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Profili del regime delle società minerarie in età classica tra fonti epigrafiche e giurisprudenziali

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Academic year: 2021

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9/11/2020 Societas & Societates - ELR - European Legal Roots

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Legal Roots - Rivista di Classe A Next Issue : LR 10 (2021) Submission deadline 4 December 2020 LR online 1st issue 2021 - Submission open

ELR - European Legal

Roots

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  Università di Bari 

 9 maggio - Officine Romanistiche    10 maggio 2019 - Apertura del Convegno   e prima seduta dei lavori

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11 maggio 2019 - Seconda seduta dei lavori

Università di Parma

14 - 15 novembre 2019 - Terza seduta dei lavori - Tavola Rotonda dei Relatori

Societas e Societates 

Una Cronaca 

di

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Alcuni Contributi*

Francesco Arcaria - La societas romana. Teorie tradizionali e nuove linee di ricerca

 

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Mariaromana Tardi

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9/11/2020 Societas & Societates - ELR - European Legal Roots

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Aurelio Arnese - Coire societatem

Alice Cherchi - 

Raffaele D’Alessio - Dicitur etiam capitis deminutione solvi societatem

Sara Galeotti - 

Mattia Milani - Amicitia e societas

Yuri González Roldán - Actio pro socio e perdita dolosa del possesso

Alessia Spina - Fraternitas, societas, consortium. Antichi percorsi storiografici e nuove prospettive di ricerca

* Relazioni svolte nell'ambito delle "Officine Romanistiche" svoltesi nel 2019 a Bari e Parma; i contributi saranno ulteriormente pubblicati, a seguito di referaggio, sul LR 10, 2021 o su LR 1, 2021.

S  è un'iniziativa delle Università di Bari, Parma, LUM Jean Monnet e del Network Internazionale ELR - European Legal Roots

Gli Atti dei Convegni saranno pubblicati dalla Rivista LR - Legal Roots

COORDINAMENTO SCIENTIFICO :

Proff. Andrea Lovato, Salvatore Puliatti, Salvo Randazzo

Profili del regime delle società minerarie in età classica tra fonti epigrafiche e giurisprudenziali

Etiam in tempore hiberno: stagionalità della navigazione nel Mediterraneo e functio navicularia. Note a margine di CTh. 13.5.26-27 e 34 e CTh. 13.9.31

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I giovani studiosi e lo spazio della sperimentazione: le Officine Romanistiche a Bari e a Parma:

ocietas e Societates

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DIRETTORE RESPONSABILE: SALVATORE RANDAZZO (BARI)

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Profili del regime delle società minerarie in età classica

tra fonti epigrafiche e giurisprudenziali

*

Alice Cherchi

Abstract: This paper focuses on some aspects of the mining companies regulation in the classical period through a new analysis of epigraphic and jurisprudential sources. After showing that the mining companies mentioned in some important epigraphs were proba-bly private companies regulated in a peculiar way, the research connects these peculiari-ties to the regulation that emerges from the Digest. On the one hand the research confirms that the private mining companies could have a certain external relevance, as admitted by the most recent doctrine, but on the other hand it also highlights the difficulties of indicat-ing in greater detail the content and the boundaries of such relevance.

Keywords: società minerarie, societas Sisaponensis, seconda tavola di Vipasca, societas publicanorum, corpus habere.

Sommario. 1. Premessa. – 2. Le testimonianze epigrafiche sulla società mineraria Sisaponense. 2.1. Esame di CIL II2/7.699a. – 2.2. Esame di CIL II2/7.415a e CIL X.3964. – 3. La disciplina delle società minerarie nella seconda tavola di Vipasca. 3.1. Esame di Vip. II.6. – 3.2. Esame di Vip. II.7-8. – 4. Tracce della disciplina delle società minerarie nei Digesta giustinianei. 4.1. Esame di D. 3.4.1 pr.-1. Il riferimento ai socii aurifodinarum vel argentifo-dinarum et salinarum. – 4.2. (Segue) Profili di rilevanza esterna delle società minerarie. – 4.3 Esame di D. 39.4.13 pr. – 5. Osservazioni conclusive.

1. Premessa. – Nel 1985, Giovanni Negri, nell’introdurre il suo fondamentale studio sulla disciplina delle cave private nel pensiero dei giuristi classici, ricollegava la mancanza di opere d’insieme sul diritto minerario romano alla natura eteroge-nea, frammentaria e diversamente orientata delle fonti, evidenziando altresì che «l’organizzazione giuridica dei distretti minerari fiscali è […] retta da regole, principi ed istituti peculiari, ma è pressoché ignorata dalla giurisprudenza1».

* Si anticipa in questa sede la pubblicazione del contributo destinato a Legal Roots, 9, 2020. 1 NEGRI 1985, 4.

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4 4 Si tratta di un dato che condiziona inevitabilmente qualsiasi ricerca si voglia in-traprendere sul regime delle società che, in epoca classica, svolgevano l’attività estrattiva proprio nei distretti fiscali, cioè in quei distretti in cui erano ubicate le miniere e le cave di maggiore importanza, tanto per dimensioni, che per pregio dei materiali2. Con specifico riferimento a tali società, infatti, a fronte di un numero si-gnificativo di testimonianze epigrafiche – tra le quali, come è noto, riveste un ruolo centrale la disciplina di epoca adrianea conservata nella seconda tavola di Vipasca – , si riscontra un numero molto esiguo di fonti giurisprudenziali.

Tuttavia, le fonti a noi giunte, per quanto frammentarie e collegate ad una realtà articolata di cui non è dato conoscere tutti i tasselli, si mostrano in grado di fornire interessanti spunti di riflessione, come ben posto in luce da una recente indagine3. Pertanto, la gradita occasione delle ‘Officine Romanistiche’ mi induce oggi non solo a tornare a riflettere sulle disposizioni relative alle società minerarie nel regolamen-to Vipascense4, ma anche ad ampliare l’indagine ad altre fonti epigrafiche prece-denti e alle soluzioni giurisprudenziali conservate nei Digesta giustinianei.

2. Le testimonianze epigrafiche sulla società mineraria Sisaponense. 2.1. Esame

di CIL II2/7.699a. – Per avere un’idea delle concrete esigenze poste dalla realtà

pro-vinciale in cui operavano le società minerarie e delle soluzioni elaborate per farvi fronte, possiamo prendere le mosse da una breve ricognizione di alcuni dati epigra-fici. Nel quadro delle numerose iscrizioni che attestano l’operatività, tra il I secolo a.C. e l’inizio del Principato, di società dedite all’attività estrattiva che prendevano il 2 Nel quadro dell’amplissima letteratura sul tema delle concessioni minerarie sui fondi pubblici,

possiamo qui limitarci ad una schematica esposizione delle linee di tendenza individuate da alcuni studi più recenti con riferimento ai diversi periodi. Al proposito, risultano fondamentali le conclusio-ni di DOMERGUE 1988, 134 ss; ID.1990,270 SS.; ID.2004,221ss.;ID.2008,189ss., e ANDREAU 1989, 86

ss., ad avviso dei quali, in epoca repubblicana, l’attribuzione, con locatio censoria, della concessione mineraria alle societates publicanorum cedette progressivamente il posto all’affidamento a imprese di piccole dimensioni o società tra privati, che avrebbero sfruttato parti della miniera, salvo regolare pagamento dei tributi. Inoltre, l’efficace quadro di sintesi al quale è addivenuto Domergue nel 2008, dopo una vita dedicata allo studio delle testimonianze archeologiche sulle miniere romane, mostra che questo sistema di gestione (detto anche di gestione indiretta, perché l’attività estrattiva era af-fidata a terzi sotto il controllo dei procuratores metallorum imperiali) si consolidò nel corso del Prin-cipato, intensificando il coinvolgimento delle società tra privati quali concessionarie del diritto di procedere alle estrazioni. Ancora, per un esame critico delle opinioni espresse in dottrina sui sistemi di gestione delle miniere fiscali, cfr. MATEO 1999, 123 ss.; ID. 2001, passim, e ID.2012, 245 ss.; HIRT

2010, passim, in part. 261 ss., e DUFOUR 2012, 101 ss., in part. 129 s., i quali hanno condiviso e

appro-fondito l’ipotesi della progressiva diffusione delle concessioni minerarie alle società private a scapito di quelle dei pubblicani, il cui ruolo si sarebbe perciò ridotto alla riscossione dei publica vectigalia provenienti dalle miniere.

