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La realtà dell'infinitamente improbabile. Hannah Arendt nella "gabbia aperta" di Kafka

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Academic year: 2021

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INDICE

Introduzione 2

I) L’etica politica di Hannah Arendt: l’azione e l’agire politico 6

1. Che cos’è la libertà? 6

2. L’azione come manifestazione dell’umanità 13

3. Lo spazio politico 21

II) Responsabilità e giudizio 26

1. Frammenti di una teoria del giudizio 26

2. La responsabilità del giudizio e le sue implicazioni 33

III) La ricerca di Hannah Arendt nel mondo (ir-)reale di Kafka 41

1. L’ebreo come paria 41

2. Kafka il costruttore di modelli 54

3. Hannah Arendt lettrice di Kafka: Eichmann come Josef K.? 63

Conclusioni 76

Bibliografia 80

1. Letteratura primaria 80

2. Letteratura secondaria 84

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Introduzione

Il punto di riferimento dell’intera opera di Hannah Arendt, il pilastro che sorregge tutte le sue riflessioni è sicuramente quel concetto che potremmo chiamare “esistenza autentica”. Essa si manifesta, per la filosofa, attraverso l’azione, la facoltà più elevata dell’uomo, che lo rende capace di compiere l’infinitamente improbabile, di dare inizio a qualcosa di nuovo e non prevedibile, di creare, dunque, lo spazio della libertà. In altre parole, la vera realtà umana è quella che si contrappone alla necessità, propria della sfera privata e meramente biologica, o meglio, all’apparenza della necessità, la quale è portatrice di uniformità e, dunque, distruttrice di quella pluralità che permette agli uomini di essere tali.

La metafora della “gabbia aperta” che ho utilizzato nel titolo, invece, ha lo scopo di mettere in luce due aspetti diversi. Innanzitutto il mondo paradossale kafkiano, il quale può essere pensato come una vera e propria gabbia, nella quale i personaggi si trovano ad essere dietro alle sbarre, reclusi in un mondo assurdo, spesso come degli animali. Nonostante tale “prigione” lasci, qualche volta, intravvedere una via di uscita, tali figure sono costrette a rimanerci dentro. Questo è il caso, come vedremo nell’ultimo capitolo, di Josef K., il protagonista de Il processo. La situazione dell’individuo che si trova sulla soglia tra “dentro” e “fuori” rispecchia anche quella di Kafka stesso come paria cosciente della propria condizione.

La seconda immagine che ho tentato di evocare con l’espressione di “gabbia aperta” riguarda, invece, la personale lettura arendtiana dell’opera di Kafka. Pur rendendosi conto della decostruzione del mondo, visto come una vera e propria prigione, operata dallo scrittore praghese dall’interno, la Arendt pensa che, in ogni caso, vi sia una via di salvezza e tale apertura è, per la filosofa, rappresentata dalla capacità di pensiero.

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3 Prima di concentrare l’attenzione sulla figura della Arendt come lettrice di Kafka è stato, però, necessario ricostruire un impianto teorico di alcuni fondamentali concetti arendtiani.

Il primo capitolo è dedicato all’etica politica delineata dalla Arendt, in modo particolare alla sua teorizzazione, in Vita Activa, ma anche in opere successive come Tra passato e futuro e La vita della mente, dei concetti di libertà, azione e “spazio pubblico”.

Con forza Hannah Arendt sostiene che la vera libertà non rientra affatto nella dimensione della volontà, ma, trascendendola, risulta sempre un attributo dell’essere. Una tale libertà non appartiene né all’individuo in quanto “singolo”, né tanto meno alla collettività, bensì essa è la manifestazione della partecipazione degli uomini alla pluralità, ovvero alla vita pubblica. Quest’ultima è la promotrice della facoltà più alta dell’umanità, che caratterizza l’individuo come “uomo”: la capacità di agire.

In particolare, l’azione autentica coincide con l’inizio di qualcosa di nuovo, in quanto è ciò che prima non era dato, rappresentando, dunque, una realtà assolutamente imprevedibile e inattesa. Risulta chiaro, quindi, che libertà e azione sono innestate l’una nell’altra grazie all’uomo, il quale, per essere tale, deve agire e fondare proprio quella libertà che coinciderà con lui stesso. La sezione dedicata all’azione fornirà non solo un’analisi del suddetto rapporto, ma prenderà anche in considerazione gli aspetti problematici che un agire così inteso porta con sé. L’attenzione, infine, si sposterà sul campo di esistenza di questa azione libera, ovvero sullo “spazio politico”, il quale rappresenta l’unica condizione di possibilità umana dell’essere-insieme.

Nel successivo capitolo, dedicato ai temi della responsabilità e del giudizio, saranno messe al vaglio le attitudini più “politiche” dell’uomo, quelle che non si basano e non si possono fondare su regole o principi guida generali.

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4 Attraverso i concetti di isolamento, solitudine e di “essere con gli altri”, la Arendt identifica il soggetto giudicante con la figura dello spettatore attivo che, in virtù di questa sua posizione di non- attore, è in grado di accogliere in sé, oltre alla propria, anche la prospettiva degli altri, attraverso la sua facoltà di rappresentazione.

Alla questione del giudizio è legata, poi, quella della responsabilità, la quale non è legata in alcun modo ad una qualche giustificazione, ma è intesa come quel farsi carico del giudizio stesso. Come quest’ultimo, tale responsabilità, non può esistere finché ci si affida a norme e criteri prestabiliti, ma si manifesta solamente quando l’uomo si confronta con il vuoto arendtiano dell’ “abisso della libertà”.

In Hannah Arendt nel mondo (ir-)reale di Kafka giungeremo all’attuazione concreta dei concetti etici e teorici dei due capitoli precedenti. Confrontandosi con la figura emblematica di Kafka come “paria consapevole”, la Arendt vede, infatti, concretizzarsi quei processi di assimilazione ed esclusione con cui dovette fare i conti il popolo ebraico. La filosofa, in particolare, identifica l’esistenza dei “senza-patria”, coscienti della loro condizione, con la vita autenticamente umana: questi individui, contrapponendosi alla figura del parvenu, ovvero a colui che, sopraffatto dal bisogno di sicurezza, ha scelto la strada della pura assimilazione, riescono a tenere aperta la possibilità dell’azione e, con essa, quella della libertà.

Come vedremo, l’analisi arendtiana del frammento kafkiano Egli la porterà a istituire, tanto il breve racconto, quanto Kafka stesso, a modello della condizione di tale “paria consapevole”.

A quest’ultimo aspetto si legherà, nella seconda sezione, lo studio di Kafka come vero e proprio “costruttore di modelli”: ogni aspetto dell’universo, infatti, dai luoghi ai personaggi, senza esclusione dell’autore stesso, risulta essere un gradino che ci avvicina alla comprensione della realtà.

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5 Nell’ultima sezione, infine, proporrò un tentativo di accostamento tra la figura di Adolf Eichmann, il criminale nazista processato a Gerusalemme nel 1961, evento che segnerà profondamente tutta la riflessione arendtiana successiva, e quella di Josef K., uno dei protagonisti kafkiani più ambigui e metaforici.

In questa sede introduttiva non voglio anticipare gli aspetti particolari di questo studio, ma ci tengo a sottolineare come la mancanza di quella capacità chiamiamo “pensare”, difetto che caratterizza entrambe le personalità prese in esame, annulli paradossalmente una distinzione sempre scontata: quella tra le vittime e i carnefici.

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CAPITOLO I

L’etica politica di Hannah Arendt: l’azione e l’agire politico

1. Che cos’è la libertà?

Al fine di comprendere che cosa sia la libertà per Hannah Arendt, tema che permea l’intera opera della filosofa, è necessario individuare, preliminarmente, che cosa essa non sia.

Innanzitutto, la libertà che sta alla base di qualsiasi analisi o questione politica è l’esatto contrario di quella “libertà interiore” che costituisce lo spazio intimo dove ogni uomo può eludere la coercizione esterna, spazio inaccessibile da chiunque altro e nel quale egli si rifugia. Nonostante la netta differenza tra questa libertà e la prima, un legame esiste tra esse, in quanto «l’uomo non potrebbe conoscere la libertà interiore se non avesse prima sperimentato l’essere libero come una realtà concreta della vita del mondo. Acquistiamo per la prima volta coscienza della libertà o del suo contrario nel nostro rapporto con gli altri, non nel rapporto con noi stessi»1.

