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Trombosi venose cerebrali: caratterizzazione clinico patogenetica di una coorte di 43 pazienti afferenti alla Clinica Neurologica Pisana

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Academic year: 2021

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UNIVERSITÀ DI PISA

F

ACOLTÀ DI

M

EDICINA E

C

HIRURGIA

Corso di laurea specialistica in Medicina e Chirurgia

TESI DI LAUREA

“Trombosi dei seni venosi cerebrali: caratterizzazione

clinico patogenetica di una coorte di pazienti afferenti alla

Clinica Neurologica Pisana”

RELATORE:

Chiar.mo Prof.Ubaldo Bonuccelli

CANDIDATO:

Montano

Vincenzo Giovanni

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Sommario

I.RIASSUNTO ... 4 II.INTRODUZIONE ... 5 Aspetti epidemiologici ... 5 Fattori di rischio ... 8 Aspetti clinici... 10 Classificazione ... 12 Aspetti prognostici ... 21

III.ANATOMIA DEL CIRCOLAZIONE VENOSA ENDOCRANICA ... 23

IV. TROMBOSI DEI SENI VENOSI CEREBRALI ... 35

Epidemiologia... 35

Fisiopatologia e fattori di rischio ... 36

Diagnosi ... 37

Terapia ... 45

Complicanze ... 45

Prognosi ... 47

V.OBIETTIVI DELLO STUDIO ... 50

VI.MATERIALI E METODI ... 51

VII.RISULTATI ... 52

VIII.DISCUSSIONE ... 58

IX.CONCLUSIONI ... 75

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I.RIASSUNTO

Le trombosi venose cerebrali (TVC) sono una rara forma di ictus rappresentandone lo 0.5-1% del totale. Una diagnosi precoce e lo screening per i principali fattori di rischio congeniti ed acquisiti risulta cruciale per ridurre al minimo morbidità e mortalità.

Abbiamo indagato retrospettivamente su una coorte di 43 pazienti afferenti alla Clinica Neurologica dell’Università di Pisa con TVC definendone caratteristiche cliniche e fattori di rischio.

Il quadro clinico è risultato caratterizzato da cefalea nel 83.4% dei casi, vomito nel 32.5%, papilledema nel 4.6%, segni focali nel 51.3% dei casi, epilessia nel 25.7% e alterazioni del sensorio nel 30.2%.

Condizioni predisponenti acquisite o ereditarie sono state rilevate in più l’80% dei casi.

I più comuni fattori di rischio ritrovati sono stati: terapia con contraccettivi orali (74.1% delle donne), trombofilie congenite (34.9%), infezioni e distiroidismi (16.3%), iperomocisteinemia (9.3%), traumi cranici (9.3%) e malattie mieloproliferative croniche (11.6%).

L’outcome clinico è stato favorevole in più dell’80% dei casi. Una corretta diagnosi precoce e la terapia anticoagulante possono diminuire il tasso di morbilità e mortalità associato a questa patologia. Nella gestione del paziente, soprattutto per la prevenzione di futuri eventi tromboembolici, risulta essenziale ricercare approfonditamente la presenza di uno stato trombofilico congenito o acquisito.

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II.INTRODUZIONE

Aspetti epidemiologici

L’ictus cerebrale rappresenta oggi la seconda causa di morte a livello mondiale e la terza causa di morte nei paesi industrializzati, dopo le malattie cardiovascolari ed i tumori [1]. Attualmente si attribuiscono all’ictus cerebrale 6 milioni di morti nel mondo [2]. In Italia si stima che siano affetti da patologie cerebrovascolari circa 900000 persone, con un tasso di incidenzae prevalenza progressivamente crescenti in base all’eta’ della popolazione. In Italia l’ictus rappresenta la prima causa di disabilità, la seconda causa di demenza, la terza causa di morte dopo le malattie cardiovascolari e le neoplasie, causando il 10-12% di tutti i decessi per anno con un rilevante impatto individuale, familiare e socio sanitario [3,4,5].

La valutazione dell’andamento storico dell’incidenza d’ictus su base internazionale ha evidenziato una riduzione dagli anni ‘70 agli anni ’80. Nel ventennio successivo, uno studio condotto a Malmö in Svezia sembra indicare una tendenza all’aumento di circa il 3% dei tassi di incidenza tra il 1989 ed il 1998 [6], con un plateau o addirittura un’inversione di tendenza rispetto al decennio precedente; l’Oxford Vascular Study ha invece riscontrato un tasso grezzo di incidenza di primo episodio ictale ridotto del 29% tra gli anni 1981-1984 ed il 2002-2004 per le ischemie cerebrali e le emorragie intraparenchimali, non evidenziandosi invece per le emorragie subaracnoidee [7].

Relativamente alla situazione italiana, i cambiamenti della struttura demografica dei prossimi anni determineranno un aumento della popolazione nelle fasce più anziane (oltre i 65 anni) ed una contestuale riduzione nelle fasce inferiori ai 55 anni. Ad incidenza costante, pertanto, il numero di nuovi ictus è destinato ad aumentare. Evoluzioni analoghe sono attese per la prevalenza. Entro l’anno 2020, nonostante i progressi diagnostici e assistenziali e l’attenta prevenzione primaria (che risulta tuttoggi l’arma più efficace), la mortalità per ictus sarà duplicata a causa dell’aumento

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dell’aspettativa di vita (quindi dei soggetti anziani) e della persistenza dell’abitudine al fumo di sigaretta.

La prevalenza aumenta in relazione all’età, raggiungendo valori, in studi internazionali basati su popolazione, tra il 4,61% e il 7,33 % nei soggetti di età superiore a 65 anni [3]. I dati relativi alla mortalità risentono molto del livello assistenziale, dell’affidabilità della certificazione di morte, della struttura della popolazione studiata. In tutti gli studi, comunque, la prevalenza e la mortalità aumentano al crescere dell’età.

Secondo l’ILSA (Italian Longitudinal Study of Ageing) [8], nella popolazione anziana (65-84 anni) italiana il tasso di prevalenza è pari al 6,5% (IC95 5,8-7,2) ed è lievemente superiore nel sesso maschile rispetto al femminile (7,4%; IC95 6,3-8,5 versus 5,9%; IC95 4,9-6,9). I dati di prevalenza generale di ictus in Italia per fascia d’età, basandosi invece sui dati di popolazione del censimento 2001 [9], mostrano valori di 0,06% nella fascia 0-44 anni, 0,4% tra 45 e 54 anni, 1,3% tra 55 e 64 anni, 4,5% tra 65 e 74 anni, 8,8% tra 75 e 84 anni e 16,2% nei > 85 anni.

L’incidenza, come la prevalenza, è anch’essa variabile da studio a studio. Le discrepanze riscontrate nei principali studi nazionali ed internazionali riflettono, oltre che una vera diversa frequenza della malattia, anche differenze nella composizione della popolazione in quanto l’ictus è patologia frequente soprattutto nella popolazione anziana. L’incidenza desunta dai dati di vari studi europei di popolazione, simili dal punto di vista metodologico, è risultata pari ad 8,72 per 1.000 (IC95 7,47-10,06) nei soggetti di età compresa tra 65 e 84 anni [10].

Si osserva, anche per l’incidenza, una crescita esponenziale con l’aumentare dell’età, raggiungendo il massimo negli ultraottantacinquenni. Eccetto che in quest’ultima fascia d’età l’incidenza è più alta nei maschi che nelle femmine. Risulta pertanto che il 75% degli ictus colpisce l’età geriatrica. Negli anziani di 85 anni ed oltre, l’incidenza è tra 20 casi su 1.000 e 35 casi su 1.000 abitanti per anno, con alta preponderanza di ictus ischemici e prognosi peggiore in termini di mortalità rispetto ai soggetti più giovani [5].

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In conclusione, ogni anno vi sarebbero quasi 196.000 nuovi ictus in Italia, di cui una minoranza (circa il 20%) decede entro i 30 giorni successivi all’evento e circa il 30% sopravvive con esiti gravemente invalidanti. Di questi 196.000, l’80% sono primi episodi pari a circa 157.000 casi, mentre il 20% sono recidive, pari a circa 39.000 casi.

Il TIA invece raggiunge negli Stati Uniti un’incidenza tra 200.000 e 500.000 casi per anno, ma la vera incidenza può essere più elevata poiché diversi episodi possono passare inosservati e non richiedere l’intervento del medico [11].

