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La fobia specifica come modello clinico per lo studio dell'elaborazione precoce di stimoli evoluzionisticamente significativi

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Academic year: 2021

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UNIVERSITÀ DI PISA

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IPARTIMENTO DI

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ICERCA

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RASLAZIONALE

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T

ECNOLOGIE IN

M

EDICINA E

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HIRURGIA

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ORSO DI

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AUREA IN

M

EDICINA E

C

HIRURGIA

Tesi di Laurea Magistrale

La fobia specifica come modello clinico per lo studio

dell'elaborazione precoce di stimoli evoluzionisticamente significativi

C

ANDIDATO

Elisa Furia

R

ELATORE

Prof. Angelo Gemignani

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Indice

Indice 1

Abstract 2

1. La Paura: Aspetti Anatomo-Funzionali 3

1.1. Lo Studio dei Circuiti Neuronali 3

1.2. Le Fobie Innate (Non Esperienziali) 10

1.3. Le Fobie Associate a Condizionamento Fobico (Esperienziali) 11

1.4. Il Ruolo dell’Amigdala 13

1.5. L’Elaborazione Precoce 15

1.6. Paura, Emozioni e Coscienza 18

2. Le Fobie Specifiche: Un Modello Clinico di Paura 25

2.1. Criteri Diagnostici, Dati Epidemiologici ed Approcci Terapeutici 25

2.2. Eziologia e Fattori di Rischio 27

2.3. Gli Stimoli Evoluzionisticamente Significativi 30

2.4. Il Modello Clinico 33

2.5. I Paradigmi Sperimentali 38

2.6. I Correlati Elettrocorticali 43

3. Lo Studio PsyCERCP (Psychophysiological Correlates of Emotional Reactions in Covert

Paradigms) 53 3.1. Partecipanti 55 3.2. Metodi 56 3.2.1. Esperimento 1 57 3.2.2. Esperimento 2 61 3.2.3. Esperimento 3 63

3.2.4. Come valutare se uno stimolo è stato effettivamente mascherato 67

4. Conclusioni 69

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Abstract

Le fobie specifiche sono un disturbo psichiatrico molto diffuso, comportano un’importante riduzione della qualità della vita e sono fortemente predittive di comorbidità con altri disturbi psichiatrici. Il trattamento di prima scelta è rappresentato dalla terapia espositiva, ma, a causa del forte disagio indotto dal confronto con l’oggetto fobico, i pazienti, soprattutto i più severi, spesso lo rifiutano.

Lo studio PsyCERCP (Psychophysiological Correlates of Emotional Reactions in Covert Paradigms) si propone di analizzare i correlati psicofisiologici delle reazioni elicitate da stimoli emotigeni di tipo fobico somministrati a diversi livelli di consapevolezza in soggetti più o meno suscettibili a tali stimoli, per verificare l’ipotesi secondo cui l’elaborazione di questo tipo di informazioni seguirebbe vie anatomo-funzionali specifiche. Lo studio cerca di comprendere se le risposte a stimoli evoluzionisticamente significativi, quali i ragni, siano attivate da caratteristiche percettive specifiche, relativamente indipendenti dallo stimolo nel suo complesso, con il duplice scopo – da un lato – di verificare la presenza di meccanismi ancestrali di elaborazione della paura e, più in generale, delle emozioni e – dall’altro – di validare protocolli terapeutici non intrusivi di desensibilizzazione per le fobie specifiche.

Lo studio si articola in tre sessioni sperimentali caratterizzate ciascuna da un elevato livello di complessità, sia per la strumentazione utilizzata sia per il numero di variabili prese in considerazione, e presenta numerosi aspetti innovativi rispetto ai paradigmi sperimentali classici. L’eventuale conferma delle ipotesi permetterà di estendere il modello sperimentale anche a pazienti fobici conclamati per definire protocolli terapeutici mirati e personalizzabili in base alla sensibilità individuale alla caratteristica percettiva specifica, che potrebbe rivelarsi un criterio di classificazione dei pazienti. L’uso combinato di realtà virtuale e stimolazione covert offriranno il vantaggio, rispetto agli approcci tradizionali, di consentire l’accesso alla terapia anche – e soprattutto – ai pazienti più gravi.

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1. La Paura: Aspetti Anatomo-Funzionali

Fear is what happens when the sentient brain is aware that its personal well-being (physical, mental, social, cultural, existential) is challenged or may be at some point (LeDoux, 2014). Con il termine «paura» si intende un’emozione anticipatoria che si scatena, in modo innato o appreso, con la percezione di una minaccia ‒ attuale o imminente ‒ al benessere proprio o di un altro soggetto per il quale si provi empatia. La paura si associa all’attivazione di un insieme di meccanismi adattativi, largamente condivisi nel regno animale, mediati da sistemi neuroendocrini che ‒ attraverso reazioni di arresto, fuga, lotta o terrore ‒ preparano l’organismo ad affrontare il pericolo.

La disfunzione dei circuiti/meccanismi di rilevazione e risposta agli stimoli minacciosi può determinare lo sviluppo di paura patologica, che può manifestarsi attraverso disturbi psichiatrici cronici, tra cui il Post-Traumatic Stress Disorder (PTSD), o vari tipi di fobie, tra cui le fobie specifiche. I quadri gravi e debilitanti sono caratterizzati da un importante impegno nell’evitamento fobico da parte del paziente che, nonostante la consapevolezza dell’assenza di pericolo, è incapace di eliminare la propria paura irrazionale. Mentre il PTSD è sempre causato da uno o più eventi traumatici, è dibattuto se lo stesso valga per le fobie: è stata infatti proposta una distinzione tra fobie associate ad un’esperienza traumatica e fobie innate.

1.1. Lo Studio dei Circuiti Neuronali

I circuiti neuronali sono reti di neuroni interconnessi anatomicamente e funzionalmente che mediano specifici aspetti dell’esperienza e del comportamento, integrando informazioni sensoriali provenienti dall’ambiente esterno, memorie acquisite da esperienze precedenti e informazioni sullo stato dell’organismo. Questo tipo di connessioni esiste anche per la paura. La maggior parte delle conoscenze sui circuiti neuronali della paura fa riferimento prevalentemente a modelli sperimentali animali di condizionamento fobico. Il condizionamento fobico è uno strumento molto importante per la comprensione dei circuiti neuronali e dell’influenza di apprendimento, memoria e plasticità su questi circuiti (Davis, 1992; Fanselow & Poulos, 2005; J. J. Kim & Jung, 2006; LeDoux, 1996, 2000; Maren & Quirk, 2004; Pape & Pare, 2010; Sah, Westbrook, & Lüthi, 2008). Il condizionamento fobico si verifica quando, dopo una prima fase di apprendimento in cui uno stimolo condizionato sensoriale (neutro) viene accoppiato ad uno stimolo avverso incondizionato, la presentazione

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del solo stimolo condizionato produce risposte fobiche viscerali e comportamentali, dimostrando l’avvenuta formazione di una memoria a lungo termine. Questa procedura risulta molto utile per la sua semplicità e perché gli stimoli, che sono controllabili dallo sperimentatore, producono risultati comportamentali quantificabili. L’associazione del condizionamento fobico a vari approcci tradizionali – come lesioni cerebrali, manipolazioni farmacologiche, biochimiche o molecolari e misure elettrofisiologiche – ha permesso di definire le componenti del circuito neuronale della paura (Davis, 1992; Fanselow & Poulos, 2005; J. J. Kim & Jung, 2006; LeDoux, 2000; Maren & Quirk, 2004; G. P. McNally, Johansen, & Blair, 2011; Pape & Pare, 2010; Sah et al., 2008; Tully & Bolshakov, 2010). Tuttavia, queste tecniche presentano alcune limitazioni: le lesioni cerebrali e le manipolazioni farmacologiche influenzano l’elaborazione in modo permanente o almeno durante tutta la sessione sperimentale e interessano un’intera popolazione cellulare di una determinata area, mentre la stimolazione elettrica – sebbene temporalmente più precisa – stimola tutti i tipi cellulari e le fibre coinvolte (Johansen, Wolff, Lüthi, & LeDoux, 2012). Il recente sviluppo dell’optogenetica – che si avvale dell’uso combinato di tecnologie ottiche e genetiche per controllare l’attività delle cellule di circuiti neuronali intatti – ha consentito di superare queste limitazioni, grazie alla sua elevata specificità temporale e spaziale nella manipolazione dell’attività degli elementi del circuito (Boyden, 2011). L’optogenetica deve il suo sviluppo alla scoperta nelle alghe di canali attivati dalla luce (Channelrhodopsin-2, ChR2) e della possibilità di indurne l’espressione nei neuroni per il controllo dell’attività cellulare attraverso l’illuminazione (Boyden, Zhang, Bamberg, Nagel, & Deisseroth, 2005; Nagel et al., 2003; Sineshchekov, Jung, & Spudich, 2002). ChR2 è un canale cationico non specifico attivato dalla luce blu (~470 nm): i neuroni che lo esprimono possono essere depolarizzati dall’illuminazione con luce blu, quindi ChR2 è considerata un’opsina eccitatoria (Luo, Callaway, & Svoboda, 2008; Zhang, Aravanis, Adamantidis, de Lecea, & Deisseroth, 2007). La forma tradizionale induce una frequenza di scarica fino a 20 Hz, mentre le varianti modificate sono in grado di produrre frequenze maggiori (Yizhar, Fenno, Davidson, Mogri, & Deisseroth, 2011). Successivamente sono state sviluppate altre opsine, attivate da luce a diversa lunghezza d’onda, tra cui due ad attività inibitoria: Halorhodopsin – che pompa cloro in entrata quando illuminata con luce gialla (~590 nm), provocando iperpolarizzazione del neurone che la esprime – e Archaerhodopsin – che pompa protoni in uscita quando illuminata con luce verde o gialla (~540-590 nm), determinando anch’essa iperpolarizzazione (Chow et al., 2010; Gradinaru et al., 2010; Han & Boyden, 2007; Zhang, Wang, et al., 2007). Le opsine possono essere espresse in modo globale oppure da specifiche sottopopolazioni di neuroni in determinate regioni utilizzando varie strategie di

