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Misure di tempo di volo di muoni cosmici con strumentazione disponibile in laboratorio

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Alma Mater Studiorum

·

Università di Bologna

SCUOLA DI SCIENZE Corso di Laurea in Fisica

MISURE DI TEMPO DI VOLO

DI MUONI COSMICI

CON STRUMENTAZIONE

DISPONIBILE IN LABORATORIO

Relatore:

Prof. Mauro Villa Correlatore:

Dott.ssa Carla Sbarra

Presentata da: Simone Sartini

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A Deborah, alla Famiglia e agli Amici . . .

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Indice

Introduzione 5

1 Raggi cosmici 7

1.1 Scoperta . . . 7

1.2 Natura dei raggi cosmici . . . 8

1.3 Raggi cosmici nell’atmosfera . . . 8

1.4 Raggi cosmici a livello del mare . . . 10

2 Misure di tempo di volo 13 2.1 Applicazioni . . . 13

2.1.1 Identificazione di particelle a lunga vita media . . . 13

2.1.2 Identificazione della zona di interazione . . . 14

2.2 Sistematiche principali . . . 16 2.2.1 Jitter . . . 17 2.2.2 Time-Walk . . . 17 3 Strumentazione di laboratorio 19 3.1 Scintillatori . . . 19 3.1.1 Scintillatori organici . . . 20 3.1.2 Scintillatori inorganici . . . 22 3.2 Fotomoltiplicatori . . . 24 3.2.1 Fotocatodo . . . 25 3.2.2 Collimatore . . . 25 3.2.3 Catena dinodica . . . 26

3.2.4 Guadagno e tensione applicata . . . 27

3.2.5 Tempo di transito . . . 27

3.2.6 Dark current . . . 27

3.3 Rivelatori e sistema di acquisizione del laboratorio . . . 28

4 Misure e analisi dati 33 4.1 Setup e prese dati . . . 33

4.2 Confronto tra diversi metodi di misura del tempo di volo . . . 36

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Introduzione

La misura del tempo di volo (TOF) delle particelle cariche da sempre gioca un ruolo importante in fisica nucleare e subnucleare, in particolare per l’identificazione di particelle a lunga vita media la cui traiettoria sia tracciata all’interno di un campo magnetico; in spettrometria, la misura del TOF permette di determinare il rapporto massa-carica di ioni diversi accelerati alla stessa energia cinetica.

Recentemente, l’affinarsi delle tecniche sperimentali e il conseguente miglioramento della precisione delle misure ha portato nuovo interesse alle misure di TOF. In particolare, presso l’ac-celeratore LHC del laboratorio CERN di Ginevra le misure di TOF possono aiutare a identificare il vertice primario di interazione in collisioni caratterizzate da alto pileup di eventi; in campo me-dico possono apportare significativi miglioramenti alla tecnica diagnostica nota come tomografia ad emissone di positroni, o PET.

In questa tesi è presentata una misura del tempo di volo dei muoni della radiazione cosmica, eseguita con la strumentazione disponibile in laboratorio. L’accento non è posto sulla ricerca del miglior risultato possibile date le tecniche di rivelazione e l’elettronica disponibili oggigiorno, che avrebbe richiesto l’impiego di rivelatori più performanti, quanto piuttosto sull’analisi delle sistematiche legate alla misura stessa, così che quanto appreso abbia validità generale. Le diverse fasi della misura, che comprendono la scelta dei rivelatori, la loro disposizione, il sistema di raccolta dei dati e la loro analisi, si presentano infatti in qualunque esperimento. Il risultato della misura permette comunque una valutazione della velocità media dei muoni cosmici con una precisione entro il due percento, ed è in accordo con quanto aspettato.

La natura dei raggi cosmici e la loro composizione al livello del mare sono trattate nel primo capitolo; le principali sistematiche nelle misure di tempo, il jitter e il time walk, sono introdotte nel secondo. La strumentazione di laboratorio utilizzata per il lavoro presentato in questa tesi è descritta nel capitolo tre, e i risultati sono presentati nel quarto ed ultimo capitolo.

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Capitolo 1

Raggi cosmici

In questo capitolo sono descritte la natura e le caratteristiche pricipali dei raggi cosmici. Con il termine raggi cosmici si intende l’insieme di particelle di natura galattica ed extra-galattica che incide sull’atmosfera terrestre. La distribuzione in energia di tali particelle copre un intervallo di molti ordini di grandezza. La radiazione cosmica che colpisce l’atmosfera terrestre comprende tutte le particelle cariche stabili ed i nuclei con vita media dell’ordine di106anni o maggiore, ma

è dominata da protoni.

1.1

Scoperta

La scoperta dei raggi cosmici è dovuta all’elettroscopio, uno strumento ultilizzato per misurare la carica elettrostatica attraverso due lamine d’oro molto sottili che si separano per repulsione elettrostatica una volta che un oggetto elettricamente carico viene messo a contatto con il dispo-sitivo. Una volta che l’oggetto viene allontanato le due lamine tornano alla posizione di partenza dopo un certo lasso di tempo, scaricandosi. Questo particolare venne notato da Coulomb nel 1785 portandolo a pensare che l’aria tra le due foglioline metalliche non fosse del tutto isolante e che la leggera ionizzazione che possedeva neutralizzasse la carica residua. Con la scoperta della radiottività da parte dei cognugi Curie e di A. H. Becquerel nel 1896 si apprese che alcuni materiali emettevano radiazioni capaci di ionizzare alcuni gas, perciò per un decennio si pensò che la causa della scarica dell’elettroscopio fosse da attribuire alla piccola quantità di materiale radioattivo presentente nella crosta terrestre. Tale ipotesi necessitava però di conferma e si pensò quindi di fare test a differenti altitudini: se fosse stata corretta, si sarebbe dovuta notare una scari-ca dell’apparato più lenta all’aumentare della distanza dalla superficie della Terra. Si notò invece che la radiazione ionizzante aumentava con l’altitudine anzichè diminuire. Nel 1911 il tedesco Victor Hess raggiunse i 5200 metri di quota tramite l’ausilio di una mongolfiera e si giunse alla conclusione che la radiazione proveniva dall’alto e non dalla crosta terrestre. Attraverso studi successivi si è compreso che i raggi cosmici che raggiungono la superficie terrestre sono in realtà particelle secondarie prodotte dall’interazione tra raggio cosmico primario e atmosfera. A partire dai primi del novecento è nata e si è sviluppata la fisica dei raggi cosmici, che costituiscono un

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1.2. NATURA DEI RAGGI COSMICI CAPITOLO 1 laboratorio naturale per lo studio e l’analisi di nuove particelle, approfondito in seguito tramite l’ausilio di acceleratori e grazie allo sviluppo di satelliti.

1.2

Natura dei raggi cosmici

I raggi cosmici primari, come accennato a inizio capitolo, provengono principalmente dall’esterno del sistema solare. La loro distribuzione in energia copre un’intervallo che va da qualche GeV fino a oltre i 100 TeV. I raggi cosmici sono composti da elettroni per 1% e da nuclei per il 99%; il 90% dei nuclei sono protoni mentre la restante parte è composta da nuclei di elio e, solo in piccola frazione, da nuclei più pesanti. In figura 1.2.1 è mostrata la distribuzione in energia cinetica dei nuclei della radiazone primaria come misurato da vari esperimenti su satelliti.

Figura 1.2.1: Flusso dei nuclidi della radiazione primaria espressi in numero di particelle per unità di energia per nucleo, come misurato da esperimenti su satelliti [1].

