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Le suggestioni provenienti dal diritto sostanziale, in Il processo di famiglia: diritto vivente e riforma

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QUALE PROCESSO PER LA FAMIGLIA?

LE SUGGESTIONI PROVENIENTI DAL DIRITTO SOSTANZIALE

PISA, 10 settembre 2010

Sommario: 1. Premessa – 2. Un tribunale “per” la famiglia e l’unificazione dello status di figlio. – 3. I rischi dell’eccessiva discrezionalità nel procedimento di separazione. – 4. Il fallimento dell’istituto dell’addebito e l’esigenza di misure sanzionatorie della violazione degli obblighi coniugali nell’ambito di rinnovate forme processuali. – 5. Quali diritti per il figlio maggiorenne? – 6. Diritti sostanziali “semplici” e forme processuali “complesse”: l’esempio del rimborso delle spese straordinarie. – 7. Conclusioni.

1. Un sentito ringraziamento al prof. Cecchella e agli altri organizzatori di questo Convegno per avermi ancora invitato a partecipare alla giornata di commemorazione dell’Avv. Mario Jaccheri, delle cui impareggiabili qualità umane e professionali è indelebile il ricordo in quanti lo conobbero e furono gratificati dalla sua amicizia.

Saluto con affetto l’amica Elena Jaccheri, che prosegue brillantemente nell’impegno professionale paterno.

Il convegno è dedicato a problematiche processuali di viva attualità e interesse, con scelta certamente condivisibile per l’impellente necessità avvertita da tutti gli operatori che le esigenze di tutela sostanziale – rinnovate dall’opera riformatrice della legge sull’affidamento condiviso – trovino concreta espressione e attuazione attraverso forme processuali idonee al loro concreto e rapido soddisfacimento.

Il non semplice compito affidatomi dal prof Cecchella è quello di fornire “suggestioni” di diritto sostanziale, che tradurrei in modeste riflessioni provenienti per lo più dall’esperienza professionale.

2. Partendo dal primo tema proposto in questo convegno – quello del riparto delle competenze tra tribunale ordinario e tribunale per i minorenni, nella prospettiva del tribunale unico “per” la famiglia − il dato normativo sostanziale, intorno al quale si sono incentrate le elaborazioni dottrinali e giurisprudenziali, è costituito dall’art. 4, comma 2, legge n. 54/2006, secondo cui le norme sull’affidamento condiviso devono trovare identica applicazione tanto nei procedimenti di separazione, divorzio o nullità del matrimonio, quanto nei procedimenti relativi a figli di genitori non coniugati.

Tale norma ha, da un lato, consacrato legislativamente i consolidati indirizzi giurisprudenziali che – anche per effetto di significativi interventi del Giudice delle Leggi – avevano già condotto all’uniforme applicazione delle regole sull’affidamento della prole, sul mantenimento e sull’abitazione della casa familiare anche nell’ambito della famiglia di fatto; dall’altro, tuttavia, ha

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fornito ulteriore impulso al più radicale approdo riformatore da tanti auspicato, consistente nell’abrogazione di ogni distinzione tra filiazione legittima e filiazione naturale.

La considerazione dell’unico e indistinto status di “figlio” appartiene certamente alla moderna coscienza sociale e alla sensibilità dei giuristi. Appare indispensabile, quindi, che il legislatore prenda atto di questo aspetto culturale e adegui il nostro ordinamento alle scelte già compiute in altri Paesi e in linea con l’Unione Europea.

In questa materia i progetti di legge presentati in Parlamento sono numerosi e ne constano, allo stato, almeno cinque. Nelle premesse agli articolati proposti si legge puntualmente che l’unificazione dello stato di filiazione deriva dalla necessità di adeguare il quadro della legislazione al disposto della Carta Costituzionale, la quale, all’art. 30 Cost. sancisce il diritto-dovere dei genitori di «mantenere, istruire ed educare i figli, anche se nati fuori dal matrimonio» e la necessità che la legge assicuri «ai figli nati fuori dal matrimonio ogni tutela giuridica e sociale, compatibile

con i diritti dei membri della famiglia legittima».