Per quanto riguarda la etiologia dell’ictus, esistono pochi studi epidemiologici dettagliati. Nel registro de L’Aquila [12], la frequenza percentuale delle diverse forme di ictus è così suddivisa:

 Forme ischemiche 82.6%  Forme emorragiche 16.2% - intraparenchimali 13.5% - subaracnoidee 2.7%  Non classificabili 1.2%

Un certo grado di incertezza riguarda il fatto che una quota non trascurabile di casi rientra nella categoria degli ictus non classificabili per mancanza di documentazione strumentale o autoptica. Questa quota è più elevata nei soggetti di età molto avanzata in cui, più spesso che nei giovani, l’accertamento eziologico relativo all’ictus puo’ risultare incompleto.

L’età di insorgenza è globalmente più elevata per gli ictus ischemici (età media superiore ai 70 anni), mentre le emorragie subaracnoidee colpiscono in età più giovanile (età media tra 48 e 50 anni) [12,13]; le emorragie intraparenchimali si situano in una posizione intermedia. Per quanto riguarda il sesso, sia gli infarti ischemici cerebrali sia le emorragie intraparenchimali sono più frequenti nei maschi, al contrario l’emorragia subaracnoidea prevale nelle donne con un rischio relativo significativo di 1,6 [12,13].

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Fattori di rischio

Un importante riferimento nella letteratura scientifica sui fattori di rischio dell’ictus cerebrale è costituito dai Conference Proceedings della American Heart Association (AHA). L’AHA ha organizzato periodici consensus panel che, a partire dal 1971, hanno precisato il ruolo dei principali fattori di rischio e hanno individuato nuovi possibili fattori. Secondo le linee guida dell’AHA/American Stroke Association sulla prevenzione primaria [14], i fattori di rischio possono essere distinti in: fattori demografici (età, sesso); caratteristiche fisiologiche (pressione arteriosa, colesterolemia, glicemia); abitudini comportamentali (fumo, consumo di alcool, dieta, esercizio fisico) [15]. I fattori del primo gruppo non sono modificabili; quelli del secondo possono richiedere un trattamento farmacologico oltre che misure preventive; quelli del terzo gruppo possono avvalersi di modificazioni dello stile di vita.

Oltre alla suddetta divisione, possiamo distinguere più funzionalmente i fattori di rischio in tre gruppi, come segue:

Non modificabili: età avanzata, sesso maschile, familiarità

Modificabili ben documentati: ipertensione arteriosa, fibrillazione atriale, cardiopatie

(coronaropatia; infarto miocardico acuto esteso e/o con trombosi endoventricolare; insufficienza ventricolare sinistra con frazione d’eiezione < 30%; aneurisma del setto interatriale; endocardite infettiva; mixoma atriale; trombosi su protesi valvolare; recente cardiochirurgia), attacchi ischemici transitori, fumo, arteriopatia periferica, diabete mellito, stenosi carotidea asintomatica, ipertrofia ventricolare sinistra, anemia falciforme, ridotta attività fisica, abuso di alcool, iperomocisteinemia, dieta

Modificabili non completamente documentati: dislipidemia, obesità, sindrome metabolica,

forame ovale pervio, placche dell’arco aortico, contraccettivi orali (20-44 anni), terapia ormonale sostitutiva (50-74 anni), stati trombofilici, abuso di stupefacenti, emicrania con aura, sindrome delle apnee ostruttive da sonno.

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Tra tutti i fattori di rischio, la stenosi carotidea mostra correlazione tra rischio di ictus ischemico e grado di stenosi in soggetti asintomatici [16]. Il rischio di ictus per una stenosi asintomatica del 70% è di circa il 3% all’anno [17]. In una popolazione non selezionata di età tra 65 e 84 anni è stata rilevata una prevalenza della stenosi >49% nel 5% circa dei casi, mentre una stenosi superiore al 15% era presente nel 17,5% [18]. Da vari studi emerge il ruolo dello spessore intima-media come fattore predittivo di eventi vascolari. L’aumento di spessore del complesso intima-media della arteria carotide, misurato ecograficamente, era direttamente correlato (P<0,001) con un aumento del rischio di infarto miocardico e di ictus in anziani senza storia di malattia cardiovascolare. Il rischio relativo di infarto miocardico o ictus (aggiustato per sesso e per età) per il quintile con spessore più elevato rispetto al quintile inferiore è 3,87 (IC95 2,72-5,51); il rischio relativo aggiustato per la presenza dei fattori di rischio tradizionali è 3,15 (IC95 2,19-4,52) [19]. Recentemente è stato confermato un aumento di rischio correlato all’ispessimento intima-media anche in due studi su soggetti sani, con un rischio relativo aggiustato per i possibili confondenti pari rispettivamente a 3,0 (IC95 1,1-8,3) [20] e 2,30 (IC95 1,34-3,94) [21].

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Aspetti clinici

La definizione OMS considera l’ictus una “improvvisa comparsa di segni e/o sintomi riferibili a deficit focale e/o globale (ovvero il coma) delle funzioni cerebrali, con durata superiore alle 24 ore e/o ad esito infausto, non attribuibile ad altra causa se non a vasculopatia cerebrale” [22].

Molto utilizzata è la suddivisione in ictus minore (minor stroke) e ictus maggiore (major stroke), che è molto pratica, perché separa i pazienti che sopravvivono ad un ictus senza esiti funzionali, rispetto a quelli che rimangono disabili. Per valutare gli esiti funzionali viene utilizzata soprattutto la scala modified Ranking Scale (mRS) che attribuisce un punteggio crescente da zero a sei in funzione della gravità degli esiti. Sostanzialmente, la mRS definisce con il punteggio 0-2 i pazienti autosufficienti, con 3-5 i pazienti disabili e con 6 quelli deceduti.

È definito invece dall’OMS come attacco ischemico transitorio (TIA: transient ischemic attack), “l’improvvisa comparsa di segni e/o sintomi riferibili a deficit focale cerebrale o visivo, attribuibile ad insufficiente apporto di sangue, di durata inferiore alle 24 ore” [22]. Recentemente è stata proposta una ridefinizione del concetto di TIA [23]. Il presupposto di tale definizione è basato sul fatto che il limite di 24 ore di durata per il TIA è un limite arbitrario e la maggior parte dei TIA risolve entro un’ora dall’esordio dei sintomi. Secondo la nuova definizione sono da classificare come TIA solo quegli episodi di “disfunzione neurologica da ischemia cerebrale o retinica con durata in genere inferiore ad un’ora e senza evidenza di danno cerebrale permanente”. Il limite di tale definizione risiede nel fatto che la categoria diagnostica cui attribuire il paziente dipende all’accuratezza degli esami effettuati, in particolare la TC e la RMN dell’encefalo.

I TIA sono classificati con criterio topografico [24] in: TIA carotideo, TIA vertebro-basilare, Amaurosi transitoria (territorio dell’art. oftalmica).

Non sono da considerarsi sintomi di attacco transitorio, qualora siano isolati: - Perdita di coscienza

- Sensazione d’instabilità - Astenia generalizzata

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- Confusione mentale

- Perdita o calo del visus associati a ridotto livello di coscienza - Incontinenza sfinteriale

- Vertigine - Diplopia

- Perdita d’equilibrio - Disfagia

- Sintomi sensitivi (parestesie, ipoestesie) confinati a una parte di arto/volto - Acufeni

- Scotomi scintillanti

- Amnesia globale transitoria - Drop Attack

Un buon metodo per stratificare il rischio ischemico nel paziente con TIA è il cosiddetto Age, Blood

pressure, Clinical features, Duration of symptoms and Diabetes ossia l’ABCD2 score [25], che

attribuisce un punteggio in base a cinque caratteristiche del paziente: l’età (1 punto se > 60 anni), la pressione arteriosa (1 punto se > 140/90 mmHg), il deficit neurologico clinico (1 punto per deficit fasico senza ipostenia, 2 punti per ipostenia unilaterale), la durata dell’attacco (1 punto per 10-59 minuti e 2 punti per > 60 minuti), la presenza di diabete mellito (1 punto). Dal calcolo dello score si possono identificare pazienti con diverso profilo di rischio per ictus:

-Punteggi tra 0 e 3 configurano un basso rischio, cioe’ la probabilita’ di sviluppare ictus ischemico a 2 giorni dal TIA risulta pari all’ 1%;

-Punteggi tra 4 e 5 configurano un rischio moderato (4.1% a 2 giorni); -Punteggi tra 6 e 7 configurano un rischio elevato (8.1% a 2 giorni).