I raggi cosmici hanno una distribuzione spaziale isotropa nella maggior parte del range energetico.

1.3

Raggi cosmici nell’atmosfera

Come mostrato in figura 1.3.1 le particelle prodotte dall’interazione tra raggi cosmici primari e atmosfera sono principalmente mesoni (π0, π±) e nuclei (X) dai cui decadimenti e successive interazioni vengono prodotti muoni, elettroni, neutrini e nuclei leggeri di bassa energia.

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CAPITOLO 1 1.3. RAGGI COSMICI NELL’ATMOSFERA

Figura 1.3.1: Schema del decadimenti a catena di mesoni carichi e neutri.

In particolare, un raggio cosmico primario con energiaE0> 100TeV interagente con l’atmo-sfera produce uno sciame di particelle che può essere rivelato sulla superficie terrestre: questo fenomeno viene chiamato air shower. Lo sciame si diffonde su una vasta superficie di terreno. In figura 1.3.2 è mostrato un esempio di sciame provocato da un protone di alta energia.

Figura 1.3.2: Decadimento a catena provocato da un protone ad un’altezza di circa 35 km con energiaE = 1015eV.

La diffusione laterale dello sciame è dominata dallo scattering coulombiano degli elettroni di bassa energia e dal momento trasverso acquistato dai muoni per scattering multiplo.

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1.4. RAGGI COSMICI A LIVELLO DEL MARE CAPITOLO 1 Lo studio degli air shower permette, attraverso modelli matematici dello sviluppo dello scia-me, di ricostruire l’energia del raggio cosmico primario. Studiandone lo spettro energetico, si distinguono due zone caratteristiche: una compresa tra1015 e1016eV chiamata knee (ginocchio)

e una attorno a1019 eV chiamata ankle (caviglia), evidenziate in figura 1.3.3.

Figura 1.3.3: Spettro in energia dei raggi cosmici primari ottenuto da differenti studi di air shower [2].

Assumendo che lo spettro dei raggi cosmici sotto i1018eV sia di origine galattica, allora il knee

può significare che la maggior parte degli acceleratori cosmici della galassia abbiano raggiunto la loro massima energia. Per quanto riguarda l’ankle una possibile spiegazione potrebbe essere il fatto che una popolazione di particelle con energia più elevata superi una popolazione con energia minore, come un flusso extragalattico che inizi a prevalere su quello galattico. Un’altra ipotesi potrebbe essere la perdita di energia di protoni extragalattici nella radiazione cosmica di fondo (CMB) a2, 7◦K.

1.4

Raggi cosmici a livello del mare

A livello del mare viene rivelato ciò che rimane di uno sciame o air shower come mostrato in figura 1.4.1:

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CAPITOLO 1 1.4. RAGGI COSMICI A LIVELLO DEL MARE

Figura 1.4.1: Fluso verticale dei raggi cosmici nell’atmosfera conE > 1GeV [1].

Neutrino Il neutrino è una particella elementare appartenente alla famiglia dei leptoni, con carica elettrica nulla, e poiché interagisce debolmente, la probabilità di interazione con la materia è molto bassa e dunque è difficilmente rivelabile.

Pione Il pione è il più leggero dei mesoni, è una particella instabile e può essere sia carico che neutro. I pioni carichiπ+eπhanno massa di140 MeV, vita media di2.6·10−8s e deca-dono per interazione debole principalmente in un muone e nel suo neutrino. I pioni neutri hanno massa di∼135 MeV, vita media di∼8.4 ·10−17 s e decadono elettromagneticamente

in due fotoni in quasi il 99% dei casi.

Muone Il muone è una particella elementare appartenente al gruppo dei leptoni, ha massa di

∼106 MeV (circa 200 volte la massa dell’elettrone), carica pari a quella dell’elettrone, vita

mediaτ di∼2.2 ·10−6 s e decade debolmente in un elettrone, un antineutrino elettronico

e un neutrino muonico. E’ la particella carica più numerosa a livello del mare (figura 1.4.1). Molti muoni sono prodotti in atmosfera ad un’altezza tipica di 15 km e perdono circa 2 GeV a causa delle interazioni con l’atmosfera prima di arrivare a terra. La loro energia e distribuzione angolare a livello del mare sono correlate allo spettro di produzione, all’energia persa nell’atmosfera e al decadimento. L’energia media dei muoni a livello del terreno è di circa 4 GeV. Se <Eµ> a terra è 4 GeV e nel tragitto perde 2 GeV, allora quando

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1.4. RAGGI COSMICI A LIVELLO DEL MARE CAPITOLO 1 quindi la vita media del muone nel sistema di riferimento terrestre è t = τ · γ ≈ 10−4s. A

livello del mare, il <β> è ≈ 0.99 e di conseguenza la velocità v sarà v = βc ≈ 0.99c e lo

spazios percorso dal muone nel sistema di riferimento della terra supera i 30 km. Il flusso

dei muoni con energia maggiore di 1 GeV/c al livello del mare è ≈ 70 m−2 s−1 sr−1: in

pratica una superficie orizzontale di 1 cm2 è attraversata da circa un muone al minuto. La distibuzione angolare segue una funzione del tipo [3]:

f (θ) = A · cos2(θ) (1.4.1)

dove θ è l’angolo formato tra la direzione del muone e la perpendicolare alla superficie terrestre, e A è una costante empirica. Ciò è corretto per muoni con energia compresa tra

3 e 4 GeV mentre per muoni con energia media maggiore la funzione sec(θ) approssima meglio i dati sperimentali. Quandoθ > 70la traiettoria percorsa dai muoni in aria copre uno spazio maggiore, non permettendo a quelli con energia più bassa di giungere al suolo e mantenendo quindi l’energia media a livello del mare più elevata.

Componente elettromagnetica Questa componente a livello del suolo è formata da elettroni, positroni e fotoni derivanti dalla cascata iniziata con il decadimneto di mesoni carici e neutri. Il decadimento muonico è la sorgente principale di elettroni con bassa energia a livello del mare.

Protone e Neutrone Il protone o nucleo di idrogeno è un barione, ha massa di∼1 GeV e carica

positiva. I protoni con energia maggiore di 1 GeV/c al livello del suolo sono reminescenze della radiazione primaria. Un terzo dei nuclei è composto da neutroni. Il neutrone è un barione con massa∼1 GeV, carica neutra e vita media di∼15 min al di fuori del nucleo.

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Capitolo 2

Misure di tempo di volo

In questo capitolo si richiamano alcune applicazioni delle misure di tempo di volo in fisica nucleare e subnucleare e si descrivono le principali sistematiche associate alle misure di tempo.

2.1

Applicazioni

Presso gli acceleratori di particelle, le misure di tempo di volo hanno sempre giocato un ruolo importante per l’identificazione di particelle cariche a lunga vita media. Più recentemente, le caratteristiche di funzionamento dell’acceleratore LHC del laboratorio CERN di Ginevra hanno generato un rinnovato interesse per le misure di tempo, volte in questo caso ad identificare il vertice primario di interazione in collisioni caratterizzate da alto pileup di eventi. L’identificazione della zona di interazione è anche di interesse per la fisica nucleare applicata alla medicina, per esempio per migliorare la capacità diagnostica della Positron Emission Tomography, o PET.

2.1.1 Identificazione di particelle a lunga vita media

In fisica delle particelle, la misura del tempo di volo (Time Of Flight, o TOF) può essere utilizzata per l’identificazione di particelle cariche a lunga vita media la cui traiettoria è tracciata all’interno di una zona in cui è presente un campo magnetico.