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ingegneria genetica (Johansen et al., 2012). Nell’approccio transgenico, l’espressione è guidata da specifici promotori tissutali. Nell’approccio virale, un virus viene iniettato in una regione cerebrale specifica utilizzando un promotore cellulare specifico. Tuttavia, la maggior parte dei virus hanno capacità di trasporto limitata, rendendo necessario il troncamento del promotore, ma questo è possibile solo per alcuni promotori e può ridurne la specificità. Nell’approccio combinato transgenico e virale, gli animali transgenici esprimono Cre-ricombinasi (Cre) sotto il controllo di specifici promotori tissutali, quindi vengono iniettati virus la cui espressione è Cre-dipendente nelle regioni in cui si desidera l’espressione delle opsine. Quest’ultimo approccio consente l’utilizzo di promotori completi e aggiunge alla selettività spaziale la specificità cellulare e un miglior controllo temporale. A questo punto, è possibile inserire cavi a fibra ottica connessi ad una sorgente luminosa laser o LED nelle regioni cerebrali in cui sono espresse le opsine per ottenere il controllo optogenetico con la precisione di millisecondi. L’optogenetica consente di 1) manipolare la frequenza di impulso neuronale con elevata precisione temporale, 2) manipolare determinate sottoclassi di neuroni, specifiche terminazioni afferenti o specifici tipi cellulari in base ai loro pattern di proiezione o marcatori molecolari, 3) identificare specifici tipi cellulari durante registrazioni extracellulari e 4) mappare dettagliatamente le connessioni che seguono determinati input (Johansen et al., 2012).

L’optogenetica trova applicazione nella comprensione dei circuiti neuronali della paura. Essa consente di manipolare l’attività di tipi cellulari ben definiti durante fasi precise del processo di condizionamento fobico per comprendere il loro ruolo funzionale all’interno del circuito. Ad esempio, sostituendo lo stimolo incondizionato (scossa elettrica) con la depolarizzazione diretta dei neuroni piramidali dell’amigdala laterale – ottenuta tramite illuminazione laser delle cellule in cui è stata preventivamente indotta l’espressione di ChR2 – è possibile determinare apprendimento e memoria fobici (Johansen, Hamanaka, et al., 2010). Inoltre, la stimolazione optogenetica diretta dei neuroni della porzione mediale del nucleo centrale dell’amigdala è sufficiente per produrre una risposta di arresto (Ciocchi et al., 2010). Associando la registrazione elettrofisiologica dei singoli neuroni in animali svegli e attivi è inoltre possibile determinare il contributo di specifiche popolazioni cellulari all’elaborazione degli stimoli fobici. L’optogenetica consente anche di controllare l’attivazione delle afferenze ad uno specifico nucleo cerebrale per definire la struttura del circuito e per modulare il comportamento. Infatti, l’espressione di opsine eccitatorie o inibitorie nei neuroni di una determinata regione si traduce nell’espressione delle opsine corrispondenti attraverso le cellule, compresi gli assoni e le terminazioni sinaptiche anche in regioni distanti, offrendo la possibilità

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di controllare il rilascio sinaptico attraverso l’illuminazione delle terminazioni (Cruikshank, Urabe, Nurmikko, & Connors, 2010; Morozov, Sukato, & Ito, 2011; Petreanu, Huber, Sobczyk, & Svoboda, 2007; Petreanu, Mao, Sternson, & Svoboda, 2009; Ren et al., 2011; Stuber, Hnasko, Britt, Edwards, & Bonci, 2010; Stuber et al., 2011; Tecuapetla et al., 2010; Tye et al., 2011). Ad esempio, l’eccitazione/inibizione ottica delle fibre dell’amigdala basale che proiettano alla porzione mediale del nucleo centrale dell’amigdala riduce/aumenta il comportamento simil-ansioso (Tye et al., 2011). L’approccio virale consente di controllare specifiche popolazioni cellulari in base ai loro pattern di proiezione verso regioni cerebrali diverse. Infatti, alcuni virus raggiungono in modo preferenziale alcune terminazioni sinaptiche e vengono trasportati per via retrograda ai corpi cellulari localizzati in altre sedi (Gradinaru et al., 2010; Lima, Hromádka, Znamenskiy, & Zador, 2009). Questo permette di indurre l’espressione di opsine e controllare l’attività neuronale nelle cellule che proiettano alla regione in cui è stato introdotto il virus, basandosi sulla connettività anatomica con altre regioni o con specifici neuroni postsinaptici. Combinando il controllo optogenetico delle afferenze sinaptiche specifiche con tecniche di imaging, è possibile mappare le connessioni con precisione a livello laminare e subcellulare (Petreanu et al., 2009).

Sebbene i progressi tecnologici abbiano permesso di comprendere in modo dettagliato le basi neuronali, genetiche e molecolari della paura condizionata, sembra che queste conoscenze non siano trasferibili alla paura innata in quanto i circuiti che mediano le risposte non sembrano, almeno parzialmente, sovrapponibili (Gross & Canteras, 2012). La paura innata è indotta da una varietà di stimoli in grado di scatenare risposte comportamentali marcate e sistematiche, ma non dipende dall’esperienza diretta di un danno associato allo stimolo o da processi di apprendimento che assegnano allo stimolo una valenza pericolosa (R. J. Blanchard & Blanchard, 1989). Tuttavia, in seguito all’esperienza di una paura innata, oltre alla risposta adattativa acuta, si genera anche una memoria dell’evento, mediata da cambiamenti cerebrali a lungo termine che hanno lo scopo di ridurre la possibilità di incontrare nuovamente lo stesso pericolo e di affrontare più efficacemente eventi simili (Silva, Gross, & Gräff, 2016). Questo suggerisce un’interazione tra i circuiti neuronali di elaborazione della paura innata e appresa. La risposta adattativa sembra essere generata da circuiti paralleli non sovrapponibili dipendenti dal tipo di stimolo, che sembrano condividere un’organizzazione comune in tre livelli funzionali fondamentali: l’unità di rilevazione, l’unità di integrazione e l’unità effettrice. La formazione della memoria legata all’evento sembra invece risiedere nello stesso sistema cerebrale (Silva, Gross, et al., 2016).

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Analogamente alla paura appresa, anche la ricerca sui circuiti neuronali alla base della paura innata si è basata prevalentemente sullo studio di modelli animali. Nei roditori, gli stimoli in grado di indurre paura innata possono essere distinti in tre classi principali: predatori, membri aggressivi della stessa specie e informazioni interne (ad esempio, stimoli dolorosi o segnali di soffocamento). Ciascun tipo di stimolo è rilevato attraverso differenti modalità sensoriali ed è sufficiente per innescare una risposta difensiva acuta in maniera indipendente (Silva, Gross, et al., 2016). Nell’ambito degli stimoli visivi, i topi di laboratorio mostrano una risposta di arresto più marcata rispetto agli stimoli olfattivi e una latenza molto breve (Yilmaz & Meister, 2013), suggerendo che gli stimoli minacciosi di natura visiva possano seguire una via di connessione diretta alla corteccia cerebrale con un livello di elaborazione molto limitato e rapido, almeno per indurre le risposte immediate di arresto o fuga. Numerosi studi hanno evidenziato il ruolo centrale del collicolo superiore come modulatore delle risposte di difesa indotte da stimoli visivi (Dean, Mitchell, & Redgrave, 1988; Dean, Redgrave, & Westby, 1989; Keay, Redgrave, & Dean, 1988; Sahibzada, Dean, & Redgrave, 1986; Schenberg, Costa, Borges, & Castro, 1990; Shang et al., 2015; Sudré, de Barros, Sudré, & Schenberg, 1993; Zhao, Liu, & Cang, 2014) ed esperimenti di optogenetica hanno identificato diversi circuiti interconnessi tra loro e apparentemente ridondanti, che potrebbero essere responsabili dei differenti pattern di risposta comportamentale in base alle circostanze ambientali. Ad esempio, il circuito retina-collicolo superiore (PV+)-corteccia media le risposte attive di fuga associate all’aumento della frequenza cardiaca (Shang et al., 2015), mentre il circuito collicolo superiore (CaMKII+)-talamo posterolaterale-amigdala laterale media le risposte passive di arresto associate alla riduzione della frequenza cardiaca (Wei et al., 2015).

