazioni il capitalismo globale può trasmettere istantaneamente informazioni assai complesse a costo zero, e soprattutto frammentare la produzione in vari segmenti dislocati sul globo. Senza operare contro i limiti territoriali delle sovranità nazionali, ma piuttosto

dentro questi limiti, esso altera non tanto il territorio, ma gli assetti che

rendo-no nazionale quel territorio. Le infrastrutture e i centri guida dei mercati fi-nanziari sono oggi localizzati in luoghi fisici, anche se i loro servizi non sono legati a uno spazio geografico, e il loro operato è condizionato da elementi poli-tici denazionalizzati9.

Va aggiunto che la stessa immagine della città-rete sorge in analogia col pa-radigma informazionale, che a sua volta trae ispirazione da una metafora biolo-gica, quella della rete neuronale, delle connessioni nervose e sinaptiche10. Così come il sistema circolatorio di Harvey forniva alla città moderna un potente modello per riformulare lo spazio nei termini dei sistemi di circolazione (stra-dale, monetaria, ecologico-sanitaria, ecc.), il paradigma biologico attuale si ispira alla più immateriale delle funzioni organiche. La trasposizione tecnolo-gica di questa metafora ha fatto sì che la città potesse essere immaginata come un «sistema in senso cibernetico: una rete di comunicazioni e di scambi con dei nodi in cui la comunicazione confluisce e rifluisce»11. Il modello di Harvey, la cui potente influenza ha attraversato tutta la storia moderna della città-mercato, conteneva però due elementi caratteristici: da un lato la necessità bio-logica della circolazione (e la simmetrica condanna di ogni tipo di stagnazio-ne), principio che si rispecchia nel modello liberale della circolazione moneta-ria; dall’altro la subordinazione del movimento a un centro (il cuore), dal quale i flussi partono per diramarsi nelle periferie dell’organismo, e infine ritornare. Tutta la metaforologia utilizzata da Harvey nel suo trattato De motu cordis et 8

Cfr. J.DERRIDA –B.STIEGLER, Ecografie della televisione (1996), Milano, Cortina, 1997, ma poi an-che J.DERRIDA, De l’hospitalité, Paris, Calmann-Lévi, 1997. Sul punto in questione mi permetto di rimandare a M.VEGETTI, La decostruzione del luogo. Spazio pubblico, cittadinanza, architettura in

Derrida, in M.VEGETTI (ed), Filosofie della metropoli, Roma, Carocci, 2009. 9

Questa l'importante tesi su cui richiama l'attenzione S.SASSEN nel suo Territorio, autorità, diritti (2006), Milano, Bruno Mondadori, 2008. Ma mi pare che la tesi converga in parte anche rispetto a ciò che Bertrand Badie intende parlando de La fine dei territori (1995), Trieste, Asterios, 1996. 10

Ha tentato una genealogia del concetto moderno di rete L.SFEZ, Eléments de synthèse pour

pen-ser le réseau, in P.MUSSO (ed), Réseau et societé, Paris, Puf, 2003. 11

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sanguinis in animali – trapassata nei registri del discorso urbanistico – è in

real-tà una celebrazione dello stato assolutistico, il compendio sul versante medico-biologico della speculazione politica di Hobbes. Con Foucault, si potrebbe in-cidentalmente notare come tra il pensiero politico della sovranità e il territorio delle pratiche governamentali sia sempre esistito un dispositivo di transduzio-ne. Nel caso del paradigma di Harvey ciò significava rappresentare lo spazio urbano come una totalità organica, centripeta, ovvero comandata dal centro (la sede naturale delle istituzioni pubbliche), che si comunica alle periferie.

Questo dispositivo è entrato storicamente in crisi solo con la progressiva emancipazione dell’economia dal territorio del fordismo12. E' in fondo il pas-saggio cui allude Foucault quando afferma che «Viviamo nell’epoca del simul-taneo, nell’epoca della giustapposizione, nell’epoca del vicino e del lontano, del fianco a fianco, del disperso. Viviamo in un momento in cui si sperimenta, cre-do, più che come un grande percorso che si sviluppa nel tempo, come un retico-lo che incrocia dei punti e che intreccia una matassa»13. Dal punto di vista neo-liberale, il modello della rete (esente da centro, aperto, disponibile ad assumere forme geometriche e gerarchiche variabili) presenta innanzitutto il non secon-dario vantaggio di concepire, analizzare, descrivere lo spazio come privo di

re-sistenza, vale a dire come un supporto neutrale alla connessione e agli scambi;

uno spazio politicamente bonificato e tecnicamente disponibile. Non a caso l'ordine del discorsivo della rete fa sistematicamente scomparire ogni riferi-mento alla capitale, allo spazio pubblico, al binomio centro-periferia, e al tem-po stesso divarica la differenza tra la città, sciolta nelle sue funzioni nodali, e il territorio, che si estende indifferente tra i vuoti della rete.

La città come nodo funzionale delle reti tecniche, infrastrutturali e immate-riali, e insieme come regolatore di queste funzioni, sospende il classico discorso politico-governamentale perché gli sottrae innanzitutto il terreno operativo. Ha ragione Bruno Latour: il tutto non è ormai qualcosa di più grande delle parti e soprattutto non è l'a priori sostanziale dal quale le parti dipendono quanto al proprio senso. La metafora organicista fallisce (come quella della "mano invisi-bile" in campo economico) laddove al tradizionale rapporto dialettico tra pun-to, linea e superficie si sostituisce quello monodimensionale della rete, nel qua-le ogni punto è immediatamente un nodo, ovvero qualcosa che rimanda per es-senza ad altro da sé, che è in quanto interagisce, e che perciò non è né separato né deducibile né presupposto rispetto ad alcuna totalità collettiva metaindivi-12

Internet, come ha notato Castells, non è una semplice tecnologia tra le altre, ma è «il cuore del sistema, che forgia e modella la nuova struttura sociale di ogni cosa», cfr. M.CASTELLS, La città delle

reti, Venezia, Marsilio, 2004, p. 20, corsivo mio.