Il dato costituzionale consente, peraltro, di prevenire l’eventuale pericolo che l’unicità dello

status di figlio travolga la chiara opzione del Legislatore Costituente in favore della famiglia

fondata sul matrimonio. La necessità di apprestare ogni forma di tutela giuridica ai figli nati fuori dal matrimonio impedisce che questi ultimi possano patire limitazioni dei loro diritti in dipendenza dell’assenza del vincolo matrimoniale tra i loro genitori, ma non consente il salto logico di eliminare la rilevanza della condizione coniugale nell’ambito del rapporto orizzontale tra i genitori.

E’ opportuno, quindi, sottolineare che – facendo riferimento al ”tribunale della famiglia” – non si intende surrettiziamente, sotto le apparenti innocue vesti del miglioramento della funzionalità del processo, introdurre una concezione plurale della famiglia, volta a includere nella sua nozione anche le relazioni affettive di fatto nelle quali non siano contestualmente presenti quei rapporti genitoriali, ai quali soltanto si rivolge il principio costituzionale dell’art. 30.

Il rischio paventato non è nuovo, là dove si rifletta che, proprio in seguito all’entrata in vigore dell’art. 4 legge n. 54/2006, fu isolatamente adombrato che, attraverso i rinvii alle norme processuali contenuti nella nuova legge, si potesse addirittura applicare la disciplina del procedimento di separazione (ivi compresi i provvedimenti provvisori presidenziali) alle controversie tra conviventi in seguito alla rottura della famiglia di fatto.

Qualora si eviti, quindi, di attribuire significati sostanziali alla definizione di “tribunale della famiglia”, dal punto di vista della tutela dei diritti appare non soltanto auspicabile, ma addirittura indispensabile che all’unificazione degli organi giudiziari deputati ad affrontare le liti familiari si accompagni l’atteso riconoscimento dell’unicità dello status di figlio.

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Una tale scelta legislativa consentirebbe di risolvere, altresì, i residui problemi di discriminazione tra figli legittimi e figli naturali, che permangono a livello applicativo in materia di rapporto di parentela.

Non può trascurarsi che, ancora nel 20071, la Suprema Corte abbia affermato – sulla scorta di C.

Cost. n. 532/00 – che nella nozione di “eredi legittimi”, di cui all’art. 565 c.c., non possono essere compresi «tutti i parenti naturali, secondo quanto previsto dall'art. 572 c.c., con completa

parificazione, ai fini successori, degli uni agli altri». Nel richiamare il passaggio testuale in cui il

Giudice delle Leggi aveva affermato che «un ulteriore riconoscimento, tramite una sentenza

additiva, di altre categorie di eredi legittimi comporterebbe un'incidenza sull'ordine successorio tale da alterare profondamente le scelte del legislatore», non rinvenendosi, allo stato,

nell'ordinamento, a giudizio sempre della Corte Costituzione, «una norma che all'accertamento

formale della filiazione naturale colleghi l'effetto di far entrare il figlio nella famiglia di origine del genitore, in guisa da attribuirgli uno status familiare rapportato non solo ad un padre o ad una madre, ma anche a nonni, zii, e cugini», la Corte di Cassazione sottolinea che «non può, pertanto, che prendersi atto della mancanza nel nostro ordinamento di un'organica normativa che, partendo dall'affermazione e riconoscimento di un unico status filiationis, per cui tutti i figli avranno lo stesso stato giuridico, dovrà coerentemente pervenire ad una nuova definizione dell'istituto della parentela, riferibile a tutte le persone che discendono da uno stesso stipite, con conseguente inclusione nella categoria dei successibili ex art. 565 c.c., dei predetti soggetti, senza distinzione tra eredi legittimi ed eredi naturali».