Nelle varie specie animali, l’ostruzione respiratoria induce risposte innate intense (Schimitel et al., 2012). I segnali di soffocamento (ipossia o ipercapnia) sono rilevati dai recettori carotidei per la pressione parziale di O2 e CO2 ed elaborati dal nucleo del tratto solitario, che media la

risposta adattativa proiettando ai nuclei respiratori midollari (Loewy & Burton, 1978; Paton, Deuchars, Li, & Kasparov, 2001) e a strutture superiori come grigio periacqueduttale, amigdala centrale e nucleo paraventricolare dell’ipotalamo (Ricardo & Koh, 1978). In particolare, la porzione dorsale del grigio periacqueduttale sembra giocare un ruolo centrale nell’elaborazione della paura indotta dall’ipossia (Schenberg et al., 2014). La paura indotta da segnali di soffocamento è molto importante anche nella specie umana per la sua correlazione con il disturbo da attacchi di panico. Sembra infatti che uno dei principali fattori patogenetici sia rappresentato dall’iperresponsività di questo sistema (Klein, 1993; Preter & Klein, 2008).

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Una volta rilevato il pericolo, le informazioni sensoriali provenienti dallo stimolo, dall’ambiente circostante e dallo stato dell’organismo convergono nell’unità di integrazione per reclutare le strutture effettrici con lo scopo di produrre le risposte motorie e omeostatiche più adeguate. In passato si è ipotizzato che l’unità di integrazione risiedesse in un unico gruppo di nuclei dell’amigdala in grado di elaborare tutti i tipi di stimolo per produrre un insieme di risposte stereotipate (Bolles & Fanselow, 1980; Fanselow, 1994). Tuttavia, con il passare del tempo, è sembrata sempre più evidente una segregazione funzionale dei circuiti in base al tipo di pericolo sia a livello di detezione che di integrazione. In particolare, è emerso il ruolo etologicamente rilevante dell’ipotalamo mediale come centro di integrazione delle informazioni (Gross & Canteras, 2012; Silva et al., 2013). In alcuni casi, la risposta anti-predatoria può anche coinvolgere circuiti alternativi che bypassano l’ipotalamo (Kunwar et al., 2015), come una connessione diretta dal collicolo superiore al grigio periacqueduttale (Shang et al., 2015; Zhao et al., 2014) oppure circuiti incentrati nel collicolo inferiore (Xiong et al., 2015). Un aspetto interessante emerso da alcuni studi nella specie umana è rappresentato dalla possibilità di scatenare attacchi di panico mediante la stimolazione elettrica dell’ipotalamo ventromediale (Wilent et al., 2010), suggerendo una possibile conservazione filogenetica della funzione di questa struttura nell’integrazione delle informazioni legate alla paura.

L’unità effettrice per la coordinazione della risposta difensiva sembra concentrarsi nel grigio periacqueduttale. Infatti, le risposte indotte dalla stimolazione di amigdala e ipotalamo possono essere annullate da lesioni a livello del grigio periacqueduttale, ma non viceversa (Hunsperger, 1963). Inoltre, l’attivazione di questa struttura si osserva con l’esposizione ad un’ampia varietà di stimoli pericolosi (Cezario, Ribeiro-Barbosa, Baldo, & Canteras, 2008; Johansen, Tarpley, LeDoux, & Blair, 2010; Mongeau, Miller, Chiang, & Anderson, 2003; Motta et al., 2009). Infine, la stimolazione del grigio periacqueduttale è sufficiente per indurre vari tipi di risposta difensiva (Bandler & Shipley, 1994; Schenberg et al., 2014). Il grigio periacqueduttale è diviso in colonne disposte in senso rostro-caudale in grado di controllare diversi tipi di risposte comportamentali (Bittencourt, Carobrez, Zamprogno, Tufik, & Schenberg, 2004). Le colonne dorsali rappresentano la principale struttura efferente del sistema di difesa dell’ipotalamo mediale (Gross & Canteras, 2012) e dei collicoli superiore e inferiore (Canteras, Simerly, & Swanson, 1992), mediando le risposte attive. Le colonne ventrali, invece, ricevono input dall’amigdala centrale e mediano le risposte passive (Bandler & Shipley, 1994; Fanselow, 1991; Johansen, Cain, Ostroff, & LeDoux, 2011; LeDoux, 2003). La presenza di queste due vie potrebbe spiegare la capacità di indurre risposte diverse in base al contesto da parte di

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stimoli simili. La scelta tra una risposta attiva o passiva potrebbe essere determinata dai livelli di stress precedenti all’esposizione, che si riflettono nei diversi pattern di attivazione di c-Fos (Mongeau et al., 2003), attraverso una modulazione mediata dai neuroni GABAergici della porzione ventrolaterale del grigio periacqueduttale (Tovote et al., 2016).

Oltre alle risposte adattative immediate, i circuiti neuronali della paura innata sono responsabili anche della creazione di una memoria fobica attraverso il coinvolgimento di ippocampo, amigdala, cingolo anteriore, corteccia prefrontale mediale, retrospleniale e postrinale (LeDoux, 2000; Maren, 2001, 2011). L’inibizione farmacologica o la lesione di queste strutture altera i processi di memorizzazione della paura, senza interferire con le risposte adattative immediate (D. C. Blanchard, Canteras, Markham, Pentkowski, & Blanchard, 2005; Helmstetter & Bellgowan, 1994; Jasnow & Huhman, 2001; Maren, 1999; Markham, Taylor, & Huhman, 2010; Martinez, Carvalho-Netto, Ribeiro-Barbosa, Baldo, & Canteras, 2011). Sembra che le strutture dell’unità di integrazione siano importanti anche nei processi di memorizzazione della paura innata, suggerendo una possibile convergenza delle informazioni legate al pericolo verso un’unità di apprendimento superiore in cui avviene l’associazione con segnali legati al contesto (Silva, Gross, et al., 2016). Anche la porzione dorsale del grigio periacqueduttale sembra coinvolta nella formazione della memoria fobica associata al contesto, probabilmente anche attraverso proiezioni dirette ai nuclei talamici (Kincheski, Mota-Ortiz, Pavesi, Canteras, & Carobrez, 2012). Tuttavia, l’inibizione farmacologica del grigio periacqueduttale non altera l’apprendimento fobico, nonostante riduca la risposta immediata allo stimolo fobico (Silva, Mattucci, et al., 2016). Un aspetto ancora poco conosciuto è l’interazione tra i circuiti della paura innata e appresa. Recentemente si è scoperto che una specifica popolazione di neuroni dell’amigdala centrale sembra attribuire in modo gerarchico una priorità alle risposte di difesa innate inibendo quelle apprese (Isosaka et al., 2015), mentre i neuroni dell’amigdala basolaterale sembrano mediare selettivamente le risposte condizionate ad uno stimolo neutro reclutando i neuroni della paura innata per generare la risposta di difesa (Gore et al., 2015). In definitiva, nonostante studi di fMRI abbiano supportato l’ipotesi del ruolo centrale dell’amigdala nei circuiti neuronali della paura anche nella specie umana (LaBar, Gatenby, Gore, LeDoux, & Phelps, 1998), recenti studi sembrano suggerire una conservazione della segregazione funzionale dei diversi tipi di paura anche nella specie umana (Feinstein et al., 2013; Mobbs et al., 2007; Wilent et al., 2010). Questa ipotesi potrebbe guidare la comprensione delle basi fisiopatologiche di disturbi correlati alla paura come le fobie, il post-traumatic stress

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disorder e i disturbi d’ansia, che potrebbero derivare dalla disfunzione di uno di questi differenti circuiti.

1.2. Le Fobie Innate (Non Esperienziali)

Nelle fobie innate ‒ oltre a fattori predisponenti genetici, familiari, ambientali e legati allo sviluppo ‒ potrebbero contribuire alterazioni dei meccanismi di apprendimento non associativo, quali sensibilizzazione e abituazione (Garcia, 2017). La sensibilizzazione è l’aumento della risposta neuronale a stimoli specifici con lo scopo di avvertire i pericoli: nelle fobie innate potrebbe essere presente un cambiamento patologico della soglia di eccitabilità dei circuiti della paura, con un aumento dell’attivazione dell’amigdala. L’abituazione consiste nella riduzione delle risposte neuronali a stimoli specifici presentati ripetutamente con lo scopo di proteggere il cervello dall’eccessivo flusso di informazioni sensoriali considerate con il tempo irrilevanti: nelle fobie innate potrebbe verificarsi una scarsa abituazione dell’amigdala, con persistenza della fobia.

Come sintetizzato da Garcia, numerosi esperimenti condotti su roditori e primati hanno dimostrato il ruolo centrale nella risposta fobica innata di amigdala ed altre strutture come grigio periacqueduttale, corteccia prefrontale dorsomediale, nucleo del letto della stria terminale, nucleo paraventricolare dell’ipotalamo e locus coeruleus (Chan et al., 2011; Crestani et al., 2013; Vianna & Brandão, 2003).

