INDICE
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CAPITOLO PRIMO
LA GIUSTIZIA PENALE CONSENSUALE NEL NOSTRO ORDINAMENTO
1.1- La giustizia penale consensuale: gli istituti deflattivi... 1 1.2- La riforma costituzionale del 1999 e le sue ricadute in ordine al rilievo processuale dei meccanismi
consensuali ... 11 1.3- Segue: gli istituti conciliativi …... 15
CAPITOLO SECONDO
L'APPLICAZIONE DELLA PENA SU RICHIESTA: ORIGINI ED EVOLUZIONE STORICA
2.1- Il patteggiamento: le origini ... 22 2.2- Gli interventi della Corte Costituzionale
e la legge Carotti ... 30 2.3- Le modifiche normative degli anni duemila:
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CAPITOLO TERZO
PATTEGGIAMENTO E I PRINCIPI COSTITUZIONALI: UNA CONVIVENZA DIFFICILE ?
3.1- Regole e principi costituzionali sul processo penale:
il giusto processo ... 50
3.2- Il patteggiamento e i principi costituzionali ... 60
3.3- Segue: contraddittorio e diritto di difesa ... 74
3.4- Ragionevole durata e giusto processo ... 83
3.5- Conclusioni ... 88
CAPITOLO QUARTO PATTEGGIAMENTO: STRUTTURA E DINAMICA DEL RITO 4.1- Soggetti, forme e contenuti dell'accordo ... 92
4.2- Segue: la pena patteggiata ... 101
4.3- Le clausole accessorie all'accordo ... 106
4.4- Limiti oggettivi e soggettivi al patteggiamento allargato ... 109
4.5- I tempi del rito ... 110
4.6- Decisione del giudice ... 114
4.7- Segue: l'epilogo proscioglitivo ... 117
4.8- Segue: la motivazione della sentenza patteggiata ... 120
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4.10- Segue: problemi con riferimento all'esclusione
dalle pene accessorie ... 127
4.11- Segue: gli effetti riflessi ... 134
4.12- Le impugnazioni ... 148
4.13- Il patteggiamento in esecuzione ... 160
CAPITOLO QUINTO LA PRESUNTA NATURA ANTICOGNITIVA DELLA SENTENZA DI PATTEGGIAMENTO 5.1- L'orientamento della Cassazione ... 162
5.2- La posizione della Corte Costituzionale ... 178
5.3- Le critiche della dottrina ... 188
Capitolo Primo
LA GIUSTIZIA PENALE CONSENSUALE
NEL NOSTRO ORDINAMENTO
1.1- La giustizia penale consensuale: gli istituti deflattivi.
Con il termine di giustizia penale consensuale1 si allude ad una
serie di istituti processual-penalistici legati ad una visione dispositiva e caratterizzati o da un accordo delle parti (istituti di natura convenzionale) oppure da una manifestazione unilaterale di volontà. La funzione di questi istituti può essere di tipo deflattivo oppure legata ad esigenze conciliative.
Nell'ambito del previgente codice di procedura penale (codice Rocco del 1930) scarso, se non assente era lo spazio attribuito al potere dispositivo delle parti e ciò conformemente alla logica inquisitoria fatta propria dallo stesso. Erano previste deroghe rispetto al normale iter del processo con alcuni procedimenti speciali disciplinati nel libro Terzo dedicato al Giudizio2: giudizio direttissimo previsto in
funzione di politica penale e come intervento esemplare verso
1 Si veda al riguardo F. PERONI , Nozioni fondamentali in La giustizia penale
consensuale – concordati, mediazione e conciliazione (Peroni-Gialuz),Utet 2004,
pag. 3.
2 M. MONTAGNA, Profili soggettivi, oggettivi e temporali dei procedimenti
speciali nell'evoluzione legislativa e nella prassi in La giustizia penale differenziata – i procedimenti speciali, Tomo I, Giappichelli editore, 2010, pag.
certe ipotesi delittuose ( mentre nell'attuale codice di procedura penale è uno strumento per deflazionare il processo e legato tendenzialmente a situazioni di evidenza probatoria);giudizio immediato ma per i soli reati commessi in udienza; procedimento per decreto. Ad ogni modo non si trattava di procedimenti speciali legati ad un consenso o accordo alcuno delle parti.
Un primo passo in tal senso si ha con la legge 24 Novembre 1981, n°689, recante norme per la depenalizzazione. Tale legge, negli artt. da 77 a 80, aveva introdotto un primo timido antecedente dell'attuale applicazione della pena su richiesta delle parti3. Si prevedeva infatti la possibilità per il
giudice di applicare sanzioni sostitutive della pena detentiva su richiesta dell'imputato e previo parere favorevole del p.m. Alla medesima legge è poi da ricondurre l'introduzione dell'art 162 bis c.p, che introducendo la c.d. oblazione discrezionale ha esteso l'istituto alle contravvenzioni punite in via alternativa con l'arresto o l'ammenda. L'oblazione è una causa di estinzione del reato che si risolve in una chiusura anticipata del processo, a seguito di una richiesta dell'imputato, di regolare in denaro la propria “pendenza” penale4. L'art. 162 c.p. prevedeva e prevede un'ipotesi di
3 D. VIGONI, L'applicazione della pena su richiesta delle parti, Giuffrè editore, Milano, 2000, pag. 1.
4 R. ORLANDI, Procedimenti speciali, in Compendio di procedura penale
oblazione comune5, applicabile alle sole contravvenzioni punite
con pena dell'ammenda. L'imputato è ammesso a pagare, prima dell'apertura del dibattimento o del decreto di condanna, una somma pari alla terza parte del massimo della pena edittale. L'ammissione all'oblazione comune spetta ope legis al richiedente, senza alcuna valutazione discrezionale del giudice (per questo è detta anche obbligatoria), il quale si limiterà a verificare: che il fatto contestato risponda al modello legale, che la contravvenzione rientri tra quelle oblabili, che la somma versata sia corretta e che non sussistano i presupposti per una pronuncia ex art. 129 c.p.p. E' con l'intervento del 1981 che si è introdotta l'oblazione speciale. Il contravventore può quindi presentare domanda di oblazione al giudice, anche per le contravvenzioni punite in via alternativa con l'arresto o l'ammenda, ed essere ammesso a pagare, prima del dibattimento o del decreto di condanna, una somma pari alla metà del massimo dell'ammenda stabilita dalla legge e lucrare l'estinzione del reato. Si parla in questo caso di oblazione facoltativa o discrezionale in quanto il giudice può respingere la domanda con ordinanza avuto riguardo alla gravità del fatto. L'art. 162 bis, terzo comma, c.p. prevede infatti delle preclusioni di carattere oggettivo e soggettivo. Con riferimento alle prime, si esclude
5 Con riferimento all'oblazione si veda P. POMANTI, Oblazione (diritto
processuale) in DIGESTO delle discipline penalistiche, Aggiornamento ***,
Tomo II N-Z, 2005, pagg. 956 ss.; E. MARZADURI, L'applicazione delle
dall'accesso all'istituto l'indagato/imputato al quale viene contestata la recidiva reiterata, l'abitualità nelle contravvenzioni o la professionalità nel reato. Riguardo alle seconde non si è ammessi all'oblazione speciale se permangono le conseguenze dannose o pericolose del reato eliminabili da parte del contravventore o nel caso in cui il giudice ritenga il fatto di particolare gravità. La domanda di oblazione ex art. 162 bis c.p., in caso di rigetto, è riproponibile fino all'inizio della discussione finale del dibattimento di primo grado e in caso di ulteriore diniego è impugnabile.
Il ricorso a tale istituto è rimesso alla libera determinazione del contravventore, atteso che il p.m. si limita a prestare un parere e non un consenso.
Attraverso questo primo intervento normativo del 1981 viene indubbiamente attribuita alle parti, in particolar modo all'indagato/imputato, la possibilità di incidere sull'iter di svolgimento del processo.
