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Akallabêth: la caduta di Númenor Analisi critica e adattamento cinematografico dell'opera di J.R.R. Tolkien

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UNIVERSITA’ DI PISA

DIPARTIMENTO DI CIVILTA’ E FORME DEL SAPERE

ANNO ACCADEMICO 2016/2017

CORSO DI LAUREA MAGISTRALE

IN STORIA E FORME DELLE ARTI VISIVE,

DELLO SPETTACOLO E DEI NUOVI MEDIA

Classe LM-65: Scienze dello spettacolo e produzione

multimediale

TESI DI LAUREA MAGISTRALE

Akallabêth: la caduta di Númenor

Analisi critica e adattamento cinematografico

dell'opera di J.R.R. Tolkien

IL RELATORE IL CANDIDATO

Maurizio Ambrosini Eleonora Giannoni

CORRELATRICE

Donatella Diamanti

a.a. 2016/2017

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Indice dei contenuti: Capitolo 1)

1.1 Scrivere un adattamento:

pag. 1 1.2 Gli Archetipi narrativi:

pag. 7 1.3 La paura universale:

pag. 18 1.4 Il punto di vista dell’opera:

pag. 23 1.5 Il messaggio dell’Akallabêth:

pag. 32 1.6 Chi è l’Eroe? Ar-Pharazôn o Sauron?

Pag. 36 1.7 Il viaggio di Sauron e Ar-Pharazôn:

pag. 41 Capitolo 2)

2.1 Le diverse versioni dell’Akallabêth

pag. 48 2.2 Le origini di Arda, Ainulindalë e Valaquenta:

pag. 52 2.3 La ribellione nella casa del Fabbro:

pag. 55 2.4 Gli eventi degli Anni degli Alberi e della Prima Era del Sole:

pag. 59

2.5. La Guerra dell’Ira e le origini di Númenór:

pag. 66 2.6 Studio dell’ambientazione e della contestualizzazione storica:

pag. 71 2.7 Costruzione dei personaggi nell’adattamento dell’Akallabêth:

pag. 75 2.8 Proposte per il casting principale:

pag. 88 2.9 Conclusioni:

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pag. 92 Capitolo 3) Akallabeth: La caduta di Numenor

pag. 95 Ringraziamenti:

pag. 155 Bibliografia

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Capitolo 1)

1.1: Scrivere un adattamento:

L’adattamento di un’opera da un medium a un altro comporta sempre delle scelte. Quante volte ci è capitato di uscire dalla sala dopo aver visto l’adattamento di uno dei nostri libri preferiti e provare malcontento perché quella scena che ci era piaciuta tanto nel romanzo è stata epurata durante la trasposizione? Sul noto social-network Facebook, non troppo tempo fa, era stato diffuso il pensiero di uno sconosciuto autore:

«Quando dico: “Vorrei che adattassero questo libro in un film.”, quel che davvero intendo è uno spettacolo di diciassette ore che includa sin al più piccolo, solitario dettaglio, non devi dalla trama e abbia un casting perfetto.»1

Per quanto da fruitrice di cinema e avida lettrice mi sentirei di benedire un simile, ingenuo esperimento, un adattamento di questo genere sarebbe, probabilmente, del tutto inguardabile.

La scelta di riportare i seguenti studi sul cinema, favorendoli rispetto ai molti altri disponibili in letteratura, è di natura strumentale. Dal momento che il mio saggio non ha alcuna pretesa di trasformarsi in un’antologia della semiotica del cinema, ho ritenuto più opportuno selezionare le teorie più congeniali all’iter che intendo seguire per produrre un trattamento sceneggiato dell’Akallabêth di J.R.R. Tolkien.

1 When I say “I wish they would turn this book into a movie” what I really mean is a 17-hour-long spectacle that includes every single solitary detail and doesn’t deviate from the story line and have perfect casting.

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Lo studioso Armando Fumagalli definisce cinema e letteratura come un «unico mondo narrativo che si esprime con due mezzi diversi».2 Tale differenza presuppone un diverso tipo di linguaggio che rende necessaria una traduzione. Lo studioso angloamericano George Bluestone nel suo libro Novels into Film mette in luce la principale differenza strutturale tra letteratura e cinema: il testo letterario si basa su un linguaggio verbale che porta il fruitore a ricreare nella propria mente gli oggetti e le circostanze descritte nel libro; il testo cinematografico, invece, veicola l’informazione su un binario del tutto diametrale in cui il fruitore prima percepisce le immagini sullo schermo e, di seguito, le collega in un processo di significazione.3 In termini più semplici, quando si legge un libro ci si trova di fronte alla descrizione di oggetti e azioni che il lettore ricostruisce, andando a creare una realtà al congiuntivo (quindi uno pseudo-film immaginario) che segue pedissequamente le vicende narrate. Lo spettatore che guarda un film, invece, viene sollevato dall’incombenza di immaginare come vicende e oggetti appaiano; deve tuttavia, durante la visione, mantenere alta l’attenzione per essere in grado di seguire lo sviluppo della narrazione tramite la decodifica e l’organizzazione delle immagini che gli vengono presentate. Alla decisione di traduzione di una vicenda da un testo in un film deve corrispondere una coscienza forte di questa differenza, proprio perché una resa mimetica sarebbe inattualizzabile. Riprendendo il lavoro di Bluestone, lo studioso Dudley Andrew arriva a definire tre differenti tipi di adattamento4.

2 A. Fumagalli, I vestiti nuovi del narratore l’adattamento da letteratura a cinema, Milano, Editrice il Castoro, 2004, p. 16.

3 G. Bluestone, Novels into Film, Berkley-Los Angeles, University of California Press, 1957 da A: Fumagalli, I vestiti nuovi del narratore l’adattamento da letteratura a cinema, Milano, Editrice il Castoro, 2004, p. 84.

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Il primo caso è costituito dal borrowing (presa a prestito). Seguendo questa opzione un’opera cinematografica si avvale di tematiche presenti in un testo letterario senza porsi l’obiettivo di seguirne pedissequamente le vicende5. È il caso, per fare un esempio, de Il Re Leone della Walt Disney Pictures. In questa pellicola sono chiaramente riscontrabili i temi dell’Amleto shakespeariano, sebbene le vicende si sviluppino in maniera molto differente.