13

M.FOUCAULT, Des espaces autres, «Architecture, Mouvement, Continuité», 5/1984, pp. 46-49; tr. it. in Spazi altri, Milano, Mimesis, 2001, p.19.

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duale. La conseguenza, Latour lo dice chiaramente, è che «la società», come ultima unità di senso, luogo ideale da cui comprendere e organizzare da un punto vista aereo, sintetico, il tutto delle pratiche umane, semplicemente non esiste. Questo non perché esistano solo gli individui e gli interessi individuali (come pretendeva a suo tempo la Thatcher), ma perché il rapporto tra individui e tutto, sostanza e attributi, risulta viziato da un pregiudizio epistemologico – persino ontologico – che la nuova conformazione dei rapporti collettivi, pensati alla luce del modello reticolare, avrebbe infine portato in piena luce. Ogni fan-tomatica struttura sociale collettiva (per esempio la città rispetto ai suoi abitan-ti) sprofonda in quanto struttura nei vuoti della rete (giacché ogni rete è fatta innanzitutto di vuoti); si decompone in aggregati multipli e reversibili, privi di centro e periferie, redistribuiti su unico piano.

Il paradigma tecnico-economico del networking assume come materia pri-ma l’inforpri-mazione, la flessibilità, il coordinamento, l’annullamento selettivo delle distanze. Von Meiss ha giustamente notato che alla metafora delle reti è implicito un risvolto spaziale rilevante: alle reti non occorre un suolo, un fon-damento, un luogo, ma un mezzo a cui sospenderle14. La crisi del progetto terri-toriale come strumento olistico e la componente tecnologica del post-fordismo mostrano in tal senso un forte legame. Se è vero, come ha sostenuto Simon Weil, che «durante il XIX secolo le ferrovie compirono distruzioni atroci nel senso dello sradicamento»15, oggi siamo già entrati, in questo stesso senso, nell’orbita di una fase storica molto più radicale. Il neo-capitalismo non ha l’esigenza di costruire la città intorno ai propri investimenti, di organizzarla morfologicamente, di produrre sviluppo territoriale e civile in modo diretto o indiretto.

Le nuove periferie sono chiaramente il territorio che nella presente fase sto-rica patisce di più il ritrarsi delle strategie di governo dell'estensione territoria-le, essenzialmente legate a un tipo di produzione industriale e a un certo mo-dello di produttore. La produzione fordista esigeva infatti il massiccio dispie-gamento dei bio-poteri volti a fermare la mobilità della manodopera, a disci-plinarla, a educarla, a fidelizzarla all’azienda e agli stessi dispositivi che la ren-devano funzionale a un progetto sociale, rispetto al quale i soggetti produttori e lo spazio di produzione risultavano di fatto imprescindibili. Bio-politica, occor-re forse ricordarlo, non significa soltanto panottismo, tecniche di disciplina-mento, allevamento pastorale-padronale dei corpi fungibili al lavoro, ma anche (compatibilmente con gli scopi prefissati dal paradigma governamentale) inve-stimenti sul capitale umano, programmazione territoriale, istruzione, coopera-14

«La metaforica delle “reti”, che era ancora ben lontana dal culmine del proprio successo, lasciava infatti comprendere metaforicamente una cosa: per le reti occorreva un mezzo in cui sospenderle e non più un suolo»; cfr. P.VON MEISS, Dalla Forma al luogo, Milano, Hoepli, 1992, p. 88.

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zione, inserimento in un ruolo sociale, aggregazione e dunque condivisione di interessi. L’ambivalenza della strategia di governo biopolitico del territorio ha sempre ospitato (e allevato) i germi di una dialettica sociale, consentendo all’emarginazione e al disagio di assumere forma, riconoscimento pubblico, vi-sibilità, linguaggio, attraverso quegli strumenti organizzativi antagonistici di lunga durata (il partito, il sindacato, il movimento) intimamente coinvolti nella tradizione dei poteri pastorali. In regime post-fordista, con la vasta dismissione del progetto bio-politico della città, la produzione di soggetti come precondi-zione della produprecondi-zione stessa non ha più ragion d’essere. E ciò comporta, in-sieme alla sospensione degli effetti dialettici che promuovono la contrapposi-zione sociale e lo sviluppo di una storicità che ingloba forme macro-sociali di partecipazione, uno scadimento antropologico che rende la vita tanto più per-meabile al mercato quanto più è esonerata dai meccanismi della riproduzione economica vecchi e nuovi. Il vuoto funzionale delle periferie si è sommato al vuoto della soggettività periferica (a identità deboli, in stato di mobilità e pre-carizzazione: non solo periferiche ma anche marginali), ed entrambe a una mancanza di “resistenza” materiale e sociale (per non dire antropologica) all’energia sradicante che promana, nella variante neoliberale della mondializ-zazione, dall’economia post-metropolitana. Sarebbe forse più esatto dire che quest’energia è stata risucchiata dal vuoto sociale e infra-strutturale della peri-feria, dando luogo a un paesaggio discontinuo, frammentato, ibrido come solo la semplice addizione e moltiplicazione di oggetti reciprocamente “sconnessi” può farlo risultare16.