Con il codice di rito del 19886 la scelta di valorizzare le
alternative consensuali si fa ancora più evidente. Si tratta di un codice improntato non più ad una logica inquisitoria, ma accusatoria, ed in cui un largo spazio viene ad essere attribuito alle parti: in particolare si attribuiscono
6 Con riferimento all'introduzione dei riti speciali nel nuovo codice di procedura penale si veda G. LOZZI, Giudizi speciali e deflazione del dibattimento in
Commento al nuovo codice di procedura penale (Chiavario), IV, Utet, 1990,
all'imputato notevoli garanzie che trovano corpo in un dibattimento ove si formano le prove nel contraddittorio. Si è riconosciuto alle parti un ampio potere dispositivo7, che
consente loro di influenzare l'andamento e l'esito del procedimento penale. Fin dall'inizio colui che è sottoposto a procedimento penale può compiere scelte che ne possono condizionare il corso: chiedere al p.m di acquisire elementi di prova a discarico, chiedere al g.i.p. di ricorrere all'incidente probatorio, decidere se rendere dichiarazioni all'autorità procedente, se chiedere l'ammissione delle prove che è rimessa dall'art 190 c.p.p. alla richiesta di parte (è la legge a stabilire eccezionalmente le ipotesi in cui il giudice può provvedere d'ufficio), se svolgere o meno indagini difensive ( possibilità che è stata introdotta dalla l. 7-12-2000, n°397), se rinunciare al contraddittorio nella formazione della prova concordando l'inserimento al fascicolo del dibattimento di atti compiuti nella fase investigativa ( a seguito della l. 16-12-1999, n°479).
Ma sopratutto si apprezza la scelta del ruolo attribuito alle parti attraverso la possibilità di ricorrere ad uno dei giudizi semplificati. Il codice del 1988 ha infatti previsto al Libro Sesto una serie di procedimenti speciali che consentono una deroga al normale iter procedimentale, connotato
7 G. DELLA MONICA, Opzioni di strategia processuale e scelta del rito in La
giustizia penale differenziata – i procedimenti speciali, Tomo I, Giappichelli
sostanzialmente dalla presenza di tre fasi: indagini preliminari, udienza preliminare e dibattimento. Tali riti speciali sono caratterizzati dall'assenza di una o più di queste tre fasi. Un processo improntato ad un modello accusatorio, infatti, era troppo complesso e lungo per poter essere utilizzato per tutti i reati da qui la necessità di ricorrervi solo in presenza di effettive esigenze di accertamento probatorio o di contrasto serio tra accusa e difesa. Il legislatore ha voluto, mediante i riti speciali, deflazionare il dibattimento, mostrando così di considerare il dibattimento stesso come una fase processuale cui ricorrere solo quando non siano attuabili i riti alternativi. L'istruttoria dibattimentale verrebbe così limitata ai soli casi in cui il contraddittorio in sede di formazione della prova appaia utile ed importante8.
La scelta di ricorrere a diversi itinera procedimentali è definita nella Relazione al progetto preliminare come “coraggiosa”. Ecco che, in primo luogo per esigenze deflattive e di economia processuale, ovvero di accelerazione del processo penale9, ma anche in linea con la scelta sistematica
adottata dal codice di strutturare un processo di parti, vengono introdotti i procedimenti speciali. Alcuni necessitano
8 G. LOZZI, Giudizi speciali e deflazione del dibattimento in Legislazione penale, Utet, 1989, pag. 564.
9 E. DOLCINI, Problemi vecchi e nuovi in tema di riti alternativi: patteggiamento,
accertamento di responsabilità, misura della pena in Riv. it. dir. e proc. pen.,
del consenso dell'indagato/imputato, mentre altri sono attivabili in via autoritativa dal p.m. Istituti di giustizia penale consensuale, di natura convenzionale sono l'applicazione della pena su richiesta delle parti (artt. 444 ss. c.p.p.) e il giudizio abbreviato, nella versione originaria delineata dal codice dell'ottantotto, (artt. 438 ss. c.p.p.) attivabili previo accordo, al riguardo, tra l'indagato/imputato ed il p.m. e comportanti l'elisione del dibattimento con definizione del processo in udienza preliminare. Il decreto penale di condanna (artt. 459 ss. c.p.p.) è richiesto dal p.m in esito alle indagini preliminari e quindi comporta il venir meno dell'udienza preliminare e del dibattimento, avverso di esso l'imputato può entro 15 giorni proporre opposizione la quale determina lo svolgimento del processo secondo l'iter ordinario. Dunque può anch'esso ricomprendersi nei riti consensuali10, essendo necessaria la richiesta del p.m., ma
anche il consenso dell'imputato sia pure da manifestarsi in modo implicito. Vi è poi il giudizio direttissimo ( artt. 449 ss. c.p.p.) che è attivabile su sola iniziativa del p.m., nelle ipotesi di arresto in flagranza (purché convalidato) o di confessione, e che comporta il venir meno dell'udienza preliminare con approdo diretto a dibattimento. Anche in questa ipotesi tuttavia si lascia spazio al consenso delle parti laddove si prevede che in caso di mancata convalida dell'arresto, il
10 E. DOLCINI, Problemi vecchi e nuovi in tema di riti alternativi:
giudice restituisca gli atti al p.m., potendosi tuttavia procedere a giudizio direttissimo in caso di consenso dell'imputato e del pubblico ministero. Infine ultima ipotesi di procedimento speciale è il giudizio immediato (artt. 453 ss. c.p.p.), attivabile su istanza del p.m. in ipotesi di evidenza probatoria o entro un dato termine dall'esecuzione di misura cautelare, cui la persona sottoposta ad indagini sia sottoposta. Anche quest'ultimo procedimento speciale determina il passaggio al dibattimento, senza previa udienza preliminare, ed anch'esso attribuisce, comunque, un rilievo alla volontà dell'imputato, il quale può decidere di rinunciare all'udienza preliminare, optando per questo particolare rito. Emerge ,dunque, in maniera chiara l'importanza attribuita dal codice di rito del 1988 alla volontà delle parti, sopratutto in riferimento a questi procedimenti derogatori dell'iter ordinario. Così pure come emerge, in riferimento al così detto patteggiamento, al giudizio abbreviato e al decreto penale di condanna, il particolare favor riconosciuto dal legislatore, in vista di una forte esigenza deflattiva del processo penale, avendovi associato importanti benefici ed effetti premiali sopratutto con riferimento alla pena comminata. Tutte queste caratteristiche di premialità, costituendo un incentivo ad optare per il rito speciale, rappresentano lo strumento per raggiungere una finalità di deflazione del dibattimento.
Gli effetti premiali sono invece assenti nel rito direttissimo e immediato, nei quali dunque un eventuale consenso, che dovesse prestare l'imputato, per tali riti sarebbe unicamente mosso da strategie processuali. L'intento di deflazionare il dibattimento, tuttavia, non è del tutto trascurato neppure con riferimento a questi due riti speciali caratterizzati dall'assenza dell'udienza preliminare. Sembrerebbe una contraddizione affermare che pure attraverso questi itinera , che anticipano il dibattimento provocandone l'immediata instaurazione, si mirerebbe a ridurre il ricorso allo stesso. Tale volontà emerge però dal fatto che nel giudizio immediato e nel direttissimo, non solo è consentito richiedere l'applicazione della pena di cui all'art. 444 c.p.p. ma è, anche, prevista la trasformazione del rito in itinere in giudizio abbreviato. Per facilitare la trasformazione del rito si è creata una forma di giudizio abbreviato anomalo attribuendo la competenza al giudice del dibattimento anziché a quello dell'udienza preliminare. Inoltre mentre il “normale” giudizio abbreviato, nella versione originariamente prevista, era ammesso dal giudice solo laddove avesse ritenuto di poter decidere allo stato degli atti, in caso di trasformazione del giudizio direttissimo in abbreviato non era consentito al giudice di respingere la domanda congiunta di imputato e p.m. ( l'art. 452 , secondo comma, c.p.p. con la locuzione “il giudice....dispone” sembrava escludere ogni
discrezionalità). Ancora, altra anomalia del giudizio abbreviato così instaurato, si prevedeva la possibilità di procedere all'assunzione di prove, la cui esclusione costituiva uno dei dati caratterizzanti il giudizio abbreviato “normale” nella sua originaria configurazione.
Ciò dimostra come il favor per i riti speciali senza dibattimento emerga pure dalla normativa dettata per i riti speciali diretti ad anticipare il dibattimento stesso11.