Diverso è il caso dell’intersection (intersezione) dove, mancata l’intenzione di una resa fedele di tutti i contenuti di un testo letterario, si compie la scelta di tradurre in modo ineccepibile un elemento portante (la tematica, la costruzione del personaggio ecc.).6

Andrew considera, infine, la fidelity of trasformation (fedeltà allo spirito). Si tratta della più complessa tra le tipologie di adattamento, dove ci si prepone l’obiettivo di tradurre con il linguaggio cinematografico tutte le componenti presenti nel testo letterario di riferimento (il tono, il ritmo e i valori).7 Avvalendosi del pensiero di Bazin, Andrew differenzia la fedeltà letterale da quella allo spirito, stabilendo che, in una trasposizione cinematografica, sia più importante inglobare in sé il

feeling, il sentimento del romanzo al fine di restituirlo, tale e quale, allo spettatore

del film.8 La vera fedeltà, pertanto, non è da ricondursi alla pedissequa imitazione dei personaggi, degli ambienti e degli eventi presenti nel libro ma bensì alla resa il più possibile accurata delle atmosfere, delle sensazioni, del tono e del ritmo

Fumagalli, I vestiti nuovi del narratore l’adattamento da letteratura a cinema, Milano, Editrice il Castoro, 2004, pp. 86-87.

5 Ibidem. 6 Ibidem. 7 Ibidem. 8 Ibidem.

(7)

narrativo.9

In ambito francese Francis Vanoye individua due distinte modalità narrative:

classica e moderna.10 La prima presenta uno sviluppo più lineare, basato sull’azione e su una costruzione più rigidamente archetipica dei personaggi; la seconda si avvale, invece, di contenuti meno delineati e più aperti all’interpretazione del fruitore. Tali modalità, in fase di adattamento, vanno a creare diverse possibili combinazioni: quando si adatta un testo moderno in un

film classico si ottiene un’amplificazione della linearità della trama rispetto

all’ambiguità del libro di partenza;11 nel caso di un testo moderno in un film

moderno la linearità della trama diventa soggiacente in favore di una più intensa

densità drammaturgica e di suggestione che, all’interno della traduzione cinematografica può essere persino enfatizzata;12 da un testo classico a un film

classico il rispetto dell’ossatura lineare della trama è l’obiettivo fondamentale;13 infine nel caso di un testo classico in film moderno la definizione adamantina dei messaggi e del percorso narrativo viene sostituita da una interpretativa ambiguità del tutto assente nell’opera letteraria di riferimento.14 Ogni volta che si compie un adattamento, inoltre, Vanoye esplicita anche la necessità da parte dello sceneggiatore di compiere un processo di riappropriazione che può essere mediato da tre livelli fondamentali: il socio-culturale, l’estetica e la sensibilità

9 Ibidem.

10 F. Vanoye, Scénarios modèles, modèles de scénario, Parigi, Nathan, 1991, tr. it. La sceneggiatura. Forme, dispositivi e modelli, Torino, Lindau, 1998; cit. in A. Fumagalli, I vestiti

nuovi del narratore l’adattamento da letteratura a cinema, Milano, Editrice il Castoro, 2004,

pp. 89-94. 11 Ibidem. 12 Ibidem. 13 Ibidem. 14 Ibidem.

(8)

estetica.15 Quando ci si trova a dover adattare un romanzo a distanza di decenni, se non di secoli, dalla stesura è necessario tenere in conto che la sensibilità, le condizioni sociali e il gusto degli addetti ai lavori (sceneggiatori, regista ecc.), al pari di quelli del pubblico, sono differenti rispetto al contesto in cui l’autore del romanzo ha scritto la propria opera. Il processo di riappropriazione, pertanto, appare necessario al fine di colmare un eventuale gradino culturale dovuto al cambio dei tempi.

In ambito italiano, il celebre scrittore Umberto Eco aggiunge un’ulteriore specifica: l’adattamento non può essere inteso come un semplice processo di

traduzione: è, altresì, più corretto parlare di trasmutazione dal momento che, al

fine di adattare un libro in un film, è necessario compiere una serie di scelte significanti non previste dal termine traduzione.16

Da questa riassuntiva analisi appare evidente quanto il desiderio di vedere una trasposizione di diciassette ore assolutamente fedele a un romanzo sia impossibile. Come Fumagalli fa notare:

«Il romanzo non è qualcosa che si vede con gli occhi. Il film, invece, nasce dalla macchina da presa, lo si vede sullo schermo. Questo rende tutto profondamente diverso. Per esempio, lo spettatore può capire in una frazione di secondo quanto richiede forse due o tre pagine di un libro per essere trasmesso».17

15 Ibidem.

16 U. Eco, Direi quasi la stessa cosa. Esperienze di traduzione, Milano, Bompiani, 2003 cit. in A. Fumagalli, I vestiti nuovi del narratore l’adattamento da letteratura a cinema, Milano, Editrice il Castoro, 2004, p. 99.

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Ma quali sono le caratteristiche di base di un film? La struttura più semplice e più diffusa è la suddivisione del film in tre atti, il primo dedicato alla presentazione e alla preparazione del protagonista da cui la storia prende inizio, il secondo finalizzato a mostrare le traversie che il personaggio deve oltrepassare per raggiungere il proprio obiettivo, il terzo, infine, certifica la buona o la cattiva riuscita della missione del protagonista18. La storia è l’architrave che regge ogni buon film attraverso la rielaborazione originale di temi generali in cui il pubblico possa riconoscersi: l’amore, il sacrificio, le interrelazioni familiari,19 la paura della morte ecc.. Al fine di rendere un film efficace è fondamentale che lo spettatore possa empatizzare con il personaggio, sintonizzandosi e lasciandosi coinvolgere dalle difficoltà che questi dovrà affrontare durante la storia. Un personaggio che non riesce a emozionare non potrà far altro che annoiare il pubblico in sala, portando il film all’insuccesso.20 Un buon livello di caratterizzazione deve essere compiuto anche nella costruzione dei personaggi secondari che affiancano il protagonista del film. Da questo punto di vista, il romanzo gode di una maggior libertà d’azione, dato che comunemente non si pongono particolari limiti di spazio, e questa caratteristica sovente si traduce nella possibilità di inserire numerosi personaggi. Al contrario il cinema, caratterizzato da una specifica delimitazione del tempo di svolgimento, comporta la necessità di tessere trame con un numero considerevolmente inferiore di elementi. Di conseguenza non c’è da sorprendersi se, nel passaggio dal romanzo al film, molti personaggi secondari

18 Ivi, pp. 122-127. 19 Ibidem.

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vengono parzialmente o del tutto tagliati. Ogni elemento inserito in un film è finalizzato a mettere in risalto la figura del protagonista che compie la storia. Di conseguenza anche le story lines e i subplot vengono ridimensionati per rendere la struttura della trama di facile comprensibilità. Allo stesso modo, anche la lunghezza delle battute è generalmente inferiore rispetto a quella riscontrabile all’interno di un romanzo. La resa della psicologia del personaggio, pertanto, deve essere affrontata su un duplice piano, quello visivo e quello narrativo: mostrare il personaggio compiere un’azione in un determinato modo, per esempio, può dirci molto del suo carattere anche senza che pronunci alcuna battuta. I dialoghi nei film perdono, pertanto, la componente descrittiva propria del romanzo in favore di una forma più breve ma maggiormente incisiva.21 Bisogna, infatti, ricordare che tutto quel che viene mostrato sullo schermo, sia esso un personaggio o un oggetto, diventa un segno narrativo lasciato allo spettatore per guidarlo alla comprensione della storia.