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Classificazione

La classificazione TOAST (Trial of Org 10171 in acute Stroke Treatment) del 1993 [26] suddivide i TIA e l’ictus ischemico in sottogruppi su base eziopatogenetica:

 Aterotrombotico (aterosclerosi delle grosse arterie)

 Cardioembolico

 Malattia delle piccole arterie (lacunari)

 Altre cause determinanti (dissezioni, vasculiti, disordini coagulativi, altre)

 Indeterminato (due o più cause o valutazione negativa/incompleta)

Vari registri sono concordi nell’attribuire circa il 30% degli ictus ad un’eziopatogenesi aterosclerotica; circa il 30% a cardioembolia; circa il 20% a malattia delle piccole arterie; circa il 10% ad altre cause determinanti e il restante 10% a cause non determinate (ictus criptogenetico).

- Eziopatogenesi Aterosclerotica

L’aterosclerosi è la patologia che più frequentemente colpisce le carotidi e tale prevalente localizzazione è correlata a numerosi fattori: geometrici, di velocità del flusso e di ‘shear stress’ al quale è sottoposto il vaso stesso.

La biforcazione carotidea è più frequentemente sede di placche aterosclerotiche perché situate in una regione ad alta turbolenza di flusso.

Anche le cellule muscolari hanno un importante ruolo nell’iniziale sviluppo della placca, migrando dalla tonaca intima alla tonaca media, proliferando e promuovendo l’accumulo di colesterolo ed altre molecole lipidiche; i macrofagi, producendo fattori di crescita, stimolano ulteriormente la proliferazione di cellule muscolari e di matrice extracellulare. Le cellule muscolari lisce e i macrofagi provocano una risposta infiammatoria secondaria da parte degli stessi monociti-macrofagi e di linfociti T e, inglobando le LDL ossidate, sono trasformate in cellule schiumose (foam cells) caratteristiche delle lesioni aterosclerotiche. La placca aterosclerotica è composta da un

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denso cappuccio connettivale circondato da cellule muscolari lisce che ricoprono un core necrotico-lipidico, composto da prodotti di degradazione cellulare e di cristalli di colesterolo, separato dal lume carotideo da un cappuccio fibroso di spessore variabile, composto da fibroblasti e matrice extracellulare. L’interazione tra queste cellule è determinante per lo sviluppo e la progressione della placca e per l’insorgenza di complicanze quali la trombosi e la rottura della placca stessa. L’integrità strutturale del cappuccio fibroso è, ovviamente, cruciale in relazione all’evoluzione finale della placca verso la ‘rottura’ (placca instabile) e alle sue sequele embolizzanti. Possono esservi inoltre successivi depositi di calcio, che rendono la carotide ancor più rigida dal punto di vista meccanico (e pertanto, di calibro meno adattabile alle variazioni del flusso ematico e dell’onda sfigmica).

L’analisi anatomo-patologica comparata di campioni di endoarterectomia carotidea di soggetti con o senza sintomi neurologici ha fornito indicazioni sui determinanti di instabilità della placca carotidea, risultati molto simili a quelli responsabili della vulnerabilità a livello coronarico. La vulnerabilità alla rottura è caratterizzata da: ridotto spessore del cappuccio fibroso, grosso core lipidico-necrotico, ed infine un maggiore infiltrato di cellule infiammatorie all’interno della placca (in particolare macrofagi e linfociti T) [27]. Uno studio effettuato da Virmani et al. [28] ha evidenziato come nelle placche vulnerabili coronariche vi sia un sottile cappuccio fibroso (≤ 150 μm) che ricopre un core lipidico nello spessore della parete. Inoltre, sebbene alcuni autori abbiano mostrato che la quantità di lipidi estraibili dalle placche di pazienti sintomatici sia maggiore rispetto a quella delle placche dei pazienti asintomatici [29], altri hanno suggerito che il fattore determinante la rottura sia rappresentato dalla vicinanza del core lipidico al cappuccio fibroso. In particolare, Bassioumy et al. [30] hanno dimostrato che a parità di diametro del core lipidico, la vicinanza di quest’ultimo ad un cappuccio più sottile predispone maggiormente alla rottura.

Inoltre, è stato dimostrato come la rottura della placca e l’ulcerazione sono significativamente maggiori nei pazienti sintomatici, mentre la trombosi luminale e l’emorragia intraplacca sono egualmente rappresentate nelle placche ottenute da pazienti sintomatici o asintomatici [31]. Il

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rischio di rottura è legato non solo alle caratteristiche intrinseche della placca (vulnerabilità), ma anche a forze meccaniche ed emodinamiche che agiscono dall’esterno, in particolare a livello della biforcazione carotidea nelle regioni laterali della placca, dove il cappuccio fibroso è più sottile [32]. I fattori emodinamici sembrano influenzare la stessa composizione cellulare. A tal proposito Dirksen et al. [33] hanno dimostrato come diverse aree della placca abbiano una diversa composizione cellulare. In particolare, le aree della placca a valle del flusso sono più ricche di cellule muscolari lisce, mentre aree localizzate a monte rispetto al flusso subiscono un maggiore stress di taglio e sono più ricche di macrofagi.

La progressione di placche carotidee stabili in placche vulnerabili è probabilmente legata ad un particolare microambiente della placca stessa, a sua volta dipendente da un bilancio tra migrazione e proliferazione cellulare, produzione e degradazione di matrice extracellulare ed infiltrato infiammatorio rappresentato da macrofagi e linfociti T. È ormai noto che i linfociti T, attraverso la produzione di interferone γ, da un lato stimolano i macrofagi a produrre le metalloproteinasi (MMP), e dall’altro inibiscono la sintesi del collagene. Tale squilibrio tra produzione di collagene e matrice extracellulare e la sua digestione comporta un assottigliamento del cappuccio [34]. Alti livelli di MMP sono stati dimostrati nel cappuccio fibroso [35,36], mentre un aumento dell’apoptosi delle cellule muscolari lisce è di frequente riscontro in placche aterosclerotiche instabili [37]. Inoltre, l’accumulo di cellule T e di macrofagi, attraverso la produzione di citochine pro-infiammatorie, è stato correlato con l’ulcerazione della placca carotidea, la frequenza di microemboli e l’insorgenza di sintomi corticali cerebrali [38,39,40]. L’importanza del microambiente nella progressione delle lesioni aterosclerotiche e la possibilità di modulare le interazioni esistenti tra i suoi diversi componenti è stata ulteriormente chiarita da studi sperimentali che hanno dimostrato come il trattamento con farmaci ipolipidemizzanti, quali fluvastatina e pravastatina su conigli sottoposti a dieta ipercolesterolemica, oltre a ridurre i livelli plasmatici dei lipidi, abbassano i livelli di MMP-1, MMP-3 ed MMP-9 ed aumentano la sintesi di pro-collagene da parte delle cellule muscolari lisce [41], stabilizzando la lesione.

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Molti dei fattori di rischio per l’ictus ischemico hanno un effetto promotore sull’aterosclerosi, attraverso vari percorsi patogenetici riconducibili al danno endoteliale, all’aumentata adesione piastrinica, all’accelerata deposizione di LDL ossidate nella parete vascolare e all’interferenza con il meccanismo della coagulazione e della fibrinolisi. Il fumo di sigaretta, l’iperomocisteinemia, la dislipidemia, l’ipertensione e il diabete convergono proprio verso queste strade. Di più, ciascun fattore di rischio cerebrovascolare influenza in modo diverso la composizione istocitologica delle placche, portandole all’instabilità: è stato dimostrato da Spagnoli et al. [42] che placche fibrose erano più specificatamente associate al diabete mellito, placche granulomatose ricche in cellule giganti all’ipertensione arteriosa, placche ricche in cellule schiumose all’ipercolesterolemia, mentre nei pazienti fumatori la placca appariva più spesso complicata da trombosi. Anche elevati livelli di fibrinogeno e PCR porterebbero alla maggiore infiammazione della placca, con aumento dei linfociti T e instabilità [43].

L’evoluzione sopra descritta, con un’esposizione del contenuto lipidico in profondità, predispone alla trombosi o alla tromboembolia. Un’ultima complicanza della placca aterosclerotica, in fase avanzata, è l’emorragia che può verificarsi anche in assenza della rottura della membrana fibrosa superficiale e dar luogo a dissecazioni.