Un altro schema di concordato processuale, retto su una convenzione tra le parti, era indubbiamente l'accordo sui motivi in appello, regolato dall'art 599 c.p.p. Questo istituto consentiva, previo accordo tra le parti, la rinuncia ad alcuni motivi di impugnazione e, se accolto dal giudice, poteva portare ad una riduzione di pena. Venne espunto dal tessuto normativo, attraverso una pronuncia della Corte Costituzionale, per eccesso di delega, ma poi reintrodotto con la legge 19 gennaio 1999, n°14 ( successivamente è stato abrogato da un decreto in materia di sicurezza12).
11 G. LOZZI, Giudizi speciali e deflazione del dibattimento, cit., pag. 565/566. 12 d.l. 23-05-2008,n°92 poi convertito in l. 24-07-2008, n°125
1.2- La riforma costituzionale del 1999 e le sue ricadute in ordine al rilievo processuale dei meccanismi
consensuali .
Con la legge costituzionale 23 novembre 1999, n°213 sono
stati introdotti all'interno dell'articolo 111 Cost. i principi del giusto processo. Si tratta peraltro di principi in gran parte già ritenuti implicitamente operanti nel nostro ordinamento, nonché previsti da Convenzioni internazionali ratificate dall'ordinamento italiano ( Patto ONU sui diritti civili e politici e CEDU). L'intervento è comunque di grande rilievo, in quanto tali principi vengono ad essere previsti espressamente nella nostra Carta fondamentale, fugando ogni dubbio sul loro essere principi di rango costituzionale ed in quanto tali vincolanti il legislatore ordinario. Per quanto qui ci interessa, la legge in questione ha previsto al quarto comma dell'art 111 Cost. il principio del contraddittorio (“ il processo penale è regolato dal principio del contraddittorio nella formazione della prova” ) prevedendo però, al quinto comma, tre ipotesi di deroga allo stesso: il consenso dell'imputato, l'impossibilità di natura oggettiva e la provata condotta di natura illecita. Viene dunque sancito in Costituzione, per la prima volta, il rilievo del consenso in
13 Sulla riforma dell'art. 111 Cost. si veda, M. CECCHETTI, Giusto processo
(diritto costituzionale), in Enciclopedia del diritto, Aggiornamento V, Giuffrè,
2001, pagg. 595 ss; E. MARZADURI, La riforma dell'art. 111 Cost. tra spinte
contingenti e ricerca di un modello costituzionale del processo penale, in Legisl. Pen., 2000, pagg. 790 ss; P. FERRUA, Il giusto processo, Bologna, 2005.
funzione derogativa di garanzie fondamentali, potendo l'imputato, attraverso il proprio consenso, rinunciare al contraddittorio nella formazione della prova.
Di poco successiva è la legge del 16 dicembre 1999, n°479 ( meglio nota come legge Carotti), la quale è intervenuta sul giudizio abbreviato, ampliandone la portata. Prima di tale intervento, questo rito speciale era attivabile su richiesta dell'imputato e con il consenso del p.m. ed era disposto solo laddove il giudice avesse ritenuto il processo definibile allo stato degli atti. Dopo l'intervenuta modifica, invece, si è subordinato il giudizio abbreviato alla sola richiesta dell'imputato senza necessità di un parere favorevole del p.m. ed eliminando il possibile diniego del giudice al rito per la mancata possibilità di definire il processo allo stato degli atti. Laddove il giudice ritenga non sufficienti gli atti ai fini della decisione, può assumere anche d'ufficio quanto ritenga necessario. Oltre a questa ipotesi di giudizio abbreviato, per così dire “semplice”, se ne è prevista una ulteriore “condizionata” alla richiesta dell'imputato di una integrazione probatoria. In questo ultimo caso resta ferma la possibilità del giudice di rigettare la richiesta di procedere mediante procedimento semplificato, laddove ritenga la richiesta di integrazione probatoria non necessaria ai fini della decisione o non compatibile con le finalità di economia processuale proprie del rito.
Privato del connotato pattizio il giudizio abbreviato, che è ora rimesso al solo impulso dell'imputato, ed eliminato con l'intervento del 2008 il concordato sui motivi in appello, permane in una logica convenzionale il solo rito dell'applicazione della pena su richiesta delle parti.
Il consensualismo interno al processo penale però non trova realizzazione solo nel contesto dei riti semplificati: non vi è dubbio che questo sia il settore maggiormente connotato dalla volontà delle parti, ma essa gioca oggi un ruolo significativo anche altrove. Nell'ambito negoziale, infatti, può ricomprendersi anche il concordato sulla prova. La c.d. legge Carotti ha rinovellato, tra gli altri, gli artt. 431, secondo comma, e 493 c.p.p. in forza dei quali adesso le parti possono concordare l'acquisizione al fascicolo per il dibattimento di atti contenuti nel fascicolo del pubblico ministero, nonché della documentazione relativa all'attività di investigazione difensiva.
L'applicazione della pena su richiesta delle parti, secondo l'originaria articolazione data dal codice di rito del 1988, doveva applicarsi per reati di non elevata gravità, vale a dire per reati puniti con una sanzione sostitutiva o pena pecuniaria ovvero con una pena detentiva, quando questa tenuto conto delle circostanze e diminuita fino ad un terzo, non superasse i due anni di reclusione o arresto ( soli o congiunti a pena pecuniaria). Con la legge 12 giugno 2003, n°134 se ne è invece
notevolmente estesa la portata, prevedendo che vi si possa ricorrere in riferimento a reati per cui la pena detentiva, considerate le circostanze e la diminuzione premiale, non superi i cinque anni ( soli o congiunti a pena pecuniaria). Si è resa percorribile la strada del patteggiamento, quindi una definizione del processo in esito ad un accordo delle parti, per reati di medio-alta gravità. L'ampliamento di operatività del giudizio abbreviato a seguito della legge Carotti, l'estensione dell'applicazione della pena su richiesta delle parti sostanzialmente a quasi tutti i reati ( considerando che si è molto spesso agito sulle circostanze per cercare di mantenere la pena entro la soglia dei cinque anni), dimostrano un particolare favore del legislatore verso i riti alternativi al dibattimento. Le tabelle allegate alla Relazione sull'amministrazione della giustizia dell'anno 200414, tenuta
dal dott. Francesco Favara, Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte di cassazione, per l'inaugurazione dell'anno 2005 ci consentono di individuare il ruolo assunto nella prassi dai riti speciali. Le sentenze di condanna seguite a giudizio ordinario sono state 107.768, mentre quelle pronunciate nell'ambito dei riti speciali premiali ( patteggiamento, giudizio abbreviato e decreto penale di condanna) 147.974. Dunque: il 42 % delle condanne è seguito ad un giudizio ordinario, il 58 % ( di cui il 34 % è costituito da
sentenze di patteggiamento) ad un rito premiale. Sembrerebbe delinearsi un sistema nel quale, quello che dovrebbe costituire il rito ordinario, con le garanzie dibattimentali e da adottarsi nella normalità dei casi,diventa invece un'ipotesi eccezionale, a favore dei procedimenti speciali che sempre più diventano “ordinari”15.
Era questa, del resto, l'intenzione del legislatore del 1988 che, come si evince dalla Relazione al progetto preliminare16,
auspicava addirittura una soluzione alternativa a quella dibattimentale per il 90 % dei procedimenti.
1.3- Segue: gli istituti conciliativi.
Nell'ambito della giustizia penale consensuale rientrano anche istituti ascrivibili, non alla logica negoziale in chiave deflattiva, ma all'area della conciliazione17. Essi presentano,
come tratto identificativo comune, il fatto di reagire all'illecito penale non mediante una sanzione di tipo afflittivo. Un ruolo centrale nella composizione della “lite” non è rivestito dall'imputato e dal pubblico ministero, come avviene negli istituti di tipo convenzionale. Negli schemi conciliativi il dualismo si gioca tra incolpato del reato e persona offesa.
15 E. DOLCINI, Problemi vecchi e nuovi in tema di riti alternativi:
patteggiamento, accertamento di responsabilità, misura della pena, cit., pag. 576.
16 Si veda Progetto preliminare del Codice di procedura penale, Relazione, in
Speciale Documenti Giustizia, Roma, 1988, II.