3 BERNARD 2018, 343 ss.

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5 5 nome del luogo in cui aveva sede la miniera5, esamineremo quelle relative ad una

societas attiva nelle fiorenti miniere di Sisapo, in Baetica, probabilmente ubicate tra

le attuali località di La Bienvenida e Córdoba.

Dato che le abbreviazioni presenti nelle nostre iscrizioni hanno dato luogo a ipo-tesi di ricostruzione del testo a volte riferite alla società Sisaponense ed altre volte ai soci Sisaponensi, tenteremo di fare maggiore chiarezza sulle medesime alla luce delle concrete finalità delle soluzioni giuridiche riferite e presupposte dalle epigrafi, che saranno oggetto di ulteriore approfondimento in occasione dell’esame delle fonti giurisprudenziali6.

Leggiamo allora

CIL II2/7.699a: [Hi]c viae / servitus / imposita / est ab soc(ietate) / Sis(aponensi)

susum / ad montes / s(ocietatis) S(isaponensis) lat(a) ped(es) XIV.

L’iscrizione7 attesta l’esistenza di una servitus viae verso l’alto (susum), ampia quattordici piedi (lat(a) ped(es) XIV) ed estesa fino alle miniere in cui si svolgeva l’attività estrattiva (ad montes…), in favore della societas Sisaponensis. In dottrina si è sottolineata la stretta connessione tra la servitus viae e l’esigenza della società mineraria di trasportare il materiale estratto dalle miniere al porto fluviale di

Cor-duba8, in modo che il metallum potesse essere da lì condotto verso altre località,

5 L’operatività di un numero rilevante di società con questa caratteristica è stata ben posta in

evidenza da BERNARD 2018, 343 ss. (alla quale si rimanda per l’esame delle epigrafi): si sarebbe

trat-tato, in particolare, della soc(ietas) Vesc(ensis), della soc(ietas) argent(i)fod(inarum) mont(is)

Ilu-cro(nensis), della soc(ietas) m(ontis) F(icariensis) e della soc(ietas) Baliar(ica) – ubicate nella penisola

iberica –, nonché della soc(ietas) arg(entifodinarum) Rot(enenesium) e dei sociorum plum(bum)

Ger(manicum) o Ger(manum) – nella Gallia Transalpina –, oltre ad alcune di attestazione più incerta.

6 Infra § 4.

7 Essa risulta edita per la prima volta da VENTURA VILLANUEVA 1993, 49 ss., in part. 51 s., la cui

ipo-tesi di trascrizione è stata accolta nel CIL, seppur con i punti interrogativi relativi ai lemmi societatis

Sisaponensis dell’ultima riga. Successivamente, RODRÍGUEZ ALMEIDA 1994-1995, 173 ss., in part. 175,

ha ritenuto più corretta la seguente ricostruzione: Hac (s. huc) servitus viae imposita est ab sociis

Sisaponensibus susum ad montes societatis Sisaponensis, latitudine pedum quattuordecim, ma ha

altresì osservato che essa non cambierebbe «la sostanza della precedente».

8 La servitus viae avrebbe conferito il diritto di attraversare il fondo altrui anche con carri e cavalli

e di trasportare materiali vari, come travi e pietre, come sottolineato, anche sulla base da D. 8.3.23 (Paul. 21 ad ed.), da VENTURA VILLANUEVA 1993, 49 ss., in part. 52 ss.; RODRÍGUEZ ALMEIDA 1994-1995,

177; PAVESE 2013, 10 ss., in cui ulteriore letteratura, e BERNARD 2018, 349. Inoltre, ad avviso di tali

Autori, la menzione della servitus viae in capo alla societas Sisaponensis indurrebbe a ritenere che tale tipo di servitù fosse stato elaborato, come figura autonoma rispetto alle servitù itineris e actus, prima dell’epoca giustinianea, come invece ipotizzato da CORBINO 1981, 208 ss. Sul punto, già T ALA-MANCA 1990a, 460, aveva ritenuto «difficilmente accettabile» che la servitus viae fosse «una figura

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6 6 anche se pare verosimile che la servitù consentisse altresì il trasporto verso i

mon-tes di quanto di volta in volta necessario per lo svolgimento dell’attività estrattiva9. Come si vede, si tratta di una servitù di passaggio funzionale all’esercizio dell’attività mineraria sul fondo dominante e, dato che quest’ultimo era un fondo provinciale, veniva probabilmente sfruttato dalla medesima società mineraria in virtù di previa concessione, come emerge dal riferimento ad montes / s(ocietatis)

S(isaponensis).

La servitus viae menzionata in CIL II2/7.699a sembra dunque presentare caratteri peculiari rispetto al regime generale, non solo perché probabilmente attribuita alla società concessionaria del fondo, ma anche perché connotata da una certa utilità ‘industriale’ oltre che prediale10. Tali peculiarità appaiono però del tutto compren-sibili se si collegano alla realtà in cui la servitù era destinata ad operare e, in parti-colare, allo scopo di agevolare il concreto esercizio dell’attività estrattiva da parte della società concessionaria emerso poc’anzi11.

Dal momento che il contenuto dell’iscrizione qui brevemente esaminato pare te-stimoniare che la società, in quanto titolare della servitù, avesse una certa rilevanza esterna, la maggior parte della dottrina ha ritenuto che si trattasse di una societas

publicanorum12, anche se in tempi più recenti si è fatta strada l’ipotesi13 che fosse invece una società tra privati capace di corpus habere14.

tarda, addirittura postclassica», pur ponendo in rilievo che «l’individuazione di codesta servitù dà luogo a notevoli difficoltà».

9 Si pensi, ad esempio, ai materiali per la manutenzione e l’ampliamento della miniera, agli

stru-menti di lavoro dei minatori, nonché al passaggio degli stessi minatori.

10 GROSSO 19552, 118 ss., in part. 121, ha infatti ammesso l’esistenza di una servitù di tal fatta

laddove «l’utilità del fondo possa consistere nell’assecondare la destinazione industriale» di un al-tro, superando così le conclusioni di BONFANTE 1926, 364, per il quale si sarebbe dovuto nettamente

distinguere tra utilità fondiaria, cioè agricola (a cui sarebbe paragonabile – ad avviso dell’Autore – quella mineraria, nonostante la funzione di produzione destinata al profitto di quest’ultima appaia più spiccata) e utilità industriale «nella quale il fondo non è l’oggetto, bensì la sede dell’industria».

11 Ciò induce ad accettare, anche alla luce della natura di per sé indivisibile del diritto di servitù,

la ricostruzione del testo dell’epigrafe accolta nel CIL (e riportata supra nel testo del presente para-grafo) piuttosto che quella di RODRÍGUEZ ALMEIDA 1994-1995, 175, riportata supra nt. 7.

12 In questo senso VENTURA VILLANUEVA 1993, 49 ss.; CARLSEN 1995, 52; HIRT 2010, 163; HERNÁNDEZ

GUERRA 2013, 81; CHIOFFI 2013, 173 ss., in part. 176 ss. Peculiare è poi la posizione di MATEO 2001, 39

ss. e 48 ss., il quale, pur avendo sostenuto che, nella maggior parte dei casi, le società menzionate nelle fonti epigrafiche fossero formate da privati, con riguardo alla società Sisaponense ha ritenuto che si trattasse eccezionalmente di una società di pubblicani, in virtù del pregio di alcuni minerali estratti (su cui infra nt. 16).

13 Sostenuta da BERNARD 2018, 360 ss., sulla scorta delle conclusioni di MATEO 2001, 39 ss. 14 Nel senso attestato in D. 3.4.1. pr.-1 (su cui infra §§ 4.1 e 4.2).