In assenza di stimoli fobici, l’amigdala è sottoposta a controllo inibitorio da parte del sistema GABAergico attivato dalla corteccia prefrontale mediale (Quirk & Gehlert, 2003). Una riduzione dell’inibizione GABAergica determina una riduzione della soglia di attivazione dell’amigdala e l’espressione della risposta fobica. Viceversa, un aumento dell’attività GABAergica blocca la risposta a stimoli fobici (Müller & Fendt, 2006). L’attività GABAergica durante la risposta fobica è modulata dall’aumento di dopamina e noradrenalina, che rimuovono il controllo inibitorio (Marowsky, Yanagawa, Obata, & Vogt, 2005; Morrow, Redmond, Roth, & Elsworth, 2000; Onur et al., 2009). Anche l’attività serotoninergica sembra essere implicata nel controllo dei comportamenti simil-ansiosi associati ad uno stimolo fobico (Adamec, Holmes, & Blundell, 2008).

L’attivazione dell’amigdala determina il rilascio di CRH da parte del nucleo paraventricolare dell’ipotalamo (Gray, Carney, & Magnuson, 1989), che stimola il rilascio di ACTH da parte dell’ipofisi, aumentando la produzione di glucocorticoidi da parte delle ghiandole surrenaliche.

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L’attivazione dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene è quindi responsabile delle risposte adattative agli stimoli fobici quali aumento del tono cardiovascolare, della frequenza respiratoria e del metabolismo intermedio in associazione all’inibizione delle funzioni vegetative come l’assunzione di cibo, la digestione, la crescita, la riproduzione e l’immunità (Sapolsky, Romero, & Munck, 2000), accompagnata da una riduzione dei livelli di testosterone (Fenchel et al., 2015).

Nei pazienti fobici i circuiti della paura sono attivati a livelli significativamente maggiori rispetto ai soggetti sani (Münsterkötter et al., 2015). Il coinvolgimento dei sistemi neurormonali nello sviluppo delle fobie innate è supportato dall’efficacia dei trattamenti con inibitori selettivi del reuptake di serotonina (Cassano, Baldini Rossi, & Pini, 2002) ‒ che aumentano l’attività serotoninergica ‒, inibitori delle monoaminossidasi (Ipser, Kariuki, & Stein, 2008) ‒ che aumentano l’attività dopaminergica ‒, e Tiagabina (Dunlop et al., 2007) ‒ che aumenta l’inibizione GABAergica.

Nelle fobie innate si verifica una sensibilizzazione del sistema noradrenergico attraverso un meccanismo CRH-dipendente, con riduzione del controllo inibitorio GABAergico, che determina riduzione della soglia di attivazione e ipereccitabilità dell’amigdala da parte di stimoli fobici (Rajbhandari, Zhu, Adling, Fanselow, & Waschek, 2016). Questo fenomeno si associa ad una scarsa abituazione, ovvero una persistente attività dell’amigdala nei confronti di stimoli irrilevanti, risultando nella permanenza della paura irrazionale.

1.3. Le Fobie Associate a Condizionamento Fobico (Esperienziali)

Le fobie associate a condizionamento fobico insorgono in seguito ad un’esperienza considerata traumatica ‒ vissuta in prima persona od osservata in un soggetto della stessa specie ‒ e sono rafforzate da comportamenti di evitamento fobico (Tillfors, 2004). Le anomalie comportamentali potrebbero essere dovute a disfunzioni dei circuiti e meccanismi della paura dipendenti dall’apprendimento, in particolare un deficit dell’estinzione, ossia una mancanza di riduzione della risposta condizionata attraverso presentazioni ripetute di uno stimolo condizionato, con persistenza della fobia (Garcia, 2017).

Nel condizionamento fobico classico, o Pavloviano, uno stimolo neutro (condizionato) diventa capace da solo di evocare una risposta fobica dopo una fase di apprendimento in cui viene presentato ripetutamente in associazione ad uno stimolo avverso (incondizionato). La risposta innata viene quindi trasformata in una risposta appresa mediante l’integrazione degli stimoli

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nel complesso basolaterale dell’amigdala (Silva, Gross, et al., 2016). I meccanismi neuronali alla base del condizionamento fobico sono plasticità sinaptica e long-term potentiation (LTP) (LeDoux, 2014; Maren, 2015), mediati dal sistema glutammatergico (Venton, Robinson, Kennedy, & Maren, 2006). Il voltaggio postsinaptico è un valore critico nel determinare il potenziamento o la depressione di una sinapsi. Il potenziamento si verifica quando la depolarizzazione postsinaptica supera la soglia per il LTP, mentre al di sotto della soglia la sinapsi è depressa. Se la depolarizzazione è molto bassa, la depressione sinaptica è piccola o assente. L’intervallo di depressione varia per ogni sinapsi secondo la proprietà sinaptica della metaplasticità: la stessa attività postsinaptica può produrre potenziamento, depressione o nessuno dei due effetti a seconda della sinapsi.

Come nelle fobie innate, anche nelle fobie associate a condizionamento fobico l’amigdala svolge un ruolo centrale. I pazienti fobici, rispetto ai soggetti sani, risultano più vulnerabili al condizionamento e mostrano una maggior attività dell’amigdala in risposta allo stimolo condizionato, considerandolo maggiormente pauroso (C. Hermann, Ziegler, Birbaumer, & Flor, 2002; Lissek et al., 2008; Schweckendiek et al., 2011; Vriends, Michael, Schindler, & Margraf, 2012). Inoltre, il condizionamento fobico ha effetto solo sui pazienti fobici (Lissek et al., 2008). Uno dei meccanismi alla base di queste differenze potrebbe essere la metaplasticità dell’amigdala (ossia una regolazione dinamica delle soglie per la plasticità sinaptica necessaria per la formazione della memoria in condizioni fisiologiche o patologiche) indotta dallo stress (Rodríguez Manzanares, Isoardi, Carrer, & Molina, 2005), che provoca un aumento dei livelli di glucocorticoidi (Karst, Berger, Erdmann, Schütz, & Joëls, 2010) e, di conseguenza, un aumento del rilascio di noradrenalina (McReynolds et al., 2010) nell’amigdala basolaterale da parte del nucleo del tratto solitario e del locus coeruleus (de Quervain, Aerni, Schelling, & Roozendaal, 2009). Questo provoca una diminuzione dell’inibizione GABAergica (Liu et al., 2014; Tully, Li, Tsvetkov, & Bolshakov, 2007), con riduzione della soglia per la plasticità sinaptica e, in ultima analisi, un aumento di LTP che facilita l’apprendimento fobico (Rodríguez Manzanares et al., 2005). Questa ipotesi è supportata dall’efficacia del trattamento con benzodiazepine, che aumentano la neurotrasmissione GABAergica (Giachero, Calfa, & Molina, 2015), nel sopprimere gli effetti dello stress sull’amigdala. Un altro meccanismo che potrebbe contribuire al mantenimento della fobia e alla sua resistenza alle terapie farmacologiche e comportamentali (Van Ameringen, Mancini, Pipe, & Bennett, 2004), compresa l’esposizione, è il deficit di estinzione (C. Hermann et al., 2002), che potrebbe derivare da una disfunzione del sistema serotoninergico nell’amigdala basolaterale (Kondo,

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Nakamura, Ishida, Yamada, & Shimada, 2013), a sua volta responsabile di un blocco dei sistemi GABAergico ed endocannabinoide (per riduzione dei livelli di anandamide) (Gunduz-Cinar et al., 2016; Marsicano et al., 2002), ed è rafforzato dalla condotta di evitamento fobico assunta dal paziente.