17 Si veda al riguardo F. PERONI , Nozioni fondamentali in La giustizia penale
Una prima possibilità di conciliazione18 nell'ambito del
sistema penale può individuarsi nella composizione bonaria dei conflitti prevista dal Testo Unico di pubblica sicurezza, che si sviluppa attraverso l'attività portata avanti dalle forze di polizia. Il codice di rito all'art. 564 attribuiva poi, in vista della remissione della querela, al p.m. un potere di attivazione volto a risolvere il conflitto provocato dal reato. Tale articolo è stato poi abrogato con l'istituzione del giudice unico19.
Con il d.P.R. 448/88, che ha introdotto il nuovo processo minorile, si è prevista un' ipotesi di mediazione penale20. Nel
processo a carico di imputati minorenni l'obiettivo è quello di tutelare il minore e di tendere ad una rieducazione, responsabilizzazione e crescita dello stesso. In un tale contesto si colloca anche lo strumento della mediazione. Si prevede la possibilità per il giudice di sospendere il rito in modo da consentire al minore di sperimentare percorsi rieducativi, all'esito positivo dei quali può lucrare l'estinzione della responsabilità penale. La mediazione tra autore e vittima può trovare ingresso attraverso due modalità: pre-processuale o pre-processuale. Nella fase delle indagini preliminari, il ricorso all'Ufficio per la Mediazione può avvenire in modo informale nelle pieghe degli adempimenti scolpiti dall'art. 9 d.P.R. 448/88. Questo articolo consente al
18 Si veda G. MANNOZZI, La giustizia senza spada- uno studio comparato su
giustizia riparativa e mediazione penale, Giuffrè editore, 2003, pag 247.
19 D.lgs. 19 febbraio 1998, n°51.
p.m. e al giudice di raccogliere informazioni riguardo alla personalità, alle risorse personali e familiari, al contesto socio-ambientale o lavorativo del giovane. Tale ricerca è funzionale, tra le altre, alla individuazione delle prescrizioni per la sospensione del processo con messa alla prova. L'art. 9, secondo comma, d.P.R. 448/88, prevede la possibilità di “ sentire il parere di esperti” e nulla esclude che ci si rivolga agli operatori dell'Ufficio per la Mediazione. L'art. 27 del d.P.R. 448/88 autorizza il proscioglimento del minore per irrilevanza del fatto al ricorrere di tre condizioni: la tenuità del fatto, l'occasionalità del comportamento e l'eventuale pregiudizio che dalla prosecuzione del processo potrebbe derivare alle esigenze educative del minore. Ai fini dell'applicazione di questa formula proscioglitiva fondamentale significato può assumere proprio la mediazione. La riparazione maturata attraverso una mediazione anteriore al dibattimento riduce la portata del danno e quindi può essere valutata ai fini del ricorrere del requisito della tenuità del fatto. Ancora può essere valutata rispetto all'esame dell'occasionalità del comportamento e per formulare un giudizio prognostico sul minore. In particolare il giudizio relativo al proscioglimento per irrilevanza del fatto si estende fino a ricomprendere un importante elemento conoscitivo: l'atteggiamento dell'autore rispetto al fatto commesso.
Riguardo invece alla mediazione in fase processuale, il giudice può inserirla tra le prescrizioni che corredano la messa alla prova. L'art. 28 d.P.R. 448/88 prevede che qualsiasi attività possa essere oggetto di prescrizione, purché diretta a riparare le conseguenze del reato o a promuovere la riconciliazione con la persona offesa.
Sempre con riferimento ai minori degli anni diciotto, la mediazione può svolgere un ruolo importante nella concessione del perdono giudiziale ( art. 169 c.p.). Tale istituto evita al beneficiario il rinvio a giudizio o la pronuncia della sentenza di condanna, purché egli si adoperi a riparare le conseguenze dannose del reato ed a riconciliarsi con la vittima21. Esso è applicabile quando il reato è punibile con una
pena non superiore a due anni e a condizione che si possa formulare un giudizio prognostico positivo circa la non recidiva del minore22. Giudizio da svolgersi sulla base dei
parametri ex art. 133 c.p. ed ai fini del quale la mediazione potrebbe fornire un supporto conoscitivo prezioso.
Al di fuori del processo minorile, un ipotesi vera e propria ed a carattere generale di mediazione penale si è avuta con il D.lgs. 28 Agosto 2000, n°27423. Con questo intervento24
21 Si veda I. ALESSANDRUCCI, Conciliazione in DIGESTO delle discipline
penalistiche, Aggiornamento ****, Tomo I A-I, 2008, pag. 151.
22 G. MANNOZZI, La giustizia senza spada, cit., pag. 278. 23 I. ALESSANDRUCCI, Conciliazione, cit., pagg. 148 ss.
24 Sul D.lgs. 274/2000 si vedano i commenti di : E. MARZADURI, P. MAGGIO, D. MANZIONE, C. DI BUGNO, B. GIORS, H. BELLUTA, S. RUGGERI, D. NEGRI, E. APRILE, V. BONINI, G. DE FRANCESCO, S. QUATTROCOLO, F. LAZZARONE, S. CAMPANELLA, A. DI MARTINO, A. MARTINI, in
normativo si è riconosciuta al giudice di pace una competenza in materia penale per particolari reati, per lo più di carattere bagatellare. L'art. 2, secondo comma, D.lgs. 274/00 stabilisce infatti: “ nel corso del procedimento, il giudice di pace deve favorire, per quanto possibile, la conciliazione tra le parti”. Ancora l'art. 29, quarto comma, D.lgs. 274/00: “ il giudice quando il reato è perseguibile a querela, promuove la conciliazione tra le parti”. Come precedentemente detto i reati affidati alla competenza del giudice di pace sono per lo più bagatellari ed in gran parte perseguibili a querela della persona offesa, inoltre si tratta di fattispecie criminose frutto di una microcriminalità tra privati che non coinvolgono, tendenzialmente, interessi collettivi. Il giudice di pace laddove ravvisi la possibilità di una conciliazione tra le parti può rinviare l'udienza per un periodo non superiore a due mesi, inoltre può anche avvalersi dell'opera di centri e strutture di mediazione, pubbliche o private, presenti sul territorio. Al fine poi di eliminare possibili ricadute negative dell'iter mediativo, si prevede che quanto dichiarato dalle parti durante l'attività conciliativa non è utilizzabile ai fini della deliberazione. Sempre in linea con una soluzione conciliativa della vicenda penale, l'art 35 D.lgs. 274/2000 dispone l'estinzione del reato nel caso in cui l'imputato abbia riparato il danno cagionato dal reato, mediante restituzioni o
risarcimento, ed abbia eliminato le conseguenze dannose o pericolose del reato.
Si rende qui palese un finalismo riparatorio che è del tutto assente negli istituti di giustizia negoziata, dove il contraltare di una sanzione ridotta e di benefici premiali consiste in un obiettivo di economia processuale e spesso tra gli incentivi al rito figura anche l'esclusione delle ragioni del danneggiato e offeso dal reato.
Anche in fase esecutiva e nell'ambito del procedimento di sorveglianza la mediazione e la riparazione possono rivestire un'utilità concreta25. L'art. 47, comma 7°, o.p., sancisce che
il giudice, nel concedere l'affidamento in prova al servizio sociale, deve stabilire che “ l'affidato si adoperi in favore della vittima di reato”. E' un'ipotesi di rieducazione attraverso la riparazione. Ancora l'art. 176 c.p. che disciplina la concessione della libertà condizionale ( istituto che consente di ridefinire la durata della pena sulla base di una valutazione del comportamento del soggetto durante l'esecuzione della pena stessa) potrebbe autorizzare il ricorso alla mediazione ed alla valutazione di condotte riparative. La giurisprudenza26 richiede un esame completo di
condotta e personalità del reo, ritenendo utili le informazioni tratte, tra le altre, dall'interessamento del reo verso le vittime del reato e dall'intenzione di riparare le conseguenze
25 G. MANNOZZI, La giustizia senza spada, cit., pagg. 332 ss.
dannose o pericolose della propria condotta. Proprio questi parametri consentono di riconoscere un ruolo di rilievo alle attività di mediazione e riparazione.
Capitolo secondo
L'APPLICAZIONE DELLA PENA SU
RICHIESTA: ORIGINI ED EVOLUZIONE
STORICA
2.1- Il patteggiamento: le origini.