Non si tratta, invero, di una scelta interpretativa assolutamente cogente. In una diversa occasione, la SC ha censurato la decisione della Corte Costituzionale, rea – a suo dire – di non aver «in alcun

modo valutato l'alternativa interpretazione della stessa norma fondata sull'inequivoco disposto dell'art. 74 c.c. - in base al quale sono parenti coloro che discendono dallo stesso stipite - non limitato dal dettato dell'art. 258 c.c., che mira ad escludere non il rapporto parentale con la famiglia del genitore ma solo che gli effetti del riconoscimento si estendano da un genitore a un altro, mentre le singole disposizioni, secondo cui i figli naturali sono equiparati a quelli legittimi, appaiono la conferma del suddetto principio, che è del resto rispondente a quelli costituzionali di uguaglianza e di difesa della filiazione naturale».

Se, dunque, è questo lo stato dell’attuale (controversa) applicazione giurisprudenziale, pare davvero necessario l’impulso legislativo, che coniughi ristrutturazioni processuali e ridefinizione di istituti sostanziali.

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In altri ambiti, al contrario, la giurisprudenza dimostra maggiore coraggio e coerenza ai principi costituzionali, non affidandosi a futuribili riforme per smussare spigolosità discriminatorie E’ stato così opportunamente sancito2 − modificando un diverso contrario orientamento − che «sono

ricorribili per cassazione, nel regime dettato dalla l. n. 54/06, i provvedimenti emessi, ai sensi dell'art. 317 bis c.c., in sede di reclamo, relativi all'affidamento dei figli e alle relative statuizioni economiche, ivi compresa l'assegnazione della casa familiare».

Alla ricorribilità per Cassazione non è apparsa ostativa, invero, né la competenza del tribunale per i minorenni né il rito della camera consiglio: «l'ordinamento – si legge nella motivazione −

prevede, ormai con una certa frequenza, la scelta del rito camerale, in relazione a controversie oggettivamente contenziose, per ragioni di celerità e snellezza, primo tra tutti il giudizio di appello nei procedimenti di separazione e divorzio».

3. Lasciando, peraltro, ai moltissimi in questa sede assai più legittimati alle necessarie riflessioni che tali affermazioni suscitano, appare opportuno affidare agli autorevoli esperti della materia processuale anche alcuni disagi – se non proprio delle suggestioni – che l’esperienza del diritto della famiglia provoca tanto negli studiosi quanto negli operatori. E intendo riferirmi ad alcuni istituti fondamentali, oggetto di frequente e consolidata applicazione nell’ambito dei procedimenti relativi alla crisi della famiglia.

Com’è noto, la separazione personale può essere giudiziale o consensuale. Il luogo comune, secondo il quale gli avvocati sarebbero produttori di litigiosità, induce a ritenere che molte separazioni giudiziali sarebbero state consensuali se i perfidi difensori, bramosi di memorie e di onorari, avessero benevolmente rivolto lo sguardo all’interesse dei clienti e consentito loro di pervenire a quell’accordo possibile che avrebbe restituito loro serenità e tempo alle congestionate aule di giustizia.

Purtroppo, come tutti i luoghi comuni, anche questo è falso. L’esperienza insegna, al contrario, che in molte separazioni consensuali i coniugi non sono d’accordo proprio su niente e vorrebbero un giudice in grado di decidere in tempi rapidi e con piena cognizione della loro vicenda umana e dei loro drammi.

Ciò che, invero, spesso accomuna gli avvocati delle parti nel perseguire con pervicacia l’obiettivo dell’accordo è la consapevolezza che i tempi della decisione rappresenterebbero un aggravio incompatibile con le contrapposte esigenze dei coniugi: non soltanto con l’interesse del coniuge “fedifrago” a riottenere lo stato libero, ma anche col legittimo desiderio di chi “subisce” la

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separazione a non patire ulteriori umiliazioni, sempre insite in decisioni strutturalmente munite di ampi margini di discrezionalità.