1.4. Il Ruolo dell’Amigdala

L’importanza cruciale dell’amigdala nei circuiti preposti alla rilevazione e alla risposta a stimoli minacciosi è stata ampiamente dimostrata in letteratura. Un modello clinico per lo studio del ruolo dell’amigdala è rappresentato dalla sindrome di Urbach-Wiethe – una rarissima patologia ereditaria a trasmissione autosomica recessiva caratterizzata dalla deposizione di materiale ialino nella cute e in altri tessuti dell’organismo, che nel 50% dei casi si associa a calcificazioni bilaterali selettive dell’amigdala. Gli studi su questi pazienti hanno messo in evidenza come le lesioni bilaterali focali dell’amigdala provochino mancanza di condizionamento da stimoli avversi (Bechara et al., 1995), incapacità a riconoscere volti spaventosi (Adolphs, Tranel, Damasio, & Damasio, 1994; Aggleton, 2000) e marcata assenza di paura durante l’esposizione a vari stimoli avversi, compresi eventi traumatici potenzialmente mortali (Feinstein, Adolphs, Damasio, & Tranel, 2011). Questi dati confermano la funzione dell’amigdala nel riconoscere potenziali rischi nell’ambiente circostante e nel preparare fisiologicamente l’organismo ad affrontarli, processo strettamente connesso con la generazione dell’ansia anticipatoria (Davis, Walker, Miles, & Grillon, 2010; Funayama, Grillon, Davis, & Phelps, 2001). Tuttavia, l’amigdala non è necessaria per la generazione di paura e panico evocati dall’inalazione di CO2 al 35%, suggerendo un’importante distinzione tra paura

scatenata da stimoli esterni ed interni (Feinstein et al., 2013). L’inalazione di CO2 stimola la

respirazione, la frequenza cardiaca e la conduttanza cutanea e può provocare fame d’aria e paura (Colasanti et al., 2008; Preter & Klein, 2008; Wemmie, 2011), ma può anche scatenare attacchi di panico, soprattutto in pazienti con disturbo da attacchi di panico (Preter & Klein, 2008; Rassovsky & Kushner, 2003). Le lesioni bilaterali dell’amigdala non interferiscono con la capacità di esprimere o provare emozioni correlate al dominio della paura ‒ scoperte come completamente nuove dai pazienti oggetto di studio ‒ evocate dall’inalazione di CO2 (Feinstein

et al., 2013), poiché molte aree cerebrali oltre all’amigdala possiedono chemiocettori sensibili a CO2 e pH (Wemmie, 2011) e potrebbero essere stimolate direttamente dall’inalazione

attivando i circuiti della paura e del panico. I risultati dello studio di Feinstein suggeriscono come, negli umani, uno stimolo interno può essere rilevato ed interpretato come paura e panico

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nonostante l’assenza di un’amigdala intatta. L’integrità dell’amigdala sembra infatti inibire il panico, mentre la perdita della sua funzione sembra contribuire allo sviluppo del disturbo da attacchi di panico: i pazienti con lesioni dell’amigdala sviluppano un tasso più elevato di attacchi di panico e i pazienti con disturbo da attacchi di panico presentano atrofia localizzata o ridotta attività dell’amigdala (Massana et al., 2003; Ottaviani et al., 2012; Pillay, Gruber, Rogowska, Simpson, & Yurgeluntodd, 2006). Tuttavia, l’assenza di attacchi di panico spontanei in epoche precedenti allo studio nei pazienti con sindrome di Urbach-Wiethe suggerisce che la sola disfunzione dell’amigdala non è sufficiente per causare attacchi di panico spontanei o disturbo da attacchi di panico, nonostante in letteratura sia stato riportato un caso di questo genere (Wiest, Lehner-Baumgartner, & Baumgartner, 2006). Il paziente in questione, a distanza di molti anni dalla diagnosi di sindrome di Urbach-Wiethe, ha infatti iniziato a manifestare spontaneamente sintomi attribuibili – secondo i criteri del DSM-IV (American Psychiatric Association, 1994) – ad attacco di panico, in associazione ad umore depresso e deficit selettivi di memoria per episodi autobiografici, con regressione del quadro a seguito di trattamento con inibitori del reuptake di serotonina e noradrenalina (ad eccezione dell’alterazione mnemonica). Anche questo caso, dunque, dimostra come non solo l’integrità dell’amigdala non sia necessaria per lo sviluppo di panico, ma anzi l’assenza dell’amigdala e delle sue connessioni possa aumentare la suscettibilità del paziente a reazioni di panico, suggerendo inoltre un potenziale coinvolgimento dell’amigdala nell’elaborazione di una memoria episodica autobiografica ed emozionale.

Mentre il ruolo critico dell’amigdala nella paura condizionata è stato ampiamente descritto, la funzione dell’amigdala nei disturbi d’ansia e nel disturbo da attacchi di panico è molto meno chiara. Nonostante le risposte fisiologiche e comportamentali ad uno stimolo fobico condizionato e durante un attacco di panico siano molto simili e nonostante l’ansia sia strettamente correlata alla paura, l’ansia che caratterizza l’attacco di panico si distingue dalla paura per l’assenza di uno stimolo esterno che determini la reazione e, una volta attivata, può persistere per un tempo maggiore. Pertanto, i modelli sperimentali per lo studio della paura condizionata non riflettono completamente il disturbo da attacchi di panico nell’uomo e i circuiti specifici del panico non sono ancora stati definiti con precisione. L’attacco di panico sembra essere regolato dal nucleo centrale dell’amigdala, ma la possibilità di sviluppare attacchi di panico spontanei in pazienti con calcificazione bilaterale selettiva dell’amigdala suggerisce il coinvolgimento di altre strutture del sistema nervoso centrale, compresi corteccia prefrontale, insula, talamo, sistema settoippocampale, locus coeruleus e nuclei del rafe.

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Pertanto, la disfunzione di una qualsiasi di queste strutture può determinare lo sviluppo delle manifestazioni tipiche dell’attacco di panico (Shekhar, Sajdyk, Gehlert, & Rainnie, 2003). Alcune tra queste aree sono strettamente connesse con i fluidi dell’organismo attraverso gli organi circumventricolari, che non presentano la barriera emato-encefalica, determinando l’attivazione dei circuiti del panico in seguito a cambiamenti fisiologici (Shekhar & Keim, 1997). Questo spiega la possibilità di innescare un attacco nei pazienti con disturbo da attacchi di panico attraverso infusione di lattati, iperventilazione o inalazione di CO2. Poiché l’amigdala

è chiaramente coinvolta nell’elaborazione della paura, ma non in modo altrettanto evidente nell’ansia, risulta necessario fare una distinzione tra aree cerebrali interessate nell’uno o nell’altro processo (Davis, Walker, & Lee, 1997).

1.5. L’Elaborazione Precoce

Le fobie possono essere definite come paure intense e irrazionali di oggetti o situazioni specifici che non possono essere motivate o controllate volontariamente e che portano all’evitamento della situazione fobica (Marks, 1969). Spesso le fobie sembrano essere dissociate dal controllo intenzionale, verbale-cognitivo e in termini psicoanalitici sono state interpretate come un modo inconscio di gestire l’ansia (Freud, 1909/1955). Öhman ha proposto più recentemente una teoria dell’attivazione preattentiva delle emozioni (Öhman, 1987, 1992, 1993), che ipotizza la presenza di meccanismi automatici di elaborazione delle informazioni provenienti da stimoli rilevanti dal punto di vista emozionale, inaccessibili al controllo intenzionale e sufficienti per attivare le componenti di una reazione fobica, come le risposte autonomiche. Questo implica che gran parte della reazione fisiologica è messa in atto prima che il soggetto sia consapevole dello stimolo fobico a cui sta reagendo, quindi l’attivazione fisiologica potrebbe favorire la percezione conscia dello stimolo e incrementare la paura esperita (Mandler, 1975). La paura potrebbe dunque apparire irrazionale e involontaria perché le risposte si verificano prima che abbiano inizio i processi controllati intenzionalmente e consciamente. I meccanismi di analisi dello stimolo sono considerati inconsci sia perché lavorano al di fuori dell’attenzione sia perché sono inaccessibili all’introspezione e alla comunicazione verbale (Greenwald, 1992). La teoria di Öhman, per essere dimostrata, richiede una dissociazione tra le risposte fisiologiche ‒ in particolare la conduttanza cutanea ‒ e la percezione conscia dello stimolo: attraverso il mascheramento retrogrado (backward masking) ‒ che evita il riconoscimento di uno stimolo target tramite la presentazione immediata di uno stimolo mascherante ‒ è possibile ottenere un’analisi dello stimolo target in assenza della sua rappresentazione conscia (Marcel, 1983).

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Affinché il mascheramento sia completo, lo stimolo da mascherare deve durare al massimo 20-30 ms, trascorsi i quali comparirà uno stimolo innocuo che sarà percepito a livello conscio (Esteves & Öhman, 1993; Öhman & Soares, 1993). In alcuni dei suoi studi, Öhman ha dimostrato che le risposte di conduttanza cutanea a stimoli rilevanti dal punto di vista emozionale possono essere attivate al di fuori della consapevolezza in un soggetto sano. Nei pazienti con fobie specifiche esposti subliminalmente allo stimolo fobico specifico la risposta autonomica è immediata – con un picco entro 5-10 secondi dopo lo stimolo – e comprende un aumento della conduttanza cutanea, della vasocostrizione periferica e della frequenza cardiaca (Fredrikson, 1981; Hare, 1973; Hare & Blevings, 1975b): tali correlati psicofisiologici, a seconda delle prospettive, potrebbero rappresentare la causa dell’emozione esperita consapevolmente oppure una sua conseguenza a livello periferico. Applicando il mascheramento retrogrado in pazienti con fobie specifiche, Öhman ha dimostrato che lo stimolo fobico specifico mascherato – cioè al di sotto della soglia della consapevolezza – è in grado, al pari di uno stimolo fobico specifico chiaramente identificabile, di aumentare la conduttanza cutanea (quindi di indurre una risposta autonomica più marcata) rispetto a stimoli non fobici e rispetto ai soggetti sani, supportando l’ipotesi di una stimolazione preattentiva capace di indurre emozioni (Öhman & Soares, 1994). Le differenze tra pazienti fobici e soggetti sani non sono attribuibili alla maggiore sensibilità dei primi nell’identificare lo stimolo fobico. Infatti, è stato condotto un esperimento preliminare di riconoscimento a scelta obbligata (Holender, 1986), che ha dimostrato come ‒ quando lo stimolo viene mascherato entro 30 ms ‒ neppure i pazienti fobici sono in grado di distinguere consapevolmente se sia rilevante o meno dal punto di vista fobico, operando una scelta del tutto casuale. Lo studio è stato corredato anche di un’autovalutazione sulla percezione del proprio livello di paura in termini di valenza, arousal e dominanza. In generale, il livello di paura percepita è risultato maggiore nei pazienti fobici rispetto ai soggetti sani, indipendentemente dal mascheramento dello stimolo: questo suggerisce che i pazienti fobici possano esperire la paura anche verso stimoli fobici non consapevolmente identificabili, supportando così l’ipotesi che anche gli stimoli mascherati inducano una risposta emozionale completa piuttosto che un semplice riflesso di orientamento dell’attenzione (un’obiezione plausibile in base al solo dato fisiologico della conduttanza cutanea). Per fugare ogni dubbio sarebbe necessario registrare anche un aumento della frequenza cardiaca (indicativo di una risposta di difesa), mentre una riduzione potrebbe essere associata all’orientamento dell’attenzione (Fredrikson, 1981; Hare & Blevings, 1975b).