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Eziopatogenesi Cardioembolica

L'embolia di origine cardiaca causa circa il 30% di tutti gli ictus. L'ictus causato da una malattia cardiaca è dovuto principalmente a emboli o alla formazione di materiale trombotico sulla parete atriale o ventricolare, oppure sulle valvole cardiache sinistre; questi trombi si staccano ed entrano nella circolazione arteriosa, dove possono frammentarsi o andare incontro a lisi con pronto ripristino del circolo; in alternativa, possono condizionare un'occlusione arteriosa permanente e può verificarsi una trombosi distale all'ostruzione con conseguente interruzione della circolazione collaterale distale. Gli emboli provenienti dal cuore si dirigono più frequentemente verso la cerebrale media o uno dei suoi rami; raramente causano un infarto nel territorio della cerebrale

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anteriore. Gli emboli sufficientemente grandi da occludere la porzione principale della cerebrale media (3-4 mm) hanno come conseguenza un ampio infarto che coinvolge sia la sostanza grigia che la sostanza bianca e una parte della superficie corticale e della sostanza bianca sottostante. Un embolo più piccolo può occludere un piccolo ramo corticale o uno dei rami penetranti; la localizzazione e le dimensioni dell'infarto dipendono anche dal grado di risparmio del circolo collaterale.

Si ritiene che l'embolia cerebrale cardiogena si verifichi quando si rinvengano o siano già note aritmie cardiache o anomalie strutturali; le cause più comuni di ictus cardioembolico sono la fibrillazione atriale (FA) di origine non reumatica (spesso detta "non valvolare"), l'infarto miocardico, la sostituzione di valvole, la malattia reumatica cardiaca, la cardiopatia ischemica e la pervieta’ del forame ovale.

La fibrillazione atriale non reumatica è la causa più comune di embolia cerebrale; i pazienti portatori di FA presentano un rischio medio annuo di ictus pari a circa il 5%, anche se la per-centuale varia in relazione alla presenza di altri fattori di rischio come l'età avanzata, l'ipertensione, una ridotta funzionalità ventricolare sinistra, un precedente episodio di cardioembolia e il diabete mellito. I pazienti di età inferiore a 60 anni senza alcun fattore di rischio presentano un rischio annuo di circa 0,5%, mentre quelli con più fattori hanno un rischio del 15% circa. Il meccanismo presunto dell'ictus è la formazione di trombi nell'atrio fibrillante o nell'auricola, con successiva embolizzazione [44]. Un infarto miocardico, in particolare se transmurale e con coinvolgimento della parete ventricolare anteroapicale, è una condizione ad alto rischio di embolia, in particolare nelle prime settimane.

Le cardiomiopatie con ridotta funzionalità ventricolare sinistra si associano frequentemente a formazione di trombi nel ventricolo sinistro [45].

Le protesi valvolari cardiache, in particolare quelle meccaniche, sono una causa comune di embolia cerebrale [45].

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La malattia reumatica cardiaca di solito causa ictus ischemico in presenza di una stenosi mitralica documentabile o di una FA; l’ingrandimento atriale sinistro e l'insufficienza cardiaca congestizia costituiscono ulteriori fattori di rischio per la formazione di trombi atriali.

Il prolasso della valvola mitrale può essere fonte di emboli; questa patologia comune probabilmente è causa di embolia cerebrale solo quando è grave [45]

I difetti settali congeniti si associano a embolia cerebrale. Il Forame Ovale Pervio, altrimenti abbreviato con l'acronimo PFO, definisce un'anomalia cardiaca in cui l'atrio destro comunica con il sinistro a livello della fossa ovale tra septum primum e il septum secundum. Statisticamente interessa all'incirca il 25-30% della popolazione adulta. In realtà la comunicazione tra i due atri è assolutamente normale e anzi essenziale durante la vita fetale, prima della nascita. Durante la vita fetale i polmoni sono inattivi e l'ossigeno che va ai tessuti proviene dalla madre tramite la placenta e i vasi del cordone ombelicale. Dovendo oltrepassare i polmoni, il sangue fluisce direttamente dalla porzione destra del cuore nella parte sinistra tramite due aperture il dotto di Botallo posto tra l'arteria polmonare e l'aorta toracica e il forame ovale che connette i due atri. Alla nascita, la circolazione placentare viene interrotta, i polmoni iniziano la loro attività respiratoria e il circolo polmonare diventa pienamente funzionante. Le modificazioni delle resistenze vascolari fanno si che la pressione atriale sinistra diventa leggermente superiore a quella destra. Questa differenza di pressione fa accollare al forame ovale una piccola membrana chiamata septum primum. Normalmente, entro il primo anno di vita, la membrana si salda alla parete e la chiusura diviene permanente. Il forame ovale viene definito pervio (aperto), quando questa saldatura non avviene e la chiusura anatomica risulta imperfetta o manca completamente e quindi il septum primum viene mantenuto in sede soltanto dalla differenza pressoria. Nelle nornali condizioni di vita, il PFO non comporta nessun problema. Se invece la pressione nell'atrio destra supera quella dell'atrio sinistro,ci può essere un passaggio (shunt) di sangue nell'atrio sinistro e avere quindi un embolia paradossa. Un forame ovale pervio (PFO) è stato riscontrato a livello autoptico nel 25-35% della popolazione adulta senza differenza di sesso [46].

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Utilizzando l'ecocardiografia con mezzo di contrasto bolloso (iniezione endovenosa di soluzione fisiologica agitata associata a un ecocardiografia trans-toracica o trans-esofagea), o con un Doppler transcranico per ricerca di pervietà del forame ovale, un PFO si può rilevare nel soggetto vivente nel 5-20% della popolazione adulta [47].

Pazienti giovani (di età inferiore ai 60 anni), colpiti da uno o più episodi di ischemia cerebrale la cui causa non sia stata determinata ("criptogenetica") e si sospetti una embolia cerebrale paradossa devono essere sottoposti ad indagini strumentali per verificare la presenza del PFO [48].

Numerosi studi hanno comunque confermato una forte associazione tra la presenza di un PFO e il rischio di embolia paradossa o di episodi di ischemia cerebrale [49].

Confrontati con un gruppo di soggetti di controllo senza PFO, i pazienti con PFO hanno un rischio di soffrire di un evento trombo-embolico che è quattro volte più alto; tale rischio è 33 volte maggiore nei pazienti che hanno sia il PFO che un aneurisma del setto interatriale [50].

Inoltre, la presenza di un forame ovale ampiamente pervio (con separazione tra septum primum e septum secundum >5mm) o con ampio shunt destro-sinistro (più del 50% dell'atrio sinistro riempito da ecocontrasto) sono state identificati come predittori ecocardiografici di un aumentato rischio di embolia paradossa [51].

- Eziopatogenesi Lacunare

Infarti piccoli e profondi causati dall’occlusione delle arterie perforanti. Le piccole arterie che penetrano nelle strutture cerebrali profonde (ad esempio i nuclei della base, la capsula interna, il talamo, il ponte) sono particolarmente suscettibili alle alterazioni degenerative da ipertensione arteriosa: l’ipertrofia della tunica media, le alterazioni fibrinoidi e la lipoialinosi restringono gradualmente i lumi di queste arterie, ostacolandone il flusso ematico. Placche arteriose, che bloccano o si estendono all’interno degli orifizi delle arterie perforanti, e i microateromi sono più frequenti nei diabetici. Alti valori di ematocrito aumentano la viscosità ematica, che aumenta i rischi di infarti lacunari e di occlusione di grandi arterie. L’occlusione di un’arteria perforante causa

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un infarto piccolo e profondo (lacuna). Le lacune sono < 15mm nel loro diametro massimo e colpiscono solo le strutture più profonde. L’origine delle arterie perforanti può essere occlusa da microateromi e microdissezioni, con conseguenti infarti a identica distribuzione. Le lacune insorgono più frequentemente nel circolo posteriore; la loro prevalenza aumenta con l’età, ma non sembra correlarsi al sesso o alla razza.

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Eziopatogenesi da altra causa

L’aterosclerosi è di gran lunga la più frequente, in virtù dell’alta prevalenza di malattia nella popolazione generale. Le altre cause (principalmente dissezioni, arteriti, displasia fibromuscolare, forme postattiniche e genetiche), sono considerate nelle ‘eziologie rare’, responsabili nel 5% dei casi e maggiormente rappresentate nelle forme giovanili.

Oltre alla TOAST, una altra classificazione adottata, secondo i criteri dell’Oxfordshire Community Stroke Project (OCSP) [52], è quella clinica,che distingue il TIA e l’ictus ischemico in sindromi territoriali così suddivise:

- TACS: sindrome totale del circolo anteriore (ramo principale dell’arteria silviana eventualmente associato all’arteria cerebrale anteriore) con emiplegia ed emianestesia, emianopsia e disturbo corticale superiore (afasia o disturbo visuospaziale)

- PACS: sindrome parziale del circolo anteriore (ramo dell’arteria silviana) con deficit sensitivo-motorio ed emianopsia, oppure deficit sensitivo motorio e compromissione corticale, oppure emianopsia e deficit corticale

- POCS: sindrome del circolo posteriore (arteria del circolo vertebro-basilare o cerebrale posteriore) con paralisi di nervo cranico e deficit sensitivo-motorio controlaterale, oppure deficit motorio e/o sensitivo bilaterale, oppure disturbo coniugato di sguardo, oppure disfunzione cerebellare, oppure emianopsia isolata

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- LACS: sindrome lacunare (piccole arterie perforanti profonde) con ictus motorio puro, ictus sensitivo puro, ictus sensitivo-motorio, emiparesi atassica. L’ictus o il TIA sono senza afasia, disturbi visuospaziali, senza compromissione del tronco e della coscienza.