1.2 - Gli archetipi narrativi:

All’interno della sua guida alla scrittura, Il viaggio dell’eroe,22 Chris Vogler, partendo dall’analisi dei miti dello studioso Joseph Campbell, pone l’attenzione sull’importanza della struttura archetipica di matrice junghiana che sottende la creazione e lo sviluppo dei personaggi all’interno di una qualsiasi storia. Tale analisi ha l’ambizione di poter essere applicata a molti contesti: la sua validità si

21 Ivi, p.143.

(11)

dovrebbe mantenere quanto nel mito quanto nella letteratura, e quindi valere anche per dimensioni quale il cinema e il fumetto.

Sulla base delle strutture del mito, Vogler sintetizza il viaggio dell’eroe in dodici tappe:

«1. Gli eroi vengono presentati all’interno del loro MONDO ORDINARIO, dove

2. ricevono la CHIAMATA ALL’AVVENTURA.

3. Inizialmente sono RILUTTANTI e RIFIUTANO LA CHIAMATA, ma

4. un Mentore li incoraggia a

5. SUPERARE LA PRIMA SOGLIA e a entrare nel Mondo Straordinario, dove

6. si imbattono in PROVE, ALLEATI e NEMICI.

7. SI AVVICINANO ALLA CAVERNA PIÙ PROFONDA superando una seconda soglia

8. e sostengono la PROVA CENTRALE nella caverna più profonda. 9. Si appropriano della RICOMPENSA e

10. vengono inseguiti lungo LA VIA DEL RITORNO nel Mondo ordinario.

11. Superano la terza soglia e vivono l’esperienza della RESURREZIONE, che li trasforma.

(12)

beneficerà il Mondo ordinario».23

Stabilito ciò, come non manca di sottolineare Vogler, bisogna prestare attenzione all’arricchimento della struttura, per non correre il rischio di trasformarla in una semplice enumerazione. Se è vero che il protagonista deve seguire un percorso a tappe per raggiungere la conclusione, è altrettanto vero che il fruitore non debba avere la sensazione di star assistendo all’ordinato susseguirsi dei punti di un elenco, predeterminati culturalmente e quindi prevedibili. Più che una gabbia, pertanto, questi dodici punti riassuntivi sono descritti come una struttura elastica adattabile a qualsiasi contesto. All’interno di un racconto realistico, per esempio, è improbabile che il protagonista si ritrovi di fronte caverne o elisir. Gli elementi che Vogler presenta non hanno natura strettamente prescrittiva, ma consistono eminentemente nell’individuazione di una struttura simbolica ed ermeneutica: la

Caverna più Profonda potrebbe rappresentare la depressione in cui il personaggio

è caduto e dalla quale deve uscire per sopravvivere, mentre l’Elisir potrebbe consistere nell’ottenimento di quel posto di lavoro lungamente desiderato, che gli permetterà di mantenere la famiglia. Ogni elemento dei dodici punti del Viaggio

dell’Eroe deve essere sfruttato in funzione della storia che si desidera raccontare.

A sostenere questa struttura, come anticipato in apertura, ci sono gli archetipi dei personaggi, che altro non sono che i modelli di personalità descritti da Carl Gustav Jung nella sua teoria dell’Inconscio Collettivo24. In ambito narrativo essi sono funzionali a rendere il personaggio immediatamente riconoscibile da parte

23 Ivi, pp. 32-33.

24 C.G. Jung, The concept of the Collective Unconscious. In “ Journal of St. Bartholomew’s Hospital”, 44, 1936.

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del fruitore proprio perché parte di un bagaglio conoscitivo comune a tutti. Tra i più utilizzati troviamo:

- L’Eroe: colui che, dal punto di vista psicologico, è in grado di «trascende[re] i confini e le illusioni dell’Io»25 e, attraverso il discernimento, riuscire a distaccarsi dalla collettività. Molti eroi devono affrontare un vero e proprio processo di allontanamento. Tale dinamica può svolgersi su un piano spaziale, come il lasciare la propria famiglia per intraprendere l’impresa, o psicologico, quale la rimozione di una dipendenza interpersonale (i genitori, la moglie, il capo ufficio ecc.). L’esito comunque consiste nell’affrontare un nuovo percorso di crescita individuale.26 La funzione narrativa dell’Eroe è individuata dal termine dell’immedesimazione, da parte del pubblico, nella sua propria figura. Per quanto, infatti, il percorso dell’Eroe possa apparire straordinario e non commensurabile al vissuto dello spettatore, le qualità che definiscono il personaggio sono, al contrario, universali.27 Il pubblico deve entrare in sintonia con l’Eroe, soffrire con lui per le traversie del viaggio e sperare nella buona riuscita del suo mandato. Al fine di questa immedesimazione è altresì fondamentale che il protagonista sia un personaggio costruito a tutto tondo, dotato di pregi ma anche di difetti che deve superare.28 Non può essere troppo entusiasta e perfetto per non risultare odioso, ma neppure del tutto passivo e, di conseguenza, noioso. Esiste, inoltre, una sotto categoria

25 C. Vogler, Il viaggio dell’Eroe, , p.37. 26 Ibidem.

27 Ivi, p. 38. 28 Ivi, p. 40.

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dell’Eroe definita Antieroe. Essa può seguire due tipologie: comportarsi in modo analogo a un Eroe, ma essere, al contempo, un personaggio più ambiguo, dalla dubbia moralità; o appartenere altrimenti alla categoria degli Eroi tragici, destinati a non raggiungere una risoluzione positiva per via dei difetti che non riescono a superare.29

- Il Mentore: la figura che ha il compito di guidare l’Eroe attraverso il suo percorso di sviluppo, riuscendo a sconfiggere tutte le sue riluttanze. In genere viene rappresentato da una figura che risiede in un piano superiore rispetto a quello dell’Eroe. Vogler lo definisce, psicologicamente, «la parte di noi più saggia, più nobile e più divina».30 La caratteristica del Mentore è quella di dispensare doni e consigli all’Eroe al fine di renderlo pronto ad affrontare il percorso.31 Vogler, tuttavia, sembra, a mio parere, non prendere in considerazione l’eventualità che il Mentore possa essere un

Mentore Negativo. Come nel caso dell’Antieroe, anche il Mentore può

rivelarsi una figura ambigua che esercita influenze discutibili, sebbene volte a indirizzare il percorso di crescita dell’Eroe. Questa sorta di

Antimentore potrebbe portare l’Eroe a uno sviluppo sciagurato, come

vedremo, più avanti, nel caso specifico di Sauron con Ar-Pharazôn nell’Akallabêth dove tutto appare piuttosto ambiguo.