In presenza di un campo magneticoBnoto, infatti, la componente dell’impulso perpendicolare

alla direzione del campo magnetico, pT, è misurata dal raggio di curvatura R della traiettoria:

pT = zRB, con z carica elettrica della particella. La componente longitudinale si può ricavare

dall’angolo tra la traiettoria e la direzione del campo B. Noto l’impulso p = γmv = γmβc, conc

velocità della luce, è possibile ricavare la massa della particella da una misura indipendente della sua velocità.

La velocità, o il β, possono essere misurate con tecniche diverse a seconda dell’intervallo di impulsi a cui si è interessati. Ogni tecnica presenta inoltre sistematiche diverse.

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2.1. APPLICAZIONI CAPITOLO 2 Per impulsi tra 100 MeV e qualche GeV i metodi più utilizzati sono la misura della perdita di energia specifica dE/dx descritta dalla formula di Bethe:

d E d x

z2

β2l n(aβγ)

conzcarica della particella eaparametro che dipende dalle proprietà del mezzo attraversato,

e la misura del tempo di voloτ, per cui:

τ ∝ 1 β.

Se il tempo di volo è ottenuto misurando il tempo in due traguardi posti a distanza L, si ha:

τ = t2− t1=

L .

Per distinguere particelle con uguale impulsop, e masse rispettivamente uguali am1em2, occorre essere in grado di apprezzare differenze di tempo di volo di

∆τ = Lc 2p2(m

2 1− m22).

In pratica, per distinguere pioni e kaoni di un GeV misurandone il TOF su una distanza di due metri occorre una risoluzione suτtale da distinguere tempi di volo che differiscono di 800 ps.

Per particelle di impulso maggiore di qualche GeV è necessario utilizzare altri fenomeni, quali la radiazione Cherenkov e la radiazione di transizione.

2.1.2 Identificazione della zona di interazione

Presso il Large Hadron Collider (LHC) i fasci si incontrano (beam crossing) ogni 25 ns, e ad ogni incrocio diverse coppie di protoni interagiscono tra loro. Il numero medio di interazioni pp per bunch crossing è noto come pileup. Nel periodo di funzionamento appena concluso, il pileup tipico all’inizio di ogni periodo di presa dati è stato di 50.

Ogni interazione pp origina un certo numero di particelle secondarie che investono i rivelatori circostanti. In figura 2.1.1, per esempio, è mostrato uno zoom della zona di interazione ricostruita dal tracciatore dell’esperimento ATLAS in corrispondenza di un evento registrato nel 2012 e caratterizzato da un pileup di 25: sono distinguibili 25 vertici di interazione distinti. La zona di interazione si estende su circa 20 cm di lunghezza, quindi particelle ultrarelativistiche originate da vertici vicini raggiungono gli elementi del rivelatore con differenze di tempo dell’ordine di 20 ps.

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CAPITOLO 2 2.1. APPLICAZIONI

Figura 2.1.1: Zoom della zona di interazione ricostruita dal tracciatore dell’esperimento ATLAS in corrispondenza di un evento, caratterizzato da un pileup di 25 vertici.

A partire dal 2026 l’acceleratore LHC sarà in grado di raggiungere valori di pileup dell’ordine di 200. Per mitigare gli effetti del pileup nella ricostruzione degli eventi interessanti, si prevede di aggiungere ai rivelatori un "timing layer", cioè uno strato di rivelatore con capacità di separare i segnali in arrivo con una risoluzione temporale dell’ordine di 20 ps. A tal fine sono in corso diversi progetti di R&D.

La PET è una tecnica di immagine della medicina nucleare utilizzata per localizzare i processi metabolici che potrebbero indicare la presenza di tumori o metastasi tumorali. In neurologia serve a localizzare le zone con maggiore attività cerebrale.

In pratica si introduce nel corpo un tracciante, di solito fluoro-18, tramite una molecola biolo-gicamente attiva. Il tracciante tende a concentrarsi nella zona tumorale, e decade con l’emissione di un positrone che annichila a riposo con uno degli elettroni circostanti, producendo due fotoni. Per conservazione dell’impulso, i fotoni sono prodotti lungo la stessa direzione e in versi opposti. Un sistema PET è quindi volto a localizzare l’origine di due fotoni emessi in coincidenza lungo una stessa linea. Come mostrato in figura 2.1.2, la localizzazione avviene considerando molte linee ad angoli diversi ed analizzando i dati con tecniche iterative. In teoria, con informazioni temporali prive di errore la localizzazione dell’evento potrebbe essere effettuata lungo una sola linea.

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2.2. SISTEMATICHE PRINCIPALI CAPITOLO 2 Comunque, come mostrato in figura 2.1.3, anche una risoluzione temporale finita aiuta nella localizzazione: l’errore sul tempo di volo si traduce in un errore∆x sul punto in cui è avvenuta l’annichilazione, che può essere molto più piccolo dello spessore D del paziente.

Figura 2.1.3: Risoluzione temporale finita sfruttata nella PET.

Il fattore di guadagno nella risoluzione dell’immagine ottenibile da una TOF-PET rispetto a una PET tradizionale è proporzionale aD/∆x [4], dove∆x = c∆τ/2, e può variare da un fattore

1.3, quando si abbiano risoluzioni temporali del ns e spessori di 20 cm, fino a un fattore 7.8 in caso di∆τ = 300ps eD = 35cm.

L’idea di utilizzare misure di TOF nella ricostruzione di immagini di PET, e in particolare in applicazioni oncologiche, risale agli anni 60 [5], e i primi sistemi TOF-PET risalgono agli anni 80 [6]. Questi sistemi, pur soddisfacendo le richieste relative alla frequenza di conteggi, non avevano ne’ la risoluzione spaziale ne’ la sensibilità degli attuali scanner convenzionali, e il loro uso è cessato già negli anni 90.

Il rinnovato interesse nella TOF-PET cui si assiste oggigiorno è dovuto a diversi fattori, quali lo sviluppo di nuovi scintillatori che combinano decadimenti veloci con alta resa di luce e alto potere di arresto per i fotoni, i miglioramenti nelle performance e stabilità dei fotorivelatori (PMT) e dell’elettronica loro associata, e non ultimi i progressi negli algoritmi per la ricostruzione delle immagini.

2.2

Sistematiche principali

Il passaggio di una particella attraverso un rivelatore è tipicamente segnalato da un impulso di tensione o corrente misurata dall’elettronica del rivelatore stesso. Poiché tale impulso ha una du-rata finita, occorre una definizione operativa dell’istante di arrivo della particella. La definizione più semplice corrisponde all’istante di superamento di una certa soglia sull’ampiezza del segnale, tale da separare gli impulsi relativi alla presenza di radiazione dal rumore dell’elettronica. Questa definizione del tempo di arrivo della radiazione soffre di due sistematiche principali.

(18)

CAPITOLO 2 2.2. SISTEMATICHE PRINCIPALI

2.2.1 Jitter

Il jitter è un effetto sistematico dovuto alla presenza del rumore elettronico che si sovrappone sempre al segnale dell’impulso, come mostrato in figura 2.2.1: l’istante in cui la soglia è superata è determinato a meno di un’incertezzaσt i me determinata dall’incertezzaσnoi se.

Figura 2.2.1: Erroreσtimesul tempo causato da un rumore lettricoσnoise[3].