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7 7 2.2. Esame di CIL II2/7.415a e CIL X.3964. – Per passare al vaglio le opinioni

ap-pena descritte, è opportuno tenere conto delle informazioni derivanti da altre due iscrizioni in cui viene menzionata la società Sisaponense. Partiamo da

CIL II2/7.415a: M(arcus) Argentarius s(ocietatis) S(isaponensis) l(ibertus) Philinus / A(ulus) Argentarius s(ocietatis) S(isaponensis) libertus Rufus / M(arcus)

Argenta-rius s(ocietatis) S(isaponensis) l(ibertus) / Succio / suo testamento fieri / iussit.

L’iscrizione, databile al principio dell’epoca augustea e rinvenuta su un monu-mento funebre eretto per volontà del testatore Succio nella zona di Corduba, è de-dicata a tre liberti della societas Sisaponensis che, una volta manomessi, ricevettero il nome Argentarius15. Ad una prima impressione, l’attribuzione di tale nome, che rievoca evidentemente uno dei minerali estratti dalla societas16, sembra collegata al fatto che i liberti, una volta manomessi, avessero continuato a lavorare al servizio della medesima società in cui erano impiegati da schiavi. Dal momento che emerge altresì che costoro fossero particolarmente cari a Succio – che aveva ordinato,

te-stamento suo, l’erezione del loro monumento funebre –, si potrebbe altresì

ipotiz-zare che, da schiavi, fossero stati oggetto di previo conferimento da parte sua. Lad-dove si percorra questa ipotesi, si pone l’ulteriore necessità di inquadrare il confe-rimento tra quelli quoad usum, in cui «si destinava alla gestione sociale solo l’uso di determinate cose17» o quoad sortem, in cui si trasferiva la titolarità dei beni o,

rec-tius, del diritto di disporne «giuridicamente o materialmente18», al fine di

consenti-re il loro impiego per il raggiungimento dello scopo sociale.

15 Per una rassegna della letteratura dedicata all’iscrizione, cfr. DÍAZ ARIÑO, ANTOLINOS MARÍN 2013,

114 ss., i quali hanno osservato che da essa si evince «con bastante certeza que Argentarius era el

nomen gentilicium que adoptaban tras su manumisión los antiguos esclavos de compañías mineras

relacionadas con la producción de plata – societates argentifodinarum –», nonché CHIOFFI 2013, 173

ss.

16 È infatti verosimile, come sottolineato da DOMERGUE 1990,270;ID.2008,194, che la società di

Sisapo estraesse diversi materiali: l’argento, il cinabro o minio – utilizzato per ricavare un costoso

pigmento rosso e l’idrargirio (mercurio artificiale) –, nonché l’argentum vivum (mercurio nativo). Al riguardo, CHIOFFI 2013, 173 ss., ha ipotizzato che la il filone argentifero, attivo in età repubblicana, si

sarebbe esaurito in seguito, tanto che, in età imperiale, la località mineraria divenne nota principal-mente per il minio.

17 In questo senso, cfr. TALAMANCA 1990b, 851 s. (in cui cfr. ulteriore letteratura alla nt. 406), che

esamina la questione delle tipologie dei conferimenti in collegamento con il problema del calcolo dell’attivo e del passivo della gestione sociale.

18 Sul punto, cfr. ancora TALAMANCA 1990b, 852 e nt. 409, il quale propende per quest’ultima

ca-ratterizzazione dei conferimenti quoad sortem, in virtù «della particolare configurazione della socie-tà romana», pur non ritenendo verosimile l’ulteriore distinzione proposta da CORNIOLEY 1970, 493 ss.,

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8 8 Sebbene, anche in questo caso, il quesito rimanga inevitabilmente aperto, la cir-costanza i liberti vengano definiti societatis Sisaponensis induce a considerare più verosimile che, da schiavi, fossero stati oggetto di previo conferimento quoad

sor-tem19. Tale tipo di conferimento, infatti, avrebbe comportato il trasferimento del

dominium degli stessi in capo a tutti i soci in regime di comunione o direttamente

alla stessa società Sisaponense. Quest’ultima opzione potrebbe far pensare che i liberti avrebbero continuato a lavorare per la società in quanto tenuti a prestare le loro operae nei confronti della medesima. Ragionando in tale ordine di idee, si po-trebbe altresì ammettere che la manomissione degli schiavi presupposta dalla no-stra epigrafe fosse avvenuta attraverso dei soggetti (presumibilmente dei soci) che agivano in qualità di rappresentanti comuni20, cioè in maniera semplificata rispetto alle modalità imposte dal regime di comunione21.

Riguardo a quanto appena ipotizzato, appare rilevante anche il contenuto di CIL II2/7, 334: M(arcus) Aerarius soc(iorum) aerar(iorum) l(ibertus) /

Tele-mac(h)us medicus hìc quiescit vale.

L’epigrafe, che proviene dalla stessa zona della precedente e risale allo stesso periodo, fa riferimento al liberto M(arcus) Aerarius Telemac(h)us, in servizio come medico22 presso una società dedita alla produzione dell’aes, il quale assunse, in se-guito alla manomissione, il nome Aerarius, anche qui palesemente collegato al ma-teriale prodotto dalla societas. Il testo appena riportato, in cui Aerarius viene defi-nito soc(iorum) aerar(iorum) l(ibertus), è stato ricostruito da Domergue23 come rife-rito alla soc(ietas) aerar(iarum) (fodinarum). Questa ipotesi, che rende la nostra iscrizione ancor più simile alla precedente, induce ad ammettere, anche in questa sede, la possibilità che la società mineraria fosse titolare dello schiavo. A ben vede-re, l’iscrizione che stiamo commentando sembra dare un indizio in più rispetto a quelli forniti dalla precedente: menziona, infatti, il gentilizio Telemac(h)us del

liber-comportato la possibilità di disporre dei beni conferiti e i secondi il trasferimento della titolarità dei medesimi.

19 Nel senso che fosse avvenuto il trasferimento degli schiavi, senza però precisare che si

trattas-se di un trasferimento quoad sortem, si sono infatti orientati DÍAZ ARIÑO, ANTOLINOS MARÍN 2013, 114

ss.

20 Sul punto, cfr. infra § 4.2.

21 Come è noto, infatti, la manomissione degli schiavi in comunione avrebbe dovuto essere

effet-tuata da tutti i comproprietari contemporaneamente o dai singoli per la loro quota, che avrebbero così creato il presupposto (il ius adcrescendi in capo agli altri) necessario affinché l’ultimo potesse procedere a manometterli in via definitiva.

22 Forse un medico dedito alla cura delle patologie legate all’esercizio prolungato dell’attività

mi-neraria, come ipotizzato da HERNÁNDEZ GUERRA 2013, 79. 23 DOMERGUE 1990,270.

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9 9 to, probabilmente ricevuto dal suo manomissore, come se la manomissione fosse stata effettuata da un solo soggetto (forse un socio) che aveva agito su incarico de-gli altri o in qualità di rappresentante comune24.

Con riferimento al discorso che andiamo conducendo, riveste altresì interesse quanto riferito in

CIL X.3964: Epapra socioru(m) / Sisapo[n]es[i]u[m] vilic(us) / o(ssa) h(ic) s(ita)

s(unt) / et Provincia uxor.

L’iscrizione, rinvenuta su un cippo funerario datato tra il I sec. a.C. e il I d.C.25, è riferita ad un vilicus sociorum Sisaponesium26 di nome Epapra sepolto con la sua

uxor a Capua: dato che si tratta di una località ben distante dal luogo in cui avveniva

l’estrazione del metallum, la maggior parte della dottrina ha ritenuto che Epapra fosse uno schiavo incaricato della riscossione dei vectigalia collegati all’attività estrattiva per conto della società Sisaponense, che sarebbe stata una società di pu-blicani27.

In favore della suddetta ipotesi potrebbe giocare il fatto che, mentre la titolarità della servitus viae e quella degli schiavi poi manomessi sono parse strettamente funzionali all’esercizio dell’attività estrattiva in loco, una tale funzionalità non sem-bra potersi evincere, con la medesima immediatezza, con riferimento al vilicus menzionato in CIL X.3964. Tuttavia, la circostanza che Epapra, seppur sepolto in un luogo distante dalla miniera, venga definito vilicus socioru(m) / Sisapo[n]es[i]u[m] induce a non poter escludere che si trattasse di un soggetto che avesse prestato servizio, durante la vita a Sisapo, alla società mineraria Sisaponense e si fosse poi traferito a Capua.