La discrezionalità, invero, è il rischio più elevato in cui si incorre in questa materia, soltanto limitatamente ridotto dalla reclamabilità dei provvedimenti presidenziali e, invece, assolutamente indominabile nelle sedi giudiziarie ove si è affermata la tesi della non reclamabilità dei provvedimenti di modifica adottati dal Giudice Istruttore.

Anche i timidi tentativi legislativi di attribuire a determinate fattispecie effetti legali previamente tipizzati sono stati posti nel nulla dalla giurisprudenza, anche della Corte Costituzionale (sent. n. 308/2008), la quale – ad esempio – ha smentito che il nuovo matrimonio o la nuova convivenza

more uxorio possano costituire cause di automatica estinzione del diritto all’abitazione nella casa

coniugale.

A loro volta, le spinte della giurisprudenza di merito verso l’adozione di metodi di calcolo automatico del contributo di mantenimento del coniuge o della prole hanno trovato l’ostacolo della complessità dei costi delle consulenze tecniche.

Scenari addirittura preoccupanti sono quelli che paiono profilarsi de iure condendo, per i quali soccorre almeno la speranza di vedere il Parlamento impegnato in altre decisioni, assai più impellenti dal punto di vista economico e sociale. Si pensi, tuttavia, che non manca chi propone di consentire al giudice l’attribuzione in proprietà dell’immobile adibito a casa familiare all’altro coniuge o ai figli, col prevedibile risultato di rendere i giudici prudenti ancor più prudenti e più arditi quelli già arditi: prospettive entrambe da scongiurare.

Con specifico riferimento ai tempi della definizione della crisi, la fase delle trattative tra legali, al fine di pervenire a un accordo tra le parti, porta con sé il diverso pericolo di atti abusivi, che uno dei coniugi compia proprio allo scopo di prevenire eventuali decisioni a sé sfavorevoli. La lunghezza dei tempi processuali è un incentivo, purtroppo, all’autotutela e iniziative unilaterali, che pongono paradossalmente chi le assume in posizioni di forza. Oltre ai prelievi dal conto corrente comune, il rischio maggiore concerne – com’è noto – la casa coniugale.

De iure condendo, uno dei progetti all’esame del Parlamento (proposta Aracri C 2448) prevede

la nullità delle alienazioni compiute dal coniuge “senza giustificato motivo”, purché l’alienazione non superi la metà del patrimonio complessivo della famiglia (?) e con legittimazione relativa (del coniuge e dei discendenti) a far valere la nullità.

Si può convenire sulla necessità di una disciplina uniforme che, eliminando ogni differenziazione a seconda del regime patrimoniale, sancisca – già de iure condito − la necessità che ogni atto di disposizione, in quanto funzionale all’attuazione dell’indirizzo della vita familiare ex art. 144 c.c.,

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richieda la legittimazione congiunta di entrambi i coniugi e, conseguentemente, l’inefficacia di ogni atto di alienazione separata. La proposta legislativa, invero, non si apprezzare per rigorosità tecnica e sistematica, ma sottopone a livello legislativo un’esigenza assolutamente concreta, per la quale, tuttavia, qualche sforzo maggiore potrebbe essere già compiuto sul piano giurisprudenziale o della legittimità costituzionale, come ad esempio la pronuncia di incostituzionalità – per irragionevolezza − della mancata previsione della trascrivibilità della domanda di assegnazione della casa coniugale.

4. E’ comprensibile il sentimento di frustrazione della moglie (o del marito) ferita e tradita, la quale – ancora memore degli impegni solennemente proclamati nelle norme del codice civile apprese all’atto della celebrazione del matrimonio – è sgomenta dinanzi all’avvocato che, avvilito, le rappresenta l’assoluta inutilità di una separazione giudiziale nella quale domandare l’addebito. Gli scarni e tassativi effetti di questo istituto ne hanno segnato il fallimento. Nelle cause in cui la relativa domanda è ancora proposta, le percentuali di accoglimento sono bassissime, la giurisprudenza restrittiva nell’individuazione dei presupposti nel serpeggiante pregiudizio che la richiesta esprima soltanto non sopiti rancori e istinti di rivalsa.