Il problema dell’“integrazione” sociale è in questo senso più vasto di quanto non si sia generalmente disposti ad ammettere. Non riguarda solo gli immigrati o i disoccupati, e non si decide solo in base al reddito. Alla base della piramide sociale possiamo immaginare quegli individui che sono maggiormente legati (imprigionati o iper-identificati) nel territorio escluso dal modello-rete: attori

senza Network, per usare a rovescio la metafora di Latour17. La gerarchia sociale cresce poi in diretta relazione al grado di mobilità nella rete stessa (intesa in senso materiale e immateriale, cioè in base alla geografia fisica e cognitiva degli accessi ai nodi della rete), e al suo utilizzo: si può infatti restare incastrati nella 16

Nelle parole di Picon: «La città-territorio presenta numerosi aspetti contraddittori. Appare nel contempo come uno strato continuo e come un insieme un po’ caotico di infrastrutture e di immo-bili. Strade a circolazione veloce si insinuano nel nuovo tessuto residenziale delle periferie; centri commerciali si innalzano in prossimità di installazioni industriali; delle zone verdi sopravvivono entro questo mosaico di “amenagements” di ogni tipo. Non è facile rendere conto dei legami multi-pli che si tessono entro delle entità molto differenti mediante l’intermediario delle reti, e nello stes-so tempo delle fratture profonde della nuova morfologia urbana»; cfr. A.PICON, Le Temps du

Cy-borg dans la Ville Territoire, in «Annales de la Recherche Urbane», LXXVII/1997, pp. 72-73.

17

Mi riferisco al modello della Actor-Nework Theory (ANT); cfr. B.LATOUR, Reassebling the Social.

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rete (come i giovani, immigrati o meno, che conducono le loro giornate nelle stazioni della metropolitana), oppure farne un uso mirato o selettivo, perce-pendo a diverso titolo e grado quella promessa di emancipazione spaziale e temporale che è il nucleo utopico della rete stessa, intesa in senso materiale e cognitivo.

2) Se lo spazio, come direbbe Foucault, è sempre un contenitore di potere sociale, allora la riorganizzazione è sempre una riorganizzazione del quadro attraverso cui si esprime il potere sociale.

Seguendo Lefebvre, potremmo però tentare di delineare questa riorganizza-zione topologica attraverso tre diversi registri spaziali e discorsivi. Il primo è quello che riguarda le pratiche spaziali materiali cui ci siamo fin qui somma-riamente riferiti.

Il secondo riguarda invece la rappresentazione dello spazio. L'idea di rappre-sentazione, va detto, non è in Lefebvre né soggettiva né oggettiva. Piuttosto de-finisce il campo dove lo spazio entra nella presa di dispositivi analitici (econo-mici, sociologici, urbanistici, persino filosofici o letterari) che ne definiscono e ridefiniscono il significato pubblico. Su questo piano occorrerebbe pensare che le diverse categorie nelle quali lo spazio assume oggi rappresentazione non sia-no neutrali descrizioni di un presunto "fatto urbasia-no", ma modellizzazioni (ta-lora in competizione tra loro) volte a normare e normalizzare la trasformazione territoriale in atto. Il complesso dei discorsi che occupano oggi la scena del di-battito intorno alla città, andrebbero allora essi stessi concepiti, al di là dell’autorialità, come nodi o elementi di un tessuto enunciativo-epistemico in cui si elaborano schemi descrittivi che aspirano a diventare normativi e pro-grammatici. E’ appunto il caso dell’enorme produzione sociologica e geografica che descrive lo spazio, tra le molti possibili varianti, in termini di flussi, nodi, reti, maglie: enti che per un verso descrivono ciò che “accade”, mentre per altro verso lo disegnano attraverso determinati strumenti euristici; lo elaborano e lo confermano nei luoghi di produzione del sapere, lo portano all’attenzione della politica, e infine aspirano, più o meno consapevolmente (come è tipico di ogni dispositivo), a una veridizione progettuale sulla base di una veridizione episte-mica18. Naturalmente non si tratta di “ideologie”, ma piuttosto, direi, di “eventi discorsivi”19 dotati di una funzione specifica, la quale si intrama ad altri eventi di natura economica, politica, istituzionale.

18

Con intenzioni analoghe a questa lettura delle rappresentazioni spaziali dominanti, Doreen Mas-sey ha proposto una lettura critica del globalismo; cfr. D.MASSEY, For Space, London, SAGE, 2005, p. 83 e ss.

19

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Foucault direbbe che lo spazio entra, ancora una volta, «nel campo dei cal-coli espliciti, e fa del sapere-potere un agente della trasformazione della vita umana».

Ora, per governare la crescita disordinata della città industriale, la densità dei rapporti umani, i potenziali conflitti sociali, il moderno ha sostanzialmente elaborato quattro grandi strategie:

— La creazione di grandi periferie urbane e periurbane; — La creazione di macro contenitori sociali e sociogonici;

— La sincronizzazione degli spostamenti attraverso un’adeguata rete infra-strutturale che connette l'interno all'esterno della città;

— L'impiego degli spazi pubblici come luogo della rappresentazione collet-tiva del conflitto e della sua mise en forme.

Non è che questa “meccanica” dello spazio sia scomparsa, come se si dicesse che le periferie, per esempio, hanno perso rilevanza, o che i Mall hanno preso il posto delle piazze, sostituendo le pratiche del consumo alla comunicazione po-litica, o che la città si è fatta, come si dice, “policentrica”, facendo così scompari-re la questione della centralità, o ancora, più radicalmente, che nello spazio-rete non c'è spazio per la questione del centro e dei luoghi. Anche prese al di fuori dai casi concreti, in tutte queste affermazione c'è tanto di vero quanto di falso. Più interessante mi sembra invece pensare che, prima di ogni altra cosa, sia fondamentalmente cambiata la domanda. Le domande dalle quali sono sor-ti nella moderna città-mercato i dispossor-tivi di sicurezza (polizia, urbanissor-tica, sistemi infrastrutturali come le ferrovie, norme igieniche e morali, controllo della conformazione demografica-produttiva della città), potevano per Fou-cault suonare all'incirca così20: quali sono i metodi che rendono possibile go-vernare lo spazio caotico dello scambio, della produzione e del consumo senza impiegare strumenti che implichino l'immobilizzazione dei corpi, le logiche concentrazionarie, l'isolamento geometrico e la ripartizione delle funzioni? E poi: come è possibile garantire la circolazione (di merci, beni, persone), dun-que la stessa città mercato, una volta che le ferrovie hanno comportato l'abbat-timento delle mura e la conseguente vulnerabilità della città, soprattutto di notte, rispetto alle popolazioni nomadi che dalle campagne penetrano lo spazio urbano? Con quali mezzi si difende infine la crescita impetuosa dell'urbano dalle stesse contraddizioni che dal piano economico discendono a quello socia-le, facendo della città il focolaio potenziale dell'insubordinazione, della rivolta o del crimine?