- Il Guardiano della Soglia: la funzione di questo archetipo è quella di

29 Ivi, pp.41-42. 30 Ivi, p. 44. 31 Ivi, p. 45.

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mettere alla prova l’Eroe prima ancora che questi, una volta accettata la chiamata all’avventura, si addentri all’interno di quello che Vogler definisce il Mondo straordinario. Può essere un nemico da sconfiggere fisicamente, oppure una condizione ostile che impedisce l’inizio del viaggio, introspettivo o fisico che sia. Lo scopo del Guardiano della

Soglia è quello di essere sconfitto dall’Eroe per arricchire il bagaglio delle

sue esperienze e renderlo in grado di proseguire il percorso.32

- Il Messaggero: in ogni storia, soprattutto all’interno del primo atto, è molto comune trovare questo tipo di archetipo. La sua funzione è infatti quella di portare notizie, buone o cattive, che infondano conoscenza, coraggio o motivazione all’Eroe.33 Non è necessario che il Messaggero sia un personaggio a sé stante. La sua funzione può essere, infatti, compiuta anche da un personaggio che ha un altro ruolo all’interno della storia. Il

Messaggero può anche consistere in un evento interno alle vicende, atto a

recapitare un’informazione all’Eroe e allo spettatore. Proprio per questo, tale archetipo può essere, a seconda della circostanza, benevolo, avverso o neutrale.34

- Lo Shapeshifter: per sua stessa definizione, l’archetipo dello Shapeshifter è mutevole. Come negli altri casi, non è sempre detto che la mutazione del personaggio che incarna questo archetipo sia di natura fisica. La

32 Ivi, pp. 51-53. 33 Ivi, pp.54-55. 34 Ivi, p. 56.

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mutevolezza dello Shapeshifter potrebbe, infatti, anche essere espressa attraverso il cambio repentino dell’umore di un personaggio.35 La sua funzione psicologica, spiega Vogler, è quella di attingere dai concetti junghiani dell’Animus maschile e dell’Anima femminile al fine di creare un personaggio ambiguo che instilli suspance e interrogativi all’interno della storia.36 Come nel caso del Messaggero, anche quella dello

Shapeshifter è una funzione che può essere sfruttata da qualsiasi tipo di

personaggio.

- L’Ombra: l’Ombra è il polo negativo di ogni storia, l’archetipo che può da un lato rappresentare il fascino del lato oscuro e pertanto portare i personaggi verso un cammino amorale, dall’altro, invece, può descrivere le insicurezze dei protagonisti e tutto quell’insieme di emozioni negative che comportano o l’inattività o il fallimento.37 Nella sua prima accezione, tale archetipo viene utilizzato per caratterizzare gli antagonisti e i nemici che si muovono affinché l’Eroe non porti a termine il suo mandato.38 Sulla base dello sviluppo delle vicende, la maschera dell’Ombra può essere sfruttata per qualsiasi personaggio: un Mentore al principio benevolo potrebbe, per esempio, rivelarsi un avversario che mira a distruggere l’Eroe. Questo potrebbe essere, appunto, il caso di Sauron nell’Akallabêth. Affinché l’Ombra sia del tutto efficace, comunque, è opportuno che abbia, al pari dell’Eroe, una caratterizzazione completa, strutturalmente

35 Ivi, p. 57. 36 Ivi, pp. 57-59. 37 Ivi, p. 61. 38 Ivi, p. 62.

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convincente e con motivazioni ben fondate, piuttosto che una ontologicamente malvagia (nella direzione di un manicheismo ingenuo).39 Il rischio, altrimenti, è che l’antagonista risulti piatto e poco interessante.

- Il Trickster: i personaggi Trickster sono dotati di arguzia e prontezza di spirito. In genere è loro dedicato l’apparato comico di ogni storia. La loro funzione archetipica è quella di contrapporsi all’ego degli altri personaggi per metterne in risalto i difetti e portarli a un ridimensionamento.40 Che il

Trickster sia un personaggio autonomo o una funzione applicata all’Eroe

-un Eroe-Trickster - la loro caratteristica principale è quella di generare scompiglio al fine di rendere la storia più divertente e più dinamica.41

Come nel caso del viaggio dell’Eroe, anche l’utilizzo degli archetipi è elastico. Non è detto che un personaggio mantenga la medesima ossatura dall’inizio alla fine della storia o che non possieda le caratteristiche di diversi archetipi combinati insieme.

Prima ancora di occuparmi della trama del mio adattamento, mi sono domandata: quali sono le figure archetipiche presenti nell’Akallabêth? In realtà sia la versione della Caduta di Númenor, redatta da Christopher Tolkien all’interno de Il

Silmarillion,42 sia le precedenti versioni presenti nei volumi The Lost Road and

other writings43 e Sauron Defeated44 della History of Middle Earth, non forniscono

39 Ivi, pp. 62-63. 40 Ivi, p.64. 41 Ivi, p.65.

42 J.R.R. Tolkien, Il Silmarillion, Milano, Bompiani, 2014.

43 J.R.R. Tolkien, The Lost Road and other writings, Londra Harper Collins, 2015. 44 J.R.R. Tolkien, Sauron Defeated, Londra, Harper Collins, 2002.

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molti dettagli sulle caratteristiche dei personaggi, come vedremo in seguito. Ciò significa che, in fase di adattamento, è necessario impiegare la libertà che le fonti, da questo punto di vista, forniscono al fine di raggiungere una più completa definizione dei personaggi. Tutto il fulcro delle vicende, per come ci è presentato, si articola attorno alle figure di Ar-Pharazôn, re di Númenor e di Sauron, il Maia decaduto, reso nella celebre pellicola Il Signore degli Anelli di Peter Jackson come un iconico Occhio di Fuoco. Tolkien pone poca, se non nulla, attenzione a chiunque altro. A titolo esemplificativo, si può ricordare come Míriel, la moglie di Pharazôn, venga descritta come una donna fedele ai Valar. Allo stesso modo anche Amandil, personaggio importante nello svolgimento della storia: ma cosa costoro facciano per cercare di ostacolare Pharazôn è tutt’altro che chiaro. È quindi doveroso precisare che qualsiasi analisi si decida di compiere per definire e integrare tali personaggi è una riflessione personale e controvertibile. Si tratta di una scelta tra molte possibili. Riagganciandomi a quanto espresso nelle pagine precedenti, il mio adattamento è un’intersezione caratterizzata da un processo di

riappropriazione del testo particolarmente marcato. Il materiale originale, pur

essendo trattato in differenti versioni, presenta lacune che devono necessariamente essere colmate. Il nostro Eroe, Ar-Pharazôn, è il supremo re dei Númenoreani. A uno sguardo superficiale potrebbe apparire come un personaggio che è giunto alla fine del suo mandato con una sentenza più che positiva: alla guida dei Númenoreani, un popolo longevo, illuminato e coeso, Ar-Pharazôn è riuscito a conquistare tutta la Terra di Mezzo, sconfiggendo persino il temibile Maia Sauron. Che cosa potrebbe spingere un uomo che ha raggiunto tutti i risultati auspicabili a

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lasciare il Mondo ordinario in favore del Mondo straordinario?