A parità di rumore, il jitter è tanto più rilevante quanto più la salita del segnale è lenta. Questa fonte di incertezza nella misura di tempo è irriducibile e può solo essere minimizzata minimizzando il tempo di salita o prendendo la soglia nel punto di massima pendenza del segnale

2.2.2 Time-Walk

Il Time Walk è un errore sistematico che si presenta nelle misure del tempo di arrivo di segnali di ampiezza diversa. L’effetto è mostrato in figura 2.2.2: quando due segnali sincroni di differente ampiezza sono confrontati con una soglia fissa, il segnale con ampiezza maggiore la supera prima dell’altro.

Figura 2.2.2: Effetto del Time Walk [3].

Questo tipo di errore può essere corretto per mezzo di elettronica opportuna (costant fraction discriminator) o analisi appropriata dell’impulso da discriminare.

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Capitolo 3

Strumentazione di laboratorio

L’obbiettivo di questa tesi è la misura del tempo di volo di muoni cosmici. Tra tutti i dispositivi presenti in laboratorio si sono selezionate tre lastre di scintillatore plastico accoppiate ad altrettan-ti fotomolaltrettan-tiplicatori. In questo capitolo si riassumono brevemente le proprietà degli scinaltrettan-tillatori e dei fotomoltiplicatori. Poiché per analizzare i segnali ottenuti dal passaggio della radiazione den-tro gli scintillatori occorre registrarli in qualche modo, si descrive inoltre il sistema di acquisizione disponibile.

3.1

Scintillatori

I materiali scintillatori possiedono la proprietà detta di luminescenza, cioè se esposti ad una fonte di energia come radiazione, luce, calore, etc., la assorbono e riemettono in parte sotto forma di luce visibile. Se l’emissione luminosa avviene in un intervallo di tempo< 10−8s, che corrisponde

al tempo di una transizione atomica, si parla di fluorescenza; se il tempo è maggiore il fenomeno viene denominato fosforescenza. In prima approssimazione la funzione che esprime l’evoluzione temporale del processo di ri-emissione ha un andamento esponenziale [3]:

N (t ) = N0expµ −t

τd

(3.1.1) doveN è il numero di fotoni emessi al tempot,N0è il numero totale di fotoni eτdè detta costante di decadimento. Poiché in molti materiali il tempo di salita da zero al massimo è molto minore del tempo di decadimento, nella 3.1.1 lo si è posto pari a zero per semplicità. Nella maggior parte degli scintillatori il fenomeno di diseccitazione ha due componenti [3]:

N = A expµ −t τf ¶ + B expµ −t τs ¶ (3.1.2) dove τs e τf sono costanti di decadimento. Una delle due tipicamente è più rapida dell’altra: da ciò f, che sta per fast, e s, che sta per slow. Le loro ampiezze A e B variano da materiale a

materiale, sebbene sia la componente più veloce solitamente a dominare, come mostrato in figura 3.1.1.

(21)

3.1. SCINTILLATORI CAPITOLO 3

Figura 3.1.1: Differenza tra componente veloce (fast) e lenta (slow). La linea continua rappresenta la curva di decadimento totale [3].

Non tutti gli scintillatori sono utilizzabili come rivelatori. In generale un buon rivelatore deve soddisfare le seguenti caratteristiche:

• alta efficienza di conversione tra energia di eccitazione e radiazione di fluorescenza • trasparenza alla radiazione di fluorescenza, in modo da poter permettere la trasmissione

della luce

• emissione in una gamma spettrale utilizzabile da un fotoconvertitore • una costante di decadimentoτpiccola

L’emissione luminosa di uno scintillatore è legata principalmente alla sua efficienza nel convertire l’energia rilasciata per ionizzazione in fotoni. Questa è una qualità estremamente importante poiché determina l’efficienza del rivelatore finale che dipende anche dallo strumento con cui viene accoppiato. Nel caso si utilizzi un fotomoltiplicatore si può raggiungere un’efficienza tipica del 30% [3].

3.1.1 Scintillatori organici

Gli scintillatori organici sono composti di idrocarburi aromatici contenenti strutture di benzene condensato. La caratteristica che li contraddistingue è il brevissimo tempo di decadimento, del-l’ordine del nanonecondo. La luce prodotta dalla scintillazione proviene dalle transizioni degli elettroni di valenza delle molecole, che non sono associati in particolare a nessun atomo e oc-cupano gli orbitali molecolari denominatiπ. In figura 3.1.2 è mostrato un diagramma tipico di energia di tali orbitali, dove si evidenziano gli stati di singoletto dello spin e quelli di tripletto.

(22)

CAPITOLO 3 3.1. SCINTILLATORI

Figura 3.1.2: Diagramma del livello di energia delle molecole di uno scintillatore organico. Gli stati di singolettoSsono separati da

quelli di triplettoT[3].

Lo stato di minor energia è denotato con S0; sopra tale livello si trovano quelli eccitati di singoletto, comeS∗eS∗∗, mentre i livelli di tripletto si trovano tra livelli successivi di singoletto,

conT0livello di energia minima eT, T∗∗, etc stati eccitati. Ciascun livello energetico elettronico presenta una struttura fine dovuta ai diversi moti vibrazionali molecolari. L’energia di separazione dei livelli energetici elettronici è dell’ordine di qualche eV, mentre quella dei livelli vibrazonali è di qualche decimo di eV; la radiazione ionizzante incidente eccita entrambi i livelli. Lo stato di singolettoS∗∗si diseccita immediatamente (≤ 10ps) nello statoS∗, secondo un processo chiamato

degradazione interna, senza emissione di radiazione; la probabilità di decadimento radiativo da uno degli stati vibrazionaliS∗ allo statoS0, che avviene in qualche nanosecondo, è molto elevata. Questo è il normale processo di fluorescenza. Poiché lo statoS∗ decade in uno stato vibrazionale

eccitato diS0, con una emissione di energia minore di quella richiesta per la transizioneS0→ S∗, lo scintillatore risulta trasparente alla propria radiazione. Per gli stati di tripletto avviene un processo simile che porta il sistema al livello energetico di tripletto più basso. Solitamente la diseccitazione degli stati T0 avviene tramite interazione con un’altra molecola nella medesima situazione:

T0+ T0→ S+ S0+ f ot one,

lasciando una delle due molecole nello statoS∗. Il tempo di diseccitazione è in questo caso più

lungo e dà origine alla componente slow della luce emessa.

Tra gli scintillatori organici quelli più comuni sono quelli plastici. Si tratta di soluzioni di scintillatori organici in un solvente plastico solido. Quelli comunemente usati sono il polivinilto-luene, il polifenilbenzene e il polistirene, a cui sono aggiunti solitamente dei soluti come PBD, p-Terphenyl e PBO in concentrazioni dell’ordine di 10 g/l. In figura 3.1.3 sono riportati gli spettri di emissione luminosa di alcuni scintillatori plastici comuni.

(23)

3.1. SCINTILLATORI CAPITOLO 3

Figura 3.1.3: Spettri di luce emessa da alcuni scintillatori plastici in commercio. La luce emessa rientra nelle lunghezze d’onda dello spettro del visibile, in questi esempi luce viola/blu [3].

I materiali plastici offrono un segnale estremamente veloce con una costante di decadimento di qualche ns e con un’elevata potenza luminosa in uscita. Uno dei maggiori vantaggi dei materiali plastici è la loro flessibilità: sono facilmente lavorabili e possono essere adattati alla forma che si desidera. Grazie al loro tempo di risposta, gli scintillatori plastici sono comunemente utilizzati in fisica nucleare come "trigger" per i sistemi di acquisizione, o per misurare tempi di volo.