20

Mi riferisco in particolare a M.FOUCAULT, Sicurezza, territorio, popolazione. Corso al Collège de

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Il governo dello spazio economico moderno, come si sa, è in gran parte de-sumibile, per Foucault, dal complesso di simili quesiti, ai quali la storia della biopolitica avrebbe dato a lungo diverse risposte, più o meno efficaci. Con il ra-pido declino del fordismo e l'ascesa di una nuova struttura economico-finanziaria e tecnica, come dicevo, la natura delle stesse domande è mutata, anche se una certa continuità resta evidente. Pensata e in parte programmata come un dispositivo connettivo extra-territoriale, e come un sistema accelerato di canalizzazione dei flussi, la città-rete è innanzitutto in grado di neutralizzare alla radice molte delle tradizionali e annose questioni dell'agenda moderna in campo politico, urbanistico, architettonico (pianificazione urbana, “diritto alla città”, ricerca della coesione sociale, equilibrio tra centro e hinterland, riparti-zione spaziale dei servizi, etica del quartiere – penso all'influenza di lunga du-rata di studi come Vita e morte delle grandi città di Jane Jacobs – sincronizza-zione delle funzioni, della mobilità individuale e collettiva, trattamento disci-plinare di povertà e devianza21).

Le grandi questioni contemporanee che investono analiticamente lo spazio sono invece più o meno le seguenti: come è possibile disciplinare lo spazio dei flussi senza intralciare la regola della despazializzazione connettiva, che esige uno spazio liscio, senza attriti o barriere? E parallelamente: come si può gover-nare lo spazio urbano laddove la città-mercato risponde a logiche e dinamiche che esorbitano spesso non solo il territorio (al quale risultano tanto più indiffe-renti a misura della loro rilevanza), ma persino lo spazio nazionale che le con-tiene politicamente? E da ultimo: come legittimare questa scomposizione topo-logica dello spazio urbano sotto un profilo epistemologico?

Come dicevo il modello dello scambio informatico avrebbe prestato in que-sto senso il suo decisivo apporto, almeno dal momento in cui l'economia di rete e la digitalizzazione si sono imposte – anche a livello paradigmatico – quali vet-tori economici dominanti e principali produtvet-tori dello spazio. Occorre a tale proposito sottolineare il fatto che si tratti di una relazione che è in parte nelle

cose: il capitale finanziario che investe nelle città globali, o che le rende tali

mediante i propri investimenti, esige che la questione della mobilità e della connettività venga assunta come prioritaria. Da ciò dipende in definitiva la ca-pacità delle città di attrarre investimenti. Lo stesso vale naturalmente per le aziende-rete che operano a scala globale da dentro il territorio.

«Digitale e non digitale – ha notato giustamente Saskia Sassen – non sono sempli-cemente condizioni reciprocamente esclusive. Il digitale è radicato nelle più ampie strutturazioni aziendali, culturali, soggettive, economiche e immaginarie dell'espe-rienza vissuta e nei sistemi in cui esistiamo e operiamo. Nello stesso tempo, attraver-so questo incapsulamento, il digitale può retroagire sul attraver-sociale di modo che le sue 21

L'opera che forse meglio riassume l'ultima espressione del razionalismo critico in campo socio-urbanistico è quella di J.DREYFUS, La città disciplinare (1976), Milano, Feltrinelli, 1978.

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specifiche capacità possano generare nuovi concetti del sociale e del possibile. Per esempio, produrre mobilità dei capitali richiede fissità dei capitali: ambienti all'a-vanguardia, talenti ben collocati e infrastruttura convenzionale, dalle autostrade agli aeroporti, alle ferrovie. Queste sono tutte condizioni in parte vincolate a un luogo, anche quando la natura del vincolo differisce da ciò che può essere stata cento anni fa, quando il vincolo al luogo aveva una probabilità molto più alta di essere una for-ma di immobilità»22.

La frase che ho posto in corsivo non interpreta solo il tradizionale rapporto dialettico tra struttura e sovrastruttura, ma lo fa in modo da presentare un alto grado di affinità rispetto al triangolo semiotico della produzione dello spazio di Lefebvre, cioè al gioco circolare dei rimandi tra lo spazio materiale, percepito e immaginato. Il «nuovo concetto del reale e del possibile» si travasa nel nostro caso in sistemi di rappresentazione dello spazio che prediligono i fattori della mobilità e della connessione per organizzare l'immagine della realtà urbana in conformità alla sua proiezione globale. Anche in questo senso, «La conquista e la disciplina dello spazio» – come ha scritto Harvey – «richiedono in primo luogo che esso venga concepito come qualcosa di utilizzabile, di malleabile, e quindi dominabile»23.

Così, per esempio, la popolazione viene tracciata, calcolata, trascritta dalle scienze sociali non tanto in base alla demografia, alla residenza o ai “bisogni” (secondo il canone tipicamente biopolitico del modernismo), ma prevalente-mente in base a un principio “demodromico” soggetto alle leggi del transito, della migrazione, degli spostamenti. Più che sulla presenza dei corpi l’attenzione si sposta sul loro movimento in atto e in potenza: sulla dynamis urbana. Anche laddove Bauman rilegge la tradizionale stratificazione di classe in base al criterio della maggiore o minore libertà di movimento, egli propone una rappresentazione sociale che accetta, benché criticamente, questo selettivo privilegio ermeneutico:

«Per farla breve: l'annullamento tecnologico e politico delle distanze spaziotemporali tende a polarizzare le condizioni umane anziché livellarle. Mentre da un lato eman-cipa certi soggetti dai vincoli territoriali e conferisce extraterritorialità a certi signifi-cati attorno ai quali possono formarsi delle comunità, dall'altro spoglia il territorio, in cui altri continuano a essere confinati, dal suo significato e dalla sua capacità di costruire l'identità. Ad alcuni preannuncia una libertà senza precedenti dagli ostaco-li fisici e una capacità inaudita di spostarsi e agire su lunghe distanze; ad altri fa pre-sagire l'impossibilità di fare propria e addomesticare la località della quale hanno poche prospettive di potersi liberare per trasferirsi altrove»24.