L'applicazione della pena su richiesta delle parti, nota come patteggiamento della pena, costituisce uno dei procedimenti speciali, alternativi al rito ordinario, disciplinato nel codice di procedura penale al Libro Sesto negli artt. da 444 a 448. Volendo individuarne le origini e l'evoluzione storica, una chiara similitudine con il nostro patteggiamento è stata colta dal Prof. Lozzi, nei riguardi dell'istituto del truglio27 di
diritto borbonico. Quest'ultimo costituiva un procedimento speciale cui si ricorreva nel regno di Napoli28, fino ai primi
dell'ottocento, quando essendo le carceri sovraffollate si giungeva ad accordi con gli imputati circa la pena da comminare, senza processo e sulla base degli indizi disponibili. La pena era arbitraria ed era calcolata tenendo anche conto della probabilità di maggiori o minori argomenti di reità o di innocenza, che si sarebbero potuti ottenere dalla prosecuzione del processo. L'istituto era denominato giudizio
27 Si veda G. LOZZI, Patteggiamento allargato: nessun beneficio dall'applicazione
di una giustizia negoziale in Guida al diritto, 2003, n. 30, pag. 9.
28 A. DE CARO, Patteggiamento allargato e sistema penale, Giuffrè Editore, Milano, 2004, pag. 12.
in concordia e più comunemente truglio. Interessante la riflessione del Prof. Lozzi laddove rileva come nel nostro sistema, per raggiungere l'obiettivo di economia processuale, si sia dovuto reintrodurre il truglio, termine che deriva da in-truglio, inteso come imbroglio,inganno.
Guardando ai tempi più recenti, l'antecedente normativo dell'applicazione della pena su richiesta delle parti è rinvenibile nell'art. 77 della legge 24 novembre 1981, n°68929, in tema di depenalizzazione e sanzioni sostitutive.
Tale legge prevedeva, previa richiesta dell'imputato e parere favorevole del p.m., la possibilità per il giudice di disporre l'applicazione delle misure sostitutive della libertà controllata e della pena pecuniaria. La richiesta dell'imputato era formulabile nelle indagini preliminari e fino all'apertura del dibattimento. Il giudice, verificata la possibilità di concedere le sanzioni sostitutive (e quindi per la libertà controllata che la pena detentiva fosse nel limite di tre mesi e per la pena pecuniaria che la pena detentiva rientrasse nel limite di un mese) applicava le stesse, con l'esclusione di pene accessorie e misure di sicurezza ( eccetto la confisca obbligatoria), e dichiarava estinto il reato. Si trattava di un istituto ancora distante30 dall'attuale applicazione della pena
su richiesta delle parti. L'applicazione delle sanzioni
29 D. VIGONI, L'applicazione della pena su richiesta delle parti, cit., pag. 2. Sulla l. 689/81 si veda anche E. MARZADURI, L'applicazione delle sanzioni
sostitutive su richiesta dell'imputato, cit.
sostitutive su richiesta dell'imputato era un meccanismo premiale, fondato sulle valutazioni del giudice riguardo alla meritorietà del caso, mentre l'applicazione della pena su richiesta delle parti rappresenta un vero e proprio procedimento alternativo del dibattimento, e che riconnette effetti premiali al rito che è stato prescelto. Ancora l'istituto ex legge 689/1981 era applicabile in riferimento a reati bagatellari e relegato all'ambito delle sole sanzioni sostitutive, inoltre comportava immediati effetti estintivi del reato. L'attuale patteggiamento ha invece un ambito di applicazione più esteso, è applicabile per i reati puniti con pena pecuniaria,sanzioni sostitutive ma anche con pene detentive ( sia pure entro un limite, originariamente di due anni e poi esteso, con l'intervento del 2003, a cinque anni), non produce l'automatica estinzione del reato ( che si realizza, nel solo patteggiamento tradizionale, se entro un dato termine, dalla definitiva sentenza di patteggiamento, non si commettono reati della stessa indole) e non è di ostacolo alla successiva concessione della sospensione condizionale della pena, a cui anzi può subordinarsi la stessa richiesta.
L' applicazione di sanzioni sostitutive su richiesta dell'imputato era volta a ridurre, per i reati di minor allarme sociale, l'espiazione di pene detentive di breve durata, e ciò sia per ovviare al problema del sovraffollamento delle
carceri, che per contrastare la forte carica desocializzante delle stesse nei riguardi di soggetti non avvezzi a delinquere. La ratio che ha invece portato all'introduzione del procedimento speciale del patteggiamento è tutt'altra: la finalità è meramente processuale, in quanto si è voluto eliminare la fase del dibattimento con l'obiettivo di economia processuale. Dopo la breve fase di operatività del “patteggiamento sulle misure sostitutive” ex legge 689/1981 si è potuti giungere ad un istituto di maggior ampiezza operativa con l'attuale codice di procedura penale che ha introdotto il procedimento dell'applicazione della pena su richiesta delle parti.
Forte influenza nella realizzazione dell'istituto hanno avuto i sistemi di common-law e sopratutto quello americano31. Gli
Stati Uniti d'America conoscono da tempo procedure quali il plea bargaining e il guilty plea. L'offerta di dichiararsi colpevole ( guilty plea), è normalmente preceduta da un mercanteggiamento su ciò di cui dichiararsi colpevole ( plea bargaining), e oggetto dell'accordo possono essere sia la pena che le imputazioni. Qualcosa di simile si trova anche nell'ordinamento inglese, dove fondamentale è il guilty plea che esime il giudice dalla necessità di assumere prove. L'affermazione di colpevolezza in molti casi determina una
31 A. DE CARO, Patteggiamento allargato e sistema penale, cit., pag. 10.
Si veda anche: E. AMODIO, Processo penale, diritto europeo e common law, Milano, 2003; E. AMODIO e M. C. BASSIOUNI, Il processo penale negli Stati
riduzione, sostanziale, della pena e dei capi di imputazione. Si finiscono quindi per legittimare accordi sulla pena e sulle imputazioni (plea bargaining), che pur non essendo formalmente previsti nel sistema inglese, si innestano a partire dall'istituto del guilty plea. Una tale struttura della giustizia negoziata, nei sistemi anglosassoni, si giustifica sulla possibilità di contrattare l'imputazione, collegata alla discrezionalità dell'esercizio dell'azione penale a cui sono improntati quegli ordinamenti. In un sistema, invece, quale quello italiano caratterizzato dall'art. 112 Cost., che sancisce l'obbligatorietà dell'azione penale e quindi esclude di poter incidere liberamente sull'imputazione, una configurazione siffatta dell'istituto è inconcepibile.
L'istituto anglosassone vede il suo fulcro nella ammissione di responsabilità dell'imputato32. Interessante a riguardo
notare come la Raccomandazione del Comitato dei ministri degli Stati membri del Consiglio d'Europa 17 settembre 1987, n°18, in riferimento alla giustizia negoziata richiami l'ammissione di responsabilità. Così pure lo Statuto della Corte penale internazionale pone attorno ad una admission of guilty la possibilità di strutturare una giustizia negoziata internazionale.
L'applicazione della pena su richiesta delle parti si discosta da tale modello in quanto non fondata su una ammissione di
32 M. GIALUZ, Applicazione della pena su richiesta delle parti in Enciclopedia del
colpevolezza ( nonostante vi siano stati alcuni orientamenti della Cassazione33 volti a sostenere ciò, anche al fine di
giustificare la presunta assenza di un accertamento di responsabilità condotto dal giudice nel pronunciare sentenza di patteggiamento).
Il codice di procedura penale del 1988 ha introdotto un processo penale su modello accusatorio e un forte potere dispositivo delle parti; le scelte sistematiche individuano il dibattimento come luogo privilegiato di formazione della prova, nel contraddittorio delle parti. In un sistema così strutturato e con una fase dibattimentale implicante un largo impiego di tempo ed energie, il legislatore ha dovuto ideare dei percorsi alternativi a quello ordinario34. Nel Libro Sesto
del codice di rito si sono, quindi, disciplinati una serie di procedimenti semplificati, tra cui l'applicazione della pena su richiesta delle parti. Il patteggiamento aveva quindi la sua ratio in una esigenza di economia processuale e in una volontà deflazionistica. Proprio per favorire l'approdo a tali riti speciali il legislatore ha previsto una serie di effetti premiali per l'imputato che vi ricorra ( patteggiamento,giudizio abbreviato e decreto penale di condanna). Nonostante il favore dei codificatori verso questi procedimenti, ancora oggi costituisce ostacolo ad una loro ampia diffusione la
33 Per la giurisprudenza della Cassazione in materia si veda oltre.
34 M. MONTAGNA, Profili soggettivi, oggettivi e temporali dei procedimenti
lungaggine delle giustizia penale, potendo per l'imputato risultare più conveniente optare per il rito ordinario al fine di beneficiare della prescrizione del reato. Quindi se attraverso i riti speciali si è voluta garantire una maggiore efficienza del processo, viceversa proprio la mancanza di quest'ultima costituisce la principale ragione ostativa ad una loro più vasta diffusione.