3.1.2 Scintillatori inorganici

Gli scintillatori inorganici sono pricipalmente cristalli di alogenuri alcalini contenenti delle im-purità. Un esempio di scintillatore inorganico è lo ioduro di sodio drogato tallio NaI(Tl). Altri composti alcalini sono CsF2, CsI(Tl), CsI(Na), KI(Tl) e LiI(Eu). Tra i materiali non alcalini si trovano il Bi4Ge3O12 (o BGO), BaF2, ZnS(Ag), ZnO(Ga), CaWO4e CdWO4. Lo spettro di luce emessa da alcuni di questi cristalli è mostrato in figura 3.1.4. Gli scintillatori inorganici hanno tipicamente un tempo di risposta più lento, di due o tre ordini di grandezza (∼500 ns), rispetto

(24)

CAPITOLO 3 3.1. SCINTILLATORI

Figura 3.1.4: Spettro di emissione luminosa di alcuni cristalli inorganici. La lunghezza d’onda copre gran parte dello spettro del visibile per la luce emessa dei cristalli considerati [3].

Avendo un grande potere frenante dovuto alla notevole densità e all’elevato numero atomico la radiazione incidente può essere completamente assorbita da quantità relativamente piccole di materiale. Rispetto a quelli organici sono tipicamente usati come calorimetri elettromagnetici e per la spettroscopiaγ.

Il meccanismo di scintillazione dei materiali inorganici è descritto dal modello a bande: una particella incidente può ionizzare il cristallo portando un elettrone dalla banda di valenza a quella di conduzione, creando così una lacuna e un elettrone libero, oppure può generare un eccitone promuovendo un elettrone dalla banda di valenza a quella collocata subito sotto la banda di conduzione (figura 3.1.5).

Figura 3.1.5: Struttura a bande di un cristallo inorganico [3].

L’eccitone è una quasi-particella che descrive lo stato eccitato di un solido e consiste in uno stato legato elettrone-lacuna, interagenti mediante forza coulombiana, che può muoversi libera-mente all’interno del cristallo. Le impurità presenti o aggiunte al cristallo danno luogo a livelli elettronici nella zona energetica proibita: una lacuna vagante o un eccitone che incontrano l’im-purità possono ionizzarla. Se successivamente un elettrone giunge in questa zona, può compiere una transizione da stato eccitato a stato fondamentale, emettendo radiazione. Se la transizio-ne avvietransizio-ne senza emissiotransizio-ne di radiziotransizio-ne allora quella zona divietransizio-ne una trappola e l’etransizio-nergia è impiegata in altri processi.

(25)

3.2. FOTOMOLTIPLICATORI CAPITOLO 3

3.2

Fotomoltiplicatori

Il fotomoltiplicatore (PMT) è un dispositivo capace di trasformare la luce visibile in corrente elettrica. Per questa caratteristica è accoppiato spesso agli scintillatori.

Un fotomoltiplicatore è composto tipicamente da un foto-catodo, da un sistema di raccolta degli elettroni estratti per effetto fotoelettrico dal catodo, da una sezione che moltiplica gli elet-troni (catena dinodica) e, infine, da un anodo da cui viene preso il segnale finale. Tutte queste componenti sono messe sotto vuoto all’interno di un vetro (figura 3.2.1).

Figura 3.2.1: Schema di un comune fotomoltiplicatore [3].

Durante l’utilizzo del PMT una differenza di potenziale è applicata tra catodo e anodo, così che si possa generare un potenziale a scalini lungo la struttura catodo-dinodo-anodo. Quando un fotone incidente con sufficiente energia colpisce il fotocatodo, un elettrone viene emesso per effetto fotoelettrico e a causa della differenza di potenziale applicata, l’elettrone è diretto e accelerato verso il primo dinodo, dove trasmette parte dell’energia agli elettroni di quest’ultimo. Ciò causa un’emissione secondaria di elettroni che a loro volta sono accelerati verso il dinodo successivo dove altri elettroni sono emessi e accelerati. Questa catena si conclude con l’anodo, e la corrente così amplificata può essere analizzata.

Un fotomoltiplicatore può operare sia con luce continua che pulsata e, se il sistema dinodi-catodo è lineare, la corrente in uscita dal fotomoltiplicatore sarà direttamente proporzionale al numero di fotoelettroni emessi dal fotocatodo. Il fotocatodo converte quindi la luce incidente in corrente elettrica tramite effetto fotoelettrico ed è tipicamente un sottile strato di materiale fotosensibile depositato all’interno della finestra di vetro o quarzo del PMT.

(26)

CAPITOLO 3 3.2. FOTOMOLTIPLICATORI

3.2.1 Fotocatodo

Dalla formaula di Einstein sappiamo che:

E = hν − φ

dove E è l’energia cinetica dell’elettrone emesso, νè la frequenza della luce incidente e φ è la

funzione di lavoro del materiale fotosensibile. Appare chiaro che ci sia una frequenza minima affinché l’effetto fotoelettrico si verifichi. In realtà l’efficienza della conversione fotoelettrica dipen-de fortemente sia dalla frequenza dipen-della luce incidipen-dente che dal tipo di materiale usato. L’efficienza quanticaη(λ)descrive questa relazione

η(λ) = numer o d i f ot oel et t r oni pr od ot t i numer o d i f ot oni i nci d ent i sul c at od o (λ)

ed è funzione della lunghezza d’ondaλdella luce incidente. In figura 3.2.2 sono mostrati alcuni esempi di spettri di efficienza quantica.

Figura 3.2.2: Spettro di efficienza quantistica di fotorivelatori comunemente usati [7].

3.2.2 Collimatore

Gli elettroni, dopo essere stati emessi dal fotocatodo, devono essere raccolti e collimati verso la prima parte del moltiplicatore di elettroni (catena dinodica). A tale fine si utilizza un sistema di ingresso elettro-ottico. Nella maggior parte dei PMT il compito di collimare gli elettroni è realizzato tramite l’applicazione di un campo elettrico in modo idoneo. Un esempio di tale apparato è fornito in figura 3.2.3 dove viene utilizzata una combinazione di un elettrodo che ha il compito di accelerare gli elettroni (con lo stesso potenziale del primo dinodo) e di altri elettrodi sulle pareti in vetro per direzionarli.

(27)

3.2. FOTOMOLTIPLICATORI CAPITOLO 3

Figura 3.2.3: Tipico electron-optical input system [3].

Per ottimizzare il dispositivo e limitare le fluttuazioni nel tempo di raccolta dei fotoelettroni devono essere soddisfatti due importanti requisiti:

1) Il lavoro di collimazione deve essere il più efficiente possibile, cioè il maggior numero possi-bile di elettroni devono raggiungere la catena dinodica indifferentemente dal loro punto di origine nel catodo;

2) Il tempo impiegato da un elettrone emesso per andare dal catodo al primo dinodo deve essere il più indipendente possibile dal punto di emissione.

Il secondo punto è particolarmente importante per i fotomoltiplicatori utilizzati per le misure di tempo perché ciò contribuisce alla risoluzione temporale del rivelatore.

3.2.3 Catena dinodica

Questa sezione del fotomoltiplicatore amplifica la debole fotocorrente primaria usando una serie di elettrodi o dinodi per generare emissioni secondarie e produrre così una corrente misurabile. Il guadagno di ciascun elettrodo è denominato fattore di emissione secondaria. La teoria che descrive l’emissione secondaria è molto simile a quella che descive l’emissione fotoelettrica sosti-tuendo il fotone incidente con un elettrone. La differenza che c’è tra i due fenomeni sta nel fatto che deve esserci una differenza di potenziale tra i vari dinodi affinché gli elettroni vengano dire-zionati e accelerati lungo la catena dinodica. I materiali utilizzati per i dinodi devono possedere le seguenti caratteristiche:

• un fattore di emissione δ elevato, cioè una media alta di elettroni secondari prodotti per elettrone primario;

• emissione secondaria stabile anche applicando grandi tensioni; • basse emissioni termoioniche, cioè rumore piccolo.