Libertà interiore, dunque, che certo esiste e sussiste nel cuore degli uomini, ma sotto forma di desiderio, di volontà o speranza, entità non qualificabili e difficilmente dimostrabili, sottili e labili. Le esperienze di libertà interiore, dunque, presuppongono sempre una fuga dal mondo, che inevitabilmente ha conseguenze distruttive per la libertà politica. La più importante ripercussione a cui questo fuggire porta è la distinzione della libertà, che andrà a coincidere, in questo modo, con il libero arbitrio, dalla politica. Una volta diventata libero arbitrio, la libertà, da qualità inerente al potere

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7 (Io-posso), si trasmuta in attributo della volontà (Io-voglio). Tutt’ altra cosa è, invece, la libertà che non si nasconde, che appare in pubblico come fatto dimostrabile e che, contemporaneamente, coincide e si relaziona reciprocamente con la politica.

Nello sviluppo delle sue idee circa la libertà politica, poi, Hannah Arendt ha messo particolare attenzione nel distinguerla sia dal libero arbitrio, come abbiamo in parte accennato, che dalla sovranità. A differenza del libero arbitrio, che concerne la dimensione della volontà, la libertà trascende tale dimensione e non si identifica mai con un mero possesso, ma è sempre un attributo dell’essere. La libertà, dunque, viene sempre prima e sta più a fondo sia rispetto alla scelta tra questo e quello, sia rispetto a quella volontà che controlla inclinazioni e passioni: rispetto a moventi o fini particolari, la libertà si identifica con la capacità di trascenderli.

Nel suo rapporto con la politica, dunque, la libertà non è un fenomeno della volontà. Come abbiamo detto non si tratta, dunque, di una libertà di scegliere arbitrariamente tra due cose date, ma è «la libertà di chiamare all’esistenza una cosa che prima non esisteva, non era data, neppure come oggetto della facoltà conoscitiva o immaginativa»2. L’azione libera è quella che è in grado di trascendere quei moventi e

quei fini che sono i fattori determinanti di ogni singolo atto, è l’azione che, seppur ha bisogno della guida dell’intelletto e dei dettami della volontà, non è sottoposta né all’uno, né all’altra, ma è ispirata da qualcosa di esterno, ovvero da ciò che Hannah Arendt chiama “principio”. A differenza del giudizio dell’intelletto, che precede l’azione, e del comando della volontà che la inizia, il principio ispiratore si manifesta appieno solo nell’atto realizzatore3, ovvero attraverso l’azione, e rimane manifesto al

mondo solamente finché dura l’azione. Ma qual è o quali sono questi “principi”?

2 Ibi, p. 203. 3 Ibi, p.204.

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8 Hannah Arendt li identifica nell’onore, nella gloria, nell’amore dell’uguaglianza, ma anche nella paura e nell’odio. L’uomo è, dunque, libero solamente nel momento in cui agisce: essere liberi e agire sono la stessa cosa4.

Con insistenza Hannah Arendt vuole farci volgere l’attenzione anche a un altro aspetto: libertà e liberazione sono due concetti nettamente distinti, in quanto se, al contrario, essi si identificassero, ciò implicherebbe definire la libertà come negativa, ovvero come liberà da qualcosa. La libertà, poi, non è nemmeno il risultato immediato della liberazione, in quanto la fine di qualcosa di vecchio non è necessariamente l’inizio del nuovo. Questa importante distinzione è evidente, come vedremo nella prima parte dell’ultimo capitolo, nell’esperienza personale di Franz Kafka e, come lui, di tutti quei “senza-patria” consapevoli che, proprio in quanto coscienti della loro condizione, si impongono al mondo come emblemi della vera libertà.

Nel saggio Sulla rivoluzione, pubblicato per la prima volta nel 1963, e nella sua forma definitiva nel 1965, Hannah Arendt tenta di recuperare il corretto significato della nozione di “rivoluzione”, mettendola in relazione con i concetti di libertà e potere. Attraverso questo tentativo di ridefinizione concettuale, la filosofa ci offre, nel contempo, un illuminante chiarimento del concetto di libertà, la quale si esemplifica proprio in quello di rivoluzione. Nelle prime pagine del libro si legge: «liberazione e libertà non sono la stessa cosa; la liberazione può essere una condizione della libertà, ma è assolutamente da escludere che vi conduca automaticamente; il concetto di libertà implicito nella liberazione può essere solo negativo, e quindi l’intenzione di liberare non si identifica con il concetto di libertà»5. La libertà attiene alla rivoluzione sia perché l’evento rivoluzionario non è necessario, non è determinato da forze storiche, sia perché

4 Ibi, p. 205.

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9 esso si riempie della libertà, intesa, però, non come liberazione dal bisogno, ma come capacità plurale di dare vita e di partecipare ad un nuovo assetto politico. La facile identificazione tra libertà e liberazione rappresenta, in realtà, un escamotage per non prendere sul serio ciò che Hannah Arendt chiama “l’abisso della libertà”6, o della pura

spontaneità, ovvero quell’ illusione che la libertà possa realizzarsi una volta per tutte. La “vera” libertà, tuttavia, non coincide nella Arendt con l’autodeterminazione collettiva, significato che comunemente si attribuisce alla nozione di libertà positiva, in quanto essa non può e non deve essere identificata con un atto della volontà, con un’autodeterminazione appunto. Tale libertà non appartiene né a un singolo individuo né ad un soggetto collettivo, ma è ciò che si manifesta quando gli uomini partecipano insieme alla vita pubblica, ovvero è ciò che appare solo e soltanto nella pluralità. Le rivoluzioni non sono fatte né decise da nessuno, ma irrompono spontaneamente e si decidono da sé, sulla base di avvenimenti specifici, ai quali gli uomini partecipano, dunque, non come autori, ma come attori. Le rivoluzioni sono, di fatto, gli avvenimenti per eccellenza, «sono quelle cose che capitano e interrompono i processi e le procedure di routine»7, al di là dei progetti e delle intenzioni degli attori. Se, da un lato, essi

rappresentano quegli atti di inizio che interrompono la catena causale degli eventi, dall’altro, la loro assoluta novità, incarnata dai protagonisti delle rivoluzioni, emerge solo dopo che tali attori sono giunti, in gran parte contro la loro volontà8, ad un punto in

cui non si può più tornare indietro.

In La vita della mente, riprendendo una differenza di cui parlò per primo Montesquieu (Esprit des Lois, Libro XII, cap 2), Hannah Arendt distingue nettamente la libertà che chiama politica da quella, invece, definita filosofica. Se la seconda consiste

6 H. Arendt, La vita della mente, Il Mulino, Bologna, 2009, p. 522.

7 H. Arendt, Sulla violenza, S. D’amico (a cura di), Guanda, Parma, 2008, p. 10. 8 Cfr. H. Arendt, Sulla rivoluzione, cit., p.40.

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10 nell’esercizio della volontà, la quale, appunto per questo, è applicabile solo a persone isolate, ovvero a coloro che vivono fuori dalle comunità politiche, la libertà politica, invece, si identifica con la sicurezza individuale del cittadino di possedere tale libertà, la quale, inevitabilmente, «è possibile solo nella sfera della pluralità umana»9. Libertà politica, dunque, è un attributo posso, in contrasto con quella filosofica dell’Io-voglio.

La libertà, dunque, non è né un santuario interiore nel quale ogni individuo può fuggire per essere indipendente da ciò che accade nel mondo degli affari umani, né può essere identificata con la liberazione dalla necessità. Dunque, che cos’è la libertà?

«[...] La libertà è la vera ragione per cui gli uomini vivono insieme in un’organizzazione politica, l’elemento senza il quale la stessa vita politica sarebbe priva di significato. La politica trova nella libertà la sua ragion d’essere, e nell’azione il suo ambito sperimentale»10.