Al vertice della piramide sociale si trova perciò «l'élite mobile, l'élite della mobilità», mentre il popolo, come anche sostiene Castells, resta legato, quanto più è “popolo”, al territorio, vale a dire a una località e a un localismo sempre

22

Cfr. S.SASSEN, Territorio, autorità, diritti, pp. 436-437. 23

D.HARVEY, La crisi della modernità (1989), Milano, Il Saggiatore, 1993, p. 310. 24

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più poveri in termini socioculturali mano a mano che accresce l'accumulazio-ne del capitale sociale l'accumulazio-nella rete della mobilità agganciata al capitalismo globa-le.

Ma se la libertà di cui neo-liberalismo ha bisogno è innanzitutto (a ogni sca-la) libertà di spazio, esso è obbligato a produrne, e, laddove lo produce, a go-vernarlo.

Il passaggio dalla società della sicurezza a quella del controllo, elaborato da Foucault alla fine degli anni ’70 e poi sviluppato da Deleuze25, sembra adattarsi a questa esigenza, assumendo però un carattere sempre più puntuale, disconti-nuo e preventivo: si proteggono capillarmente, non a caso, gli accessi e le soglie alle reti (come dimostrano, per esempio, i sistemi reticolari della videosorve-glianza), limitando al minimo indispensabile le politiche di sicurezza territo-riale, i tratti prescrittivi della norma, lo spazio come estensione da mettere sot-to cussot-todia attiva.

Vengo all’ultimo punto, a quello strato dell’esperienza che Lefebvre chiame-rebbe spazio immaginato. In generale, si tratta di quella sfera dell’esperienza in cui le condizioni materiali dell’abitare provocano in vari modi e attraverso di-versi canali sentimenti di attrazione o repulsione, di paura o famigliarità, di in-clusione o di esin-clusione. Le novità nell'immaginazione spaziale possono essere interpretate come effetti di displacement, e possono perciò aprire nuove possi-bilità e prospettive anche per l'immaginario politico26. Gli spiazzamenti posso-no riferirsi a trasformazioni concettuali, narrative o epistemiche sui modi in cui soggetti rimodellano le configurazioni spaziali delle situazioni e degli eventi che immaginano li coinvolgano politicamente. L'immaginazione topologica del

Networking ha dato in tal senso luogo a esiti complessi e spesso contraddittori.

Solo per fare un esempio, mentre nella sfera economica e cognitiva flussi e reti sono immagini indisgiungibili, e richiamano una geometria incomprimibile ri-spetto a quella in cui si disegna lo spazio della sovranità territoriale centralizza-ta, o, per altro verso, l'autonumous Ego cartesiano, nella sfera sociale queste immagini tendono a divaricarsi, generando una sorta di antinomia. In termini comunicativi, alla rete si associano immagini socio-spaziali a carattere comuni-tario, orizzontale, partecipativo, inclusivo, democratico, aperto e illimitato, mentre i flussi evocano le dinamiche effrattive dello chez-soi, la crisi dei privi-legi di cittadinanza, la porosità dei confini, e comportano perciò un prepotente ritorno della “sostanza” politico-comunitaria che per altro verso si vorrebbe su-perata, con ricorrenti riflessi allofobici o xenofobi. Non è però questo un punto su cui intendo soffermarmi.

25

G.DELEUZE, Poscritto sulle società di controllo, in G.DELEUZE, Pourparler (1990), Macerata, Quodlibet, 2000.

26

Cfr. S.HÄNNINEN, Il fantasma della politica nella “macchina morbida”, «aut aut», 298/2000, pp. 13-33.

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Mi interessa invece esplorare il rapporto sociale tra corpo e rete in una pro-spettiva inversa a quella che di solito si propone, tentando di gettare uno sguardo nei vuoti che il modello reticolare, nella sua duplice matrice materiale e paradigmatica, non solo presuppone, ma anche inconsapevolmente produce.

3) L'articolazione del mondo nel paradigma sociale reticolare-connettivo la-scia molto di inarticolato. Sappiamo che le periferie colpite maggiormente dalla de-industrializzazione e dalla crisi economica sono il resto sociale del processo di ristrutturazione economico-spaziale ancora in corso, residui spaziali dei pro-cessi globali di dislocazione del lavoro che soffrono, per dirla con Marc Augé, non dello sfruttamento, ma della mancanza di sfruttamento27.

Bruno Latour, ha chiamato “plasma” tutto ciò che resta escluso dai nodi economico-sociali e cognitivi della rete: un vasto territorio fluido e ingoverna-bile, perché in fondo sconosciuto a quella nuova sequenza spaziale che rientra nella logica di Network.

Scrive Latour: «I call this background plasma, namely that which is not yet formatted, not yet measured, not yet socialized, not yet engaged in metrologi-cal chains, and not yet covered, surveyed, mobilized, or subjectified»28.

Il concetto di plasma non ha dunque consistenza ontologica. Piuttosto si ri-ferisce a una materia sociale sconosciuta ai processi della sua codificazione e, con chiaro riferimento al paradigma informatico, immune a ogni “formattazio-ne”. Con una certa libertà di interpretazione, potremmo forse dire che il termi-ne “plasma” nomini qualcosa di non soggettivizzabile, non per la sua propria natura, ma perché, come l’“anormale” in Foucault, è un residuo dei dispositivi che organizzano i rapporti sociali secondo certi presupposti materiali e assiolo-gici, dunque qualcosa di improduttivo e di incollocabile nell’economia politica dello spazio e del discorso sullo spazio.