Se il percorso ordinario di svolgimento del giudizio penale si caratterizza per la presenza di tre fasi (indagini preliminari,udienza preliminare e dibattimento), per la formazione della prova in dibattimento e nel contraddittorio delle parti e con una sentenza fondata su un accertamento pieno e completo dei fatti, non così è per il patteggiamento. La struttura dell'applicazione della pena su richiesta delle parti pose fin da subito l'interprete di fronte all'interrogativo riguardante il fatto se la sentenza di patteggiamento prescinda completamente da un accertamento della responsabilità o se invece si basi su di un accertamento comunque presente, ma incompleto35.
Indubbiamente con il rito in questione si ha una deroga al contraddittorio nella formazione della prova (grazie all'accordo delle parti assumono infatti valore di prova le risultanze delle indagini preliminari) e il venir meno della fase dibattimentale. Il rito si fonda su un accordo delle parti e la
richiesta era formulabile al giudice fino alla dichiarazione di apertura del dibattimento. Tuttavia dopo la chiusura del dibattimento di primo grado o nel giudizio di impugnazione, il giudice poteva provvedere laddove avesse ritenuto ingiustificato il dissenso del p.m. e congrua la pena richiesta dall'imputato. Il giudice, verificato che vi fosse il consenso anche della persona che non aveva formulato la richiesta, se non ricorrevano cause di proscioglimento ex art 129 c.p.p, e verificata sulla base degli atti la corretta qualificazione giuridica del fatto e l'applicazione e comparazione delle circostanze, procedeva all'applicazione della pena richiesta. Se vi era stata costituzione di parte civile il giudice non decideva sulla relativa domanda. Tra gli effetti premiali si prevedeva, inoltre, che la sentenza ex art 444 c.p.p. non comportasse la condanna al pagamento delle spese processuali , l'applicazione di pene accessorie e misure di sicurezza ( fatta eccezione per la confisca obbligatoria ex art. 240 comma secondo, c.p. ) e che non producesse effetti nei giudizi civili ed amministrativi, oltre alla mancata menzione nei certificati del casellario giudiziario richiesti dai privati. Il reato si estingueva se entro cinque anni, se la sentenza riguardava un delitto, o entro due anni, se riguardava una contravvenzione, l'imputato non avesse commesso un delitto o una contravvenzione della stessa indole. In questo caso, se si era applicata una pena pecuniaria
o sanzione sostitutiva, questa non era di ostacolo alla concessione di una successiva sospensione condizionale della pena.
Questa a grandi linee era la struttura del rito del patteggiamento così come disegnata, alle origini, nel codice dell'ottantotto. Sono poi intervenute una serie di modifiche, che hanno ampiamente rivisto e mutato l'istituto, a partire dagli anni 90, con alcune pronunce della Corte Costituzionale e con la legge Carotti, ed infine con due interventi degli anni duemila.
2.2- Gli interventi della Corte Costituzionale e la legge Carotti.
Un intervento di notevole rilievo, su più fronti, e che ha provocato un mutamento nell'assetto del patteggiamento, così come era stato strutturato dal codice dell'ottantotto, è da ricondursi alla sentenza della Corte Costituzionale del 2 luglio 1990, n°31336. Con tale sentenza la Corte rigettò le
questioni di legittimità costituzionale dell'art. 444 c.p.p, poste dal Tribunale di Pistoia e dal Pretore di Vercelli, nei riguardi degli artt. 101 secondo comma, 102 secondo comma, 13 primo comma, 24 secondo comma, 27 secondo comma e 111 primo comma Cost. Di converso dichiarò “l'illegittimità costituzionale dell'art 444, secondo comma, c.p.p., nella
36 La sentenza può leggersi in Riv. it. dir. e proc. pen., 1990, pagg. 1588 ss. oppure in Foro it., 1990, I, pag. 2385, con nota di G. FIANDACA.
parte in cui non prevede che, ai fini e nei limiti di cui all'articolo 27, terzo comma, Cost., il giudice possa valutare la congruità della pena indicata dalle parti, rigettando la richiesta in ipotesi di sfavorevole valutazione”. La Corte dunque, dopo aver rigettato i dubbi sollevati dai giudici di merito, ha accolto la questione in riferimento alla violazione del principio rieducativo della pena ( art. 27, terzo comma, Cost.), parametro non espressamente invocato dai rimettenti, ma ritenuto dalla stessa implicitamente dedotto. Si è ritenuto che la preclusione al controllo del giudice sulla congruità della pena potesse determinare un conflitto con il principio in questione, in quanto la richiesta delle parti, grazie ad attenuanti che si fanno operare nella massima estensione sul minimo di pena, può attestarsi, anche per delitti molto gravi, su limiti ritenuti incongrui dal giudice. In questa sentenza la Corte rivede il suo precedente indirizzo con cui aveva sostenuto che il finalismo rieducativo della pena riguardasse il solo trattamento penitenziario. Ne era derivata una concezione della pena, secondo la quale le sue finalità essenziali consistevano nella dissuasione, prevenzione, difesa sociale. Così inteso si sarebbe corso il rischio di strumentalizzare l'individuo per fini di politica criminale (prevenzione generale) o di privilegiare il soddisfacimento di bisogni collettivi (difesa sociale), con sacrificio del singolo a beneficio di un'esemplarità della
sanzione. Si è quindi riconosciuto come la previsione costituzionale, in virtù della quale la pena deve tendere a rieducare, non rappresenti una mera tendenza riferita al solo trattamento ma una qualità intrinseca della pena stessa. La Corte ribadisce che il principio, di cui all'articolo 27 terzo comma Cost., vale tanto per il legislatore che per i giudici della cognizione, nonché per quelli dell'esecuzione e della sorveglianza, oltre che per le autorità penitenziarie. Si dichiara quindi incostituzionale l'art. 444 secondo comma c.p.p. nella misura in cui prevede che il giudice, verificato che non vi siano cause di proscioglimento ex art. 129 c.p.p. e la correttezza della qualificazione giuridica del fatto, oltre che della valutazione e comparazione delle circostanze, applichi la pena così come determinata dalle parti senza poterne sindacare la congruità in riferimento al principio rieducativo. Dalla motivazione della sentenza emerge che la verifica giurisdizionale circa la qualificazione del fatto, applicazione/comparazione delle circostanze, non si limita ad un controllo di legittimità in quanto il giudice “non valuta soltanto la correttezza di un'operazione logico-giuridica” ma trae il proprio convincimento “ proprio dalle risultanze degli atti, e non dal modo in cui le parti le hanno valutare”. La Corte, aggiungendo poi un ulteriore profilo devoluto al sindacato del giudice, ha smentito l'attribuzione al rito di una connotazione meramente negoziale e l'intento di relegare
l'organo giudicante ad una funzione di tipo notarile unicamente certificativa dell'attività delle parti37. I poteri
del giudice nell'ambito del patteggiamento spaziano adesso dal merito alla legittimità. A seguito dell'introduzione di questo ulteriore criterio, la sentenza applicativa della pena su richiesta delle parti non si riduce ad una “mera ricezione acritica” dell'accordo, ma è il frutto di una valutazione da parte del giudice “all'esito di una penetrante attività di controllo” alla stregua delle “ risultanze degli atti e non per il modo in cui le parti le hanno valutate”. Controllo che attiene alla definizione giuridica del fatto, valutazione e comparazione delle circostanze ed alla congruità della pena in concreto concordata, in rapporto alle finalità rieducative. Ulteriore pronuncia della Corte Costituzionale che ha inciso sulla struttura originaria del patteggiamento è la sentenza del 12 ottobre 1990, n° 44338. Il pretore di Roma aveva
sollevato questione di legittimità costituzionale nei riguardi degli artt. 444, secondo comma, e 445, primo comma, c.p.p.. Si erano ritenute le norme in questione contrastanti con i principi di cui agli articoli 24 primo comma, 25 primo comma e 3 Cost. La Corte ha ritenuto inammissibili le questioni relative all'art 445 c.p.p, in quanto la mancata efficacia della sentenza di patteggiamento nei giudizi civili e amministrativi è priva di rilievo nel giudizio penale, potendo semmai essere
37 D. VIGONI, L'applicazione della pena su richiesta delle parti, cit., pagg. 301 ss. 38 Si veda Giur. cost.,1990, pag. 2633.