Secondo Hannah Arendt l’uomo è stato creato per far sì che avesse inizio qualcosa e, più precisamente, possiamo dire che con l’uomo è entrato nel mondo l’inizio stesso. Libertà, dunque, significa concretizzazione dell’infinita capacità umana di dar vita all’inaspettato e, di conseguenza, sebbene sia quel sine qua non della vita umana, essa è piena realizzazione non tanto di quest’ultima, ma della condizione umana, la quale, a sua volta, rappresenta il presupposto necessario della libertà stessa.

In Agostino la Arendt trova esposto, per la prima volta in maniera chiara e sistematica, quel concetto di libertà che sarà decisivo per la sua personale speculazione. In particolare, la filosofa attribuisce ad Agostino il merito di aver legato la questione della libertà con quella dell’origine e, quindi, della natalità, distinguendo, non solo

9 H. Arendt, La vita della mente, cit., p. 528. 10 H. Arendt, Tra passato e futuro, cit., p. 196.

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11 semanticamente, ma anche ontologicamente, due significati diversi del termine: principium e initium. Hannah Arendt, riprendendo questa differenziazione propone una rottura tra la nozione di origine come inizio e di origine come principio.

L’inizio pensato dalla Arendt è un evento il cui effetto è maggiore della causa che lo ha prodotto e proprio questo rappresenta il paradosso della libertà stessa: «il vero significato di ogni evento trascende sempre ogni numero di cause passate che gli si possono assegnare [...], ma lo stesso passato viene ad esistere solo insieme all’evento. Solo quando è accaduto qualcosa di irrevocabile possiamo tentare di tracciarne la storia: l’evento illumina il suo passato ma non può mai essere dedotto da esso»11. L’inizio,

dunque, trascende sempre la storia cui dà luogo, ma non solo verso il passato, bensì anche verso il futuro: gli effetti della libertà, infatti, non sono suscettibili di previsione. Questo è ciò che la Arendt intende con “abisso della libertà”: in opposizione alla necessità, propria della sfera privata e biologica dell’esistenza, la libertà costituisce la differenza antropologica che fa dell’uomo un essere umano, ed è questo il motivo per il quale essa è essenzialmente libertà politica. In quanto inizio assoluto, infatti, la libertà non è spiegabile sulla base del rapporto causa- effetto, potenza- atto, motivazione-scopo: «un atto si può dire libero solo se non è coinvolto o causato da qualcosa che lo precede»12. L’abisso della libertà è dato dal fatto che il suo effetto non è mai perfettamente deducibile da essa.

Come sottolinea Roberto Giusti, sono due le condizioni essenziali della libertà individuate da Hannah Arendt: la prima, come condizione negativa, è la liberazione dalla schiavitù del lavoro e della necessità biologica; la condizione positiva, invece, è la

11 H. Arendt, Comprensione e politica (le difficoltà del comprendere), in Archivio Arendt 2, S. Forti (a

cura di), Feltrinelli, Milano, 2003, p. 105.

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12 creazione di uno spazio comune d’azione13. La libertà, dunque, è azione, dove

quest’ultima è da intendersi come agire in comune, in quanto senza uno spazio pubblico nel quale l’azione possa manifestarsi agli altri, essa neppure esisterebbe. Il paradigma antropologico a cui la Arendt fa riferimento è, dunque, quello pluralistico della comunità delle singolarità, dimensione nella quale libertà e potere si corrispondono, come due facce della stessa medaglia.

Possiamo concludere questa analisi del concetto arendtiano di libertà citando un passo di Tra passato e futuro, nel quale l’autrice vede nel coraggio della libertà sia lo strumento essenziale per affrontare la contingenza e l’imprevedibilità del mondo, che la possibilità per l’uomo di manifestarsi agli altri nelle propria singolarità: « Il coraggio che tutt’ora riteniamo indispensabile all’azione politica e che Churchill definì “la prima qualità umana, perché è la garanzia di tutte le altre”, non gratifica il nostro istinto vitale di singoli ma ci viene richiesto dalla natura stessa dell’attività pubblica. Infatti il nostro mondo, preesistente a noi e destinato a sopravvivere alla vita che trascorriamo, non può permettersi di curare in via primaria le vite dei singoli e gli interessi di queste; in quanto tale, l’ambito pubblico non può non trovarsi nel più netto contrasto con la nostra vita privata, protetta dalla famiglia e dalla casa, dove tutto serve e deve servire alla sicurezza della sopravvivenza. [...] Il coraggio libera gli uomini dalla preoccupazione per la propria vita in ordine alla libertà del mondo. Il coraggio è indispensabile perché in politica la posta in gioco è il mondo, non la sopravvivenza»14.

13 R. Giusti, Atropologia della libertà. La comunità della singolarità in Hannah Arendt, Cittadella editrice, Assisi, 1999, pp. 137-138.

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2. L’azione come manifestazione dell’umanità

I verbi “fare” e “agire”, per quanto alludano entrambi all’attività, non sono affatto sinonimi: il primo, infatti, identifica un’attività tesa alla produzione, alla fabbricazione materiale di qualcosa, il secondo, invece, sottintende quell’attività genuinamente umana, di carattere morale (o politico), che ha il proprio fine non in qualcosa fuori dell’uomo, ma nell’uomo stesso. L’attività espressa dal “fare” è, dunque, totalmente indipendente da quella dell’“agire”? Certamente no. La dimensione della produzione, per non ridursi ad attività fine a se stessa, infatti, non può o non dovrebbe essere slegata dalla finalità umana e, dunque, come vedremo, dall’azione.

Hannah Arendt affida alla sua opera Vita Activa (1958) il tentativo di definire l’identità umana, fondando la sua indagine su un’analisi delle condizioni di esistenza dell’uomo e delle attività che sono ad essa strettamente legate, trovando, infine, nell’agire la condizione umana propriamente detta, nella quale la vita dell’uomo si esplica nella sua più alta e connaturata dimensione. Se è attraverso il lavoro che l’uomo provvede alla sua sussistenza, e se è attraverso l’opera che egli crea quel mondo artificiale di manufatti che compensano le carenze biologiche e facilitano la sopravvivenza, è, però, solamente con l’azione, e in particolare con l’azione politica, che egli entra in rapporto con gli altri e comunica con loro.

Prima di concentrare la nostra attenzione sul tema dell’azione, però, è necessario analizzare brevemente gli altri due aspetti che caratterizzano ciò che Hannah Arendt definisce come vita activa: lavoro e opera.

Ogni essere umano come animal laborans, ai fini della propria sopravvivenza, lavora con il suo corpo, in un’attività a lui connessa in quanto essere biologico e, in quanto tale, in stretta simbiosi con la natura. Il lavoro, dunque, si svolge solamente all’interno

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14 dei processi naturali, dato che ha come unico scopo il soddisfacimento di quei bisogni primitivi della vita e non lascia alcuna traccia di sé, in quanto il risultato che da esso deriva si dissolve immediatamente nel suo consumo. In questa prospettiva, il lavoro si identifica con la condizione del possesso della vita.

L’opera delle nostre mani, invece, fabbrica il mondo artificiale nel quale viviamo; non si tratta, come nel caso dei prodotti del lavoro, di beni di consumo, ma di manufatti d’uso, che compensano le carenze umane in materia di sicurezza e stabilità. Mentre il lavoro è svolto da un animal laborans, in una natura sempre uguale, l’opera è attuata dall’homo faber in un mondo artificiale relativamente stabile. La civiltà deriverebbe quindi dall’umana capacità di operare e di fabbricare strumenti, attraverso i quali l’uomo può ergersi a «signore e padrone di tutta la terra»15. L’opera, dunque,

rappresenta la condizione esistenziale dell’essere-nel-mondo.

Giungiamo, dunque, all’attività con la quale, secondo la Arendt, gli uomini entrano in rapporto diretto tra loro senza la mediazione di cose naturali o artificiali: l’azione. In essa l’uomo si rivela, e la manifestazione di essa è promossa e può essere promossa solamente dalla pluralità, ovvero dal fatto che sulla Terra ci siano gli uomini e non l’uomo.

Nel suo senso più generale, “agire” significa prendere un’iniziativa, cominciare, mettere in movimento qualcosa, e questo inizio «non è come l’inizio del mondo, non è l’inizio di qualcosa ma di qualcuno, che è a sua volta un iniziatore. [...] Il nuovo si verifica sempre contro la tendenza prevalente delle leggi statistiche e delle loro probabilità, che a tutti gli effetti pratici, quotidiani, corrisponde alla certezza; il nuovo quindi appare sempre alla stregua di un miracolo»16.