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Aspetti prognostici

I dati di prognosi hanno una notevole rilevanza per la pianificazione sanitaria e per l’elaborazione di ‘linee guida’ in relazione alla prevenzione primaria e secondaria, al trattamento ed alla riabilitazione dell’ictus. La mortalità è il principale parametro prognostico, ma i suoi valori sono molto variabili essendo influenzati dal tipo di studio (studi di popolazione, registri ospedalieri); risentono poi in maniera molto spiccata del livello di qualità assistenziale nella fase acuta. Con lo sviluppo delle stroke unit e con il miglioramento generale dell’assistenza, la mortalità per ictus è in progressivo calo dal 1970 in poi.

L’ictus ischemico globalmente considerato ha una mortalità a 30 giorni oscillante, nei vari studi, tra 10% e 25% circa; se si eliminano quelli lacunari la prognosi a breve termine è leggermente peggiore, dato che questi hanno una mortalità modesta. Nell’ambito dei vari tipi di ictus, quelli a prognosi acuta peggiore sia in termini di mortalità che di entità di esiti, sono quelli globali del circolo anteriore, mentre meno grave è la prognosi di quelli parziali del circolo anteriore e di quelli del circolo posteriore. Per ciò che riguarda la prognosi a lungo termine, la mortalità ad 1 anno dei pazienti con ictus ischemico è pari a circa il 30-40% mentre la frequenza di recidiva è tra 10% e 15% nel primo anno e tra 4% e 9% nei primi 5 anni dopo l’evento iniziale [53]. I dati di popolazione del Registro de L’Aquila [12] indicano una mortalità a 30 giorni per ictus ischemico del 21,2%. È inoltre presente un aumentato rischio per eventi vascolari importanti anche in altri distretti vascolari (coronarie, arti inferiori, morte improvvisa), trattandosi per lo più di soggetti affetti da vasculopatie pluridistrettuali o portatori di multipli fattori di rischio per aterosclerosi. I TIA si manifestano in circa un terzo dei soggetti che in seguito presentano un ictus ischemico e rappresentano perciò un importante fattore di rischio di ictus [54]. Il rischio assoluto di ictus nei soggetti con TIA e minor stroke varia tra il 7% ed il 12% nel corso del primo anno (10 volte la popolazione generale di pari età e sesso [55]) e tra il 4% ed il 7% per anno nei primi 5 anni dopo l’evento iniziale [56]. Anche la mortalità generale è significativamente aumentata nei soggetti con

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TIA, anche se la causa principale è la cardiopatia ischemica e non l’ictus. Il TIA è infatti un campanello d’allarme anche per le sindromi coronariche acute.

I pazienti che presentano un infarto lacunare presentano una mortalità molto bassa [ 57,58] del 4,3% a 30 giorni e del 13% a 1 anno, come stimato da Sacco e coll., contro il 26,7% e il 40,3% dei restanti ictus di tipo ischemico. Inoltre gli ictus lacunari hanno circa la metà del rischio di recidiva a 5 anni (2,8% vs 5%) [59].

Resta il fatto che nel 35% dei pazienti colpiti da ictus, globalmente considerati, residua una grave invalidità e una marcata limitazione nelle attività della vita quotidiana [60]

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III.ANATOMIA DEL CIRCOLAZIONE VENOSA ENDOCRANICA

Analogamente al circolo arterioso endocranico, diviso un sistema arterioso superficiale e uno profondo, esiste specularmente un sistema di drenaggio venoso superficiale ed un sistema profondo (Fig.1). A differenza delle vene di altri distretti topografici, le vene ed i seni venosi cerebrali non presentano valvole.

Le vene superficiali drenano il sangue proveniente dalla corteccia della superfice convessa degli emisferi cerebrali, il sistema profondo drena il sangue refluo dalla superfice mediale degli emisferi, dal corpo calloso, dai nuclei della base, talamo e diencefalo, capsula interna, parti mediali dei lobi temporali, insula, corteccia orbitofrontale ed olfattiva.

Entrambi i sistemi sono emissari dei seni venosi della dura madre il cui sangue è in ultima analisi ricondotto alle sezioni destre del cuore dalla vena giugulare interna. Esistono alcuni sistemi anastomotici tra circolo venoso intracranico ed extracranico: a livello della vena oftalmica (che da un lato comunica col seno cavernoso, dall’altro con la vena facciale tramite la vena angolare), a livello delle vene emissarie che uniscono i seni venosi alle vene meningee, diploiche e dello scalpo e a livello del seno petro squamoso con la vena retromandibolare (confluente della giugulare esterna).

Anatomia dei seni venosi

I seni della dura madre sono ampie lacune venose, a sezione triangolare, costituite dallo sdoppiamento dello strato interno o meningeo, in corrispondenza della loro inserzione a livello della teca cranica (Fig.2). Essi costituiscono la via terminale di drenaggio per il sangue proveniente dall’encefalo provvedendo a indirizzare il sangue refluo nella vena giugulare interna, attraverso la quale raggiunge, attraverso le sezioni destre del cuore, il piccolo circolo, ove può essere riossigenato. A livello della parete di tali lacune venose ed in particolare del seno sagittale superiore e del seno laterale all’osservazione autoptica, si possono rilevare delle formazioni granuleggianti,

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denominate granulazioni di Pacchioni, coinvolte nei processi di riassorbimento del liquor cefalo-rachidiano. Risultano costituite da estroflessioni dell’aracnoide nel contesto dei valli durali, che delimitano i seni venosi. Le impronte delle granulazioni sulla dura madre che ricopre la teca cranica, visibili all’osservazione autoptica, sono dette foveole granulari.

Dal punto di vista anatomo funzionale, possiamo schematicamente separare i seni che drenano il sangue refluo dalle vene corticali superficiali della superfice convessa degli emisferi (seno sagittale superiore, seno trasverso, seno sfenoparietale e confluente dei seni), ed i seni che drenano il sangue dalle parti più profonde dell’encefalo (seno sagittale inferiore, seno retto, seno petroso superiore ed inferiore, seno petrosquamoso, seno cavernoso, seno sigmoideo e seno occipitale). Ecco, in sintesi, la descrizione dell’anatomia dei seni venosi:

-Seno sagittale superiore (SSS) prende origine a livello del forame cieco, anteriormente alla crista galli e decorre lungo il tavolato interno della teca cranica, in posizione mediana, per raggiungere il torculare di Erofilo, ove converge con il seno retto ed i due trasversi. Nei rari casi in cui il forame cieco si presenta congenitamente pervio, prende origine da una piccola vena proveniente dalle cavità nasali. Tale situazione secondo una casistica di 201 casi si può osservare nel 9% degli individui. Il SSS drena le porzioni superiori dei lobi frontale, parietale e occipitale, sia per il versante mediale, che per quello laterale. Fra le altre strutture provvede al drenaggio anche delle regioni mediali dell’area motoria (area 4 di Brodmann), che mappano per gli arti inferiori, secondo la classica rappresentazione grafica dell’homunculus motorio. Pertanto l’interessamento trombotico di tale struttura venosa può esitare in una paraparesi spastica.