Curiosamente, lo stesso anno in cui il libro di Latour è uscito, nel 2005, ciò che non era nascosto alle categorie sociali, ma «semplice sconosciuto», prese improvvisamente l'aspetto enigmatico delle rivolte urbane che hanno squassato le banlieu di Parigi. Il caso delle rivolte (o delle “sommosse”, o delle “sollevazio-ni”: l’incertezza semantica è stata in questo caso, come ha notato Balibar,

indi-27

Cfr. M.AUGÉ, Tra i confini (2006), Milano, Bruno Mondadori, 2007. 28

Cfr. B.LATOUR, Reassembling the Social, pp. 243-244. Poco oltre, Latour chiarisce così la natura epistemologica della nozione di plasma: «Of course sociologists were right to look for some ‘out-side’, except this one does not resemble at all what they expected since it is entirely devoid of any trace of calibrated social inhabitant. They were right to look for ‘something hidden behind’, but it’s neither behind nor especially hidden. It’s in between and not made of social stuff. It is not hidden, simply unknown».

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cativa della natura sfuggente del fenomeno29) scoppiate nelle periferie parigine il 27 ottobre del 2005, il primo di una lunga serie di episodi che hanno avuto le maggiori metropoli europee come teatro30, conserva ancora oggi, in tal senso, una forte valenza emblematica. Non tanto per la gravità dei fatti, ma perché è stato un evento – il primo appunto di questo genere – non catalogabile nel re-pertorio e nel lessico tradizionale della politica e della sociologia.

Dieci anni fa, attribuire quegli atti di rivolta a un soggetto (a un soggetto pubblico e a una qualsiasi rivendicazione politica o economica o sociale) si era rivelata un’impresa fallimentare. I fatti parigini non hanno forse avuto una por-tata storica, ma ci hanno lasciato in eredità un enigma politologico irrisolto: chi era il soggetto della rivolta? E soprattutto dove lo si incontrava? Sul piano della razza, della classe, dell’emarginazione sociale e territoriale, del riconoscimen-to? In questa chiave, pure il termine di “sottoproletariato” urbano sembrava inadeguato, se non altro per il suo legame a una figura storica in estinzione. E la stessa natura dei fatti era poi assimilabile a una rivolta, a teppismo, a vandali-smo? Per qualche tempo la questione accese un intenso dibattito, presto sopito una volta finita l'emergenza.

L'enigma improvvisamente apparso si è altrettanto improvvisamente sciol-to, nel senso che si è risolto da solo nel plasma di un disagio sociale improdut-tivo, inoperoso, fluido, invisibile più che nascosto, come fosse il rovescio mate-riale e ideologico del paradigma spaziale dominante. Non dunque l'idilliaca vita di quartiere (Belleville) che Castells rievocava quale antidoto e contrappeso alla società astorica delle élite globali, il luogo dove la scena pubblica interpreta re-lazioni sociali autentiche in contrapposizione all'anonimia dello spazio dei flussi e delle élite31, ma qualcosa di più sfuggente, pervasivo, disperso tra le ma-glie spaziali e discorsive della rete.

Sono in tal senso tentato di declinare la nozione di plasma, presa in questa accezione, a una ben più tradizionale, ma non meno destrutturata e spiazzante, come quella che Hegel ha coniato in relazione alla plebe, un concetto anteriore all'organizzazione del proletariato in classe in seno allo Stato nazional-sociale moderno. La tentazione consiste nel fatto che in Hegel il concetto di “classe” (Klasse), a differenza di quanto avverrà in Marx, indica precisamente quei gruppi (esterni al sistema sociale) che ne minacciano l’esistenza. Questi gruppi, opposti e in un certo modo simmetrici, sono – in basso – la plebe (Pöbel) e – in alto – il capitale finanziario. Il primo si presenta come un elemento informe e potenzialmente sovversivo che occupa il margine inferiore della società civile, il

29

Cfr. E.BALIBAR, Uprisings in the Banlieues, in «La Rosa di Nessuno», Pouvoir destituant, 3/2008, pp. 47-71.

30

Rimando per questo a D.HARVEY, Città ribelli (2012), Milano, Il Saggiatore, 2013. 31

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secondo indica invece la fluidità del nuovo capitalismo, il cui carattere eccede i limiti geografici e territoriali dello stato. Due figure della deterritorializzazione del capitalismo che forse la modernità è riuscita a “contenere” (nel senso che Schmitt avrebbe dato al termine), ma che oggi, saltata ogni efficiente media-zione politico-governamentale (a cominciare dal sistema di welfare) sembrano nuovamente divaricare lo spazio politico. La plebe incarna in Hegel quasi un ossimoro: è una parte della società civile che tuttavia si rifiuta di prender parte al gioco di ruoli del teatro sociale. Senza “né arte né parte”, come si usa dire, es-sa non è propriamente legata alla miseria, non ha carattere di mases-sa e non ri-vendica diritti o salari. Se lo facesse, perderebbe ciò che innanzitutto la qualifi-ca, vale a dire il rifiuto di soggettivarsi (o meglio di assoggettivarsi) nella dina-mica di riconoscimento che promuove a ogni livello il legame sociale. Il deside-rio plebeo è in Hegel temibile perché non si lascia mettere all'opera, non trova nel lavoro la sorgente di elaborazione sociale dell'impulso primario alla nega-zione e al consumo dei beni. Paradossalmente, il desiderio di godere improdut-tivamente mostra nella plebe un riflesso della sovranità, non a caso l'altra figu-ra che la dialettica hegeliana, sviluppandosi unilatefigu-ralmente sul versante stori-co del servo e del cittadino, si dimostra incapace introiettare, mediare e “supe-rare”. È un contromovimento interiore quello che conduce la plebe ad appros-simare la propria figura a quella della sovranità: rifiutando la logica della pover-tà, che è quella di riconoscere come costitutiva la propria mancanza d'essere per poter negare la propria condizione e divenire altro da sé, la plebe sfugge a ogni prospettiva giocata sul futuro, «si affida all'accidentalità»32: alla sorte, al gioco, alla ricerca del godimento, al sogno di detenere i simboli della regalità, senza però il desiderio del potere e della responsabilità che questa comporta. La plebe fa orrore alla borghesia e paura al proletariato. La prima ha infatti una possibilità che alla seconda non è concesso: l'evitamento, la rimozione, il riget-to, l'aggiramento. Il proletariato urbano vede invece nella plebe l'immagine di uno scadimento incondizionato del soggetto dai legami che reggono le gerar-chie sociali cui appartiene; qualcosa che lo riguarda da vicino perché si verifica nel campo della povertà, ma come rinuncia al suo significato sociale (mediato da un Altro generico e dalla possibilità che l'espressione di determinati bisogni particolari possa tradursi in un discorso pubblico) e dunque come reificazione dell'articolazione antropogena del rapporto bisogno-desiderio.