In effetti, i dati sin qui emersi, per quanto riferiti ad un regime per certi versi pe-culiare, non paiono testimoniare che la società mineraria Sisaponense fosse neces-sariamente una società di pubblicani, anche se al riguardo bisogna tenere conto di alcune informazioni provenienti dalle fonti letterarie che si riferiscono tanto all’attività estrattiva nelle miniere di Sisapo, quanto alle attività a questa collegate, 24 In questo senso pare orientarsi CIMMA 1981, 201, nt. 117, la quale muove però dal

presuppo-sto che lo schiavo fosse nella titolarità di una la societas publicanorum.

25 Sul punto, CHIOFFI 2013, 174, ha evidenziato che «le caratteristiche paleografiche fanno

collo-care la scritta originaria entro l’ultimo ventennio del I secolo a.C. e la postilla agli inizi del I secolo d.C.»

26 Per il ruolo del vilicus all’interno dell’articolazione dell’impresa (in particolare agricola), cfr. DI

PORTO 1984, 73 ss.; ID. 20042, 305 ss., 331 ss. (ove ulteriore letteratura), ad avviso del quale si

dovet-te trattare di un soggetto che svolgeva mansioni previamendovet-te individuadovet-te all’atto della praepositio e aveva una profonda conoscenza del funzionamento dell’impresa.

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10 10 quali la lavorazione del minerale e la riscossione del vectigal. Vitruvio, infatti, in De

arch. 7.9.428, ci informa che le officinae specializzate nella lavorazione del minio, prima situate presso le miniere di Efeso, si erano trasferite a Roma, dove il minerale giunto in zolle dai nuovi filoni scoperti a Sisapo, veniva gestito dai publicani (…quibus metallis glaebae portantur et per publicanos Romae curantur).

Soltanto incidentale è poi il riferimento ai soci Sisaponensi all’interno della se-conda Filippica di Cicerone (Phil. 2.4829), nella quale l’Arpinate enfatizza che Anto-nio, a Miseno, si trovava in difficoltà economiche tali che non gli era rimasta nean-che una casa di proprietà esclusiva, ma solo una in comune con altri tamquam

Si-saponem. Si tratta, come è evidente, di un riferimento brevissimo30, ma ‘ad

effet-to’, che ci consente di capire non solo quanto fossero note le miniere di Sisapo, ma che fosse altrettanto noto che i soci delle medesime dovevano apportare ingenti conferimenti di beni, tanto da assurgere, nella logica dell’iperbole ciceroniana, a vi-vido esempio di soggetti privi di proprietà esclusive.

Delle stesse miniere parla anche Plinio il Vecchio in Nat. Hist. 33.40.11831, sotto-lineando che la riscossione dei vectigalia populi romani collegati all’estrazione del minio nelle celeberrime miniere di Sisapo veniva svolta con la massima attenzione (nullius rei diligentiore custodia). Plinio riferisce inoltre che la lavorazione del mate-riale, non consentita nei luoghi dell’estrazione (non licet ibi perficere id), avveniva a Roma, dove esso, una volta purificato, veniva venduto ad un prezzo che, seppur fis-sato per legge in circa settanta sesterzi a libbra, veniva sovente aggirato32 al fine di procurare profitto alla societas (sed adulteratur multis modis, unde praeda

societa-ti). Quest’ultima menzione della societas, se letta in collegamento con quanto

af-fermato da Vitruvio (et per publicanos Romae curantur), allude con tutta verosimi-glianza alle società di pubblicani che gestivano la vendita e la lavorazione del mine-rale giunto a Roma.

28 De arch. 7.9.4: Quae autem in Ephesiorum metallis fuerunt officinae, nunc traiectae sunt ideo

Romam, quod id genus venae postea est inventum Hispaniae regionibus, quibus metallis glaebae portantur et per publicanos Romae curantur. Eae autem officinae sunt inter aedem Florae et Quirini.

29 Phil. 2.48: …Quae autem domus? Suam enim quisque domum tum optinebant, nec erat

usquam tua. Domum dico; quid erat in terris, ubi in tuo pedem poneres praeter unum Misenum, quod cum sociis tamquam Sisaponem tenebas?

30 Ma riconducibile, ad avviso di MATEO 2001, 51 e nt. 67, alla medesima società menzionata poi

da Plinio che si occupava della lavorazione e del commercio del minio.

31 Nat. Hist. 33.40.118: Iuba minium nasci et in Carmania tradit, Timagenes et in Aethiopia, sed

neutro ex loco invehitur ad nos nec fere aliunde quam in Hispania, celeberrimo Sisaponensi regione in Baetica miniario metallo vectigalibus populi romani, nullius rei diligentiore custodia. Non licet ibi perficere id, excoctique Romam adfertur vena signata, ad bina milia fere pondo annua, Romae au-tem lavatur, in vendendo pretio statuta lege, ne modum excederet HS LXX in libras. Sed adulteratur multis modis, unde praeda societati.

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11 11 Da queste testimonianze si evince dunque che intorno alle miniere di Sisapo ruo-tava un’organizzazione complessa, caratterizzata da una dislocazione delle attività: appare infatti significativo che sia Vitruvio sia Plinio rammentino che i compiti di gestione e controllo della lavorazione del minerale erano demandati ai pubblicani (così come il fatto che Plinio ricordi il divieto di lavorare il metallum nei luoghi in cui veniva estratto33), mentre questi ultimi non vengono menzionati quali soggetti ai quali era demandata l’attività estrattiva. Se leggiamo tali dati alla luce di quelli emersi dalle fonti epigrafiche, sembra quindi ammissibile che le attività collegate ai pregiati minerali estratti a Sisapo fossero svolte da più società, anche per evitare gli abusi che si sarebbero più facilmente verificati laddove fossero state tutte affidate ai pubblicani. Pertanto, da un lato, l’attività estrattiva sarebbe stata svolta da socie-tà private, che non potevano lavorare il minerale ma dovevano spedirlo altrove34, e, dall’altro lato, la riscossione dei tributi sul minerale estratto sarebbe stata affidata a società di pubblicani, le quali sovrintendevano verosimilmente anche alla lavora-zione e al commercio del medesimo in luoghi distanti dall’estralavora-zione.

Va altresì evidenziato che la società mineraria Sisaponense menzionata nelle fonti epigrafiche, anche se verosimilmente privata, sembra godere di un regime pe-culiare, dato che poteva essere considerata, almeno sotto alcuni aspetti, titolare di situazioni giuridiche soggettive: la circostanza che tale regime appaia analogo a quello delle società di pubblicani35 potrebbe ricondursi all’estensione alle società minerarie private di alcune soluzioni elaborate con specifico riferimento alle

socie-tates publicanorum36.

3. La disciplina delle società minerarie nella seconda tavola di Vipasca. 3.1.

Esa-me di Vip. II.6. – Una volta prese in considerazione le testimonianze epigrafiche che

riguardano la società Sisaponense, possiamo passare alle disposizioni dedicate alle società minerarie nella seconda tavola di Vipasca (Vip. II.6-8). Dal momento che ta-le disciplina riguarda tanto ta-le società tra occupatores che quelta-le tra coloni, è oppor-33 Al medesimo divieto pare alludere indirettamente anche Vitruvio nel momento in cui specifica

che il minerale veniva trasportato in zolle subito dopo l’estrazione (…quibus metallis glaebae por-tantur), quindi senza essere sottoposto a nessuna lavorazione.

34 Sebbene appaia difficile comprendere se il divieto di lavorazione del metallum estratto e il

connesso obbligo di venderlo a soggetti che operavano per conto dell’autorità pubblica riguardasse-ro la totalità del minerale rinvenuto o una parte dello stesso, l’assertività delle affermazioni di Plinio farebbe pensare a prescrizioni riferite a tutto il prodotto delle estrazioni, come se la società minera-ria non potesse trattenerne neanche una minima parte.

35 Sulla questione torneremo infra § 4.

36 Dato che tali società private avevano progressivamente sostituito, tra la Repubblica e il

Princi-pato, quelle publicanorum, quali concessionarie del diritto di procedere agli scavi sui fondi fiscali. Sul punto cfr. supra nt. 2.