Il suo regno infatti, benedetto dai Valar, è prospero, e ogni nemico sembra annientato.

Cosa gli manca? Cosa può muoverlo?

La risposta a questa domanda è da ricercarsi all’interno della struttura del legendarium tolkeniano. Prima della nascita di Arda, in un passato molto remoto rispetto agli eventi dell’Akallabêth, Ilùvatar, il dio supremo, creò i Valar e con loro compose il Canto della Creazione. Inviati in Arda, i Valar la plasmarono con il loro potere per renderla abitabile, contrastati in questo dagli eccessi mercuriali e violenti di Melkor, il Vala decaduto. Quando essa fu pronta, i Valar dovettero attendere la venuta dei figli di Ilùvatar. Per primi giunsero gli elfi immortali, poi i nani, creati dal Vala Aulë e resi vivi dal soffio di Ilùvatar, infine gli uomini, gli unici dotati di libero arbitrio. Si affronterà nel capitolo successivo una più accurata contestualizzazione della storia interna al legendarium: per il momento sono forse sufficienti queste nozioni.45

I Númenóreani sono un popolo benedetto a cui è stata concessa dai Valar una vita più longeva come premio per il loro contributo nell’ultima guerra contro Melkor. Tuttavia, una vita più lunga non corrisponde all’immortalità ed ecco la risposta che cercavamo: Pharazôn non vuole morire, non vuole che il suo popolo sparisca, quando altri, nella Terra di Mezzo, hanno il dono della vita eterna.46 In quanto

Eroe, è in grado di distaccarsi dal pensiero religioso che permea Númenor,

superare i Guardiani della Soglia rappresentati da Míriel, Amandil e tutti coloro

45 J.R.R. Tolkien, Il Silmarillion, pp. 63-442. 46 Ivi, pp. 470-471

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che, tra i Númenóreani, rimangono fedeli ai Valar, per cercare di conquistare il diritto a non morire. Stando così le cose, sarebbe semplice inscrivere Pharazôn nello schema classico dell’Eroe alla ricerca dell’Elisir di lunga vita, ma tale conclusione sarebbe erronea. Pharazôn è un Eroe tragico che, peccando di hybris, sfida i suoi dei andando incontro a un’inevitabile disfatta. Ciò nonostante, per quanto Tolkien voglia farlo passare come un personaggio marcatamente negativo, si valuterà in seguito l’opportunità di fornire una restituzione meno definita su questo piano nel contesto di una rinarrazione dell’Akallabêth dal punto di vista di Ar-Pharazôn e di Sauron, cercando di distaccare quest’ultimo dall’aura di innata e connaturata malvagità che lo contraddistingue. Si prospetta infatti la possibilità di un adattamento moderno di un testo che, pur essendo contemporaneo, ha una matrice preponderantemente classica. Come Vogler stesso ci fa notare, l’antagonista è a sua volta un Eroe il cui percorso collide con quello del protagonista. Per estensione è necessario che abbia delle motivazioni che giustifichino la sua condotta. Dato il suo particolare approccio alla letteratura, sovente Tolkien non fornisce giustificazioni per i suoi antagonisti. Nella resa cinematografica de Il Signore degli Anelli tale approccio poteva essere conservato anche a livello cinematografico, perché Sauron, costretto ormai nella sua forma incorporea, non ha una reale interazione con nessuno dei protagonisti. Tuttavia nell’Akallabêth, in cui compare come un personaggio fatto di carne e sangue, la conservazione di questo stilema potrebbe condurre a risultati bizzarri e, forse, non auspicabili. A Sauron spetta, infatti, il ruolo ambiguo del Mentore, ma è un

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ostacolo, se non un vero e proprio Guardiano della Soglia da superare. La cosa che li unisce è l’avere un nemico (o, nel caso di Ar-Pharazôn, quantomeno creduto tale) comune: Manwë, signore dei Valar e viceré di Ilùvatar, che da un lato nega ogni risposta agli appelli dei Númenóreani, dall’altro è avversario di Sauron da lunghe ere.

1.3 La paura universale:

Nella costruzione di una storia è fondamentale arrivare a cogliere il messaggio universale in grado di far entrare lo spettatore in sintonia con le vicende del protagonista. Ciò nonostante, come Fumagalli fa notare, tale processo non si limita a «prendere quel che succede a una persona comune e metterlo in un film» ma bisogna «andare all’essenziale, cioè cogliere che cosa c’è dentro la realtà, nel suo cuore, nel suo nucleo più profondo». 47

La paura della morte ha plasmato, nel corso dei millenni, la storia di tutte le civiltà del mondo e la necessità di esorcizzarla ha portato alla nascita di credenze che garantissero un certo statuto epistemico alla nozione del proseguimento della vita dopo il momento del trapasso. Alcuni di questi culti sono tramontati, altri sono ancora seguiti da moltitudini di persone, ma ciò che li accomuna è la creazione di un luogo ultraterreno destinato alle anime dopo la morte. Lo sgomento di non sapere cosa avverrà una volta che la vita sarà giunta al termine ha portato l’umanità a creare dei costrutti rassicuranti, finalizzati da un lato a dare speranza e risposte, dall’altro a promuovere una condotta morale positiva per non avere una

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sorte orribile dopo il trapasso. Nella cultura occidentale il termine della riflessione sulla mortalità è dato, genealogicamente, dall’Apologia di Socrate realizzata nel quarto secolo avanti Cristo da Platone. Nel testo il saggio ateniese contrappone, all’angoscia del momento estremo, la solida fiducia filosofica in un universo razionale, anche nelle sue componenti metafisiche.48 Che questa matrice propriamente attica migri in uno dei nuclei filosofici portanti della cultura occidentale, con le opportune trasformazioni indotte da una certa versione del cristianesimo (la cui storia si può definire segnata dal successo culturale), è generalmente considerato un dato di fatto.49

Quindi la domanda Cosa c’è dopo la morte? può includersi a pieno titolo fra quei temi universali in grado di coinvolgere l’immaginario della società occidentale. Persino i non credenti possono, attraverso il compromesso narrativo, immedesimarsi in un personaggio che lotti contro la morte detenendo, in potenza, quegli strumenti per sconfiggerla che mancano sul piano reale.

Come anticipato nel breve cenno sul legendarium nel paragrafo precedente, gli uomini della Terra di Mezzo, nello specifico i Númenóreani, vivono in un mondo dove l’immortalità appare tutt’altro che un costrutto immaginifico: i Valar sono immortali ma tangibili, i Maiar - entità simili ma gerarchicamente inferiori ai Valar - hanno le stesse caratteristiche. Persino gli elfi sono immortali, e con questi ultimi i Númenóreani hanno intensi scambi commerciali. Gli unici a essere destinati al trapasso, per volere di Ilùvatar, sono in questo contesto proprio gli

48 Nonchè ad altri testi connessi, quale il Critone. Cfr. ad es. M.M. Sassi “Apologia” e

“Critone”: una vita filosofica, una morte necessaria, pp. 5-78. In Platone, Apologia di Socrate. Critone. A cura di M.M. Sassi. Milano: Rizzoli, 1993.