15 H. Arendt, Vita Activa, Bompiani, Milano, 1964, p. 108. 16 Ibi, p. 137.

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15 Ciò significa che l’uomo, in quanto capace d’azione, è in grado di compiere ciò che è infinitamente improbabile, ciò che è assolutamente inatteso. Questa capacità umana di dare origine a qualcosa di nuovo è possibile in virtù dell’origine, della nascita dell’uomo stesso: gli uomini sono liberi in ragione dell’essere nati. In altre parole, l’uomo, venendo al mondo, si costituisce come un nuovo inizio, recando in sé la capacità di agire. Anche nelle ultime battute de La vita della mente, ultimo libro della filosofa, Hannah Arendt torna sul tema della natalità, affermando ancora una volta che la capacità stessa di cominciamento di cui gli uomini sono dotati «ha le sue radici nella natalità e non certo nella creatività, non in una dote o in un dono, ma nel fatto che gli esseri umani, uomini nuovi, sempre e sempre di nuovo appaiono nel mondo in virtù della nascita»17.

In Tra passato e futuro, la Arendt ritorna sul tema della prodigiosità dell’azione sostenendo che «se invece del soggetto agente, consideriamo il processo nel quale l’atto si verifica, spezzandone l’automatismo, ogni atto diventa un miracolo, ovvero una cosa imprevedibile»18. Una volta che l’azione è avviata, infatti, il suo carattere contingente innesca un vero e proprio processo a catena che genera e determina le successive azioni, e che si caratterizza per l’irreversibilità e l’imprevedibilità dell’effetto futuro, in quanto ciò che avverrà ancora non ci appartiene: « non si tratta solo dell’incapacità di prevedere tutte le conseguenza logiche di un atto particolare [...], la difficoltà deriva direttamente dalla storia che, come risultato dell’azione, inizia e procede non appena sia passato il fugace momento dell’atto [...]. Il suo pieno significato può apparire solo quando si conclude»19. Ma non è forse questa imprevedibilità dell’azione che la connette strettamente alla dimensione della libertà?

17 H. Arendt, La vita della mente, cit., p. 546. 18 H. Arendt, Tra passato e futuro, cit., p. 225. 19 H. Arendt, Vita activa, cit., p.148.

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16 L’uomo in quanto tale possiede la libertà di scegliere di non scegliere il già dato e di dare vita, potenzialmente, a qualcosa di nuovo e inaspettato: un evento questo che, appunto, ha gli stessi caratteri del “miracolo”. La libertà così intesa, come capacità di agire e dare inizio (archein), rappresenta senza dubbio la più alta facoltà posseduta dall’uomo. Essa, dunque, non è più o non è solo autodeterminazione, ovvero assenza di limitazioni e condizioni, o possibilità, ma diventa un dovere, il paradosso ossimorico del dovere della libertà: l’uomo per essere uomo, deve agire, dare inizio, fondare la libertà, facendo in modo che essa coincida con lui stesso. Questo desiderio di libertà caratterizzerà, come vedremo nel terzo capitolo, la figura del paria e, in particolare, la sua ricerca di quell’inclusione nella collettività che non coincide con l’assimilazione. Come abbiamo messo in evidenza solo l’azione, dunque, è portatrice di quella novità che si oppone e distrugge la ripetitività senza senso del trascorrere del tempo. Ma l’azione assume rilievo, per la Arendt, soprattutto per un altro aspetto, che coincide con la sua capacità di contrastare l’apparente mancanza di significato della vita umana stessa: « il corso della vita umana diretto verso la morte condurrebbe inevitabilmente ogni realtà umana alla rovina e alla distruzione se non fosse per la facoltà di interromperlo e di iniziare qualcosa di nuovo, una facoltà che è inerente all’azione come un permanente invito a ricordare che gli uomini, anche se devono morire, non sono nati per morire, ma per incominciare»20.

Sembra, quindi, che l’azione abbia il potere di riscattare l’uomo dal suo “essere naturale”, in quanto solo svincolato dalla necessità della natura egli è pensabile come libero. Nell’ordine necessario della natura, infatti, quell’imprevedibilità assoluta quale è la libertà non può e non riesce a trovare espressione. La possibilità di iniziare qualcosa

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17 di nuovo attraverso l’azione rappresenta, dunque, per la Arendt la possibilità umana di trascendere la naturalità e, proprio per questo, «essere liberi e agire sono la stessa cosa»21. Quest’ultima tesi può essere spiegata da una prospettiva diversa, affermando che «nella misura in cui è libera, l’azione non è sottoposta alla guida dell’intelletto né ai dettami della volontà»22, in quanto, se ciò non fosse, essa sarebbe inserita nella logica del rapporto mezzi-fini e, con ciò, ridotta a mero strumento per il raggiungimento di un determinato scopo, dimensione nella quale la sua libertà e la sua autonomia sarebbero inevitabilmente compromesse.

Il prezzo che l’uomo deve pagare per essere libero è, dunque, non sapere cosa sta facendo: quando è a conoscenza delle conseguenze delle sue azioni, l’uomo non sta agendo, ma sta costruendo, fabbricando, in quanto il fine della sua attività, in questo caso, non risiede nell’azione stessa e, dunque, la sua esperienza di libertà è un’illusione. Il significato specifico di ogni azione, dunque, non risiede nella sua motivazione o nella sua realizzazione, ma soltanto nel suo svolgimento; in altre parole, l’uomo non agisce in vista dell’utile, ma esclusivamente «per amore del mondo», per la realizzazione della virtù. Quest’ultima non deve essere intesa secondo criteri o categorie etiche, ma come quell’ «eccellenza con cui l’uomo corrisponde alle opportunità spiegate dinnanzi a lui dal mondo della cosiddetta fortuna, [...] la cui arte si esprime nell’esecuzione stessa, senza concentrarsi in un prodotto finale».23 Secondo Simona Forti, la Arendt sta qui

suggerendo che solo nelle grandi azioni l’uomo trova la possibilità di riscattarsi dalla necessità della vita biologica, dai determinismi della psiche o da quelli della storia, solo

21 H. Arendt, Tra passato e futuro, cit., p. 205. 22 Ibidem.

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18 all’interno di un agire così inteso egli ha la possibilità di ricevere in cambio la propria identità24.

Ora, però, dobbiamo soffermarci su quegli effetti problematici che il carattere innovativo e libero dell’agire porta con sé. Come abbiamo visto, l’azione, così come concepita dalla Arendt, implica infatti la sua totale imprevedibilità, nonché la sua irrevocabilità, risultando, inevitabilmente, profondamente ambigua: essa è sì l’inizio di qualcosa di nuovo, rivelatrice di un agente e creatrice di un legame tra gli individui, ma, è altresì vero che ciò che comincia in questo modo non conosce fine, sfugge all’agente proprio come sfugge all’agire stesso in virtù di una « tendenza intrinseca a forzare tutte le limitazioni e a varcare tutti i confini»25. Etienne Tassin definisce questa circostanza come il “paradosso costitutivo dell’agire”: l’azione è l’unica in grado di costituire un mondo comune tra gli uomini, ma, al contempo, è anche ciò che minaccia di distruggerlo26. Se l’azione è un miracolo, la rottura di ogni ordine, essa però non coincide con la nascita di un ordine nuovo: dall’inizio, infatti, non derivano che altri inizi, la possibilità e non la necessità di altri inizi. Jerome Kohn, nell’analizzare la nozione di “azione” in Hannah Arendt, va ancora oltre, affermando che è proprio la condivisione umana, non solo delle gioie, ma anche dei disastri dell’azione, a rendere indispensabile l’organizzazione politica e la riflessione su questioni quali la giustizia, il potere o l’uguaglianza27.

Da questi aspetti, matrici di insicurezza che può arrivare quasi alla frustrazione, Hannah Arendt non tenta affatto di fuggire, affermando che essi possono essere attenuati, senza

24 S. Forti, Vita della mente e tempo della polis. Hannah Arendt tra filosofia e politica, Franco Angeli,

Milano, 1994, p. 281.