sollevata dalle parti di questi giudizi. In riferimento invece all'art. 444 c.p.p. si era invocato, in primo luogo, un contrasto con l'art. 24 Cost., in quanto nell'escludere che il giudice potesse pronunciarsi sulla domanda della parte civile, si sarebbe limitato il principio costituzionale che assicura al cittadino la tutela giudiziaria dei propri diritti. Inoltre a sostegno di questa tesi si era addotta una comparazione tra il patteggiamento e il giudizio abbreviato, dove quest'ultimo, pur in presenza di una scelta sul rito dell'imputato con consenso del pubblico ministero, consentiva al giudice di pronunciarsi sulla domanda della parte civile. Con riferimento a questo parallelismo con il giudizio abbreviato la Corte, dopo aver affermato che tuttalpiù si sarebbe profilato un contrasto con l'art. 3 e non 24 Cost., rileva che nel rito abbreviato il giudice può pronunciarsi sulla domanda della parte civile se questa ha accettato il procedimento speciale, e che ciò consegue alla differenza strutturale tra i due riti. La scelta del rito abbreviato comporta la trasformazione del processo da ordinario a speciale, mentre la concorde richiesta delle parti di applicazione della pena, se accolta dal giudice, comporta l'epilogo del processo. Dunque l'azione della parte civile se può trovar spazio in un processo che prosegue, afferma la Corte, non può averne in un giudizio che si conclude. In riferimento invece alla violazione dell'art. 24 Cost., nella misura in cui l'art 444 c.p.p. esclude che il giudice
possa pronunciarsi sulla domanda della parte civile, per la vanificazione della tutela giurisdizionale del soggetto che dal reato abbia subito un danno: la Corte la ritiene non fondata. Tale contrasto con l'articolo in questione sarebbe ipotizzabile solo laddove l'esercizio dell'azione civile, per le restituzioni e risarcimento del danno, nell'ambito del processo penale fosse l'unica strada perseguibile. Ma così non è, potendo la parte civile esperire la propria azione nella sua sede naturale, vale a dire nel processo civile. Il fatto che la parte civile non possa partecipare al processo penale non incide sul diritto costituzionalmente garantito alla difesa, costituendo espressione del potere discrezionale del legislatore in vista di altri interessi, quale quello alla speditezza del processo. La Corte ritiene, invece, integrata la violazione dell'art. 24 Cost., laddove l'esclusione del potere di decisione in capo al giudice penale produca un ingiustificato pregiudizio per la parte civile. L'art 541 c.p.p. prevede infatti che con la sentenza che accoglie la domanda di restituzione o risarcimento del danno, il giudice condanni l'imputato e in solido il responsabile civile al pagamento delle spese della parte civile, salvo disponga per giusti motivi la compensazione totale o parziale. Ovviamente l'esclusione nel patteggiamento della facoltà del giudice di pronunciarsi sull'azione civile comportava anche che questo non potesse condannare l'imputato alle spese sostenute dalla parte civile
fino a quel momento. La Corte dichiara quindi incostituzionale l'art 444, secondo comma, del codice di rito, nella parte in cui non prevede che il giudice penale possa condannare l'imputato al pagamento delle spese processuali della parte civile, salvo poterne disporre per giusti motivi la totale o parziale compensazione. Con riferimento all'art. 25 Cost. la Corte ritiene che non integri violazione il venir meno della competenza di un'autorità giudiziaria a seguito di una condizione espressamente prevista in via generale dalla legge, e ciò a maggior ragione quando la competenza sottratta al giudice penale è una competenza spettante originariamente ad un altro giudice cui viene restituita. Per quanto riguarda l'art. 3 Cost. di cui si invocava la violazione sotto tre punti ( riconoscimento di benefici all'imputato a scapito della parte civile; impossibilità per i danneggiati da reati puniti meno gravemente, in caso di patteggiamento, della pronuncia in sede penale sull'azione civile di cui possono invece fruire i danneggiati da reati più gravi; eventualità, nel caso di coimputati, che la decisione sulla domanda civile venga sottratta alla sede penale nei riguardi del solo imputato avvalsosi del patteggiamento , mentre non così per l'altro) si afferma che l'azione di restituzione o risarcitoria, avendo carattere accessorio e subordinato rispetto all'azione penale, subisce tutte le conseguenze derivanti dalla funzione e struttura del processo penale. Subordinazione
data dal legislatore con la prevalenza dell'interesse pubblico e dell'imputato all'esigenza di una rapida conclusione del processo penale.
Questi due interventi della Corte costituzionale del novanta sono stati poi recepiti normativamente, pochi anni dopo, dalla legge Carotti.
Altro intervento di rilievo della Corte si è avuto con la sentenza del 30 giugno 1994, n°26539, con cui si è dichiarata
l'illegittimità costituzionale , per contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost., degli artt. 516 e 517 c.p.p. “ nella parte in cui non prevedono la facoltà dell'imputato di richiedere al giudice del dibattimento l'applicazione di pena a norma dell'art. 444 c.p.p., relativamente al fatto diverso o al reato concorrente contestato in dibattimento, quando la contestazione concerne un fatto che già risultava dagli atti di indagine al momento dell'esercizio dell'azione penale ovvero quando l'imputato ha tempestivamente e ritualmente proposto la richiesta di applicazione di pena in ordine alle originarie imputazioni”. La Corte già in precedenti pronunce aveva affermato come rientri nelle valutazioni che l'imputato deve compiere, ai fini della scelta del rito, l'eventualità di una modificazione dell'imputazione a seguito dell'istruttoria dibattimentale, non inverosimile nell'attuale sistema processuale penale che riserva proprio al dibattimento la
formazione delle prove. Il rischio rientra nelle valutazioni che l'imputato compie per decidere se aderire o meno al rito ed eventuali conseguenze sono solo a lui addebitabili. Tuttavia laddove non sia rinvenibile alcuna inerzia dell'imputato o “addebitabilità” allo stesso delle conseguenze della mancata instaurazione del rito speciale, l'impossibilità di ottenere i benefici derivanti dal patteggiamento comporta sicuramente una violazione del diritto di difesa. Si vuole evitare che l'instaurazione di un rito comportante effetti sulla determinazione della pena dipenda da scelte discrezionali del p.m.. La libera determinazione dell'imputato verso il procedimento speciale risulta sviata da una situazione di anomalia dovuta alla condotta del p.m., quale l'erroneità della contestazione ( il fatto è diverso) o la incompletezza della stessa (manca l'imputazione per un reato connesso). Si avrebbe poi violazione dell'art. 3 Cost. in quanto l'imputato sarebbe discriminato, ai fini dell'accesso o meno al rito speciale, in relazione alla esattezza e completezza delle valutazioni discrezionali svolte dal pubblico ministero sulle risultanze delle indagini preliminari. Analoghe considerazioni valgono per l'ipotesi in cui l'imputato abbia formulato tempestivamente e ritualmente la richiesta di procedimento speciale in ordine alla originaria imputazione. Anche in questo caso la preclusione al rito non dipende da una scelta dell'imputato il quale anzi ha posto in essere tutto
quanto necessario. In conclusione quando venga contestato un fatto diverso o un reato connesso rispetto all'originaria imputazione deve consentirsi all'imputato di richiedere al giudice del dibattimento il rito ex art. 444 c.p.p., ma solo laddove tali nuove contestazioni risultassero agli atti fin dall'inizio ( non rientrando nei rischi che l'imputato prende in considerazione al momento della scelta circa l'adesione al rito e dipendendo da una scorretta condotta del p.m.) o laddove l'imputato avesse tempestivamente fatto richiesta di patteggiamento (avendo fatto quanto nelle sue possibilità per l'instaurarsi del procedimento speciale).