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I risultati di Öhman e Soares mostrano una dissociazione non solo tra la risposta fisiologica e l’identificazione dello stimolo, ma anche tra il riconoscimento e la valutazione emozionale. La dissociazione tra risposta autonomica e percezione conscia potrebbe essere spiegata dall’esistenza anche nella specie umana di un eventuale meccanismo neuronale – simile alla via di collegamento diretto tra talamo e amigdala identificata nei ratti (LeDoux, 1990) – capace di indurre paura condizionata senza coinvolgere la corteccia, attraverso l’accesso a caratteristiche rudimentali dello stimolo per innescare risposte autonomiche, prima che il mascheramento intervenga nell’elaborazione completa dello stimolo. Secondo questa ipotesi, non è richiesta un’elaborazione semantica dello stimolo a livello inconscio (LeDoux, 1990; Öhman, 1992), ma gli stimoli rilevanti dal punto di vista fobico potrebbero possedere caratteristiche sufficienti per i meccanismi di rilevazione specifici ad innescare la risposta fisiologica, in modo da attivare rapidamente l’evitamento di possibili pericoli per la sopravvivenza, in un’ottica evoluzionistica (Soares & Öhman, 1993b). L’ipotesi, quindi, è in linea con la visione psicoanalitica secondo cui le fobie sono radicate nell’inconscio, ma non attribuisce all’inconscio un’“intelligenza” – intesa come capacità di eseguire compiti complessi (Loftus & Klinger, 1992) –, bensì supporta l’idea di un’importante limitazione nella sua capacità analitica (Greenwald, 1992).

La risposta fisiologica può agire da feedback per consentire al soggetto di riconoscere la presenza di paura in assenza di un’informazione proveniente dallo stimolo fobico, influenzando l’autovalutazione. Infatti, la risposta fisica sembra essere attivata prima dell’esperienza emozionale conscia, come suggerito dalla teoria delle emozioni di James-Lange (James, 1884), e il feedback sensoriale dalla risposta fisiologica potrebbe raggiungere la consapevolezza prima della (o contemporaneamente alla) percezione dello stimolo fobico. La percezione conscia dello stimolo durante la risposta fisica potrebbe indurre nei soggetti fobici la sensazione di sopraffazione da parte di una paura automatica, incontrollabile, in cui l’unica azione possibile è l’evitamento: questa interpretazione potrebbe fornire una spiegazione all’irrazionalità della paura (Öhman & Soares, 1994).

La conduttanza cutanea spontanea è strettamente associata allo stato di ansia (Lader, 1967) e all’eccitazione emozionale (Bohlin, 1976), ed aumenta nei soggetti fobici in seguito alla presentazione di uno stimolo fobico mascherato: lo stimolo subliminale, quindi, potrebbe determinare un’attivazione di durata superiore all’effetto immediato dello stimolo. Nei pazienti ansiosi l’attenzione è catturata da stimoli potenzialmente minacciosi attraverso un’influenza inconscia, preattentiva nell’elaborazione del pericolo (MacLeod & Rutherford, 1992;

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Mathews, 1990). Secondo Öhman, questo processo inconscio avviene attraverso due vie: il collegamento diretto tra i sistemi di rilevazione delle caratteristiche dello stimolo rilevanti dal punto di vista fobico e i circuiti della reazione fisiologica – analogo a quello individuato da LeDoux nei ratti (LeDoux, 1990) – determina un’attivazione preattentiva della risposta autonomica (Öhman, 1992), mentre l’elaborazione semantica è determinata da schemi in grado di cogliere il pericolo che sono connessi meno direttamente con l’attivazione fisiologica, ma sono influenzati dalla componente ansiosa.

1.6. Paura, Emozioni e Coscienza

La paura è tradizionalmente considerata una delle emozioni fondamentali ereditate dai nostri antenati (Darwin, 1872; Ekman, 1992). Nonostante l’emozione sia una parte importante dell’esperienza umana, il nostro comportamento è molto meno soggetto ad un controllo conscio di quanto pensiamo (Bargh & Morsella, 2008; Ebert & Wegner, 2011; Gazzaniga, 2012; Gazzaniga & LeDoux, 1978; Wilson, 2004; Wilson & Dunn, 2004). Il comportamento, infatti, non dovrebbe essere spiegato in prima istanza attraverso stati mentali consci, che ‒ se presenti ‒ non possono essere paragonabili tra le varie specie. Anche se non è possibile stabilire scientificamente se gli animali provino o meno sensazioni consce, ciò che distingue l’esperienza umana è la capacità di elaborare la sensazione attraverso le funzioni cognitive e di personalizzarla in base al proprio bagaglio culturale, dandole forma con l’espressione del linguaggio (Barrett, 2009; Kitayama & Markus, 1997; Whorf & Carroll, 1964). L’esperienza soggettiva tipica della specie umana può essere indagata attraverso un’autovalutazione di tipo verbale (Jack & Shallice, 2001), che richiede la capacità di introspezione e il coinvolgimento di processi cognitivi come attenzione, metacognizione e memoria di lavoro (Overgaard & Sandberg, 2014) ‒ abilità che, in assenza di comportamento verbale, non sono da sole sufficienti per garantire la presenza di consapevolezza, in quanto non tutta l’elaborazione cognitiva porta ad esperienze consce (Bergström & Eriksson, 2014; Jacob, Jacobs, & Silvanto, 2015; Jacobs & Silvanto, 2015; Kiefer, 2012; Kihlstrom, 1987). Lo studio delle risposte fobiche negli umani consente di indagare direttamente la presenza o meno di una consapevolezza. Nell’accezione comune del termine, la «paura» viene considerata una sensazione provata in maniera consapevole: pertanto, parlando di paura da un punto di vista scientifico, è difficile evitare di chiamare in causa la coscienza. Quando si parla di stato di coscienza, è necessario distinguere l’esperienza soggettiva dallo stato di veglia e responsività a stimoli esterni (Manson, 2000; Rosenthal, 1986), che può essere valutato e misurato anche negli animali

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attraverso il comportamento non verbale (Smith, 2009). La consapevolezza della paura può portarci ad agire in determinati modi, ma non è necessariamente la causa dell’espressione dei comportamenti di difesa e delle risposte fisiologiche attivate dai pericoli condizionati o incondizionati (LeDoux, 2014). Secondo LeDoux, infatti, i meccanismi inconsci che rilevano e rispondono ai pericoli non sono necessariamente gli stessi che generano la paura conscia (LeDoux, 2014) ed è importante mantenere la distinzione per le implicazioni clinico-terapeutiche che ne derivano. In questa prospettiva, non è l’esperienza conscia della paura ad attivare le risposte precoci che osserviamo nella somministrazione di immagini subliminali: anzi, tali meccanismi di rilevazione pre-conscia potrebbero costituire uno degli ingredienti che inducono indirettamente, attraverso le risposte centrali e periferiche, l’eventuale consapevolezza della paura. Esistono dunque dei circuiti cerebrali che si attivano in maniera inconscia di fronte al pericolo, determinando risposte fisiologiche e comportamentali specie-specifiche (innate) non necessariamente correlate alla coscienza (R. J. Blanchard & Blanchard, 1969; Bolles & Fanselow, 1980; Bouton & Bolles, 1980; Kapp, Frysinger, Gallagher, & Haselton, 1979; Sakaguchi, LeDoux, & Reis, 1983; Schneiderman, Francis, Sampson, & Schwaber, 1974).