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12 12 tuno segnalare, in via preliminare, le informazioni che si evincono dai regolamenti Vipascensi in ordine al coinvolgimento di tali soggetti nelle diverse fasi dell’attività estrattiva.

Infatti, stando a quanto sancito da Vip. I.937, l’occupator, verosimilmente un im-prenditore privato che aveva già posto in essere una prima prospezione del sotto-suolo, avrebbe dovuto versare il cd. pittaciarium38 a un conductor, socius o actor incaricato dal fisco39, nel brevissimo termine di due giorni, per poi poter procedere ad altri scavi. Inoltre, da Vip. II.140 pare potersi dedurre che l’occupator, una volta versato al fisco un ulteriore pretium per l’acquisto della concessione, avrebbe potu-to continuare l’attività mineraria in qualità di colonus41, a condizione che provve-desse al regolare versamento della metà del materiale estratto (pretium partis

di-midiae ad fiscum pertinentis)42. Infine, Vip. II.243 specifica che, per i pozzi argentife-37 Vip. I.9: Usurpationes puteorum siue pittaciarium. Qui intra fin[es metalli Vipascensis puteum

locum] / que putei iuris retinendi causa usurpabit occupabitue e lege metallis dicta, b[iduo proximo quod usurpauerit occupa] / uerit apud conductorem socium actoremue huiusce uectigalis profitea-tu[r...].

38 La rubrica di Vip. I.9 (riportato per intero alla nt. precedente), usurpationes puteorum siue

pit-taciarium, potrebbe far pensare che la procedura per l’ottenimento della concessione mineraria

ve-nisse intrapresa tramite l’usurpatio dei pozzi o il pagamento del pittaciarium. Tuttavia, da una più attenta lettura della disposizione, emerge che l’avvio della medesima procedura poteva avvenire tramite l’usurpatio o l’occupatio dei pozzi (…iuris retinendi causa usurpabit occupabitue…), che avrebbero comportato l’obbligo di versare il vectigal entro due giorni. Tale vectigal sembrerebbe coincidere, in entrambi i casi, proprio con il pittaciarium indicato in rubrica, che avrebbe dunque as-solto alla funzione di una sorta di ‘imposta di registo’, idonea a consentire al fisco la registrazione dell’imprenditore che sfruttava provvisioriamente un determinato pozzo. In relazione alla circostan-za che l’usurpatio non venga più menzionata nella seconda tavola di Vipasca, cfr. LAZZARINI 2001, 118

e nt. 221, il quale, riprendendo l’opinione di DOMERGUE 1990,99ss., ha ipotizzato che si trattasse di

un regime transitorio, che sarebbe stato poi assorbito da quello dell’occupatio, oppure di una speci-fica modalità di avvio della procedura per la concessione prevista per la primissima fase di prospe-zione del sottosuolo. Per ulteriori chiarimenti e ragguagli bibliografici su Vip. I.9, mi permetto di ri-mandare a CHERCHI 2014, 71 ss.

39 Il riferimento al socius e all’actor, oltre che al conductor, pare presupporre che la riscossione

del pittaciarium fosse demandata a una società di pubblicani, come posto in luce da MATEO 1999,

124 ss.; ID. 2001, 87 ss.; ID. 2012, 247 ss.; FLECKNER 2010, 283 ss.

40 Che, secondo la ricostruzione di LAZZARINI 2001, 107 ss., avrebbe avuto il seguente tenore

te-stuale [...pretium procuratori] Aug(usti) praesens numerato. Qui ita non fecerit et conuictus erit prius

coxisse venam quam pretium, sicut {su} / supra scriptum est, soluisse pars occupatoris commissa esto et puteum uniuersum proc(urator) metallorum / uendito. Is, qui probauerit ante colonum uenam coxisse quam pretium partis dimidiae ad fiscum pertinen / tis numerasse, partem quartam accipito.

41 In questo senso cfr. ancora LAZZARINI 2001, 131 ss., in cui ampi ragguagli bibliografici.

42 Logico presupposto di una siffatta configurazione del pretium appare, dunque, come osservato

da GENOVESI 2010, 13 ss., l’esistenza di una colonia partiaria tra concessionario e fisco: tale regime

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13 13 ri44, si sarebbe applicato il regime di favore previsto da Adriano, per cui la

conces-sione sarebbe andata a chi per primo avesse offerto il prezzo e versato una somma di quattromila sesterzi45.

Di conseguenza, la disciplina appena ripercorsa induce a ritenere che gli

occupa-tores fossero imprenditori privati coinvolti nella fase di avvio dell’attività estrattiva

e che i coloni fossero responsabili, quali concessionari durevoli del diritto di sfrutta-re la miniera, dell’attività già proficuamente avviata. Una lettura di queste informa-zioni in collegamento con le norme contenute in Vip. II.6-8, ha indotto la dottrina46 a ritenere che occupatores e coloni svolgessero sovente l’attività estrattiva in socie-tà, secondo la peculiare disciplina contemplata nel nostro regolamento minerario. Vediamola ora più da vicino, a partire da

Vip. II.6: [Occ]upatori puteorum socios quos uolet habere liceto, ita ut, pro ea

parte, qua quis socius erit, impensas / conferat. Qui ita non fecerit, tum is qui im-pensas fecerit rationem inpensarum factarum a se / continuo triduo in foro frequen-tissimo loco propositam habeto et per praeconem denuntiato / sociis ut pro sua qui-sque portione inpensas conferat. Qui non ita contulerit, quiue quid dolo / malo fece-rit quominus conferat, quoue quem quosue ex sociis fallat, is eius putei partem ne / habeto, eaque pars socii sociorumue qui inpensas fecerint esto.

in altre aree minerarie e per altri minerali, quali il plumbum Germanicum e il ferrum Noricum. Una siffatta disciplina appare dunque diversa da quella ricavabile, in ordine alla società Sisaponense, dal-le testimonianze dal-letterarie ripercorse supra § 2.2 (in particolare da Plin. Nat. Hist. 33.40.118), visto che il divieto di lavorare il minerale per gli addetti all’estrazione e di venderlo ai pubblicani al prezzo fissato dall’autorità imperiale potrebbe far pensare che questi non potessero trattenerne neanche una parte (sul punto cfr. supra nt. 34).

43 Vip. II. 2 Putei argentari ex forma exerceri debent quae / hac lege continetur; quorum pretia

secundum liberalitatem sacratissimi imp(eratoris) Hadriani Aug(usti) obser / uabuntur, ita ut ad eum pertineat proprietas partis, quae ad fiscum pertinebit, qui primus pretium puteo fecerit / et sestertia quattuor milia nummum fisco intulerit.

44 A differenza di quelli menzionati in precedenza (Vip. II.1), che erano evidentemente pozzi

cu-priferi.

45 Dalla disposizione conservata in Vip. II.2 (supra nt. 43) emerge dunque con sufficiente

chiarez-za che, anche se i soggetti che conducevano una prima prospezione del sottosuolo, cioè gli

occupa-tores, potevano essere più d’uno (e dunque potesse trattarsi anche di diverse società costituite a tal

fine dagli occupatores), soltanto chi si fosse mostrato in grado di fronteggiare con maggiore solerzia gli obblighi nei confronti del fisco avrebbe ottenuto la concessione. Per quanto attiene poi all’entità dei pretia, la norma fa riferimento oltre che ad un’entità fissa, cioè i quattromila sesterzi iniziali, an-che ad un pretium variabile, probabilmente rapportato al metallum estratto. Sul punto, amplius, LAZZARINI 2001, 131 ss.