- Seno Traverso (ST): localizzato nel contesto dell’inserzione del tentorio cerebellare, origina a livello della protuberanza occipitale interna. Uno, di solito il destro, è la diretta continuazione del SSS, l’altro del seno retto (SR). Decorre postero anteriormente a livello del solco del seno traverso della squama dell’osso occipitale, prima, e quindi sull’angolo mastoideo dell’osso temporale. All’estremità anteriore si biforca, continuandosi anteriormente con il seno petroso

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superiore (SPS) a livello del margine postero-superiore della piramide temporale, ed inferiormente con il seno sigmoideo (SSi), collettore terminale della circolazione venosa endocranica, con cui forma nel complesso il cosiddetto seno laterale (SL– denominazione più comune nei paesi anglofoni). Ha sezione trasversale triangolare e calibro progressivamente crescente lungo il decorso. I due seni eterolaterali sono spesso asimmetrici per la prevalenza di quello che riceve il sangue dal SSS (nella > parte dei casi il destro). In caso di agenesia o ipoplasia del ST, il SSi omolaterale viene rifornito di sangue proveniente dalla vena di Labbè. Contiene numerose granulazioni aracnoidali, per cui la sua occlusione correla frequentemente con segni e sintomi clinici di ipertensione endocranica. In tal senso alcune recenti evidenze in letteratura clinica dimostrano l’efficacia delle procedure interventistiche di stenting bilaterale del ST in alcuni casi di pseudotumor cerebri, resistenti al trattamento medico classico (acetazolamide; trattamento di sottostanti patologie di natura dismetabolica, vista l’associazione con la cosiddetta “sindrome metabolica”) ed associati ad evidenza di ipoplasia bilaterale dei ST. Lungo il decorso riceve: le vene cerebrali inferiori, le vene cerebellari inferiori, le vene diploiche, la piccola vena anastomotica di Labbè. Quest’ultima si localizza al confine fra il ST e il SSi. Riceve inoltre vene provenienti dalla mastoide e dall’orecchio medio ed interno. Ciò spiega la facilità di coinvolgimento tromboflebitico, nel contesto di processi suppurativi oto-mastoidei. Importanti collaterali del ST sono i cosiddetti seni tentoriali, vasi venosi localizzati all’interno del tentorio cerebellare.

-Confluente dei seni o torculare di Erofilo: incrocio venoso, in corrispondenza della protuberanza occipitale interna, fra SSS, SR, ST e seno Occipitale (SO). Sono possibili numerose varianti anatomiche, delle quali la più frequente risulta essere il collegamento fra SSS e il ST di maggiori dimensioni (in genere il destro) e fra SR e l’altro ST. In alcuni casi tuttavia si possono osservare diverse configurazioni anatomiche, fra le quali è possibile anche la confluenza plurima di tali strutture vascolari, in un vero e proprio incrocio venoso. Uno studio di Singh e coll (2004) basato sull’osservazione autoptica delle impronte lasciate dai seni

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della dura madre sulla teca di 160 cranii, ha individuato quattro possibili varianti anatomiche: la variante confluente (35%) in cui si osserva la convergenza delle quattro suddette strutture venose; la variante con Biforcazione (14%) in cui il SR drena in entrambi i ST; la variante con Dominanza Destra (41%) in cui il SSS drena solo nel ST di destra; la variante con dominanza sinistra (10%) in cui il SSS drena solo nel ST di sinistra. Negli ultimi due casi il SR è collegato all’altro ST, che risulta in genere di calibro inferiore al controlaterale.

-Seno Sfeno-Parietale (SSP): decorre lungo il margine posteriore della piccola ala dello sfenoide, con tragitto curvilineo, fino a raggiungere il SC omolaterale. Viene rifornito di sangue dalla vena cerebrale media superficiale (VCMS). Nei casi in cui tale connessione risulta più ampia, il SSP presenta un calibro maggiore.

-Seno Retto (SR): formato alla convergenza di grande falce cerebrale, tentorio e piccola falce cerebellare, dalla confluenza della vena di Galeno con il seno sagittali inferiore; può terminare a livello del torculare di Erofilo, o, più frequentemente a livello del seno trasverso di destra. Ha sezione traversa triangolare e presenta al suo interno un numero ristretto di lacinie fibrose. Decorre all’indietro e in basso come continuazione del seno sagittale inferiore, andando generalmente a gettarsi nel ST del lato opposto a quello che riceve il SSS, meno frequentemente formando un incrocio venoso con il SSS ed entrambi i traversi, nel contesto della variabilità anatomica interindividuale del confluente dei seni.

Lo sbocco della grande vena di Galeno, si caratterizza per una dilatazione ad ampolla. Al confine con questa vena il pavimento del SR presenta un corpiciattolo, molto simile ad una granulazione aracnoidale, sebbene di maggiori dimensioni. Esso contiene all’interno un ricco plesso capillare sinusoidale. Probabilmente svolge un’azione di valvola, inturgidendosi, per congestione ematica. Il SR riceve anche alcuni vasi appartenenti al sistema delle vene Cerebellari Superiori.

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corrispondenza del margine libero della grande falce. Drena la porzione inferiore della superficie mediale degli emisferi cerebrali. Comunica con il SSS attraverso i circoli collaterali interni alla grande falce. Sbocca a livello dell’estremità anteriore del SR, alla confluenza con la grande Vena cerebrale di Galeno.

-Seno Sigmoideo (SSi): si continua a pieno canale con il precedente a livello della sua estremità anteriore. Dopo un decorso a “S”, dall’alto verso il basso, lungo la superficie del tavolato interno del cranio, in corrispondenza della parte mastoidea del temporale, raggiunge il forame giugulare laddove sbocca nella vena giugulare interna. Costituisce, dunque, la principale via di drenaggio terminale della cavità endocranica. L’agenesia o l’ipoplasia di questo vaso sono assolutamente di non comune riscontro. Anteriormente solo una sottile lamina ossea separa il seno dall’antro e dalle cellule mastoidee, favorendo così la propagazione di processi settici.

-Seno Petroso Superiore (SPS): rappresenta la continuazione anteriore del ST, dopo la separazione del SSi, in corrispondenza dell’inserzione del tentorio a livello del margine superiore della piramide del temporale (con andamento antero-posteriore e latero-mediale); termina nel seno cavernoso. Riceve le vene cerebellari inferiori, vene cerebrali inferiori e vasi venosi provenienti dall’orecchio medio, che lo rendono facilmente suscettibile di coinvolgimento tromboflebitico, in corso di patologie suppurative a carco della cavità del timpano. Presenta inoltre collegamenti con il plesso venoso basilare e con il SPI (seno Petroso Inferiore).

-Seno Petroso Inferiore (SPI): ha inizio dalla parte inferiore del seno cavernoso (SC) di ciascun lato, e decorre dall’alto in basso, per raggiungere il forame giugulare, laddove confluisce con il SSi omolaterale nella vena giugulare Interna. Riceve vene provenienti dal labirinto e dal tronco encefalico, in particolare la vena petrosa, che origina dall’incontro fra vena branchiale e vena corioidea del IV ventricolo. In molti casi il SPI rappresenta un plesso venoso piuttosto che un singolo vaso.

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-Seno Occipitale (SO): situato in corrispondenza dell’inserzione della piccola falce cerebellare a livello dell’osso occipitale. In questo seno confluisce il sangue proveniente dalle regioni vermiane dorsali del cervelletto. Termina a livello del torculare di Erofilo.

-Seno Petro-Squamoso (SPeS): piccolo seno localizzato in una doccia, alla giunzione fra la parte petrosa e la parte squamosa del temporale, origina dalla vena retromandibolare, pertinente il sistema della vena giugulare esterna, cui si collega attraverso l’orifizio postglenoideo o squamoso, e sbocca posteriormente nel ST omolaterale.

-Seno Cavernoso (SC): uno per lato del corpo dello sfenoide. Presenta una struttura interna spugnosa, in quanto riccamente sepimentato da propaggini fibrose del vallo durale che lo circonda. Si estende antero-posteriormente dalla fessura orbitaria superiore all’apice della rocca petrosa del temporale, con dimensioni, in media di 2x1 cm. I nervi cranici III, IV, V(1) – branca oftalmica e V(2) – branca mascellare, passano all’interno della parete laterale del SC, mentre il VI paio di nervi cranici è ospitato all’interno del lume del seno, insieme alla carotide interna – tratto intracavernoso e al plesso simpatico pericarotico. Il SC drena il sangue proveniente: dall’orbita, attraverso le vene oftalmica superiore, oftalmica inferiore (o più comunemente da un suo ramuscolo), e centrale della retina, che segue il decorso del nervo ottico, per gettarsi nel SC, direttamente o dopo essersi anastomizzata con la vena oftalmica superiore; dal seno sfeno-parietale (estensione mediale della VCMS), che decorre lungo il margine posteriore della grande ala dello sfenoide; dalla sella turcica; dall’eminenza mediana diencefalica. Il sangue prende, in parte, la via del SPS, che si apre al polo posteriore del SC per poi sfociare nel ST ed, in parte, la via dei seni intercavernosi anteriore e posteriore, strutture di interconnessione mediana dei due SC eterolaterali. Essi sono situati a livello dei margini aderenti anteriori e posteriori del diaframma della sella. Formano un anello venoso, da cui la denominazione alternativa di seno circolare. Tale struttura si continua posteriormente con il plesso venoso basilare del clivus occipitale. La presenza dei seni intercavernosi spiega il frequente coinvolgimento bilaterale del SC in processi patologici.