25 H. Arendt, Vita activa, cit., p. 147.

26 E. Tassin, L’azione contro il mondo, in Hannah Arendt, S. Forti (a cura di), Bruno Mondadori, Milano,

1999, p. 136.

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19 arrivare alla compromissione della libertà dell’agente, da altre due capacità caratteristiche dell’uomo, ovvero quella di “perdonare” e quella di “fare promesse”: «il rimedio contro l’irreversibilità e l’imprevedibilità del processo avviato dall’azione non scaturisce da un’altra facoltà superiore, ma è una delle potenzialità dell’azione stessa. La redenzione possibile dall’aporia dell’irreversibilità [...] è nella facoltà di perdonare. Rimedio all’imprevedibilità, alla caotica incertezza del futuro, è la facoltà di fare e di mantenere delle promesse»28. Queste due capacità dell’uomo sono complementari, nel senso che il perdonare serve a distruggere i gesti del passato, mentre il legarsi gli uni agli altri con delle promesse ha la funzione di gettare, nel mare dell’incertezza, delle ancore di salvezza. Risulta evidente, a questo punto, come entrambe queste attività dipendano dalla pluralità umana, ovvero dalla presenza e dall’agire degli altri, da quella «gioia di abitare insieme con gli altri un mondo la cui realtà è garantita per ciascuno dalla presenza di tutti»29: come nessuno può perdonare se stesso, in quanto l’agente è oggetto e non soggetto del perdono, così nessuno può sentirsi legato da una promessa fatta solamente a se stesso.

Da quanto possiamo evincere fino a questo punto, l’azione rappresenta indubbiamente la più alta e caratterizzante manifestazione della vita umana, tuttavia essa non gode, in virtù di ciò, del carattere di esclusività. Hannah Arendt sottolinea, infatti, come la rivelazione dell’unicità dell’uomo nella pluralità avvenga anche per mezzo del discorso, a cui l’azione stessa è, però, strettamente connessa: « senza essere accompagnata dal discorso, non solo l’azione perderebbe il suo carattere di rivelazione, ma anche il suo soggetto; [...] L’azione senza discorso non sarebbe più azione perché non avrebbe più un attore, e l’attore, colui che compie gli atti, è possibile solo se nello stesso tempo sa

28 H. Arendt, Vita Activa, cit., p. 183. 29 Ibi, p. 188.

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20 pronunciare delle parole»30. Il linguaggio è, dunque, ciò che caratterizza in modo

eminentemente politico l’azione. Con il semplice agire e parlare gli uomini rivelano il proprio essere, mostrano “chi” sono, in contrapposizione a quel “che cosa” sono, che comprende le qualità, le capacità e i difetti, che ciascuno può esporre come, al contrario, tenere nascosti. Ciò porta Hannah Arendt a questa conclusione: «si può nascondere ‘chi si è’ solo nel completo silenzio e nella completa passività»31. In altre parole, viene

sottolineato come, a differenza per esempio della fabbricazione, l’azione sia impossibile nell’isolamento e come, dunque, essere isolati significhi essere privati della stessa facoltà di agire. In altre parole, un mondo in cui non viene attribuito alcun senso all’agire in pubblico, il tesoro della libertà dell’agire risulta impossibile. L’agire, dunque, come dimensione etica propria dell’uomo, per attivarsi ha bisogno di uno spazio politico nel quale oggettivarsi; tale dimensione è l’insieme delle interazioni tra gli individui, un mondo costruito dal singolo, in cui ogni individualità contribuisce alla formazione di ogni altra, e da ogni altra è formata.

In conclusione, possiamo dire che l’agire a cui Hannah Arendt pensa non è qualcosa che appartiene a un mondo nell’avvenire, o la mitizzazione di un’esperienza antica e irripetibile, ma è un intreccio di discorso, di partecipazione alla memoria e di quell’essere presenti nella molteplicità, insomma, di quelle possibilità che l’uomo pratica negli spazi oltre il lavoro e oltre le funzioni sociali.

30 Ibi, p. 138. 31 Ibidem.

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21

3. Lo spazio politico

L’azione libera, discorsiva e innovativa, che riscatta l’uomo dalla mancanza di senso della mera vita biologica, è dunque strettamente connessa alla pluralità e, in particolare, al fatto che gli esseri umani possano incontrarsi in uno spazio in cui si riconoscono reciprocamente. Quest’ultimo è ciò che Hannah Arendt chiama spazio dell’apparenza, spazio pubblico e spazio politico, quell’ambito il quale, più di ogni altra sfera della vita umana, garantisce la realtà dell’esistenza agli uomini che nascono e muoiono, cioè a degli esseri che sanno di essere apparsi dal non-essere e di essere destinati a scomparire di nuovo in esso.

Se ci soffermiamo un momento sul termine ‘spazio’, nel modo utilizzato dalla Arendt, ci rendiamo immediatamente conto che esso non rimanda affatto a una collocazione fisica: lo spazio politico «non si riferisce tanto ad un pezzo di terra quanto allo spazio che c’è tra individui legati l’uno all’altro [...] da molte cose che hanno in comune [...] Proprio queste cose che hanno in comune sono lo spazio in cui vari membri del gruppo hanno rapporti e contatti tra loro»32. Il significato di spazio pubblico risulta, dunque,

chiaro: è la condizione di possibilità dell’essere-insieme che «si forma ovunque gli uomini condividano la modalità dell’azione e del discorso, e quindi anticipa e precede ogni costituzione formale della sfera pubblica e delle varie forme di governo».33

Ma cosa intende la Arendt con la parola ”pubblico”? «Il termine ‘pubblico’ equivale al mondo stesso, in quanto è comune a tutti e distinto dallo spazio che ognuno di noi vi occupa privatamente. Questo mondo [...] è connesso con l’elemento artificiale, il prodotto delle mani dell’uomo, come pure con le relazioni che intercorrono tra loro che

32 H. Arendt, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, Feltinelli, Milano, 2013, p. 269. 33 H. Arendt, Vita Activa, cit., p. 154.

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22 insieme abitano il mondo fatto dall’uomo»34.

La specifica caratteristica di questo mondo comune è quella di riunire insieme gli uomini e, nel contempo, di mantenerli separati: «La sfera pubblica [...] ci riunisce insieme e tuttavia ci impedisce, per così dire, di caderci addosso a vicenda».35

Come ben sintetizzato da Simona Forti, Hannah Arendt intende dire che perché vi sia vera pubblicità e, dunque, autentica politica, all’interno di una dimensione comune deve esistere una differenziazione che, in primis non crei relazioni gerarchiche o fusionali (nelle quali tutti si riconoscono nell’Uno), le quali non permetterebbero l’esistenza della pluralità, e in secondo luogo e come conseguenza, essa deve essere una differenziazione tale da impedire agli uomini di trasformarsi in una massa amorfa36. Proprio il fatto che ogni individuo mantenga una propria posizione delimitata rispetto agli altri rappresenta la vera condizione di possibilità dell’apparenza stessa: «l’esser visti e l’essere uditi dagli altri derivano dal fatto che ciascuno vede e ode da una diversa posizione. Questo è il significato della vita pubblica»37. Questo è anche il senso più profondo di “politica” per Hannah Arendt: soltanto essendo visto, udito e riconosciuto dagli altri nello spazio pubblico, l’attore trova conferma del proprio chi, della propria identità, la quale esiste solamente nel momento in cui essa appare sulla scena del mondo. Ma non è tutto, in quanto lo spazio politico è anche la dimensione in cui la realtà del mondo si manifesta per ciò che è: «per noi ciò che appare, ciò che è visto e sentito da altri e da noi stessi, costituisce la realtà»38. Essere e apparire, dunque, coincidono.

34 Ibi, p. 47. 35 Ibidem.

36 S. Forti, Vita della mente e tempo della polis, cit., p. 288. 37 H. Arendt, Vita Activa, cit., p. 51

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23 Paolo Flores D’Arcais individua anche un altro aspetto che concerne la sfera politica (così come intesa dalla Arendt): in essa non si producono cose, ma relazioni tra gli uomini che non sono vincolate ad alcuna legge di natura, ad alcuna inalterabile costituzione di specie, poiché quella umana è appunto la specie in cui l’identità dilegua a vantaggio degli individui, della differenza. Nello spazio politico l’uomo si pone, in quello economico del lavoro e dell’opera si sottopone. Qui può manipolare ciò che si trova di fronte e che, tuttavia, è già costituito, lì invece può istituire39.