46 CAPANELLI 1984, 130 ss; DOMERGUE 1988, 134 ss.; ID. 1990, 302 ss.; ANDREAU 1989, 91; MATEO

2001, 87 ss.; ID. 2012, 247 ss.; LAZZARINI 2001, 157 ss.; PFEIFER 2003, 11 ss., in part. 13 s.; CHERCHI 2014,

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14 14 Viene dapprima data all’occupator dei pozzi la facoltà di scegliere liberamente i soci ([occ]upatori puteorum socios quos uolet habere liceto), in modo da dividere con loro le spese in proporzione alle rispettive quote (ita ut, pro ea parte, qua quis

socius erit, impensas / conferat). Qualora, però, un socio risultasse inadempiente

(qui ita non fecerit…), il § 6 prevede che colui qui impensas fecerit avrebbe dovuto far esporre in foro frequentissimo loco, per tre giorni consecutivi, il conto di quanto speso e darne comunicazione agli altri soci tramite un praeco. Laddove il socio ina-dempiente avesse comunque protratto l’inadempimento o avesse posto in essere un comportamento dolosamente finalizzato a non partecipare alle spese o ad in-gannare gli altri soci47, avrebbe perso la sua quota del pozzo, che sarebbe stata ri-partita tra coloro che avevano invece adempiuto (is eius putei partem ne / habeto,

eaque pars socii sociorumue qui inpensas fecerint esto).

Dato che la nostra fonte risulta focalizzata soltanto su alcuni momenti nevralgici della vita della societas mineraria, si può presumere che i profili del contratto non specificamente disciplinati fossero rimessi all’autonomia delle parti48. Infatti, il § 6 regola, da un lato, l’avvio della societas, che risulta incentivato dalla libertà attribui-ta all’occupator nella scelattribui-ta dei soci, e, dall’altro lato, il prosieguo della medesima società nel caso di inadempimento del socio, mirando evidentemente a circoscri-verne il più possibile le ripercussioni sulla prosecuzione dell’attività.

L’intera disciplina del § 6 appare quindi funzionale a garantire in tempi brevi non solo l’avvio dell’attività estrattiva, ma anche l’individuazione dei soci in grado di fi-nanziarla con regolarità49, dal momento che l’esclusione del socio inadempiente ed

47 Nel prosieguo della disamina ci riferiremo sinteticamente al persistere dell’inadempimento del

socio quale presupposto per la perdita della quota, pur nella consapevolezza che la disciplina con-servata in Vip. II.6, come ben evidenziato da LAZZARINI 2001, 162 s., prende in considerazione tre

di-stinte fattispecie: il mancato versamento delle spese, la dolosa determinazione dell’inadempimento e i comportamenti ingannevoli posti in essere dal socio al fine di non adempiere.

48 Di conseguenza, come osservato da LAZZARINI 2001, 157 s., nel precisare l’opinione di MISPOULET

1908, 27, i soci sarebbero rimasti liberi di scegliere «un diverso criterio di riparto delle perdite (damnum) rispetto a quello adottato per la divisione degli utili (lucrum)».

49 Che lo scopo della societas fosse quello di ripartire le spese (così come il rischio) di avvio

dell’attività estrattiva risulta infatti in maniera chiara dai tre riferimenti alle impensae presenti nella nostra disposizione (…ita ut, pro ea parte, qua quis socius erit, impensas / conferat…impensas fecerit

rationem inpensarum factarum a se…ut pro sua quisque portione inpensas conferat). Più nello

speci-fico, CAPANELLI 1984, 131, ha ravvisato nel § 6 lo scopo di disciplinare le conseguenze collegate al

mancato apporto dei conferimenti, mentre LAZZARINI 2001, 162 s., ha ritenuto che, dato che il

regola-re apporto dei conferimenti era probabilmente pregola-resupposto dalla nostra disposizione, essa si saregola-reb- sareb-be riferita alle spese successive all’avvio dell’attività. Tuttavia, a sareb-ben riflettere, le due interpretazioni non paiono necessariamente escludersi a vicenda: visto che, nel momento in cui veniva costituita la società tra occupatores, l’attività si trovava in fase di avvio, il § 6 potrebbe infatti riferirsi tanto ai mancati conferimenti, quanto alle altre somme funzionali allo svolgimento dell’attività. Inoltre, a

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15 15 il trasferimento della sua quota in capo ai soci che avevano tempestivamente adempiuto – quindi i più affidabili – avrebbe favorito la formazione di una compa-gine sociale tendenzialmente stabile (la società tra coloni).

La disciplina imposta dal § 6 nel caso di inadempimento del socio è stata letta in dottrina come una particolare procedura giurisdizionale extra ordinem, avviata,

manente societate, con una «especie» di actio pro socio50, che avrebbe mantenuto,

quanto meno nell’ipotesi di inadempimento doloso, anche il carattere infamante. Tuttavia, nel silenzio della nostra fonte, non pare potersi escludere che la lettera del § 6 configurasse un procedimento preliminare rispetto alla tutela giurisdizionale vera e propria, il quale avrebbe consentito di addivenire in tempi brevi alla conti-nuazione dell’attività svolta dalla societas.

Per quanto non emerga con chiarezza se la disciplina prevista da Vip. II.6 per le società tra occupatores configurasse una deroga rispetto a quello che è stato consi-derato un principio generale in materia di societas51, per cui l’esercizio dell’actio

conferma del fatto che il § 6 fosse altresì finalizzato a individuare la compagine sociale più affidabile per il fisco, giova rammentare che la procedura delineata nella nostra disposizione non solo si sa-rebbe svolta sotto il controllo del procurator metallorum, ma avsa-rebbe altresì implicato il coinvolgi-mento del praeco per la diffusione della notizia dell’inadempicoinvolgi-mento, come se la conseguenza della diversa ripartizione delle quote tra i soci a cui avrebbe potuto condurre la procedura necessitasse di una qualche formalizzazione, per certi versi analoga a quella necessaria per l’acquisizione della con-cessione dei putei che, come posto in luce già da TALAMANCA 1954, 142, avveniva, come tutti i

princi-pali servizi a Vipasca, tramite asta.

50 Così D’ORS 1953, 124, seguito da LAZZARINI 2001, 162 s., i quali hanno evidenziato che tale

pro-cedura avrebbe consentito di definire la controversia in tempi molto più rapidi rispetto a un’ordinaria cognitio.

51 La dottrina ritiene infatti comunemente che si trattasse di un principio generale sulla base

dell’elenco delle cause estintive della societas trasmesso in D. 17.2.63.10 (Ulp. 31 ad ed.) (Societas

solvitur ex personis, ex rebus, ex voluntate, ex actione. ideoque sive homines sive res sive voluntas sive actio interierit, distrahi videtur societas. intereunt autem homines quidem maxima aut media capitis deminutione aut morte: res vero, cum aut nullae relinquantur aut condicionem mutaverint, neque enim eius rei quae iam nulla sit quisquam socius est neque eius quae consecrata publicatave sit. voluntate distrahitur societas renuntiatione), dal momento che la diversa soluzione conservata in

D. 17.2.65.15 (Paul. 32 ad ed.) (riportata infra nt. 60) è stata ritenuta un’eccezione riferibile alle so-cietà di pubblicani. In questo senso, cfr. CIMMA 1981, 221 ss. (in cui letteratura precedente); M AGAN-ZANI 2002, 250 s.; MALMENDIER 2002, 246 s.; MEISSEL 2004, 44 ss.; FLECKNER 2010, 383 s., anche se G UA-RINO 1988, 87 ss., 126 ss. e 157 ss., aveva in precedenza ipotizzato che le cause di estinzione della

societas collegate al suo carattere personalistico (morte, capitis deminutio, renuntiatio, fallimento

del socio e probabilmente anche l’esercizio dell’actio pro socio) operassero non già per le società plurilaterali, ma per quelle bilaterali, per le quali sarebbero state in origine previste. Sebbene T ALA-MANCA 1990b, 840, abbia rilevato che una siffatta ipotesi non trovi adeguato riscontro nelle fonti,

CERAMI 2007-2008, 130 ss., (così come più di recente MILAZZO 2020, 6 ss., in part. 10 ss.), ha posto in

luce la possibilità che la soluzione conservata in D. 17.2.65.15 si applicasse anche a società diverse da quelle dei pubblicani, come vedremo meglio infra § 3.2.

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pro socio avrebbe determinato l’estinzione della società, la nostra disposizione pare

derogare al regime generale, sempre sotto il profilo dell’operatività delle cause estintive della societas, con riferimento all’uscita del socio. Dalla nostra fonte si evince infatti che la società non si sarebbe estinta laddove la procedura avesse condotto all’esclusione del socio inadempiente, superando così il rilievo general-mente accordato all’intuitus personae dei soci (per cui, come è noto, l’uscita di un socio dalla società, ne avrebbe determinato l’estinzione52).