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Anatomia delle vene cerebrali superficiali o corticali

Le vene cerebrali corticali o superficiali sono deputate al drenaggio del sangue refluo dalla corteccia cerebrale e dalla sostanza bianca adiacente (attraverso le vene midollari, che iniziano 2 cm al di sotto della corteccia). Sono localizzate nell’ambito dei solchi, seguendone il decorso (Fig.3). Formano 3 sistemi:

1. Dorso-Mediale: raccoglie il sangue dalle regioni adiacenti la linea mediana e dalla convessità; drena nel SSS e nel SSI.

2. Superiore: drena il sangue refluo dalle regioni superiori della superficie laterale degli emisferi cerebrali, per terminare nel SSS da un lato, nella grande vena anastomotica di Trolard e nella vena cerebrale media superficiale (VCMS), dall’altro.

3. Postero-Inferiore: drena il sangue refluo dalle aree temporo-occipitali nel ST da un lato, nella VCMS e nella piccola vena anastomotica di Labbè, dall’altro.

4. Sistema Anteriore: riceve sangue dal polo frontale, dal lobo frontale (parte latero-inferiore) e dalla parte anteriore del lobo temporale, ivi compreso il polo temporale. Drena anch’esso nella VCMS.

Il più importante vaso appartenente al sistema delle vene corticali è rappresentato dalla VCMS, che decorre nella parte più superficiale della scissura laterale del Silvio. Si forma a livello dell’origine del ramo posteriore della scissura, dalla confluenza della grande vena anastomotica di Trolard, che decorre verticalmente verso l’alto e posteriormente, fino a incontrare il SSS, e della piccola vena anastomotica di Labbè, che decorre verticalmente verso il basso e posteriormente, fino ad incontrare il SL, alla congiunzione fra ST e SSi. La VCMS termina continuandosi con il SSP, tramite cui si riversa nel SPS che va a terminare nel SL, via terminale d’efflusso venoso. Le vene anastomotiche rappresentano perciò un “trait-d’union” fra il sistema delle vene corticali e quello dei seni venosi della dura madre. I due sistemi sono collegati fra loro anche dalle vene “a ponte” (bridging veins

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degli autori anglosassoni), che attraversano lo spazio subaracnoideo con decorso radiale, sospesi fra seni e vene corticali e particolarmente numerosi a livello del SSS. Le vene corticali sono altamente suscettibili alle variazioni interindividuali, con ipoplasia di alcune componenti, in favore di altre, che si presentano pertanto ectasiche, a scopo di vicariamento.

Anatomia del circolo venoso profondo

Provvedono al drenaggio della parte più profonda della sostanza bianca, dei gangli della base, del diencefalo e di parte del mesencefalo (Fig.4):

1. Vene settali: drenano il sangue proveniente dal ginocchio del corpo calloso, dal setto pellucido e dalla parte anteriore del nucleo caudato all’interno delle vene talamo-striate. 2. Vene talamo-striate: drenano il sangue dai gangli della base e dalle capsule, interna ed

esterna; dopo aver percorso il tetto del 3° ventricolo (in corrispondenza del margine mediale del caudato, nel solco talamo-striato, al confine fra caudato e talamo). Attraversano il forame interventricolare di Monro, per continuarsi, poi, nelle Vene Cerebrali Interne, che si formano per confluenza con le vene corioidee.

3. Vene corioidee: drenano il sangue refluo dai plessi corioidei dei ventricoli laterali e dall’epifisi all’interno delle vene talamo-striate

4. Vene cerebrali interne: rappresentano la continuazione posteriore delle vene talamo-striate, dopo l’attraversamento del forame interventricolare di Monro. Risultano dalla confluenza di vene talamo-striate e corioidee. Decorrono parallele fra gli strati della tela coriodea del 3° ventricolo, in posizione paramediana, per incontrare la controparte, posteriormente, in corrispondenza dello splenio del corpo calloso e formare la grande vena cerebrale di Galeno. 5. Grande vena cerebrale di Galeno: risultante dalla confluenza delle due vene cerebrali interne, decorre dalla porzione posteriore del diencefalo fino al SR, nel quale va a terminare;

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in corrispondenza del confine fra cervelletto e splenio del corpo calloso, da ciascun lato, riceve la vena basale di Rosenthal.

6. Vene basali di Rosenthal: drenano la parte inferiore dei gangli della base, la base dei lobi frontale, temporale e occipitale e la parte mediale di insula e lobo temporale. Originano a livello della sostanza perforata anteriore, in seguito alla confluenza di 5 vasi, per ciascun lato: vena limbica (o cerebrale) anteriore, una per lato, che segue l’arteria cerebrale anteriore nel suo decorso lungo la superficie mediale di ciascun emisfero, in corrispondenza della superficie superiore del corpo calloso; VCMP (vena cerebrale media profonda anche detta vena insulare), drena insula e circonvoluzioni circostanti. Decorre in profondità, lungo il pavimento della Scissura del Silvio; vena olfattiva: che decorre lungo il solco olfattivo dell’area orbito-frontale; vene striate: originano a livello della sostanza perforata anteriore. Anteriormente al mesencefalo la vena basale di ciascun lato riceve la vena ponto-mesencefalica anteriore, che decorre lungo il solco longitudinale anteriore del ponte per biforcarsi a livello dei peduncoli cerebrali. Descrivono dunque una curva lateralmente al mesencefalo, ove ricevono le vene mesencefaliche laterali e le genicolate. Terminano, infine, all’interno della grande vena cerebrale di Galeno, in corrispondenza della sua origine, in posizione laterale rispetto alle due vene cerebrali interne. Lungo il loro decorso ricevono: le vene limbiche posteriori, le vene ippocampali e le vene cerebellari superiori.

7. Vene Limbiche Anteriori: drenano la circonvoluzione del cingolo, decorrendo al confine fra questa e il corpo calloso, in corrispondenza della superficie mediale degli emisferi cerebrali; a livello del ginocchio e del rostro curvano in basso, con un eventuale tratto comunicante, che riunisce i due vasi eterolaterali, per confluire con la VCMP, la vena olfattiva e con le vene striate dello stesso lato, per formare la vena basale di Rosenthal omolaterale.

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Anatomia delle vene della fossa cranica posteriore

Il drenaggio venoso della fossa endocranica posteriore è molto variabile, ma, accademicamente, possono essere distinti 4 sistemi principali:

1. Postero-superiore: drena la parte supero-dorsale del cervelletto e quella superiore del tronco cerebrale; i vasi più importanti appartenenti a questo gruppo sono le vene cerebellari emisferiche superiori e le vermiane superiori, le quali terminano, rispettivamente, all’interno delle vene basali di Rosenthal e all’interno della grande vena cerebrale di Galeno. Tali vasi sono ampiamente anastomizzati fra loro e con i corrispondenti della porzione inferiore del cervelletto.

2. Antero-mediale: è costituito dalla già citata vena ponto-mesencefalica anteriore, che decorre nel solco longitudinale anteriore a livello del piede del ponte, per poi biforcarsi, in 2 rami terminali che sfociano nella vena basale di ciascun lato, in corrispondenza dei peduncoli cerebrali.

3. Antero-laterale: le vene petrose drenano la superficie ventrale del cervelletto e parte della porzione superiore del tronco encefalico, all’interno dei SPS. Originano dall’unione delle vene brachiale (= origina dalla superficie ventrale superiore del cervelletto, descrivendo una curva con concavità inferiore, al di sopra dei peduncoli cerebellari omolaterali; drena la porzione postero-laterale del ponte) e coriodea del IV ventricolo (= origina dalla superficie ventrale inferiore del cervelletto e dai plessi coriodei del IV ventricolo descrivendo una curva a concavità superiore al di sotto dei peduncoli cerebellari, drena la porzione postero-laterale del bulbo).

4. Postero-inferiore: le vene cerebellari emisferiche inferiori (una per lato), si anastomizzano a pieno canale con la vena cerebellare emisferica superiore omolaterale e terminano nel ST. Le vene vermiane inferiori prendono origine dalla vena retrotonsillare inferiore di ciascun lato e si anastomizzano a pieno canale con la vena vermiana superiore omolaterale, per

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terminare nel SO (seno occipitale. La vena retrotonsillare inferiore si unisce alla retrotonsillare superiore, descrivendo un’arcata venosa intorno alle tonsille cerebellari.