Abbiamo definito la sfera pubblica in tutte le sue peculiarità, tuttavia manca forse il presupposto imprescindibile su cui essa si basa, ovvero il suo carattere di potenzialità. Lo spazio pubblico, infatti, «è potenzialmente ovunque le persone si raccolgono insieme, ma solo potenzialmente, non necessariamente e non per sempre»40.

Cosa meglio della nozione di “potere”, inteso come potere politico, riesce ad esprimere questo carattere di potenzialità dello spazio pubblico?

«Il potere è ciò che mantiene in vita la sfera pubblica, lo spazio potenziale dell’apparire tra uomini che agiscono e parlano. La parola stessa ‘potere’ [...] indica il suo carattere potenziale»41. Il potere, dunque, per Hannah Arendt, rimanda alla possibilità che i

cittadini hanno di creare e sperimentare insieme l’esperienza stessa del potere. Ogni giustificazione di esso risulta pertanto del tutto priva di senso, alla pari della giustificazione della vita stessa. Un potere così inteso (possibilità di essere-insieme), infatti, non ha bisogno di trovare fuori di se stesso la propria ragion d’essere, un presunto fine oggettivo: il vivere insieme non giunge mai alla fine e, dunque, non può avere un fine. Esso si configura, dunque, come un potere puro, nel senso che deve essere sempre distinto da tutto ciò con cui comunemente viene associato, o addirittura

39 P. Flores D'Arcais, Hannah Arendt: esistenza e libertà, Donzelli Editore, Roma, 1995, p. 13. 40 H. Arendt, Vita Activa, cit., p. 154.

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24 identificato. In Sulla violenza, per esempio, la filosofa pone l’accento sul fatto che spesso il potere venga confuso con la forza, con la potenza o con la violenza.

La forza «dovrebbe essere riservata, a rigor di termini, per le ‘forze della natura’ o la ‘forza delle circostanze’, cioè per indicare l’energia sprigionata da movimenti fisici o sociali»42.

La potenza, invece, evoca «qualcosa al singolare, un’entità individuale; [...] si rivela in rapporto ad altre cose o persone, ma è sostanzialmente indipendente da esse»43.

Il carattere strumentale della violenza, infine, la differenzia dai concetti precedenti e, naturalmente e ancor di più, da quello di potere. Quest’ultimo, al pari dell’azione da cui deriva e a differenza della violenza, la quale rappresenta un mezzo in vista di un fine, è un fine in sé.

Ora è da sottolineare il fatto che tutto ciò che non può e non deve avere importanza pubblica rientra inevitabilmente nella sfera privata, ovvero in quella dimensione in cui si è privi della presenza e della compagnia degli altri.

Se la politica è lo spazio dell’esistenza autentica dell’uomo, nel quale egli si realizza in quanto uomo, il privato si contrappone ad essa come privazione di autenticità, ripetizione, indifferenziazione. Hannah Arendt propone una vera e propria differenza concettuale, una dicotomia, tra il concetto di pubblico e quello di privato, i quali sono, per l’appunto, reciprocamente esclusivi. Il termine stesso ‘privato’ evoca immediatamente e primariamente quello di ‘privazione’: «vivere una vita interamente privata significa prima di tutto essere privati delle cose essenziali per una vita autenticamente umana: essere privati della realtà che ci deriva dall’essere visti e sentiti dagli altri; essere privati di un rapporto ‘oggettivo’ con gli altri, quello che nasce

42 H. Arendt, Sulla violenza, cit., p. 48. 43 Ibidem.

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25 dall’essere al tempo stesso in relazione con loro e separati da loro grazie alla mediazione di un mondo comune di cose; essere privati della possibilità di acquisire qualcosa di più duraturo della vita stessa. La privazione implicita nella privacy consiste nell’assenza degli altri»44.

Una seconda accezione di privato si ha, tuttavia, quando esso diventa un sinonimo di luogo di protezione, in cui tutto serve ai fini della sopravvivenza, «il solo rifugio sicuro dal mondo pubblico comune, non solo da tutto ciò che avviene in esso, ma anche dalla propria condizione in pubblico, dall’essere visti e uditi»45.

Nella dimensione privata rientra, infine, anche la dimensione affettiva e interiore del soggetto, che comprende, tra l’altro, anche la sua coscienza morale. Secondo la Arendt, però, tale mondo interiore, per non perdere il proprio significato e la propria importanza, deve rimanere celato, nascosto dalla luce della scena pubblica.

Andando oltre questo excursus sul concetto arendtiano di ‘privato’, l’aspetto veramente rilevante che scaturisce dall’analisi precedente è l’ammissione del fatto che, privato della politica come luogo della convivenza e della comunanza dei diversi, l’uomo si ritrova senza ciò che gli è più intimamente proprio e che gli appartiene in modo eminente, ovvero la differenza stessa.

Hannah Arendt, dunque, è animata dall’idea che l’esistenza autentica dell’uomo e per l’uomo si raggiunge solo nella sfera pubblica, ovvero nella politica, e non nel ripiegamento nel privato: non in interiore homine, ma proprio nella partecipazione a quel nuovo inizio che è l’azione, la quale consente all’improbabile e all’inatteso di far irruzione nel mondo.

44 H. Arendt, Vita Activa, cit., p. 52. 45 Ibi, p. 60.

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26

CAPITOLO II

Responsabilità e Giudizio

1. Frammenti di una teoria del giudizio

Innanzitutto, è interessante sottolineare un fatto: Hannah Arendt non scrisse mai un saggio esclusivamente dedicato al tema del giudizio. L’autrice, infatti, morì prima di poter dare alla luce il terzo capitolo de La vita della mente, che avrebbe dovuto essere dedicato appunto al giudizio. Nonostante questa ‘lacuna’ involontaria, è possibile ricostruire, attraverso la lettura delle altre opere della Arendt, una vera e proprio teoria del giudizio.

Per Hannah Arendt il giudizio, la capacità di discernere giusto e sbagliato, bello e brutto, è la più politica fra le attitudini dell’uomo: «si tratta della facoltà che giudica i particolari senza sussumerli sotto quelle regole generali che si possono insegnare e apprendere finché non si convertano in abitudini, sostituibili da altre abitudini e da altre regole»46.

Tra le righe delle numerose opere della Arendt è celata, in realtà, una doppia teoria del giudizio, che oscilla tra l’ordine teoretico e l’ordine pratico in quanto se è vero che esiste un giudizio che giudica le nostre azioni, che gioca il ruolo di attore, è altresì vero che esista anche quel giudizio che è correlato al pensiero e alla volontà, il quale è, per così dire, uno spettatore. La teoria del giudizio arendtiano, dunque, sembra rimanere sospesa tra Aristotele e Kant, cioè tra le esigenze, da una parte, di costruire un’etica politica, e dall’altra, di rendere conto della normatività che il giudizio stesso porta in sé

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27 e con sé in ogni situazione. In altre parole, attraverso la sua teoria del giudizio, la Arendt cerca di individuare un tipo di sapere che si sviluppa insieme all’agire, e in cui trovino conciliazione l’aspetto teorico e quello pratico.

Dobbiamo precisare che il giudizio, così come concepito dalla Arendt, ha una relazione del tutto particolare con il pensiero: se da una parte la facoltà di giudizio è soprattutto un’attività della mente, dall’altra, però, in virtù della sua vicinanza all’agire politico, essa è posta in un rapporto di diversità con il pensiero stesso. Quest’ultimo è, infatti, una facoltà legata alla solitudine, mentre il primo è di carattere essenzialmente politico, nella misura in cui gli uomini sono obbligati a rendere conto davanti agli altri di ciò che pensano e fanno. Nonostante questo, però, il termine solitudine, non è affatto un sinonimo di isolamento: «la solitudine significa che, pur da solo, io sono in compagnia di qualcuno (vale a dire di me stesso)»47, io sono due-in-uno, mentre l’isolamento «si verifica quando non sono in compagnia di me stesso né in compagnia di altri, ma mi occupo delle faccende del mondo»48, come ad esempio nel caso delle attività produttive. Tornando al nodo centrale del discorso, possiamo dire che quando pensa, l’uomo si estranea dal mondo circostante, trascendendo le apparenze (seppur continua a dialogare con se stesso); al contrario, quando egli giudica si pone in mezzo agli altri, è con gli altri nella dimensione del particolare, e non nell’universalità che caratterizza, invece, il pensiero. La differenza, dunque, è eminentemente di carattere politico e, più in particolare, riguarda il Pensiero e l’Azione: se io sono da solo con me stesso quando penso e giudico me stesso, se si realizza per così dire un’attività statica, che non può essere identificata con alcun tipo di azione, quando agisco, invece, sono in compagnia di molti.