La ricerca su questi processi si è avvalsa di studi sul modello animale basati soprattutto sul condizionamento Pavloviano, che consente di misurare i risultati (risposte comportamentali, endocrine ed autonomiche) come variabili dipendenti rispetto alle condizioni di partenza (stimoli condizionato e incondizionato), che rappresentano invece le variabili indipendenti. Il condizionamento fobico classico si avvale di meccanismi di apprendimento associativo presenti pressoché in tutte le specie animali (Glanzman, 2010), garantendo la possibilità di estendere i risultati anche alla specie umana e rappresentando così un ottimo strumento per lo studio dei processi inconsci che controllano le risposte di difesa attivate dai pericoli, senza cadere nell’errore di confonderli con i processi che generano le sensazioni consce di paura. Specie diverse sono dotate di un differente cervello e, anche qualora siano presenti le stesse aree e gli stessi circuiti, non necessariamente queste svolgono la stessa identica funzione: pertanto, al di là di variabili osservabili, non è possibile procedere per analogia, anche qualora i processi cerebrali in questione siano particolarmente simili. Durante il condizionamento fobico nei soggetti sani, gli stimoli condizionato o incondizionato attivano l’amigdala e le risposte fisiologiche in assenza di consapevolezza dell’esposizione allo stimolo o di sensazioni consce, anche quando al soggetto viene richiesta introspezione (Bornemann, Winkielman, & van der Meer, 2012). Questo dimostra come i processi che controllano il comportamento

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umano spesso siano gestiti in maniera inconscia (Bargh & Morsella, 2008; Gazzaniga, 2012; Wilson, 2004). Studi su pazienti con danno cerebrale hanno inoltre dimostrato che il condizionamento Pavloviano è implicato nella relazione tra emozione e memoria: in particolare, può generare due distinti tipi di memoria, implicita (inconscia) ed esplicita (conscia) (Cohen & Eichenbaum, 1995; LeDoux, 1996, 2002; Squire, 1987). Tale osservazione ha come implicazione clinico-terapeutica la possibilità di alterare la potenza dello stimolo fobico manipolando la creazione e il richiamo di memorie implicite, così da operare sui sistemi inconsci modificando direttamente il modo in cui rilevano e rispondono ai pericoli. Questo tipo di approccio offre una valida alternativa alla terapia espositiva (Alberini & LeDoux, 2013; Nader, Schafe, & LeDoux, 2000; Parsons & Ressler, 2013; Schiller et al., 2010; Xue et al., 2012).

Il danno all’ippocampo altera la memoria di essere stati condizionati, ma non influenza il processo di condizionamento fobico: viceversa, il danno all’amigdala altera il condizionamento, ma non la memoria conscia di essere stati condizionati (Bechara et al., 1995; LaBar, LeDoux, Spencer, & Phelps, 1995). Infine, in pazienti con cecità determinata da danni della corteccia visiva è possibile determinare risposte fisiche e attivazione dell’amigdala in seguito a stimoli fobici di natura visiva in assenza di consapevolezza dello stimolo o di sensazioni di paura (Bertini, Cecere, & Làdavas, 2013; Hamm, 2003; Morris, DeGelder, Weiskrantz, & Dolan, 2001; Vuilleumier et al., 2002). Esistono quindi circuiti e meccanismi di rilevazione dello stimolo e di controllo delle risposte che hanno lo scopo di coordinare le risorse fisiche e mentali per aumentare la probabilità di sopravvivenza dell’organismo di fronte al pericolo, ma non di indurre consapevolezza della paura.

Per evitare confusione, risulta così necessario adottare una terminologia più precisa. LeDoux propone di usare il termine «paura» esclusivamente per riferirsi alla sensazione conscia di essere spaventati, mentre i processi cerebrali potenzialmente inconsci alla base del condizionamento fobico necessitano di una riflessione più approfondita.

Partendo dalla definizione oggettiva di «pericolo» come stimolo che attiva risposte di difesa, si può rinominare la paura condizionata come “pericolo condizionato”, laddove uno stimolo non pericoloso lo diventa, cambiando il significato dello stimolo condizionato quando associato a quello incondizionato. Questo termine è preferibile a “difesa condizionata” in quanto le risposte di difesa attivate dallo stimolo condizionato sono diverse da quelle legate allo stimolo incondizionato. Il meccanismo fisiologico che prepara a fronteggiare il pericolo

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comprende le risposte endocrine ed autonomiche e fa parte del “complesso della risposta di difesa” (LeDoux, 2012). Il circuito neuronale che sta alla base dell’espressione delle risposte di difesa scatenate dallo stimolo può essere chiamato “circuito difensivo di sopravvivenza”, simile a quello che veniva definito “sistema di difesa”. L’insieme dei “circuiti difensivi” costituisce un “circuito di sopravvivenza”. Nel cervello esistono numerose classi di circuiti di sopravvivenza (Gross & Canteras, 2012), che sono conservati attraverso le specie di mammiferi e di vertebrati in generale; gli invertebrati, e addirittura gli organismi monocellulari, possiedono circuiti diversi preposti comunque a simili funzioni di sopravvivenza, che possono essere considerati i precursori primitivi (Emes & Grant, 2012; Glanzman, 2010). L’attivazione di un circuito di sopravvivenza determina l’attivazione di uno “stato globale dell’organismo”, in cui tutto il corpo è coinvolto. In presenza di pericolo, l’organismo si trova in quello che veniva definito “stato centrale di paura”, rinominato da LeDoux come “stato difensivo dell’organismo”. I circuiti di rilevazione possono essere pre-programmati a rispondere a pericoli specie-specifici oppure possono formarsi con l’esperienza attraverso l’apprendimento associativo di nuovi stimoli potenzialmente dannosi (Fanselow, 1994; Gross & Canteras, 2012; LeDoux, 2012). In ogni caso, di fronte al pericolo, la loro attivazione innesca le risposte che, nel complesso, coinvolgono tutto il corpo, dando luogo allo stato difensivo dell’organismo. Questi stati sono multidimensionali e le loro componenti possono essere attivate in vario modo a seconda delle circostanze. Secondo questa visione, lo stato globale è una conseguenza delle specifiche risposte condizionate, quindi una “risposta metacondizionata”. Resta da chiarire se lo stato globale, che è una variabile in teoria misurabile, giochi un ruolo causale nel comportamento e nell’attività neuronale che si verifica nei circuiti specifici ed è quindi preferibile evitare espressioni come “stato centrale di paura” o “stato difensivo motivazionale”. È invece chiaro, secondo LeDoux, che lo stato difensivo dell’organismo e le sue componenti sono impliciti (inconsci): pertanto, è richiesta la loro presenza nella coscienza per provare paura, e questo può avvenire solo negli organismi capaci di consapevolezza e introspezione (Tulving, 2001). La paura, come le altre emozioni, è il risultato dell’elaborazione cognitiva di situazioni di cui siamo consapevoli a partire da processi neuronali che talvolta, ma non sempre, possono derivare dall’attivazione di circuiti di sopravvivenza.

L’esperienza conscia deriverebbe, dunque, dall’attivazione di circuiti programmati in modo innato in aree cerebrali sottocorticali. In quest’ottica, le emozioni come la paura differiscono dalle esperienze consce non emozionali correlate alla percezione di stimoli esterni per la sede dei circuiti di elaborazione. Le aree cerebrali attivate durante le esperienze soggettive riferibili

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verbalmente dal soggetto sembrano risiedere nella corteccia prefrontale, parietale e insulare, e appartengono al complesso dei circuiti generali delle funzioni cognitive, che contribuiscono alle emozioni consce e alla rappresentazione del sé nelle emozioni (Craig, 2009; Fleming, Huijgen, & Dolan, 2012; Miller & Cohen, 2001).

LeDoux e Brown applicano alle emozioni – e in particolare alla paura – la teoria dell’ordine superiore della coscienza opportunamente modificata per quanto riguarda l’introspezione, gli stati di ordine superiore in assenza di fonti esterne e il sé: propongono quindi una visione differente, in cui tutte le esperienze consce – emozionali e non – sono elaborate a livello corticale dal complesso dei circuiti generali delle funzioni cognitive (LeDoux & Brown, 2017). Ciò che determina il contenuto dell’esperienza è il tipo di input fornito dai circuiti sottocorticali: tali strutture non sono responsabili dell’emozione, ma hanno il ruolo di trasmettere lo stimolo inconscio (di ordine inferiore) ai circuiti corticali, dove sarà integrato con altri stimoli neuronali di natura cognitiva per produrre l’esperienza conscia, uno stato di ordine superiore. Quando l’esperienza conscia ha come oggetto il sé, il suo contenuto diventa emozionale: un’esperienza priva del sé è infatti priva di emozione. Nell’esempio della paura, il circuito sottocorticale è rappresentato dal circuito difensivo di sopravvivenza.

Per affermare la loro teoria, LeDoux e Brown si avvalgono della sensazione di paura scatenata da uno stimolo pericoloso di tipo visivo, che è elaborato da due tipi di circuiti: uno corticale – costituito da corteccia visiva, sistema della memoria e circuiti generali delle funzioni cognitive, con la funzione di rappresentare lo stimolo ed esperirlo – e uno sottocorticale – cioè il circuito difensivo di sopravvivenza, con la funzione di controllare i comportamenti innati e le risposte fisiologiche di preparazione ai pericoli.