49 W. Jaeger, Cristianesimo primitivo e Paideia greca. Firenze: La Nuova Italia, 1966. Cfr. in part. pp. 13-64.

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uomini. Questa particolare contingenza costituisce precisamente il primum movens del conflitto tra Númenóreani e Valar.

Di seguito alla sconfitta di Melkor, i Valar creano per gli uomini loro alleati l’isola di Númenor e concedono loro una vita più lunga.50 Per impedire, tuttavia, che i Númenóreani mettano piede nel Reame Beato - luogo destinato esclusivamente a Valar, Maiar ed elfi: quindi solo agli immortali, i Valar proibiscono loro di avvicinarsi alle coste occidentali, che tuttavia possono essere scorte dall’alto dell’isola.51 A lungo i Númenóreani non muovono alcuna obiezione a tale divieto, rivolgendo la loro attenzione alle terre dell’Est. Tuttavia, man mano che il tempo passa, gli animi di questa nobile stirpe si fanno sempre più inquieti e, durante il regno di Tar-Ciryatan e del figlio Tar-Atanamir,52 iniziano a trapelare i primi dubbi:

«E i númenóreani presero a mormorare, dapprima nel segreto dei propri cuori, quindi apertamente, contro il destino degli Uomini, ma soprattutto contro il Divieto che proibiva loro di far vela verso l’Occidente. E si dissero l’un l’altro: “Perché i Signori dell’Occidente se ne stanno nella pace sempiterna, mentre noi dobbiamo morire e andare non sappiamo dove, lasciando le nostre case e tutto ciò che abbiamo fatto? Gli Eldar [gli elfi] invece, non muoiono (...)?”».53

Messo al corrente di tali dubbi, Manwë, signore dei Valar, invia dei messaggeri

50 J.R.R. Tolkien, Il Silmarillion, pp. 463-465. 51 Ivi, p. 467.

52 Tar-Atanamir salì al potere 1010 anni prima di Ar-Pharazôn . J.R.R. Tolkien, Il Signore degli

Anelli: Appendice A, Milano, Bompiani, 2001, p. 1294.

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elfici a Númenor per spiegare agli uomini che la loro mortalità è un dono deciso da Ilùvatar (la suprema divinità del legendarium, dinanzi al quale i Valar appaiono come meri demiurghi); un dono che neppure i potenti Valar hanno potere o volontà di togliere54. Quel che Manwë manca di dare ai Númenóreani è una rassicurazione su ciò che avverrà di seguito alla loro morte. Se, infatti, Valar, Maiar e elfi sono immortali, nulla è noto sul destino degli uomini. Secondo Manwë, inoltre, la morte non deve essere ragione di dolore, ma di gioia. Gli uomini la temono a causa della corruzione che Melkor ha diffuso nel mondo, pertanto il Signore dei Valar raccomanda ai Númenóreani di non ricusare il volere di Ilùvatar, pena il ricadere preda dell’Ombra.55

Ovviamente, l’idea di prendere la mortalità come un fatto compiuto e immutabile scontenta non poco gli abitanti dell’isola che, da quel momento in poi, pur non osteggiando apertamente i Valar, cominciarono, in cuor loro, a odiarli.56

All’interno dell’Akallabêth, quindi, non solo ritroviamo il tema universale della paura della morte, ma abbiamo di fronte uomini che, rivolgendosi a una divinità concreta, tangibile e che può rispondere ai loro dubbi, si vedono negato quel che ad altri è stato concesso. Ai Númenóreani manca altresì la consolazione di poter immaginare che cosa avverrà dopo la morte, perché, per volere divino, la loro sorte è decisa da Ilùvatar, ma verrà rivelata solo in un remotissimo futuro, il che rende impossibile speculazioni confortanti. È proprio su questo punto che, a mio avviso, si crea il legame tra lo spettatore e i personaggi all’interno dell’Akallabêth: se ci si discosta dall’ottica filo Valar e ci si concentra solo su

54 Ivi, pp. 470-471. 55 Ivi, p. 472. 56 Ivi, pp. 273-274.

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quella degli uomini, è abbastanza naturale sentirsi in sintonia con le loro necessità. Se esistesse, sul piano del reale, un dio a cui rivolgersi in modo diretto per far sì di non perire, o di non veder morire i propri cari, molti sarebbero portati ad appellarsi a lui per ottenere la vita eterna per sé e per gli altri. Parimenti, vedersi negato tale privilegio con uno sbrigativo dovete morire perché così è scritto, potrebbe effettivamente istigare molti individui alla ribellione.

Ciò non significa che i Valar non abbiano le loro motivazioni per impedire agli uomini di raggiungere il Reame Beato, né che loro stessi abbiano potere decisionale in merito. D’altro canto, neppure loro sono a conoscenza delle sorti dell’umanità, perché Ilùvatar si è rifiutato di condividerle.

L’Akallabêth non è l’unico testo del legendarium in cui venga affrontato il tema della mortalità degli uomini. All’interno di Morgoth’s Ring,57 decimo volume della

History of Middle Earth, Christopher Tolkien ha pubblicato un autografo del

padre, che riporta il dialogo tra l’elfo Fingon e la saggia Andreth, una donna della stirpe di Béor del Beleriand. Per quanto ambientato in un luogo e in un tempo molto distanti da quelli dell’Akallabêth, il tema è sempre il medesimo: la mortalità dell’uomo. Da Andreth apprendiamo che gli abitanti del Beleriand vivono nella convinzione che, in un passato remoto, gli uomini fossero stati immortali tanto quanto gli elfi, o almeno non condannati a una vita tanto breve. Tale privilegio, tuttavia, sarebbe stato tolto loro da Melkor, il Vala decaduto. Fingon, che ha conosciuto Melkor, nega questa possibilità, ritenendo impossibile che il Nemico disponga di un potere tanto vasto da disfare le opere del Creatore stesso. I due raggiungono la conclusione che gli uomini, al contrario degli elfi, non siano nativi

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di Arda, ma bensì degli ospiti che, al momento della morte, lasciano il loro corpo per tornare nel loro, sconosciuto, luogo di provenienza. L’elfo afferma anche che, in un’ottica di lungo corso, gli elfi potrebbero essere destinati a scomparire con Arda, alla quale sono legati, mentre gli uomini potrebbero sopravviverle. Si ribalterebbero, dunque, i termini del problema.58 Alla credenza di una vita, in qualche modo, oltre la morte, molto tempo dopo, sarà devoto lo stesso Aragorn che, al momento del trapasso, cercherà di consolare la moglie dicendole che, rotte le catene che li legano al mondo, al di là della morte vi sarà altro.59

Per quanto Fingon appaia convinto della veridicità della loro conclusione, Andreth, al contrario di Aragorn, mostra dei dubbi per il semplice fatto che non vi è alcuna prova concreta di quanto asserito. Non è neppure chiaro se il lettore debba affidarsi ciecamente alla teoria dell’uomo-ospite interna al Athrabeth

Finrod ah Andreth. Se è vero che Fingon è un elfo molto antico che ha risieduto

nel Reame Beato e conosciuto i Valar, Melkor compreso, è altrettanto vero che non dispone di una conoscenza assoluta.