Il potere di domandare il risarcimento del danno conseguente alle violazioni degli obblighi coniugali – per quanto compiutamente riconosciuto dalla nota pronuncia n. 9801/05 e confermato dalle SS UU del novembre 2008 – risulta notevolmente affievolito dal prevalente indirizzo giurisprudenziale, che nega la cumulabilità della domanda risarcitoria all’interno del processo di separazione. Senza addentrarsi negli aspetti squisitamente tecnici della questione, è difficile contestare l’esclusiva idoneità del processo di separazione a costituire la sede per la verifica delle cause e delle conseguenze della rottura dell’unità familiare. Sarebbe auspicabile, quindi, che già in applicazione delle norme vigenti, il coniuge possa preferire, in sede di proposizione del ricorso introduttivo di separazione, la formulazione della domanda avente ad oggetto il risarcimento del danno (da qualificarsi alla stregua di danno punitivo) per violazione degli obblighi coniugali.

Ma se l’esigenza diffusa è quella di pervenire a una decisione che renda giustizia sulle cause della disgregazione dell’unità familiare e, nello stesso tempo, attribuisca al coniuge che ne ha diritto forme economiche di ristoro effettivo e immediato, sarebbe opportuno modificare o sostituire l’istituto dell’addebito con misure sanzionatorie del tipo di quelle già previste dall’art. 709 ter c.p.c. per l’ipotesi di violazioni dei provvedimenti precedentemente assunti dal giudice della separazione o del divorzio.

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L’istituto ha già ottenuto utili applicazioni nella prassi giudiziaria e la tendenziale prevalenza della tesi che attribuisce natura sanzionatoria al risarcimento del danno previsto dalla norma agevola le difficoltà probatorie nelle quali altrimenti certamente incorrerebbe il genitore ricorrente.

La previsione del danno punitivo per l’illecito endofamiliare consentirebbe, inoltre, di dipanare, almeno in parte, il difficile rebus della liquidazione equitativa del danno patito del familiare vittima della lesione dei propri diritti fondamentali che sovente, già nelle attuali decisioni, dissimula intenti giudiziari comprensibilmente sanzionatori della violazione di obblighi di lealtà, fedeltà e rispetto

Non v’è dubbio che, se il Giudice potesse sanzionare la violazione degli obblighi derivanti dal matrimonio con misure economiche, che si andrebbero ad aggiungere all’ordinario rimedio del mantenimento, l’invito rivolto al cliente dall’avvocato, finalizzato a desistere dall’intraprendere pretese di addebito o separate azioni risarcitorie troverebbe ragionevolmente assai più tiepida accoglienza.

Il rimedio sanzionatorio pecuniario, a disposizione del Giudice, su domanda del coniuge, sin dalla fase iniziale del procedimento di separazione, consentirebbe inoltre di evitare l’assai poco incisivo strumento di natura penale nell’ambito dei rapporti interni ai coniugi. Nella famiglia – è forse esperienza largamente diffusa – le querele tra coniugi, spesso reciproche, si rivelano per lo più strumentali alla controversia civilistica di separazione personale, ma – anche nel caso sfortunato in cui la solerte opera degli avvocati non riesca nella definizione consensuale e nella conseguente rimessione e accettazione – si avviano stancamente lungo la via che inesorabilmente, da un armadio all’altro, le porteranno all’esito della naturale prescrizione.

Si potrebbe obiettare, tuttavia, che il Presidente, in sede di provvedimenti provvisori – così come, già allo stato del processo vigente, non ha gli strumenti per valutare incidentalmente l’addebito e deve rimettere una siffatta valutazione alla successiva istruttoria in fase di cognizione piena – allo stesso modo non avrebbe i mezzi per accertare le lamentate violazioni degli obblighi coniugali neppure allo scopo di pronunciare misure economiche sanzionatorie.