Il circuito corticale parte dalla retina e crea una rappresentazione dello stimolo sensitivo a livello della corteccia visiva: qui, tramite connessioni con il sistema della memoria nel lobo temporale mediale, si integra l’informazione di ordine inferiore con memorie semantiche a lungo termine, che permettono la creazione nella memoria di lavoro di una rappresentazione preconscia di ordine superiore del potenziale pericolo legato all’informazione. L’integrazione con i circuiti generali delle funzioni cognitive consente una rappresentazione della rappresentazione di ordine superiore che permette un’esperienza noetica conscia, ossia la consapevolezza del fatto che si sta svolgendo una situazione potenzialmente pericolosa (LeDoux & Brown, 2017). Il processo che dà origine all’esperienza fenomenica di uno stato può essere definito introspezione. Il coinvolgimento esplicito del sé attraverso gli schemi del

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sé ‒ il corpo di informazioni sulle memorie episodiche autobiografiche (Marsh & Roediger, 2012; Petersen, Stahlberg, & Dauenheimer, 2000) ‒ all’interno della rappresentazione rende autonoetica l’esperienza conscia per mezzo di un’auto-rappresentazione della rappresentazione di ordine superiore all’interno della memoria di lavoro. Le informazioni circa il sé accessibili consciamente o in grado di modificare l’esperienza conscia fanno parte delle memorie esplicite, che sono acquisite e restano inconsce finché non vengono richiamate alla memoria di lavoro e rese consce (LeDoux, 2015). Tuttavia, l’auto-rappresentazione della rappresentazione di ordine superiore potrebbe essere puramente cognitiva. Pertanto, affinché l’esperienza sia emozionale, è necessario un circuito sottocorticale. Il circuito difensivo di sopravvivenza è in grado di fornire informazioni aggiuntive alla memoria di lavoro durante un’esperienza emozionale rispetto ad una non emozionale, modificando l’attività del circuito generale delle funzioni cognitive, in particolare attraverso gli stimoli efferenti dall’amigdala che determinano sia il rilascio di neurotrasmettitori ‒ che influenzano diffusamente i circuiti corticali ‒ sia risposte fisiche e comportamentali ‒ il cui feedback interagisce con i circuiti corticali coinvolti (Damasio, 2000). L’amigdala inoltre presenta connessioni dirette con i circuiti generali delle funzioni cognitive e con la corteccia sensitiva per modulare in senso ascendente e discendente l’attenzione, l’elaborazione sensoriale e il richiamo alla memoria. In questa teoria, quindi, l’amigdala rappresenta un circuito di ordine inferiore addizionale che può essere attivato da stimoli pericolosi in parallelo, indipendentemente o in anticipo rispetto ai circuiti generali delle funzioni cognitive (LeDoux, 1996, 2015) e che può influenzare l’esperienza emozionale conscia e la memoria episodica autobiografica. Tuttavia, non ci sono evidenze scientifiche inconfutabili che l’amigdala sia alla base delle esperienze soggettive di paura, mentre esistono evidenze a favore dell’ipotesi che la paura possa verificarsi indipendentemente da stimoli di ordine inferiore (non necessariamente di tipo sensoriale, come nel caso delle allucinazioni in pazienti con sindrome di Charles Bonnet). Inoltre, il danno al circuito difensivo di sopravvivenza può silenziare, ma non eliminare, la sensazione di paura (Anderson & Phelps, 2002; Feinstein et al., 2013): questa si può verificare anche in totale assenza di coinvolgimento dei circuiti di sopravvivenza, come nel caso di paure o ansie esistenziali.

La sensazione di paura può essere scatenata da tutti i circuiti della sopravvivenza – non solo quello di difesa – in risposta alla percezione di un pericolo o un danno al proprio benessere, ossia in presenza di una coscienza autonoetica che è esclusiva del cervello umano (Tulving, 2005). La presenza di un pericolo vago o l’eccitazione fisiologica legata ad uno stimolo pauroso potrebbero essere sufficienti per l’attivazione di quello che viene definito schema emozionale

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della paura e il suo completamento. Gli schemi emozionali sono l’insieme di informazioni su una determinata emozione, sono appresi nell’infanzia e affinati con l’esperienza nel corso della vita (Izard, 2007). Lo schema della paura contiene sia le memorie semantiche sugli stimoli fobici sia i comportamenti e le risposte agli stimoli messi in atto per affrontarli. Quando lo schema si inserisce nella rappresentazione di ordine superiore, influenza il contenuto dell’esperienza soggettiva. Lo schema della paura contiene anche le informazioni associate al linguaggio: la capacità di esprimere varie emozioni attraverso numerosi termini distinti talvolta per lievi sfumature è una parte importante dello schema immagazzinato nella memoria e può sia influenzare l’esperienza (Whorf & Carroll, 1964) sia fornirne una rappresentazione simbolica in assenza della reale esposizione agli stimoli che la determinerebbero (Forsyth & Eifert, 1996). La capacità di immaginare un’emozione e di proiettarla sul sé passato o futuro attraverso la coscienza autonoetica potrebbe, da un lato, associarsi ad eccessiva ruminazione, preoccupazione e ossessioni; dall’altro, potrebbe conferire alla paura e agli stati di consapevolezza emozionale la funzione di contribuire ai processi decisionali (Damasio, 1994, 2000; Koizumi, Mobbs, & Lau, 2016; Rolls, 2008). Lo schema delle emozioni, basato sulle esperienze passate, fornirebbe un contesto e porrebbe dei limiti alle emozioni anticipate, che, nel breve termine, potrebbero contribuire alla modulazione discendente dell’elaborazione percettiva e della memoria, ma anche dei circuiti sottocorticali che controllano i comportamenti e le risposte fisiologiche volti ad affrontare la situazione in cui l’organismo si viene a trovare (Buhle et al., 2014; Phelps, 2006; Schiller & Delgado, 2010).

Un’esperienza emozionale risulta dalla rappresentazione cognitiva della situazione in cui ci si trova, basata sulla conoscenza fattuale e sulle memorie personali apprese durante esperienze simili vissute in passato. L’emozione è l’esperienza conscia della consapevolezza di trovarsi in una determinata situazione, riconosciuta come tale attraverso le esperienze autobiografiche passate: è il risultato della consapevolezza introspettiva dell’informazione interna. In questa prospettiva, un’emozione non può mai essere inconscia e che solo chi la sta provando può definirla con precisione (LeDoux & Brown, 2017).

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2. Le Fobie Specifiche: Un Modello Clinico di Paura

2.1. Criteri Diagnostici, Dati Epidemiologici ed Approcci Terapeutici

Secondo la quinta edizione del Manuale Diagnostico e Statistico dei disturbi mentali (DSM-5) dell’Associazione Americana di Psichiatria, le fobie specifiche rientrano ‒ insieme a disturbo d’ansia generalizzata, disturbo da attacchi di panico, agorafobia e disturbo d’ansia sociale ‒ nella categoria dei disturbi d’ansia (American Psychiatric Association, 2013), che rappresentano la categoria di disturbi mentali con la più alta prevalenza negli adulti (Eaton et al., 2008). Già nella prima edizione del Manuale, nella definizione di “reazione fobica” erano presenti due aspetti: l’ansia e il tentativo di controllo tramite l’evitamento dell’oggetto o della situazione fobici (American Psychiatric Association, 1952). In questi pazienti l’evitamento contribuisce a ridurre la costanza e la gravità del disagio e della limitazione funzionale. I criteri attuali per la diagnosi di fobia specifica richiedono la presenza di: paura irrazionale associata ad un oggetto o una situazione specifici, evitamento dell’oggetto o della situazione, persistenza della paura nel tempo e disagio o limitazione funzionale clinicamente significativi associati alla paura o all’evitamento (American Psychiatric Association, 2013). Questi aspetti richiedono la capacità di introspezione da parte del paziente e possono essere adeguatamente indagati attraverso questionari di autovalutazione o un colloquio in ambito clinico, che rappresentano un valido metodo diagnostico per le fobie specifiche.

Nonostante più del 70% delle persone negli Stati Uniti riferiscano paura irrazionale nei confronti di uno o più oggetti o situazioni specifiche ‒ con maggior diffusione per la paura degli animali e dell’altezza ‒ la probabilità di soddisfare i criteri diagnostici per la fobia specifica ‒ che richiede anche la presenza di evitamento e limitazione funzionale ‒ nei soggetti che riferiscono paura è di circa il 25-30%, mentre nella popolazione generale è del 2-6% e ricalca l’ordine di grandezza di altre diagnosi psichiatriche (Bijl, Ravelli, & van Zessen, 1998; Magee, Eaton, Wittchen, McGonagle, & Kessler, 1996; Stinson et al., 2007).

La prevalenza globale lifetime delle fobie specifiche è in media del 7,2% (Eaton, Bienvenu, & Miloyan, 2018), con una notevole variabilità geografica, da meno del 3% in Italia (Faravelli et al., 2004) e Cina (Lee et al., 2007) a oltre il 14% in aree urbane della Norvegia (Kringlen, Torgersen, & Cramer, 2001). Queste differenze possono essere attribuibili in parte alla diversa procedura di valutazione e alle diverse fasce d’età dei campioni analizzati, ma in alcuni casi

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