3.2. Esame di Vip. II.7-8. – Alla luce di quanto sin qui evidenziato, possiamo pro-seguire con l’esame della disciplina relativa alle società tra coloni in

Vip. II.7-8: 7. [Ei u]el ii<s> coloni<s> qui inpensam fecerint in eo puteo, in quo

plu-res socii fuerint, repetendi a sociis quod / bona fide erogatum esse apparuerit ius esto. 8. Colonis inter se eas quoque partes puteorum, quas / a fisco emerint et pre-tium soluerint, uendere quanti quis potuerit liceto. Qui uendere suam partem / quiue emere uolet, apud proc(uratorem), qui metallis praeerit, professionem dato; aliter emere aut uendere ne / liceto. Ei qui debitor fisci erit, donare partem suam ne liceto.

La trattazione si apre, al § 7, con il riconoscimento, in capo ai coloni di un pozzo dato in concessione a più soci (in quo plures socii fuerint), del diritto di chiedere agli altri il rimborso delle spese sostenute in buona fede, e continua, al § 8, con alcune disposizioni dedicate alla cessione delle quote. La vendita delle quote viene infatti ammessa soltanto tra i soci (colonis inter se) e purché il venditore avesse corrispo-sto al fisco il prezzo delle medesime: a tali condizioni, quest’ultimo avrebbe potuto procedere alla vendita quanti quis potuerit, cioè, verosimilmente, scegliendo il compratore che fosse in grado di offrire il prezzo più alto. Il medesimo paragrafo stabilisce inoltre che il venditore o il compratore avrebbero dovuto dichiarare la vendita al procuratore preposto alle miniere, per poi specificare che colui che fosse debitore del fisco non avrebbe potuto donare la sua quota.

Come si vede, anche il regime delle società tra coloni dedica precipua attenzione al problema della ripartizione delle spese tra i soci, pur senza prevedere, come il § 6, una particolare procedura per incentivare l’adempimento del socio, né la possibi-lità che il socio inadempiente potesse essere escluso dalla società con conseguente trasferimento della sua quota in capo agli altri soci. L’assenza di previsioni analoghe a quelle appena rammentate appare però comprensibile se si collega alla

circostan-52 Cfr. ancora GUARINO 1988, 87 ss., 126 ss. e 157 ss., ad avviso del quale si sarebbe trattato,

an-che in questo caso, non già di un principio generale, ma di una soluzione elaborata con specifico ri-guardo alle società bilaterali.

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17 17 za che la società tra coloni era, con tutta probabilità, titolare di una concessione durevole del diritto di sfruttare le miniere53 e, dunque, una società stabile i cui soci avevano già dimostrato la propria affidabilità.

Tuttavia, vanno valutate con attenzione le motivazioni alla base del riconosci-mento, ex § 7, del ius repetendi in capo ai i soci che avessero anticipato le

impen-sae, dal momento che tale previsione – se letta alla luce delle specifiche esigenze

dell’attività mineraria – pare assumere un particolare rilievo. Partiamo proprio dalle spese che potevano essere oggetto del rimborso: dato che queste vengono indivi-duate nel quod bona fide erogatum, cioè negli esborsi sostenuti in buona fede, par-rebbe trattarsi di una deroga rispetto al regime generale della societas, in base al quale il socio avrebbe avuto diritto soltanto al rimborso delle spese necessarie e utili54. Questa eccezione55 sembra rappresentare, ancora una volta, un adattamen-to di regime determinaadattamen-to dalla natura incerta dell’attività mineraria svolta dalla so-cietà, per cui dovette verificarsi con una certa frequenza che una spesa all’apparenza utile e necessaria si rivelasse vana a posteriori56.

La ratio del riconoscimento da parte del § 7 del ius repetendi sembra dunque ri-siedere nello scopo di permettere ai soci di ottenere il rimborso delle spese effet-tuate nell’interesse della societas prima della ripartizione degli utili57, verosimil-mente al fine di procedere, in tempi brevi, al recupero del capitale necessario per ulteriori finanziamenti. Perciò, alla luce di tale ratio, appare plausibile che la dispo-sizione che andiamo esaminando configurasse in effetti una deroga rispetto al re-gime generale58, in quanto avrebbe permesso al socio di esercitare l’actio pro socio nei confronti degli altri soci, senza che la società si estinguesse, cioè manente

socie-tate59.

53 Come emerso dal regime esaminato supra § 3.1.

54 Alla luce delle soluzioni conservate in D. 17.2.52.4 e D. 17.2.52.15 (entrambe provenienti da

Ulp. 31 ad ed.).

55 Evidenziata da CAPANELLI 1984, 130 s., e LAZZARINI 2001, 165 s. 56 Mi orientavo infatti in questo senso già in CHERCHI 2014, 85 e nt. 54.

57 Dal momento che appare plausibile che alla società tra coloni si applicasse il regime generale

per cui i crediti del socio avrebbero assunto rilievo al momento di ripartizione degli utili, come chia-rito da LAZZARINI 2001, 166.

58 Come abbiamo visto supra § 3.1, un’ipotesi del genere appare più difficilmente prospettabile

con riguardo alla società tra occupatores disciplinata da Vip. II.6.

59 Sulle principali opinioni elaborate in dottrina sulla possibilità di considerare l’esercizio

dell’actio pro socio una causa estintiva – di portata generale – della societas, cfr. supra § 3.1, nt. 51. Più nel dettaglio, per ammettere che in taluni casi tale causa di estinzione non operasse, si dovrebbe altresì riconoscere, sulla scorta di ARANGIO RUIZ 1950, 179 ss., che l’esercizio dell’actio pro socio

ma-nente societate presupponesse l’introduzione nella formula di una praescriptio pro actore, in modo

da limitare gli effetti della litis contestatio alle parti in causa. Ad ogni modo, va sottolineato che quanto appena emerso da Vip. II.7 pare avvalorare l’ipotesi di GUARINO 1988, 87 ss., 126 ss. e 157 ss.,

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18 18 Una soluzione del genere pare altresì emergere dal noto frammento di Paolo conservato in D. 17.2.65.1560, per cui l’esercizio dell’actio pro socio manente

socie-tate sarebbe stato possibile non solo per i soci di una societas vectigalium o

publi-canorum61, ma più in generale, come sottolineato da Cerami, per i soci delle

«socie-tà di rilevante interesse pubblico62». Tra queste ultime società sembrano infatti po-tersi annoverare anche le società minerarie tra coloni che, come già abbiamo avuto modo di constatare, dovettero necessitare di particolare stabilità in modo da ga-rantire al fisco non solo l’acquisizione continuativa dei minerali, ma altresì la rego-lare percezione dei tributi derivanti dall’attività estrattiva.

Giungiamo ora alla disciplina della cessione delle partes puteorum conservata nel § 8, che sembra imporre le condizioni per procedere alla vendita delle quote a pena di nullità (aliter emere aut uendere ne / liceto). La vendita sarebbe infatti po-tuta avvenire soltanto tra coloni inter se63, previa dichiarazione al procurator

metal-lorum da parte del venditore o del compratore, e soltanto qualora il venditore

avesse versato il pretium al fisco (quas / a fisco emerint et pretium soluerint). Tali condizioni appaiono in linea di massima applicabili anche al caso in cui il so-cio avesse donato la sua quota, disciplinato dall’ultimo segmento del § 8, che però vieta expressis verbis al socio debitore del fisco di procedere alla suddetta

donazio-il quale, come già rammentato supra nt. 51, ha ritenuto che tale causa estintiva non operasse per le società plurilaterali, in particolare laddove queste fossero formate da un numero considerevole di soci: in questo senso si è recentemente orientato anche MILAZZO 2020, 6 ss., in part. 24 ss.

60 D. 17.2.65.15 (Paul. 32 ad ed.): Nonnumquam necessarium est et manente societate agi pro

socio, veluti cum societas vectigalium causa coita est propterque varios contractus neutri expediat recedere a societate nec refertur in medium quod ad alterum pervenerit, ritenuto da CERAMI

2007-2008, 131 ss., probabilmente sunteggiato dai Compilatori giustinianei, ma nella sostanza fedele alla soluzione elaborata dal giurista severiano.