Quel che è certo è che gli uomini sono destinati a morire, ancora una volta, perché

così è scritto, che lo accettino o meno.

1.4. Il punto di vista dell’opera:

Il modo più immediato per analizzare il punto di vista di Tolkien è utilizzare le parole che l’autore stesso scrisse all’amico Milton Waldman, editor, all’epoca,

58 Ivi, pp. 304-326.

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della casa editrice Collins.60 Data la lunghezza eccessiva, non verrà qui riportata la lettera nella sua interezza; cercherò di selezionare i punti principali del pensiero di Tolkien per poi procedere con un’analisi.

«[...] Comunque tutto questo materiale riguarda principalmente la Caduta, la Mortalità e la Macchina. Inevitabilmente la Caduta, e questo è un tema che ricorre in molti modi. Ricorre nella Mortalità, specialmente nei condizionamenti che essa esercita sull’arte e sull’aspirazione creativa (o come sarebbe meglio dicessi, subcreativa), le quali apparentemente non hanno funzioni biologiche e anzi sembrano tenersi lontane dalle gratificazioni delle semplice vita biologica ordinaria, con cui, nel nostro mondo, si trovano solitamente in conflitto. Al contempo quest’aspirazione si sposa con un amore appassionato per il mondo reale e primario che la ricolma del senso della mortalità e che pure però la rende insoddisfatta. La “Caduta” può manifestarsi in vari modi, per esempio, il tratto della possessività: abbarbicandosi alle cose fatte “da sé”, il subcreatore desidera in questo caso essere Signore e Dio della propria creazione privata. Si ribellerà quindi alle leggi del Creatore, specialmente alla mortalità. Queste cose (da sole e assieme) produrranno allora il desiderio del Potere, il quale mira a rendere la volontà più rapida e efficace, e dunque condurranno alla Macchina (vale a dire alla Magia). Con questa espressione intendo infatti indicare l’uso di qualsiasi schema o di qualsiasi strumento esterno (insomma, i

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congegni meccanici) in alternativa allo sviluppo delle proprie potenzialità e dei propri talenti interiori, o anche l’uso di questi talenti per una malvagia intenzione di dominio: dominare il mondo reale o costringere le volontà altrui. La Macchina è la più evidente forma di Magia che possediamo, e le due sono più strettamente correlate di quanto si ritenga. (...) Ho usato poco [il termine] “magia” poiché per la seconda - le azioni degli Elfi - non esiste un termine appropriato (...). Ma gli Elfi sono lì (nei miei racconti) proprio per dimostrare la differenza. La loro “magia” è l’Arte, liberata da molte delle sue limitazioni umane: più facile, più veloce, più completa (il prodotto e la sua ideazione in corrispondenza perfetta). E il suo scopo è precipuamente l’Arte, non il Potere; la subcreazione, non la dominazione e il rifacimento tirannico della Creazione. (...) Nelle sue manifestazioni (...) il Nemico è sempre “naturalmente” preoccupato del puro Dominio, e dunque è il Signore della magia e delle macchine. Ma la questione è la seguente: questo male spaventoso può nascere, e di fatto nasce, da una radice apparentemente buona, e il desiderio di fare del bene al mondo e agli altri in fretta e secondo i progetti del benefattore è un tema ricorrente».61

La posizione di Tolkien appare molto chiara. Egli distingue un primo livello dell’esistenza, che chiama “la vita biologica”: quel livello di esistenza, sembra di capire, che accomuna gli uomini, gli animali e persino i vegetali. La vita

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biologica, nell’esperienza delle specie coscienti, è caratterizzata dalla “Mortalità”. Ad essa si accompagna un certo grado di potenza creativa. Non una potenza totale: si specifica che nella mortalità occorre la sub-creazione. In linea quasi con la lettera di Kant62, per il quale nella creazione del genio la natura fornirebbe all’uomo le regole della bellezza, sembra non potersi dare una creazione di primo ordine nell’universo della mortalità. Questo avviene perché, beninteso, trattandosi di un autore di fede cattolica, c’è probabilmente un implicito richiamo alla dimensione del “Creato”; un ordine naturale stabilito da una ragione trascendente. Così come la natura kantiana fornisce le regole per la produzione del “genio”, il creato tolkeniano fornisce una possibilità di esistenza definita per la creatività delle creature immanenti. In questo contesto, quindi, la Caduta è definita, fatto non casuale, in relazione con il desiderio di esercitare un dominio su una creazione. Si tratta di una lettura specifica e originale del concetto di “peccato”, ovvero della violazione etica. Dal desiderio di dominio sulla cosa creata discende la ribellione all’ordine stabilito delle cose, e quindi in ultima istanza un tentativo (si capisce, vano) di sottrarsi alla dimensione della mortalità. Configurata che sia la Caduta, si definisce “Macchina”, ma anche arte e magia, il dominio della creazione. Questo sincretismo fra piani epistemici (Macchina, arte, magia) è suggestivo se si pensa alla prospettiva del filologo, a cui si presentano culture

62 Kant, 1993, pp. 278-281. Il problema del genio in Kant ha riflessi tanto in problematiche di tipo ontologico quanto su versanti di tipo etico, allacciandosi a temi e problemi contenuti nelle precedenti due Critiche. Si tratta in effetti di uno degli aspetti più interessanti e stimolanti del suo sistema. Si cfr. ad es. Guerra, 2010; Gammon, 1997; Murray, 2007.

Kant, I. Critica del Giudizio. Torino: Utet, 1993.

Murray, B. Kant on genius and art. In «The British Journal of Aesthetics», 47,2 (2007): 199-214. Guerra, A. Introduzione a Kant. Bari: Laterza, 2010.

Gammon, M. “Exemplary originality": Kant on genius and imitation". In «Journal of the History of Philosophy» 35, 4 (1997): 563-592.

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antiche in cui tanto l’empiria quanto l’incantesimo hanno statuti analoghi e commensurabili. La Macchina ha un’origine “buona”, ovvero eticamente valida, anche in quei casi in cui essa venga poi distorta dalla volontà di dominio. Singolare, nella visione di Tolkien, è la prossimità della riflessione morale con quella estetica, in una direzione tuttavia che non è quella del romanticismo mitteleuropeo: tanto le figure oscure quanto quelle positive (nello specifico, il Nemico e gli elfi) sono egualmente artiste. Ma l’uno, ad un certo punto, declina la creatività nella direzione del potere, dell’immanenza; gli altri, al contrario, mantengono l’arte nella sfera della magia. Non manca un certo grado di rispondenza con la biografia e le esperienze dell’autore. Tolkien stesso, come si può evincere, dalla lettera 21363, si descrive proprio come uno hobbit: dedito alla semplicità e soddisfatto di essa.