(28)

CAPITOLO 3 3.2. FOTOMOLTIPLICATORI

3.2.4 Guadagno e tensione applicata

Il guadagno finale del fotomoltiplicatore dipende dal numero di dinodi nella catena dinodica, dal loro fattore di emissione secondariaδe dalla tensione applicata tra anodo e catodo. Il fattore di emissione secondario dipende dalla tensioneVd applicata tra dinodo e dinodo, come mostrato nella seguente relazione [3]:

δ = K Vdβ

doveK è una costante di proporzionalità e βè un coefficiente che dipende dal materiale e dalla

geometria del dinodo. Il guadagno è definito come il rapporto tra corrente anodica e corrente dei fotoelettroni. Assumendo che il voltaggio applicato sia equamente diviso tra i dinodi allora il guadagno del fotomoltiplicatore è [3]:

G = δn= (K Vd)n

Per un PMT che contiene dai 10 ai 14 dinodi si può ottenere un guadagno complessivo dell’ordine di107.

3.2.5 Tempo di transito

L’intervallo di tempo che trascorre tra l’arrivo del segnale luminoso al fotocatodo e il corrispon-dente impulso all’anodo è chiamato tempo di transito. Questo intervallo temporale dipende principalmente dal punto di origine degli elettroni nel fotocatodo, dal loro cammino fino al pri-mo dinodo e dalla tensione applicata tra catodo e anodo. Il tempo di transito varia a seconda della tensione applicata Vdd tra anodo e catodo come pVdd1 ed è tipicamente dell’ordine di una decina di nanosecondi.

In caso di luce pulsata, la larghezza dell’impulso di corrente prodotto all’anodo dipende sia dalla durata tr del segnale incidente che dalla risoluzione sul tempo di transito del PMT ta,

secondo la seguente relazione:

tm=

q

ta2+ tr2 (3.2.1)

assumendo che tr eta siano impulsi gaussiani [8].

3.2.6 Dark current

Quando è applicato un voltaggio al fotomoltiplicatore, anche in assenza di luce è possibile misu-rare una corrente all’anodo. Questa corrente è dovuta a emissioni termoioniche, effetti di campo, corrente di dispersione o emissioni radioattive e dipende principalmente dal materiale del ca-todo e dal guadagno della catena dinodica. Nella maggior parte dei casi la dark current nei fotomoltiplicatore è dell’ordine di alcuni nanoampere [8].

(29)

3.3. RIVELATORI E SISTEMA DI ACQUISIZIONE DEL LABORATORIO CAPITOLO 3

3.3

Rivelatori e sistema di acquisizione del laboratorio

Rivelatore: sono state scelte tre mattonelle di scintillatore plastico accoppiate ad altrettanti fo-tomoltiplicatori. Lo scintillatore (figura 3.3.1) è rivestito di materiale riflettente e nastro adesivo nero per garantire che la luce vista dal fotomoltiplicatore sia proveniente solo dal materiale scintillatore stesso. Le dimensioni non possono essere misurate con gran-de precisione a causa gran-del rivestimento esterno, e corrispondono a circa 11 cm×15 cm×1 cm

(larghezza×lunghezza×spessore).

Figura 3.3.1: Scintillatore palstici.

In figura 3.3.2 è mostrato il fotomoltiplicatore Photonis XP2808 con base Photonis VD3A8 che è accoppiato allo scintillatore plastico.

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CAPITOLO 3 3.3. RIVELATORI E SISTEMA DI ACQUISIZIONE DEL LABORATORIO

Crate NIM: il Crate NIM (Nuclear Instrumentation Methods) in figura 3.3.3 è un dispositivo che alimenta i moduli posti nei suoi alloggiamenti; ingressi ed uscite di questi moduli sono dei segnali analogici e/o digitali collegati tramite cavi coassiali lemo. Usando questo standard si evitano vari problemi di trasmissione e riflessione dei segnali alle interfacce tra elementi diversi.

Figura 3.3.3: Crate NIM.

Crate VME: il crate VME (VERSA Module Euro card) in figura 3.3.4 è un dispositivo che, oltre ad alimentare le schede inserite in esso, permette anche di accedere al loro spazio di memoria o, in altre parole, trasferire dati, tramite un bus che si trova sul fondo del crate stesso. Il bus VME ha un’architettura master-slave, è cioè controllato tramite PC (nel nostro caso un SBC, o Single Board Computer).

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3.3. RIVELATORI E SISTEMA DI ACQUISIZIONE DEL LABORATORIO CAPITOLO 3

Discriminatore NIM della CAEN modello 96: mostrata in figura 3.3.5, è una scheda a 8 ca-nali che converte segca-nali analogici in ingresso che superano una certa soglia, aggiustabile entro un intervallo tra 20 mV e 380 mV, in segnali logici.

Figura 3.3.5: Discriminatore NIM della CAEN

modello 96. Figura 3.3.6: VME CAEN 1742.

CAEN 1742: è la scheda VME mostrata in figura 3.3.6. Con 32+2 canali in ingresso suddivisi in 4 gruppi, contiene dei convertitori analogico-digitale (FADC) a 12 bit. Nel nostro setup è utilizzata per il campionamento dei segnali dei PMT. Ha frequenza massima di campiona-mento di 5 Gs/s (Gigasample al secondo), e la possibilità di usare un trigger esterno o un self trigger sui canali in ingresso. Questa opzione non funziona correttamente nella sche-da in nostro possesso. I segnali in ingresso sono campionati entro una finestra temporale comune.

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CAPITOLO 3 3.3. RIVELATORI E SISTEMA DI ACQUISIZIONE DEL LABORATORIO

Alimentatore NIM della CAEN modello N1470: è un alimentatore a 4 canali che, nel nostro setup, fornisce tensione ai tre PMT. Il livello di tensione può essere aggiustato individual-mente per ogni canale (figura 3.3.7).

Figura 3.3.7: Power supply CAEN mod.N1470.

Software di acquisizione: il programma da noi utilizzato per configurare e leggere la memoria del digitizer CAEN V1742 è basato sul software di acquisizione dell’esperimento ATLAS del CERN di Ginevra. E’ eseguito da un SBC che comunica con il digitizer tramite il bus VME. In particolare, il programma è utilizzato per abilitare gli ingressi in cui è presente un segnale, per definire il tipo di trigger (nel nostro caso da segnale esterno), la frequenza di campionamento e la posizione della finestra digitalizzata rispetto al segnale di trigger. Software di analisi: i dati grezzi letti dal digitizer sono in un primo momento trasformati in una

ntupla di ROOT [9]. Successivamente, essi sono analizzati tramite una macro di ROOT che prende in ingresso la ntupla (praticamente, un programma scritto in linguaggio C++).

(33)
(34)

Capitolo 4

Misure e analisi dati

In questo capitolo si descrivono i setup sperimentali utilizzati per la misura del tempo di volo dei muoni cosmici, i tipi di dati raccolti, e la loro analisi.