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Fig.1 Schema della circolazione venosa cerebrale. Fig.2 Anatomia dei seni venosi

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IV. TROMBOSI DEI SENI VENOSI CEREBRALI

La trombosi dei seni venosi e/o delle vene cerebrali (TVC) rappresenta una forma non comune di stroke, che di solito colpisce giovani individui [61]. Nonostante i progressi nel riconoscimento delle TVC negli ultimi anni, la diagnosi ed il management può essere difficile a causa della diversità dei sottostanti fattori di rischio e dell’assenza di un uniforme approccio terapeutico.

Molti fattori di rischio sono stati associati alle TVC, ma soltanto alcuni di questi sono reversibili. Precedenti patologie mediche (come le malattie croniche infiammatorie intestinali e le trombofilie), condizioni transitorie (come la gravidanza ed il puerperio), alcuni farmaci (come gli estroprogestinici) ed eventi non prevedibili (come il trauma cranico) sono alcune delle condizioni predisponenti [62, 63].

Vista le molteplici cause e i quadri di presentazione della patologia, le TVC possono giungere all’osservazione non soltanto di neurologi e neurochirurghi, ma anche di ginecologi, ematologi, oncologi, ostetrici, urgentisti, internisti e medici di medicina generale.

Epidemiologia

Le TVC sono una non comune forma di stroke che colpisce circa 5 persone per ogni milione di abitanti l’anno e si stima rappresenti lo 0.5-1% di tutti gli stroke, con un picco di 7 nuovi casi per milione di abitanti in età pediatrica [64]. Secondo il più grande studio di coorte pubblicato (the International Study on Cerebral Venous and Dural Sinuses Thrombosis [ISCVT]), 427 dei 624 casi (il 78%) erano persone con meno di 50 anni (picco di incidenza tra i 20 ed i 40 anni). Un precedente studio anatomo patologico ha rilevato la presenza di TVC nel 9.3% di 182 consecutive autopsie [65]. Nessuno studio di popolazione ha riportato la prevalenza delle TVC: molti pochi registri di stroke includono casi di TVC. Nel Registro Nacional Mexicano de Enfermedad Vascular Cerebral (RENAMEVASC), un registro di stroke multicentrico prospettico messicano, il 3% di tutti gli stroke è rappresentato dalle TVC [66]. Un registro in Iran ha riportato un’incidenza annuale di TVC

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di 12.3 casi per milione d’abitanti l’anno [67]. In una serie di casi di emorragia cerebrale in giovani adulti (ICH), le TVC ammontavano al 5% di tutti i casi [67].

Il rapporto F/M (come si può evincere dalla fig. 5) raggiunge il picco di 7:1 nel giovane adulto (età minore di 50 aa), tendendo a diminuire con l’età fino a raggiungere il valore di 1:1 in età senile. Questo ha un risvolto patogenetico, come spiegato più avanti e come si evince dalla nostra casistica. Il tasso di mortalità per TVC è compreso tra l’8 e il 14% [68], con una mortalità precoce attribuibile alla TVC stessa ed una mortalità tardiva dovuta alla patologia alla base della TVC (neoplasia, stato trombofilico, ecc.).

Fisiopatologia e fattori di rischio

Dal punto di vista fisiopatologico, la trombosi di una vena o di un seno venoso cerebrale causa aumento della pressione venosa a monte con aumento del flusso lungo i collaterali anastomotici. Nonostante la presenza di circoli collaterali, si realizza (soprattutto se la trombosi è estesa e il compenso dei collaterali non è ottimale) aumento della pressione nel sistema venoso con ridotto riassorbimento di liquor e quindi ipertensione endocranica. L’aumento della pressione nelle vene si trasmette in maniera retrograda alle venule fino ai capillari, e ciò comporta:

 Riduzione della pressione di perfusione cerebrale con danno ischemico e sviluppo di edema citotossico

 Rottura della barriera ematoencefalica con edema vasogenico

 Rottura di venule e capillari con emorragia cerebrale intraparenchimale o emorragia subaracnoidea

Classicamente i fattori di rischio per trombosi venosa sono schematizzabili nella triade di Virchow: stasi venosa o turbolenza del flusso sanguigno, ipercoagulabilità (o trombofilia), lesione endoteliale (incluso qualsiasi tipo di disfunzione endoteliale).

I più ampiamente studiati fattori di rischio per le TVC sono gli stati protrombotici. La più grande casistica pubblicata sulle TVC è l’ISCVT, uno studio internazionale, multicentrico, prospettico,

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osservazionale su 624 casi. Il 34% di questi pazienti era portatore di uno stato di ipercoagulabilità, sia ereditario che acquisito [68]. I fattori di rischio sono classificati in ereditari ed acquisiti.

Tra i fattori ereditari, si annoverano il deficit di Proteina C, Proteina S e Antitrombina III, il fattore V Leiden e la resistenza alla Proteina C attivata, la mutazione G20210A della protrombina e la mutazione C677T del gene della Metilen-Tetra-Hydro-Folato-Reduttasi (MTHFR) con iperomocisteinemia.

Fattori di rischio acquisito sono invece la gravidanza (soprattutto nel terzo trimestre), il puerperio, la sindrome da anticorpi antifosfolipidi, l’uso di contraccettivi orali, le infezioni endocraniche o i processi infettivi in strutture parameningee (orecchio interno, mastoide, seni paranasali, bocca, faccia e collo) soprattutto in età pediatrica (l’ISCVT infatti segnala soltanto l’8.2% di TVC da processi infettivi parameningei), le neoplasie intracraniche, gli stati protrombotici paraneoplastici, i distiroidimi, i traumi cranici e gli interventi neurochirurgici.

Altre condizioni associate alla TVC in case reports o piccole serie sono l’emoglobinuria parossistica notturna, la sindrome nefrosica, l’anemia iposideremica, la trombocitemia essenziale, la porpora trombotica tromboticopenica, la trombocitopenia indotta da eparina, le malattie infiammatorie croniche intestinali, la malattia di Behçet, la puntura lombare, l’ipotensione e l’ipertensione endocranica idiopatica la disidratazione.

Diagnosi

La diagnosi di TVC si fonda tipicamente sul sospetto clinico e sulla conferma all’imaging.

Clinica

L’esordio del quadro clinico nell’ISCVT è acuto (<48h) nel 37% dei casi, subacuto (>48h fino a 30giorni) nel 56% dei casi e cronico (>di 30 giorni) nel 7% dei casi [68]. Segni e sintomi di TVC possono essere classificati in 2 categorie a seconda del meccanismo che li produce:

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I. Segni e sintomi dovuti ad un aumento della pressione endocranica a causa dell’alterato drenaggio venoso.

II. Segni focali dovuti al danno cerebrale (edema, infarto, emorragia).

Nella pratica clinica, la maggior parte dei pazienti presenta reperti clinici di entrambe le categorie sin dall’esordio o con la progressione della patologia. La cefalea ad esordio acuto o subacuto, indicativa in genere di un aumento della pressione endocranica, è il sintomo più comune di TVC ed è presente nel 90% dei paziente dell’ISCVT (con valori analoghi anche in altre casistiche). La cefalea è tipicamente descritta come diffusa e la sua gravità progredisce nel tempo. In una minoranza di pazienti, la cefalea può esordire come cefalea a rombo di tuono, indicativa di emorragia subaracnoidea, o presentarsi con caratteristiche simil emicraniche [69]. La cefalea isolata non accompagnata da segni neurologici focali può essere la modalità di presentazione della TVC nel 20% dei pazienti e costituisce una sfida diagnostica [70]. Altri reperti clinici legati all’ipertensione endocranica sono il papilledema (nel 28.3% dei casi nell’ISCVT), vomito, riduzione del visus (13.2%) e diplopia (13.5%).

Quando si realizza un danno cerebrale focale da edema, ischemia o emorragia, si presenteranno segni e sintomi neurologici dovuti all’area affetta: i più comuni sono emiparesi, afasia ed emianopsia, ma anche ipoestesia e altri segni corticali possono esserci. E’ stato riportato anche l’esordio con psicosi acuta con segni focali [71]. In aggiunta a questi, il 30.7% dei pazienti ISCVT presenta crisi epilettiche generalizzate e il 19.6% crisi epilettiche focali: la concomitanza di deficit neurologici ad esordio acuto ed epilessia dovrebbe indurre il sospetto clinico di TVC ed escludere quasi con certezza lo stroke ischemico nel quale l’epilessia all’esordio è una presentazione non comune.

Il quadro clinico di presentazione dipende strettamente dalla localizzazione della trombosi. Il SSS è il più comunemente coinvolto, con cefalea, ipertensione endocranica, papilledema, crisi focali, emiparesi o paraparesi (il SSS drena le vene da entrambi le aree motorie, una paraparesi ad esordio acuto, in assenza di traumi, indirizza il sospetto clinico verso una TVC non verso un classico stroke

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