61 Come ammesso da CIMMA 1981, 221 ss. (in cui letteratura precedente); MAGANZANI 2002, 250

s.; MALMENDIER 2002, 246 s.; MEISSEL 2004: 44 ss.; FLECKNER 2010, 383 s.

62 CERAMI 2007-2008, 132, ha infatti evidenziato che tale conclusione sarebbe suggerita da vari

indizi offerti dal testo del frammento (riportato alla nt. 60): il veluti utilizzato per introdurre il se-condo segmento di testo, che farebbe emergere il valore esemplificativo della menzione della

socie-tas vectigalium; l’indicazione propter varios contractus, che starebbe a testimoniare l’applicabilità

della soluzione proposta al complesso delle attività rientranti nell’impresa collettiva esercitata in forma societaria, e l’obbligo di mettere in comune quanto ottenuto a titolo di utile (referre in

me-dium), che si fonderebbe sull’esistenza di una cassa comune e di beni comuni (su tale aspetto

torne-remo infra § 4.2).

63 Sul punto, MISPOULET 1908, 34 s., propende invece per un’interpretazione estensiva della

men-zione dei coloni – da intendersi come tutti coloro che avessero tale qualifica nel distretto minerario –, dal momento che, a suo avviso, la disposizione avrebbe altrimenti fatto espressa menzione dei coloni soci della società mineraria. Tuttavia, che i coloni menzionati nel § 8 quali possibili acquirenti della quota fossero coloro che già erano soci della società mineraria appare più verosimile alla luce del riferimento a tali soggetti nel paragrafo precedente, cioè Vip. II.7 ([Ei u]el ii<s> coloni<s> qui

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19 19 ne (ei qui debitor fisci erit, donare partem suam ne liceto). Di conseguenza, questo ulteriore chiarimento – di per sé non strettamente necessario – sembra ascrivibile alla volontà di mettere al riparo gli interessi del fisco in un’ipotesi particolarmente delicata, in cui il fisco stesso non avrebbe potuto eventualmente rifarsi sul prezzo della vendita.

Se guardata nel suo complesso, la disciplina conservata in Vip. II.6-8 sembra fare emergere, in maniera ancora più chiara rispetto alle fonti relative alla società mine-raria Sisaponense, che l’esercizio dell’attività estrattiva fosse demandato a società tra privati. Ciò si deduce, in particolare, dalla lettura delle disposizioni specifica-mente dedicate alle società minerarie in collegamento con quelle relative al proce-dimento di concessione del diritto di sfruttare i pozzi64, le quali paiono sempre rife-risi a imprenditori privati.

Per quanto attiene poi alle principali peculiarità di tale regime, va evidenziato che le conseguenze previste dal § 6 nei confronti del socio inadempiente (uscita dalla società e conseguente trasferimento della sua quota ad altri soci), così come quelle della cessione delle quote disciplinata dal § 8, hanno permesso di dedurre che le società minerarie Vipascensi non si sarebbero estinte a causa dell’uscita del singolo socio, superando così il rilievo generalmente accordato all’intuitus personae dei soci quale elemento essenziale del contratto di societas65. Parimenti, dal § 7 è sembrato potersi evincere che i soci potessero agire con l’actio pro socio per ripete-re le somme anticipate a titolo di spese, senza che la società si estinguesse.

Poiché, anche in questa sede66, le peculiarità di regime riscontrate appaiono in larga misura sovrapponibili a quelle previste per le società di pubblicani, si può pensare che alcune regole che caratterizzavano il funzionamento delle societates

publicanorum si applicassero in via analogica alle società minerarie private, in virtù

della rilevanza della funzione svolta67. Si pone a questo punto il quesito relativo alla possibilità che anche le società minerarie di Vipasca fossero capaci di corpus

habe-64 Supra § 3.1.

65 Pur senza negare quanto appena emerso, va parimenti sottolineato che il superamento delle

conseguenze legate alla rilevanza dell’intuitus personae dei soci appare soltanto parziale, dal mo-mento che il trasferimo-mento delle quote (tanto coattivo ex Vip. II.6 che volontario ex Vip. II.8) sarebbe stato ammesso soltanto a favore di altri soci.

66 Abbiamo infatti formulato il medesimo rilievo con riguardo il regime riferito alla società

Sisa-ponense ricostruito supra § 2, anche se in relazione a profili diversi.

67 Va comunque rammentato che la struttura organizzativa delineata nei regolamenti Vipascensi

sembra presupporre il coinvolgimento delle societates publicanorum nella riscossione dei tributi de-rivanti dall’attività estrattiva (si pensi alla menzione in Vip. I.9 del conductor, socius o actor quali soggetti adibiti alla riscossione del pittaciarium, su cui supra § 3.1). Appare dunque plausibile, in ul-tima analisi, che l’autorità imperiale demandasse, anche a Vipasca, a diverse società l’esercizio dei servizi collegati allo sfruttamento delle miniere fiscali, in modo da evitare un’eccessiva concentra-zione di funzioni in capo ai pubblicani.

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re: al riguardo, i dati sin qui emersi inducono a individuare diversi spunti di

rifles-sione.

Da un lato, infatti, i riferimenti alla pars putei di cui erano titolari i singoli soci, così come al controllo esercitato dal fisco sulla cessione della medesima, fanno emergere che questi ultimi erano titolari singolarmente di una quota della conces-sione del diritto di scavo68. Dall’altro lato, però, il fatto che la società non si estin-guesse in seguito all’uscita dei soci e all’esercizio dell’actio pro socio da parte di uno di questi, sembra presupporre che la società fosse considerata, almeno a certi fini, quale autonomo centro di imputazione di situazioni giuridiche69.

4. Tracce della disciplina delle società minerarie nei Digesta giustinianei. 4.1.

Esame di D. 3.4.1 pr.-1. Il riferimento ai socii aurifodinarum vel argentifodinarum et salinarum. – Come sottolineato in apertura, appare difficile individuare nei Digesta

dati espliciti in ordine al coinvolgimento di società private nello sfruttamento delle miniere e alla loro disciplina. Tuttavia, vale ora la pena di verificare se dalla lettura ‘in filigrana’ di due frammenti di Gaio tratti dal commentario all’editto provinciale, si possano desumere alcuni indizi al riguardo e, in particolare, se essi consentano di ipotizzare che anche le società minerarie private avessero una certa rilevanza esterna.

Possiamo quindi prendere le mosse dagli snodi fondamentali della notissima te-stimonianza conservata in D. 3.4.1 pr.-1, per poi concentrarci sulla parte centrale del principium (paucis…salinarum) e sulla seconda parte del § 1 (proprium

est…fiat)70.

D. 3.4.1 pr.-1 (Gai 3 ad ed. prov.): pr. Neque societas neque collegium neque

huiusmodi corpus passim omnibus habere conceditur: nam et legibus et senatus consultis et principalibus constitutionibus ea res coercetur. paucis admodum in cau-sis concessa sunt huiusmodi corpora: ut ecce vectigalium publicorum sociis permis-sum est corpus habere vel aurifodinarum vel argentifodinarum et salinarum. item collegia Romae certa sunt, quorum corpus senatus consultis atque constitutionibus

68 Tali rilievi hanno infatti indotto MISPOULET 1908, 28 ss., ad escludere che le nostre società

mi-nerarie potessero essere capaci di corpus habere (sul punto torneremo infra § 3.2 e nt. 97).

69 Perciò CAPANELLI 1984, 131 ss., ha ammesso che i soci delle società minerarie Vipascensi

avreb-bero potuto «dar vita ad una corporazione (corpus)».

70 In virtù della particolare prospettiva di esame prescelta, ci limiteremo in questa sede a citare,

nell’ambito della sterminata bibliografia sul frammento, soltanto le opere che assumono diretto ri-lievo ai fini della trattazione. Ad ogni modo, per un’analisi approfondita delle posizioni assunte nella letteratura più risalente, rimandiamo ad alcuni lavori monografici apparsi di recente: GROTEN 2015,

73 ss., 154 ss. e 317 ss.; MATTIANGELI 2017, 168 ss.; ID. 2018, 12 ss.; PULITANÒ 2018, 12 ss., 45 ss., e

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