Flaubert usava la parola voyoucratie (“canagliacrazia”) per esprimere la na-tura spettrale, trasgressiva, violenta che la contro-sovranità plebea può assume-re. E Derrida ha poi ricordato che

32

Cito dalla traduzione del § 244 delle Vorlesungen über Rechtsphilosophie 1824-1825 contenuta in G.W.F.HEGEL, Le filosofie del diritto, a cura di D. Losurdo, Milano, Leonardo, 1989, p. 384.

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«la parola voyou ha un rapporto essenziale con la via (voie), con la viabilità urbana, con la rete viaria della città e della polis, e quindi con la strada (rue), dato che lo sviamento della canaglia consiste nel fare uso della strada, nel corrompere le piazze, nel bighellonare per le strade, nel “percorrere le strade in lungo e in largo” [...]. Tutto questo avrebbe a che fare, sulla scia di Baudelaire, di Benjamin, di Aragon, con un'al-tra rappresentazione della “vita moderna”, della città moderna, a partire dal XIX se-colo fino ai nostri giorni, nel paesaggio urbano e capitalistico della civiltà industria-le»33.

La maschera canagliesca della plebe, pericolosa o solo molesta, aggressiva o solo spavalda, minacciosa o solo questuante, è nello spazio pubblico senza ave-re figura pubblica: circola nello spazio sociale delle pratiche lì dove queste si svolgono con particolare intensità, ma non partecipa delle finalità per cui lo spazio è implicitamente o esplicitamente predisposto. Il contributo di Foucault nel merito della questione è ancora una volta illuminante. Nell’ottica da lui proposta,

«non si deve certamente concepire la “plebe” come il fondo costante della storia, l’obiettivo finale di ogni assoggettamento, il focolaio mai del tutto spento di ogni ri-volta. Non c’è assolutamente realtà sociologica della “plebe”. Ma c’è comunque sem-pre qualcosa, nel corpo sociale, nei gruppi, negli individui stessi che sfugge in un certo modo alle relazioni di potere; qualcosa che non è affatto la materia prima più o meno docile o resistente, ma il movimento centrifugo, l’energia di segno opposto, l’elemento sfuggente. Non esiste la “plebe”, c’è “della” plebe. Ce n’è nei corpi e nelle anime, negli individui, nel proletariato e nella borghesia, ma con un’estensione, del-le forme, deldel-le energie, deldel-le irriducibilità differenti»34.

Foucault chiarisce così indirettamente anche un altro elemento decisivo del discorso intorno alla plebe: questa è certo un prodotto delle contraddizioni del sistema di produzione, ma proprio perché non si riduce al solo fattore econo-mico dell’indigenza, “ce n'è” o ce ne può essere anche nell'universo borghese. Determinante è un elemento aggiuntivo che s’inscrive nel registro dell’imma-ginario, vale a dire la frustrazione e il risentimento verso il “comune”, si chiami esso società, governo, spazio pubblico, ecc.

Così anche la plebe contesta, a suo proprio modo – ovvero in una prospetti-va rovesciata rispetto all'individualismo liberale e alle più recenti teorie dei Networks – l'esistenza di una totalità pervasiva e onnicomprensiva chiamata appunto “società”, qualcosa di cui non sente di far parte, o di cui sente forse di essere la confutazione fattuale.

L’anomica fatticità della plebe la si può oggi identificare nell’immigrazione irregolare, nella disoccupazione cronica, nella manovalanza criminale, nelle

gang giovanili, nel white trash, nell'emarginazione che ha fatto del margine

stesso una garanzia della sua invisibilità sociale, negli uomini e nelle donne di tutto il mondo dipendenti dalla catena di montaggio dei videopoker, di cui

so-33

Cfr. J.DERRIDA, Voyous, Paris, Galilée, 2003, p. 132; tr. it. Stati canaglia, Milano, Cortina, 2003, pp. 101-102.

34

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no, come plebe, l'autentico prodotto. Ma poiché nessun parametro oggettivo, nessun sapere-potere, ne coglie per principio l'esistenza, come Foucault ben sapeva, una fenomenologia della plebe non esiste di fatto e per principio.

La sua idea non richiama – è bene sottolinearlo – una reale presenza sociale, né una categoria positiva, ma piuttosto qualcosa che esiste ed è pensabile come residuo di una triplice esclusione: materiale (ristrutturazione delle forme pro-duttive e connettive, delocalizzazione); sociale (negazione della società e dello stato sociale, indifferenza al territorio e alla sua crescita informe); epistemolo-gica (incapacità di cogliere il plasma urbano che scorre tra le maglie categoriali vecchie e nuove).