47 H. Arendt, Alcuni questioni di filosofia morale, in Responsabilità e giudizio, J. Kohn (a cura di),

Piccola Biblioteca Einaudi, Torino, 2010, p. 83-84.

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28 In La responsabilità personale sotto la dittatura, saggio del 1964, emergono due questioni: in primo luogo, «come posso distinguere ciò che è giusto da ciò che è sbagliato quando la maggioranza o la totalità delle persone che mi stanno accanto ha già formulato un giudizio?” e, poi, «in che misura noi possiamo davvero formulare un giudizio su eventi del passato, su accadimenti ai quali non abbiamo assistito?»49.

La risposta sta, semplicemente e sorprendentemente, nella definizione stessa di ‘giudicare’; l’atto del giudizio, infatti, implica una comprensione retrospettiva: il giudicare concerne un fatto che è spazialmente e temporalmente lontano da noi e che, tuttavia, risulta fondamentale per ricoprire di senso gli eventi attuali. Anche nel caso in cui ci si trovi di fronte a fatti senza precedenti questa facoltà, secondo la Arendt, deve funzionare in maniera spontanea: senza, cioè, essere prigioniera di schemi, pregiudizi o norme generali. In particolare, dobbiamo soffermarci un attimo sui ‘pregiudizi’; la loro ineludibilità per l’uomo risiede nella natura umana stessa, nel senso che una totale mancanza di pregiudizi esigerebbe un’intelligenza sovrumana. La pericolosità concreta dei pregiudizi, in realtà, si rivela solamente quando essi irrompono nella politica: quest’ultima, infatti, per essere valida deve basarsi sui giudizi, come costruttori di legami tra gli uomini.

Dal punto di vista politico, il giudizio è la «capacità di vedere le cose non solo dal proprio, ma anche dal punto di vista di tutti quanti si trovano a essere presenti»50,

ovvero l’abilità di orientarsi nello spazio pubblico. La facoltà di giudizio, dunque, presuppone sempre la presenza e lo sguardo degli altri e proprio la sua necessità di essere visibile porta la Arendt a individuare un’affinità particolare tra l’arte e la politica: la prima, come la seconda, infatti, è fatta per essere vista e giudicata, in quanto

49 H. Arendt, La responsabilità personale sotto la dittatura, in Responsabilità e giudizio, cit., p. 16. 50 H. Arendt, Tra passato e futuro, cit., p. 283.

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29 entrambe appartengono, appunto, alla sfera pubblica, allo spazio dell’apparenza.

Frutto inevitabile di questa comunanza è l’affinità tra i due giudizi che da esse derivano, entrambi i quali, dunque, si fondano sulla pluralità. Quest’ultima implica che, quanto più un giudizio riesce a rendere conto dei punti di vista degli altri, tanto più esso è comunicabile. Il potere di giudicare, infatti, presuppone l’accordo potenziale con gli altri: «tanto in estetica come in politica, giudicando si prende una decisione, la quale, benché sempre condizionata da un certo grado di soggettivismo, per il semplice motivo che ciascuno ha un proprio posto da dove osserva e giudica il mondo, si appoggia anche sul fatto che il mondo stesso è un dato oggettivo, comune a tutti i suoi abitanti»51. Il giudizio, presupponendo l’abilità di vedere il mondo dalla prospettiva degli altri, si configura come la facoltà che prepara l’individuo ad essere ciò che in termini moderni definiamo “cittadino del mondo”. Si deve dunque a ciò che viene definito senso comune se gli uomini giudicano: «Io giudico come membro di questa comunità e non come membro di un mondo soprasensibile»52. Tale community sense è, infatti, quella sensibilità che permette la rinuncia a sé, permettendo, in tal modo, l’esistenza della politica, dell’agire pubblico. Il senso comune appare come quel senso propriamente umano che permette la manifestazione di uno dei tratti peculiari dell’umanità: la pluralità. Essa viene conservata dal fatto che un qualsiasi sguardo su un qualsiasi oggetto ha in sé la possibilità di un altro sguardo, portatore di un differente punto di vista.

Utilizzando termini kantiani, Hannah Arendt afferma che il giudizio presuppone un ‘pensiero rappresentativo’, ovvero, appunto, la capacità di rappresentarsi nella mente la pluralità dei punti di vista. «Il pensiero politico è rappresentativo. Io mi formo

51 Ibi, p. 285.

52 H. Arendt, Teoria del giudizio politico. Lezioni sulla filosofia politica di Kant, R. Beiner (a cura di), Il

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30 un’opinione considerando una data questione da differenti punti di vista, rendendo presente alla mia mente le posizioni di coloro che sono assenti, in altri termini li rappresento»53. Quanto più ampio è il numero di persone di cui riesco a tenere conto nei miei giudizi, tanto più questi saranno rappresentativi e la loro validità non sarà né oggettiva e universale, né tanto meno soggettiva, bensì intersoggettiva e rappresentativa, appunto.

Mediante la rappresentazione, o immaginazione, l’uomo, quando esprime un giudizio, si rappresenta qualcosa che non può direttamente percepire, qualcosa che è assente: attraverso questa facoltà «si giudicano oggetti che non sono più presenti, che sono stati rimossi dall’immediata percezione sensoriale, e perciò non colpiscono più direttamente; comunque, ora che l’oggetto è stato rimosso dai sensi esterni, diviene un oggetto per i sensi interni»54. Proprio questa assenza permette di assumere la distanza necessaria per un giudizio imparziale, nel senso di prodotto della riflessione di molteplici punti di vista. Permettendo di distaccarsi dagli oggetti per poterli giudicare, l’immaginazione rappresenta la preziosa bussola interiore che consente all’uomo di dialogare con il mondo che lo circonda.

Si evince, a questo punto, una priorità dello spettatore, di colui che osserva, riflette e giudica, sull’attore. Per illustrare tale preminenza, Hannah Arendt utilizza, in La vita della mente, la metafora della scena teatrale: «solo lo spettatore occupa una posizione tale da consentirgli di vedere l’insieme della recita [...] In quanto parte del tutto, l’attore deve fare la sua parte: non solo egli è per definizione una ‘parte’, ma è anche vincolato al particolare, che trova il proprio significato ultimo e la giustificazione della sua

53 H. Arendt,, Verità e politica - La conquista dello spazio e la statura dell’uomo, V. Sorrentino (a cura

di), Boringhieri, Milano, 2004, p. 48.

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31 esistenza esclusivamente come parte costitutiva di una totalità»55.

Lo spettatore come soggetto del giudizio rappresenta, dunque, il giudice imparziale: egli non è né chi passivamente osserva gli eventi, né chi ne è emotivamente coinvolto, ma quel chi disinteressato che può guardare globalmente gli avvenimenti, riuscendo a cogliere i particolari. Su questo tema, nel terzo capitolo, vedremo l’influenza della lettura arendtiana del racconto kafkiano “Egli”.

Questa imparzialità che caratterizza lo spettatore non è, dunque, un prodotto di un qualche punto di vista superiore, ma è strettamente legata al particolare, e ciò rende l’esempio un punto centrale della questione: «c’è qualcosa il cui senso comune può aggrapparsi, quando si innalza al livello del giudizio, e questo qualcosa è l’esempio. Kant scrive: “Gli esempi sono le dande del Giudizio”»56. L’esemplare è quel qualcosa

di particolare che proprio in virtù di questa sua caratteristica rivela la generalità. Gli esempi acquistano validità esemplare guidando gli uomini nel giudizio sul particolare: essi, come abbiamo già messo in evidenza, contengono in sé dei concetti o delle regole universali.