Con la legge n° 479 del 199940, oltre a recepirsi quanto
affermato nelle pronunce della Corte Costituzionale nn° 313 e 443 del 1990, si sono apportate altre importanti novità sull'istituto dell'applicazione della pena su richiesta delle parti41. La novella rivede innanzi tutto il limite massimo
temporale entro cui è consentito l'accesso al rito42 . Se nella
configurazione originaria dell'ottantotto la richiesta era formulabile fino alla dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, le parti possono adesso
40 Sulla l. 479/1999 si vedano i commenti di : D. MANZIONE, V. BONINI, S. CAMPANELLA, P. MAGGIO, L. FILIPPI, L. SCOMPARIN, P. P. RIVELLO, C. DI BUGNO, R. ORLANDI, B. GALGANI, E. MARZADURI, S. QUATTROCOLO, E. APRILE, C. MAINA, D. CARCANO, in Legislazione
penale, Utet, 2000, pagg. 237 ss.
41 Per un quadro sulle novità apportate dalla l.479/1999 si veda D. VIGONI, Applicazione della pena su richiesta delle parti in Enciclopedia del diritto –
Aggiornamento VI, Giuffrè Editore, 2002, pag .22.
formulare richiesta ex art. 444 c.p.p. fino alla presentazione delle conclusioni nell'udienza preliminare ( art 446, primo comma, c.p.p., così come riscritto). Si era infatti manifestata la prassi di sfruttare appieno le possibilità temporali di accesso al rito, ponendo alle soglie del dibattimento il momento in cui patteggiare. Con l'anticipazione del termine si sono volute evitare dilazioni, riducendo i procedimenti pendenti che poi sarebbero sfociati in un patteggiamento in limine judicii. Tale abbreviazione dei termini risulta essere perfettamente in linea con la ratio dell'istituto, che come più volte detto è di tipo deflazionistico. Ulteriore innovazione riguarda la possibilità, dopo la chiusura del dibattimento di primo grado o nel giudizio di impugnazione, che il giudice provveda alla sentenza di patteggiamento non solo quando ritiene ingiustificato il dissenso del p.m. (ipotesi originariamente prevista) ma anche quando ingiustificato sia il rigetto, della richiesta concordata, da parte del giudice investito nei termini della relativa richiesta ( art. 448, primo comma, c.p.p., nella versione post. legge Carotti ).
Si introduce poi una ulteriore ipotesi di recupero degli effetti positivi dell'applicazione della pena su richiesta delle parti, a seguito del rinnovo della richiesta da parte dell'imputato prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado. Si pone quindi un'opportunità di controllo giudiziale sulla richiesta dell'imputato cui non abbia
aderito il p.m. o che non sia stata accolta dal giudice. Tale verifica non è rinnovabile difronte ad altro giudice ( art. 448, primo comma, c.p.p.).
Recependo i dati di derivazione giurisprudenziale-costituzionale si è previsto poi nell'art 444, secondo comma, c.p.p., che il giudice, verificato che vi sia il consenso della parte che non ha formulato la richiesta e che non vi siano cause di proscioglimento ex art. 129 c.p.p., se ritiene corretta la qualificazione giuridica del fatto e l'applicazione e comparazione delle circostanze, ma anche congrua la pena indicata ( recependo quanto affermato nella sentenza della Corte Costituzionale 313/1990), disponga con sentenza l'applicazione della stessa. Inoltre sempre allo stesso articolo e comma si stabilisce che in caso di costituzione di parte civile il giudice non decida sulla relativa domanda, ma condanni l'imputato al pagamento delle spese sostenute dalla parte civile, salvo riconosca operanti giusti motivi che impongano una compensazione totale o parziale ( in conformità alla sentenza della Corte Costituzionale 443/1990).
2.3- Le modifiche normative degli anni duemila: il patteggiamento allargato.
Il codice di rito nella sua originale stesura prevedeva all'art. 445, con riferimento agli effetti dell'applicazione della pena su richiesta delle parti, l'inidoneità della sentenza a produrre effetti in sede civile e amministrativa. Vari dubbi si erano sollevati riguardo al ruolo che alla medesima avrebbe dovuto riconoscersi nell'ambito dei giudizi disciplinari. L'opinione maggioritaria tendeva comunque a ricomprendere anche i giudizi disciplinari nell'ambito di quelli amministrativi, estendendo quindi la portata della preclusione. Proprio questa previsione aveva costituito uno dei punti su cui ci si era appoggiati per ritenere la sentenza di patteggiamento priva di un accertamento di responsabilità ed in virtù di ciò incapace di produrre effetti in altri giudizi. Con la legge 27 marzo 2001, n° 97, si è però modificato l'articolo in questione aggiungendo l'inciso “salvo quanto previsto dall'articolo 653”. L'articolo in questione disciplina proprio l'efficacia della sentenza penale nel giudizio disciplinare. Il legislatore di converso, pur essendo già di per sé sufficiente l'intervento in questione, ha voluto intervenire anche sullo stesso articolo 653 c.p.p. eliminando le parole “pronunciata in seguito a dibattimento” riferite alla sentenza penale irrevocabile di assoluzione che ha efficacia di giudicato nel giudizio per responsabilità disciplinare. Con l'eliminazione del
riferimento al dibattimento si è voluto fugare ogni dubbio circa l'applicazione della norma anche alla sentenza di patteggiamento. La sentenza irrevocabile di assoluzione ha efficacia di giudicato nel giudizio disciplinare con riferimento “all'accertamento che il fatto non sussiste o che non costituisce illecito penale ovvero che l'imputato non lo ha commesso”. La legge in questione ha poi attribuito rilievo, nel giudizio disciplinare, anche alla sentenza penale irrevocabile di condanna introducendo il comma uno-bis. La sentenza di condanna ha efficacia di giudicato “quanto all'accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceità penale e all'affermazione che l'imputato lo ha commesso”. A seguito di tale intervento si è posto un elemento che, come vedremo più avanti, sembra sconfessare la tesi di un'assenza di un accertamento di responsabilità nella sentenza di patteggiamento a favore di della tesi opposta. Si è infatti affermato che la normalità sia costituita dal prodursi di effetti extra-penali della sentenza ex art. 444 c.p.p.,mentre l'esclusione di effetti in sede civile e amministrativa rappresenti una deroga, espressamente prevista al fine di introdurre un ulteriore effetto premiale che non è da riconnettersi alla peculiare natura della sentenza di patteggiamento.
Con la legge 12 giugno 2003, n°13443, la possibilità di
43 Sulla l. 134/2003 si vedano i commenti di: E. MARZADURI e A. DI MARTINO, in Legislazione penale, Utet, 2004-I, pagg. 241 ss.
patteggiare la pena è stata estesa in maniera davvero ampia, ben oltre i confini della criminalità medio-bassa, alla quale era inizialmente associata. Ora l'applicazione della pena su richiesta delle parti è esperibile per una serie di reati punibili con una pena pecuniaria, con una sanzione sostitutiva , o con una pena detentiva (sola o congiunta a pena pecuniaria) non superiore a cinque anni. Si è dunque innalzata l'originaria soglia di accesso al rito che il codice dell'ottantotto aveva individuato in due anni. E' con questa legge, dunque, che si è introdotto il così detto “patteggiamento allargato”44.
Con la modifica si sono configurate due forme di patteggiamento: uno “maius” (patteggiamento allargato) concernente i reati più gravi e l'altro “minus” (patteggiamento ristretto). Diversi sono in primo luogo gli effetti premiali riconnessi agli stessi, in quanto più ampi sono quelli conseguenti al patteggiamento di una pena contenuta nei limiti tradizionali. Vantaggi comuni sono: lo sconto di pena di un terzo; la mancata produzione, della sentenza ex art. 444 c.p.p., di effetti nei giudizi civili e amministrativi; mentre dubbia è la non menzione nel certificato del casellario giudiziario chiesto dall'interessato, essendo tale beneficio riconosciuto dal d.P.R. 14 novembre 2002, n°313, che, rinviando genericamente ai provvedimenti ex art. 445 c.p.p.,
44 Per le modifiche introdotte dalla l. 134/2003 si veda F. PERONI, Riti
alternativi-I) applicazione della pena su richiesta delle parti in Enciclopedia giuridica Treccani, postilla di aggiornamento, 2003, pagg. 1 ss.