4.1

Setup e prese dati

Per effettuare le misure del tempo di volo si utilizzano tre lastre di scintillatore plastico accoppiate ad altrettanti fotomoltiplicatori. Le tre lastre sono state poste una sopra all’altra in due differenti configurazioni, mostrate rispettivamente in figura 4.1.1 e 4.1.2.

(35)

4.1. SETUP E PRESE DATI CAPITOLO 4

Figura 4.1.2: Scintillatori in configurazione "distante".

Poiché i muoni della radiazione cosmica vanno principalmente dall’alto verso il basso, ci aspettiamo che le attraversino nello stesso ordine. Le tensioni dei tre fotomoltiplicatori sono regolate in modo da equalizzarne l’ampiezza dei segnali ricevuti dagli scintillatori cui sono ac-coppiati, osservandoli tramite oscilloscopio. Lo scintillatore più in basso è usato come trigger: i suoi segnali sono discriminati dalla scheda NIM della CAEN modello 96, la cui soglia è stata re-golata in modo da ottenere una frequenza di eventi dell’ordine di qualche Hz. Il segnale in uscita dal discriminatore NIM è portato come ingresso al trigger del digitizer V1742. La frequenza di campionamento del digitizer è di 2.5 Gs/s (Giga sample al secondo), ovvero un campionamento ogni 0.4 ns, adeguata per i tempi di salita dei nostri segnali che sono di diversi nanosecondi. I segnali dei due fotomoltiplicatori collegati agli scintillatori in alto, così come una copia del segnale di trigger, sono portati a tre ingressi del V1742 e sono continuamente memorizzati in un buffer circolare; al ricevimento del segnale di trigger inizia la digitalizzazione e il risultato di tale processo è immagazzinato nella memoria della scheda. Il software di acquisizione permette la lettura di tale memoria e la visualizzazione online dei relativi segnali. Gli eventi cui siamo interessati sono le coincidenze triple, cioè il passaggio del muone deve essere rivelato da tutti e tre i rivelatori.

(36)

CAPITOLO 4 4.1. SETUP E PRESE DATI

Un tipico evento di interesse è mostrato in figura 4.1.3, dove si osserva la tipica forma dei segnali in uscita dai due fotomoltiplicatori, e del trigger. La baseline dei segnali è calcolata come valore medio della prima parte del segnale. Sottraendo quest’ultima al massimo si ottiene la distribuzione in ampiezze mostrata in figura 4.1.4, dove si ha un picco attorno ai 200 mV che è anche l’ampiezza tipica dei segnali. Per definire la presenza di un segnale si è scelto di richiedere il superamento di una soglia in ampiezza fissata a 100 mV.

Figura 4.1.3: Esempio di coincidenza tripla che rappresenta un tipico evento di interesse; in blu e rosso la tipica forma dei segnali in uscita dai due fotomoltiplicatori, mentre in verde quella del trigger.

Figura 4.1.4: Distribuzione in ampiezze dei segnali, ottenuta sottraendo la baseline al massimo; si ha un picco attorno ai 200 mV che è l’ampiezza tipica del segnale.

(37)

4.2. CONFRONTO TRA DIVERSI METODI DI MISURA DEL TEMPO DI VOLO CAPITOLO 4 I dati sono acquisiti in tre configurazioni, o periodi di "run", diversi:

Scintillatori vicini: la distanza l tra i due scintillatori in alto è di (3.5±1) cm, e l’acquisizione

dati dura circa 30 minuti, per un totale di circa 3600 eventi.

Scintillatori vicini con delay artificiale: gli scintillatori sono nella configurazione preceden-te ma è stato aggiunto un ritardo artificiale di 7 ns, tramipreceden-te cavo lemo, allo scintillatore centrale.

Primo scintillatore a distanza: lo scintillatore in alto è portato a una distanzal0di (191.5±1) cm

da quello centrale, e il ritardo artificiale è rimosso. In questa configurazione l’acquisizione dati è durata circa due giorni e mezzo. Il numero di coincidenze triple, infatti, è molto inferiore ai casi precedenti a causa della ridotta accettanza angolare del sistema.

4.2

Confronto tra diversi metodi di misura del tempo di volo

Il tempo di volo è misurato come la differenza tra il tempo di arrivo del segnale nello scintillatore centrale, e il tempo di arrivo del segnale in quello in alto.

In generale, il tempo così misurato non è solo dovuto al tempo di volo dei muoni, ma anche ai diversi tempi di risposta dei due rivelatori. Poiché non sappiamo valutare questi tempi di risposta, per fare delle misure di tempo di volo dei muoni sarà necessario confrontare misure diverse, in modo da cancellare la componente indesiderata.

L’istante di arrivo dei segnali in ciascun scintillatore è definito in tre modi diversi:

1. l’istante di superamento di una soglia fissa di 100 mV, ottenuto interpolando i tempi dei campionamenti prima e dopo la soglia;

2. l’istante di superamento di una soglia posta a metà altezza di ciascun impulso. L’impulso, per essere accettato, deve comunque superare i 100 mV in ampiezza;

3. l’istante in cui il segnale, di ampiezza minima di 100 mV, raggiunge il massimo.

I due run con gli scintillatori vicini sono utilizzati per decidere quale di questi tre metodi dia il risultato migliore, e anche per controllare che la misura fornisca il risultato aspettato di 7 ns, senza introdurre sistematiche indesiderate. La distribuzione dei tempi di volo ottenute con i 3 metodi, senza e con ritardo artificiale di 7 ns, sono mostrate rispettivamente in figura 4.2.1 e 4.2.2

(38)

CAPITOLO 4 4.2. CONFRONTO TRA DIVERSI METODI DI MISURA DEL TEMPO DI VOLO

(a) Superamento di una soglia fissa.

(b) Massimo del segnale.

(c) Superamento di una soglia definita evento per evento, corrispondente a metà ampiezza del segnale.

Figura 4.2.1: Distribuzioni dei tempi di volo tra scintillatori in configurazione vicina, ottenute con tre differenti definizioni dell’istante di arrivo della radiazione.

(39)

4.2. CONFRONTO TRA DIVERSI METODI DI MISURA DEL TEMPO DI VOLO CAPITOLO 4

(a) Superamento di una soglia fissa.

(b) Massimo del segnale.

(c) Superamento di una soglia definita evento per evento, corrispondente a metà ampiezza del segnale.

Figura 4.2.2: Distribuzioni dei tempi di volo tra scintillatori in configurazione vicina con ritardo noto di 7ns, ottenute con tre differenti definizioni dell’istante di arrivo della radiazione.

(40)

CAPITOLO 4 4.2. CONFRONTO TRA DIVERSI METODI DI MISURA DEL TEMPO DI VOLO

Le distribuzioni sono in tutti i casi fittate con una curva gaussiana, e i risultati sono riportati in tabella 4.1.

Tabella 4.1: Valori medi dei tempi di volo tra gli scintillatori, con relativi errori, in configurazione vicina, con e senza ritardo di 7ns, e la loro differenza, calcolata per i tre metodi utilizzati.

Metodo senza ritardo (ns) Con ritardo (ns) differenza (ns) Soglia fissa 0.92±0.03 7.89±0.03 6.97±0.06

Metà altezza 0.89±0.02 7.86±0.02 6.97±0.04

Massimo 1.04±0.05 8.01±0.04 6.97±0.09

Con tutti i metodi utilizzati la differenza dei tempi di volo medi, con e senza ritardo, è com-patibile, entro 1 sigma, con il valore noto di 7 ns. Tuttavia, le tre distribuzioni di figura 4.2.1 e 4.2.2 hanno larghezze piuttosto diverse. Esse sono riportate in tabella 4.2.