L’obiezione è certamente fondata, ma – piuttosto che dimostrare l’irrealizzabilità della prospettiva – suggerisce, al contrario, una riflessione più profonda sull’effettiva rispondenza dell’attuale modello processuale alla piena tutela delle situazioni giuridiche che emergono nella crisi del rapporto coniugale. Si potrebbe porre il quesito se sia veramente utile o, addirittura, indispensabile la vigente scansione tra la fase presidenziale, che si conclude con l’adozione dei provvedimenti provvisori, e la fase istruttoria che prelude all’emanazione della sentenza.

Se – come ha affermato la Corte di Cassazione − il rito camerale si fa preferire …in relazione a

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rito all’intero giudizio di separazione, alla stessa stregua dell’epocale mutamento processuale avvenuto nel 1988 con riguardo ai procedimenti di modifica o revoca dei provvedimenti per il coniuge o per i figli (art. 710 c.p.c.)? Si potrebbe devolvere, in tal modo, la controversia coniugale immediatamente al Collegio, col potere di decidere in punto di affidamento, mantenimento, assegnazione della casa familiare e misure economiche sanzionatorie delle eventuali violazioni degli obblighi coniugali, non diversamente da quanto già previsto – con le opportune differenze del caso – nei procedimenti ex art. 710 cpc.

5. Con le forme di tutela sostanziale è intimamente connesso anche il problema del riconoscimento del diritto al mantenimento del figlio maggiorenne, al quale la legge sull’affidamento condiviso ha inteso attribuire direttamente il diritto alla corresponsione anche nel caso di convivenza col genitore. Affinché il contributo di mantenimento sia versato all’altro genitore occorre un provvedimento del giudice, che potrà essere adottato in sede di regolamentazione dei rapporti economici tra coniugi nella separazione o nel divorzio (o tra conviventi in seguito alla cessazione della relazione more uxorio), o anche successivamente in sede di modifica delle relative condizioni.

Circa la valutazione discrezionale del giudice, il versamento diretto al figlio maggiorenne non autosufficiente dovrebbe preferirsi laddove esso sia convivente, ma non stabilmente dimorante con un genitore (come nella classica ipotesi dello studente universitario fuori sede), ovvero esso sia in età adulta ed in quanto tale auspicabilmente chiamato ad una corresponsabile gestione delle risorse finanziarie della famiglia, ovvero, ancora, nell'ipotesi in cui sussista una consolidata prassi in tal senso3.

Il diritto a percepire l'assegno di mantenimento, riconosciuto in sede di separazione personale tra i coniugi, può essere modificato o estinguersi, nei rapporti interni ai coniugi, solo mediante la procedura di cui all'art. 710 c.p.c., con la conseguenza che il raggiungimento della maggiore età del figlio e la raggiunta autosufficienza economica dello stesso non sono, di per sé, condizioni sufficienti a legittimare ipso facto, in assenza di un accertamento giudiziale, la mancata corresponsione dell'assegno, ma determinano unicamente la possibilità per il genitore obbligato di richiedere l'accertamento di tali circostanze4.

Ove, tuttavia, sia il figlio maggiorenne a voler domandare la corresponsione diretta oppure un adeguamento dell’importo, si pone il problema della possibilità del ricorso al rito camerale, che rappresenta, invero, l’unico strumento per l’effettivo e rapido riconoscimento del diritto. La

3 Trib Marsala 2 marzo 2007, Dir. Fam. 2007, 2, 799 4 Cass., sez. I, 19 ottobre 2006 n. 22491

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soluzione del rito camerale è preferibile, altresì, posto che la decisione del giudice sulle modalità di mantenimento del figlio maggiorenne costituisce pur sempre una “modifica delle condizioni di separazione o divorzio” e può incidere anche sulle ridefinizione degli ulteriori aspetti patrimoniali della separazione o del divorzio (mantenimento del coniuge o di altri figli minorenni, assegnazione della casa familiare, ecc.).