Un’ultima osservazione: ho chiamato in precedenza “resto” o “residuo” ciò che poi, con Hegel e Foucault, ho cercato di specificare con la metafora-contenitore della “plebe”. A questo punto però l’idea del resto non risulta ade-guata. “Resto” è ciò che rimane dopo una divisione o una sottrazione. Il “resto” sociale continua a rinviare alla totalità, all’intero da cui deriva. La plebe non sembra rispondere a questa logica, ma piuttosto a quanto (con Bataille, forse anche con Lacan), metterei in rapporto alla nozione di “scarto”. Per sua natura lo scarto è infatti ineliminabile: è ciò che resiste ai processi di nientificazione che l’hanno prodotto. Qualcosa resta, ma non è raffigurabile, economizzabile, soggettivizzabile e dunque governabile. Lo scarto si produce scadendo verso la reificazione, staccandosi dal corpo sociale che lo produce. Che il problema po-sto dallo scarto – cosa farne – sia in ogni senso decisivo per la società tardo-capitalista delle reti è del tutto evidente. Scarti (sociali) e rifiuti (produttivi) presentano entrambi il carattere dell’ “emergenza” al quale si applica, nel caso la crisi assuma una rilevanza pubblica, soluzioni di tipo extra-giuridico.

Dato che lo scarto non si può reintegrare a ciò di cui è lo scarto, non ci sono che due modi per trattarlo: nasconderlo, («allontanarlo alla vista e al naso»35), oppure deportarlo. Entrambe le strategie utilizzano lo spazio come ultima ri-sorsa, sfruttandone le potenzialità di isolamento o di allontanamento. In cam-po sociale, appartenevano al primo caso la costruzione delle “città nuove”, dei contenitori socio-spaziali “monouso” come le periferie dormitorio o i ghetti razziali; al secondo le deportazioni di massa, come quando, nel giugno 1848, i quartieri operai di Parigi vennero ripuliti a fondo, e il proletariato ribelle confi-nato in Algeria (oppure in Nuova Caledonia, dopo la Comune del 1871). Seg-menti di queste politiche moderne di confinamento o confino sono ancora vivi (per esempio nell’inasprimento delle leggi sui rimpatri, nelle politiche dei re-spingimenti, nei campi di accoglienza “provvisori”), ma appaiono

macroscopi-35

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camente arretrate rispetto al nuovo assetto socio-spaziale, nel quale, come ha sostenuto Hauke Brunkhorst, «la produzione di corpi superflui, che non sono più necessari per lavorare, è una conseguenza diretta della globalizzazione»36. Paradossalmente, nelle società post-industriali che si pretendono organizzate in termini di flussi globali, e che esigono meno Stato possibile, il problema de-gli scarti sembra non poter essere gestito che dall’interno, localmente, accre-scendo il potere territoriale dello Stato. Oppure rafforzando il potere immuniz-zante dei dispositivi di connessione infrastrutturali e dei nodi urbani, facendo così dei segmenti alti della rete un sistema di chiusura e di apertura ermetico: eterotopie della deterritorializzazione. Al di là della sua singolarità, la plebe è infatti ciò di cui i poteri governamentali non sanno oggi che fare, a Parigi come a Los Angeles, a Napoli come a Milano. Dato che localizzarla è impossibile (“ce n’è”, con forme e gradi diversi, nella metropolitana, nelle strade del centro, nei grandi magazzini, nei locali e ovviamente nelle periferie grandi e piccole ecc.), lo spazio dei flussi – in teoria, l'erede dello spazio pubblico tradizionale – prende con crescente sistematicità le sue contromisure immunitarie.

Viviamo una fase storica di transizione che coinvolge tutti i contenitori di potere sociale, riformandone la base geografica. I meccanismi di accumulazio-ne capitalistica guidano ancora questi processi, cercando di dominaraccumulazio-ne le con-seguenze sul piano dell’organizzazione e del discorso. L’attuale tridimensionali-tà dello spazio politico, che ai meccanismi di inclusione e forclusione ha ag-giunto le efficienti strategie dell’elusione e della dislocazione supportate dalla rete tecnologica, richiede però inedite forme di governo, in mancanza delle quali ci si affida ancora, almeno in parte, a vecchie e consolidate tecniche di go-verno bio-politiche.

Il concetto di plasma urbano, di cui la plebe rappresenta certo un’espressione eccessiva, a tratti caricaturale e “drammatica”, è chiaramente es-so steses-so un displacement rispetto all'ordine del discores-so oggi egemone: se pre-senta qualche utilità, non è in fondo che quella di destabilizzare il funziona-mento ordinario di un discorso performativo, legittimato da pratiche reiterative in un regime normalizzante di verità. Così mi pare vada letto anche un passag-gio di Derrida come questo: «una politica democratica della città deve sempre iniziare con l'ardua domanda: “che cosa vuol dire periferia?”, ossia: “che cos'è una canaglia?”, “A quali condizioni è possibile una ‘canagliacrazia’?”»37. Dopo il discorso del plasma e quello delle plebe, anche questo ha come obiettivo, nel registro proprio alla decostruzione, la relativizzazione della società. L'evidente intenzione retorica, spiazzante, di queste domande mira infatti a far coincidere 36

H.BRUNKHORST, Global Society as the Crisis of Democracy, in M.CARLEHEDEN –M.JACOBSEN (eds) The Transformation of Modernity: Aspects of the Past, Present and Future of an Era, Alder-shot, Ashgate, 2001, p. 233.

37

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la democrazia con l'esercizio di una domanda che non si esprime nello spazio pubblico, al centro di una qualche “agorà” (ammesso che ne esistano ancora), né presuppone un tale centro come qualcosa di dato e costituito: la democrazia, diremmo, comincia ogni volta dove finisce, al margine del suo stesso paradigma sociale e topologico, lì dove il significato della società, di volta in volta, si com-pie solo scartando da sé almeno un significante.

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