In Verità e politica, la Arendt tematizza in maniera esplicita il nesso tra l’esempio del giudizio e l’azione, ovvero, in altre parole, come il primo ispiri la seconda: «Così, ad esempio, per verificare l’idea di coraggio, possiamo rievocare l’esempio di Achille e per verificare la nozione di bontà siamo inclini a pensare a Gesù di Nazareth o a san Francesco; questi esempi insegnano o persuadono attraverso l’ispirazione, così che ogni volta che cerchiamo di compiere un atto di coraggio o di bontà è come se imitassimo qualcun altro (l’imitatio Christi, per esempio)»57.

55 H. Arendt, La vita della mente, cit., p. 178.

56 H. Arendt, Alcune questioni di filosofia morale, in Responsabilità e giudizio, cit., p. 109. 57 H. Arendt, Verità e politica, cit., pp. 56-57.

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32 In conclusione, l’esempio tematizza il carattere riflettente del giudizio e la rappresentazione si presenta come ciò che permette all’uomo di riflettere sull’azione, senza, però, esserne coinvolto: essa trasforma l’attore in spettatore.

Facendo un collegamento con quanto messo in evidenza nel capitolo precedente, se la libertà umana è strettamente legata all’azione, così come quest’ultima lo è irriducibilmente alla politica, alla pluralità, ora è chiaro che è proprio nella facoltà di giudizio che tale libertà può manifestarsi, e non nella volontà.

Hannah Arendt sottolinea fermamente questo contrasto tra il giudizio e la volontà, in quanto quest’ultima, tendendo al futuro, a ciò che non è ancora, nega il più grande potere in atto dell’uomo, ovvero quello di essere libero.

«[...] Siamo condannati a essere liberi in ragione dell'essere nati, non importa se la libertà ci piace o aborriamo la sua arbitrarietà, se ci sia ‘gradita’ o preferiamo fuggire la sua responsabilità tremenda scegliendo una forma qualunque di fatalismo. Questa impasse, se è veramente tale, può essere superata o risolta solo facendo appello a un'altra facoltà della mente, non meno misteriosa della facoltà del cominciamento, la facoltà del Giudizio»58.

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33

2. La responsabilità del giudizio e le sue implicazioni

Come abbiamo visto nella sezione precedente, il giudizio, sia per quanto concerne la morale sia nelle sue implicazioni politiche, non è né l’applicazione di norme universali, né tanto meno una dimensione contemplativa, bensì è la facoltà di porsi nella posizione di uno spettatore che riesca a interiorizzare nel suo sguardo anche gli sguardi di tutti gli altri e, nel contempo, essa è la capacità che permette di assumere una posizione nel mondo. Se, dunque, questo è il giudizio, la responsabilità altro non può essere che il farsi carico delle proprie azioni e dei propri giudizi.

Il cuore della questione della responsabilità è svelato, a mio avviso, nella proposta arendtiana di «pensare a ciò che facciamo», che chiude il prologo di Vita activa.

La responsabilità che Hannah Arendt cerca di mettere in luce non è, dunque, quella definita dall’ambito del diritto, ovvero il dovere di rispondere delle conseguenze delle proprie azioni, ma è quella responsabilità in un senso più radicale, che è legata non alla giustificazione, ma al giudizio.

La responsabilità di cui ci parla la Arendt non si basa affatto su regole o conoscenze predefinite o preacquisite, ma, al contrario, essa può chiamarsi tale solo in quelle circostanze in cui non è ancora state presa nessuna decisione, in una situazione di vuoto. Natascia Mattucci mette in evidenza il fatto che solo quando si è costretti a giudicare senza appigli, muovendo da quel dialogo del due-in-uno, che caratterizza il pensiero, allora è possibile parlare in termini di responsabilità59. Come asserisce anche Simona Forti non vi può essere etica senza responsabilità, ma non vi è responsabilità senza

59 N. Mattucci, La politica esemplare. Sul pensiero di Hannah Arendt, Franco Angeli, Milano, 2012, p.

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34 qualcosa che impedisce, che ostacola. Non vi è, dunque, responsabilità finché non ci confronta con l’assenza di criteri, con il vuoto60.

Questo vuoto è ciò che Hannah Arendt definisce ‘abisso della libertà’, di fronte al quale si dischiude, appunto, lo spazio della responsabilità. Quando, insomma, l’uomo si appella a regole di un sapere già acquisito, la decisione, in realtà, non esiste, nel senso che è già presa e, dunque, ci si trova di fronte al contrario della responsabilità, alla mancanza di giudizio. In ultima istanza, la possibilità della responsabilità è, aporeticamente, esperienza dell’impossibile, ovvero essa esiste solo in situazioni in cui, come dice Simona Forti, le condizioni del giudizio determinante sono venute meno61. L’intreccio tra la capacità di giudicare e la responsabilità (e, quindi, la questione morale) emerge in maniera illuminante da questo passo: «[...] solo se pensiamo che esista una facoltà umana capace di farci giudicare in maniera razionale, senza venir travolta dalle emozioni o dagli interessi personali; e solo se pensiamo che questa facoltà funzioni in maniera spontanea, senza cioè restare vincolata a norme o regole di giudizio preconcette, [...]; solo se pensiamo insomma che questa facoltà sia in grado di produrre essa stessa i principi che governano l’attività di giudizio, [...], possiamo arrischiarci a camminare su un terreno tanto scivoloso, il terreno delle questioni morali, senza paura di cadere»62.

Allo stesso tempo, però, Hannah Arendt non vuol rinunciare al tema della responsabilità del singolo nei confronti del mondo: se il mondo, infatti, è il luogo di un incontro tra gli uomini, lo è in virtù dell'apporto che ciascuno dà attraverso l'azione, la quale costituisce lo strumento di apertura al mondo stesso.

Ciò nonostante, parlare in senso politico di responsabilità, associandola alla singolarità, è una forzatura; secondo la Arendt, infatti, esiste un confine preciso tra la colpa morale,

60 AA. VV., Hannah Arendt, S. Forti (a cura di), Bruno Mondadori, Milano, 1999, p. XXXI. 61 Ibi, p. XXXIII.

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35 la quale è personale, e la responsabilità che possiamo chiamare politica, nel senso di collettiva: «al centro delle considerazioni politiche sul comportamento umano sta l’io; al centro delle considerazioni politiche sul comportamento umano sta il mondo»63.

La colpa, a differenza della responsabilità, si riferisce ad un’azione personale, non a un’intenzione o a una potenzialità: «Solo in senso metaforico possiamo dire di sentirci colpevoli per i peccati dei nostri padri, del nostro popolo o dell’umanità, per atti che non abbiamo compiuto noi direttamente»64. Come vedremo in seguito, Hannah Arendt, a partire da una riflessione del Il processo di Kafka, ci offrirà un’analisi illuminante sul concetto di “colpa”. Per ora possiamo dire che, se la colpa è, dunque, qualcosa che appartiene strettamente all’individualità, la responsabilità collettiva è, invece, la «forma di responsabilità per cose che non abbiamo fatto, [...], è il prezzo che dobbiamo pagare per il fatto di vivere sempre le nostre vite, non per conto nostro, ma accanto ad altri, ed è dovuta in fondo al fatto che la facoltà di azione [...] può trovare un campo di attuazione solo nelle molte e variegate forme di comunità umana»65.

Ciò che la Arendt ci sta dicendo è che, quando la comunità a cui un individuo appartiene agisce, l’individuo stesso, sebbene non abbia partecipato all’atto in questione, è comunque ritenuto responsabile di esso, in virtù del fatto che la comunità stessa ha agito anche a nome suo. Se si può, dunque, parlare di responsabilità collettiva, lo stesso non si può dire della colpa collettiva: non si può, infatti, sentirsi colpevoli di qualcosa che non si è commesso, ma ci si sente responsabili per qualcosa che è stato fatto a nostro nome. La conseguenza evidente di questa posizione non è solo la perdita di senso di una generalizzazione della colpa di fronte ad eventi terribili, dominati dal male, ma è soprattutto il dovere di rifiutare una tale generalizzazione, in quanto essa

63 H. Arendt, Responsabilità collettiva, in Responsabilità e giudizio, cit., p. 132. 64 Ibi, p. 129.

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