Tabella 4.2: Sigma delle tre distribuzioni, con errori ottenuti dai fit, in configurazione vicina, con e senza ritardo di 7ns. Metodo senza ritardo (ns) Con ritardo (ns)

Soglia fissa 1.04±0.03 1.07±0.03

Metà altezza 0.694±0.014 0.701±0.014

Massimo 1.88±0.03 1.85±0.03

Queste larghezze corrispondono all’errore che si dovrebbe associare a una singola misura. E’ chiaro che il metodo più preciso è quello in cui si utilizza una soglia a metà ampiezza. Questo metodo, infatti, è quello che minimizza gli effetti del time walk e del jitter descritti nel capitolo 2. Per dimostrarlo, in Figura 4.2.3 le differenze di tempo tra lo scintillatore centrale e quello in alto sono mostrate in funzione della differenza in ampiezza dei segnali considerarti, nel caso di soglia fissa a sinistra e con soglia a metà altezza a destra.

(a) Superamento di una soglia fissa. (b) Superamento di una soglia definita evento per evento, corrispondente a metà ampiezza del segnale.

Figura 4.2.3: Distribuzione delle differenze di tempo in funzione delle differenze in ampiezza tra scintillatori in configurazione vicina, senza ritardo.

La correlazione evidente nella figura a sinistra è eliminata in quella a destra, dove gli effetti sistematici dovuti al time walk sono ridotti al minimo.

(41)

4.3. MISURA DEL TEMPO DI VOLO DEI MUONI CAPITOLO 4 Il metodo in cui si sceglie di misurare il tempo di arrivo del segnale in corrispondenza del suo massimo è quello con risoluzione peggiore. In questo caso la risoluzione è dominata dal jitter, visto che il massimo è il punto di minima pendenza dell’impulso.

4.3

Misura del tempo di volo dei muoni

Il tempo di volo dei muoni è ottenuto dalla differenza tra il tempo di volo medio tra gli scintillatori posti a distanza (configurazione "far"), e quello con gli scintillatori vicini (configurazione "near") già discusso nel paragrafo precedente. In Figura 4.3.1 è mostrata la distribuzione dei tempi di volo in configurazione far, dove i tempi nei due traguardi sono definiti col metodo della soglia a metà ampiezza.

Figura 4.3.1: Distribuzione dei tempi di volo tra scintillatori in configurazione a distanza, ottenuta con la definizione dell’istante di arrivo come superamento di una soglia definita evento per evento, corrispondente a metà ampiezza del segnale.

Il risultato è riportato in tabella 4.3.

Tabella 4.3: Valori medi dei tempi di volo tra gli scintillatori, con relativi errori, in configurazione vicina ed a distanza, e la loro differenza, calcolata per il metodo a metà altezza.

Metodo near (ns) far (ns) differenza (ns) Metà altezza 0.89±0.02 7.15±0.05 6.26±0.07

Al fine di verificare la congruenza tra la misura del tempo di volo appena descritta e l’ipotesi che si tratti di muoni di radiazione cosmica, si può calcolare la velocità media di transitov tra i

due scintillatori che, per quanto illustrato nel capitolo 1, ci aspettiamo sia uguale a 0.99c, con c velocità della luce nel vuoto:

v =∆l

(42)

CAPITOLO 4 4.3. MISURA DEL TEMPO DI VOLO DEI MUONI

dove∆l è la differenza delle distanze tra gli scintillatori in configurazione far e near,

∆l = (191.5 ± 1) cm − (3.5 ± 1) cm = (188 ± 2) cm

e∆t è il tempo di volo calcolato precedentemente. La velocità risulta:

v = (3.00 ± 0.05) · 108m/s

ed è compatibile con c entro l’errore sperimentale, ottenuto sommando in quadratura gli errori

relativi sul tempo di volo e sulla distanza:

δv = v · s µδ∆l ∆l ¶2 + µδ∆t ∆t ¶2 (4.3.1) doveδ∆l eδ∆t sono le incertezze associate a∆l e a∆t.

(43)
(44)

Conclusioni

L’obbiettivo di questa tesi era capire come si effettuano le misure di tempo, considerando il tempo di volo medio dei muoni cosmici, e il risultato ottenuto ha una precisione migliore del 2% .

Le problematiche riguardanti questa tipologia di misure si riscontrano non appena ci si ap-proccia alla strumentazione: conoscere con precisione le caratteristiche dell’intero apparato è fondamentale per la buona riuscita delle misurazioni. Conoscere i range di funzionamento delle varie apparecchiature è importante per comprendere se possano essere utilizzate in combinazio-ne senza causare effetti imprevedibili durante la rivelaziocombinazio-ne e l’acquisiziocombinazio-ne. Il numero di eventi (coincidenze triple) è influenzato dalla disposizione degli scintillatori, che devono essere allineati l’uno sopra l’altro, prestando attenzione che la facce siano parallele tra loro; l’angolazione con cui sono disposti gli scintillatori è inoltre importante per lo stesso motivo. La scelta della fre-quenza di campionamento e della grandezza della finestra di acquisizione azionata dal trigger, è fondamentale per far si che i segnali vengano campionati in maniera corretta, per poter poi essere utilizzati nell’analisi dati. La tensione di alimentazione dei PMT influenza il tempo di transito dei fotoelettroni, così come l’ampiezza dei segnali acquisiti. Dopo aver ottenuto i dati grezzi e averli immagazzinati, è importante la scelta del metodo di analisi che deve possedere la capacità di fornire una buona misura con un’incertezza associata che non sia né sovrastimata, né sottostimata; un campione numeroso di dati permette di capire quali sono gli eventi scartabili grazie all’utilizzo di una buona analisi statistica, e la scelta del metodo di interpolazione migliore permette di ridurre l’incertezza sulla misura.

Nelle misure di tempo, le sistematiche principali sono il jitter e il time walk: mentre il primo è irriducibile e può solo essere minimizzato con un segnale che possiede una grande pendenza, gli effetti del time walk possono esserre corretti attraverso una buona analisi dati, come qui dimostrato.

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(46)

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[8] "Photomultiplier tubes principles & application, Philips Photonics". [9] "https://root.cern.ch/".

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Ringraziamenti

Vorrei ringraziare innanzitutto i miei genitori che hanno permesso tutto ciò: senza loro non avrei potuto fare ciò che mi piace. I miei parenti che, seppur distanti, sono stati presenti. Ringrazio Deborah, ragazza senza eguali, che mi ha supportato e sopportato con profondo amore in questi anni, e la sua famiglia per il grande affetto mostratomi. Ringrazio inoltre tutti i miei amici per la loro presenza preziosa perché, come dice un vecchio detto, gli amici sono la parte di famiglia che uno si sceglie, e posso affermare che ho scelto bene. Ultimi ma non per importanza vorrei ringraziare il Professor Mauro Villa e la Dottoressa Carla Sbarra per avere seguito e vegliato lungo tutto il mio percorso; in particolare la Dottoressa Sbarra che grazie alla sua precisione e tramite le sue continue correzioni, mi ha fatto comprendere quanto impegno ci sia dietro ogni dettaglio.

Figura

Figura 1.3.1: Schema del decadimenti a catena di mesoni carichi e neutri.
Figura 1.3.3: Spettro in energia dei raggi cosmici primari ottenuto da differenti studi di air shower [2].
Figura 1.4.1: Fluso verticale dei raggi cosmici nell’atmosfera con E &gt; 1 GeV [1].
Figura 2.1.2: Tecnica di localizzazione usata dalla PET.
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Riferimenti

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