L’inammissibilità dell’intervento del figlio maggiorenne nel giudizio di separazione o di modifica delle condizioni, con la conseguente necessità per il medesimo di agire soltanto in via ordinaria, oltre a realizzare un’inutile proliferazione dei giudizi, non consente di determinare congruamente l’importo del contributo economico a carico del genitore obbligato, atteso che tale quantificazione implica una valutazione complessiva dei redditi di entrambi i genitori, che non può essere disgiunta dalla determinazione delle altre componenti economiche – quali l’assegno nei confronti dell’altro coniuge e l’assegnazione della casa familiare - di tal che la trattazione di tali problematiche non può che svolgersi in un unico giudizio.

Proprio nell’ambito del giudizio di separazione o divorzio il giudice ha cognizione dell’intera situazione familiare e può, quindi, meglio valutare gli elementi che potrebbero indurlo a disporre che l’assegno per il figlio maggiorenne sia, o continui a essere, versato al genitore convivente.

6. Non mancano, peraltro, altri esempi di diritti sostanziali che trovano nelle forme processuali privilegiate dalla giurisprudenza un ostacolo a una realizzazione compatibile con le dinamiche dei rapporti di famiglia. Si pensi, ad esempio, al problema del rimborso delle spese straordinarie da parte del genitore che le abbia anticipate.

La giurisprudenza esclude che il genitore creditore, in forza del titolo esecutivo consistente nel provvedimento giudiziario (ordinanza presidenziale, sentenza di separazione, decreto di omologa), possa direttamente agire per l’esecuzione forzata (altro fondamentale capitolo del programma del presente convegno).

Sul punto, il più recente orientamento accolto dalla Suprema Corte5 stabilisce che «il

provvedimento giudiziario con cui in sede di separazione personale si stabilisca, ai sensi dell'art. 155 c.c., comma 2, quale modo di contribuire al mantenimento dei figli, che il genitore non affidatario paghi, sia pure pro quota, le spese straordinarie relative ai figli, richiede, nell'ipotesi di non spontanea attuazione da parte dell'obbligato, al fine di legittimare l'esecuzione forzata, stante il disposto dell'art. 474 c.p.c., comma 1, un ulteriore intervento del giudice, volto ad accertare l'avveramento dell'evento futuro e incerto cui è subordinata l'efficacia della condanna, ossia la

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effettiva sopravvenienza degli specifici esborsi contemplati dal titolo e la relativa entità, non suscettibili di essere desunte sulla base degli elementi di fatto contenuti nella prima pronuncia».

In altri termini, il credito al pagamento della quota di spesa straordinaria non è né liquido né esigibile e occorre la verifica giudiziale della riconducibilità degli esborsi sostenuti a quelli contemplati dal titolo.

In questa prospettiva di qualificazione del diritto sostanziale al rimborso delle spese straordinarie, si può valutare l’opportunità di ricorrere al nuovo procedimento sommario di cognizione.

7. Mi sono limitato, dunque, a fornire pochi e disorganici spunti relativamente ad aspetti strettamente connessi alla dimensione processuale, sperando di aver messo a frutto l’insegnamento del Maestro del diritto processuale, che siede a questo tavolo, che nel suo corso di lezioni – poi divenuto il più chiaro e completo manuale della materia – non si stancava di sottolineare la necessità di studiare ogni istituto processuale congiuntamente ai presupposti sostanziali, sia normativi sia giurisprudenziali.

Nel diritto della famiglia, il coinvolgimento dei sentimenti, delle speranze e dei dolori delle persone, oltre a rendere indispensabile la piena conoscenza dei diritti e dei bisogni, ripropone la stringente attualità degli insegnamenti di Chiovenda, del quale si ricorda il celebre ammonimento, secondo cui «il processo deve dare per quanto è possibile praticamente a chi ha un diritto tutto quello e proprio quello ch’egli ha diritto di conseguire».

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