All’interno del legendarium si possono nominare moltissimi personaggi che si distaccano dal “naturale ordine delle cose” per seguire pulsioni di potere o di possesso. Per fare un esempio che tutti possono conoscere, data l’enorme diffusione de Il Signore degli Anelli di seguito alla trilogia cinematografica di Peter Jackson, prenderò il caso di Boromir, interpretato da Sean Bean. Boromir, figlio del Sovrintendente di Gondor, viene inviato a Gran Burrone di seguito a un sogno profetico sul ritrovamento dell’Unico Anello64. Lì entra a far parte della Compagnia con il fine di proteggere Frodo nel suo viaggio verso Mordor65. Quel che appare chiaro sin da subito è il desiderio di Boromir di impadronirsi del

63 J.R.R. Tolkien a Deborah Webster, 25 Ottobre 1958, in Carpenter, Humphrey, The Letters of

J.R.R. Tolkien, Boston, Houghton Mifflin Harcourt, 2000, p.303.

64 J.R.R. Tolkien, l Signore degli Anelli: La Compagnia dell'Anello, Milano, Bompiani, 2001, pp. 304-342.

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potente manufatto per utilizzarlo contro Sauron in guerra. Gondor - che confina con Mordor - sta rapidamente soccombendo di fronte alle forze del Nemico, il popolo di Boromir sta morendo e questi, in quanto guerriero nobile e onorevole, non può sopportarlo. All’interno de La Compagnia dell’Anello, Tolkien ci descrive passo per passo la progressiva parabola discendente di Boromir, complice l’influenza terribile esercitata dal manufatto su chiunque vi sia in contatto, comprese le creature più semplici e disinteressate al potere quali gli hobbit. Alla fine, il guerriero tenterà di impadronirsi dell’Unico Anello con la forza66, tormentato da un susseguirsi di scenari politici (ovvero immanenti), che si raffigurano progressivamente sempre più foschi. Boromir passa da una condizione pristina (ma già avviata verso un epilogo infausto), in cui percepisce la Macchina sia come subcreazione che come strumento, a una di Caduta in cui il versante strumentale prende chiaramente il sopravvento. Il nobile gondoriano si pentirà subito del suo gesto e perirà poco dopo, sacrificandosi per salvare la vita degli amici di Frodo. Sebbene Boromir nel testo venga descritto e pianto a più riprese dai personaggi come un eroe tragico, sembra comunque che la sua spinta verso il desiderio di supremazia, anche se a fin di bene, abbia contribuito a renderlo vulnerabile agli effetti dell’Anello. Ha cercato di impadronirsi di un manufatto magico (quindi meccanico) per salvare il suo popolo proprio attraverso quel «desiderio di fare del bene al mondo e agli altri in fretta» che l’autore guarda con sospetto, pur comprendendolo sul piano umano. Appunto per questo motivo, Boromir non solo non poteva vincere, ma, allo stesso tempo, diviene un esempio da non seguire.

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Come detto, Boromir funge da comodo esempio per via della sua notorietà, ma le radici di tale tolkeniana concezione affondano nella profondità del legendarium. Se si pensa alla ribellione del Vala Melkor durante il canto di Ilùvatar, o a quella di Mairon - nome originario di Sauron - nella casa del Vala Aulë, o anche a quella dello stesso Ar-Pharazôn, si comprende come anche in personaggi con una connotazione decisamente più negativa, la spinta decisiva sia data dalla brama di esercitare un potere sul Mondo, con un esercizio creativo che sin dal principio si configura come peccato, in quanto in qualche modo prefigura un aggiramento del normale funzionamento delle cose. In quest’ottica, è interessante osservare cosa accade se si applica lo schema di Vogler alle imprese interne al legendarium. Prendendo nuovamente a esempio Il Signore degli Anelli, la missione di Frodo, pur rispecchiando in modo accurato le dodici tappe del Viaggio dell’Eroe, non è rappresentata dal desiderio di appropriarsi di un magico Elisir. Anzi, avviene un totale ribaltamento di tale assetto: l’Elisir, il manufatto magico/meccanico creato dal Maia Sauron deve essere distrutto per il bene della collettività. Tale itinerario si svolge nel segno della rinuncia, del distacco; spesso difficile e doloroso. Questo non significa che all’interno del legendarium non siano presenti mandati più conformi alla ricerca dell'Elisir di Vogler. Tuttavia, in genere, essi finiscono per danneggiare i protagonisti dell’impresa. Per fare un altro esempio, noto al grande pubblico grazie alla diffusione cinematografica, ci si può riferire all’orgoglioso principe di Erebor, Thorin Scudodiquercia, co-protagonista de Lo Hobbit, che, nel portare a termine l’impresa per recuperare l’Archengemma e, grazie a essa, riconquistare il suo regno, cade vittima della brama dell’oro. A poco vale il fatto

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che, con le sue sole forze, Thorin riesca a sconfiggere la nefasta condizione: il nobile re morirà comunque in battaglia, espiando la colpa di una pessima condotta di cui non è del tutto responsabile.

L’Akallabêth presenta il medesimo assetto: Ar-Pharazôn, sovrano di una stirpe di uomini offesa dal torto di non poter ottenere la vita eterna, decide, al termine della sua vita e sotto consiglio di Sauron, di veleggiare verso il Reame Beato con l’obiettivo di conquistare con la forza quanto è stato loro negato in precedenza. Le sue azioni sono, probabilmente, le più blasfeme dell’intero legendarium tolkeniano e la sanzione è commisurata all’empietà: Manwë che, per legge divina, non può nuocere agli uomini, si rivolge a Ilùvatar e per suo tramite l’isola di Númenor viene ingoiata dagli abissi; i Númenóreani verranno spazzati via dalla faccia della terra, senza fare distinzioni tra empi e pii. Solo quei pochi che avevano lasciato l’isola di Númenor per raggiungere Arda sopravviveranno alla vendetta divina. Alcuni diventeranno i Dunedain, di cui Aragorn è discendente e membro, altri ancora fonderanno la città di Gondor, mescolandosi a uomini dal sangue meno nobile67.

Non è questo il luogo di discutere da quale delle due parti, Númenóreani e Valar, fosse la ragione, né probabilmente la risposta sarebbe del tutto univoca. I testi di riferimento per lo più sembrano condividere, quanto meno in parte, la prospettiva dei Valar; ma è pur vero che dovrebbero fare per lo più parte della tradizione elfica, ed essere quindi narrati secondo quel punto di vista. Al contrario, l’intenzione è quella di portare lo spettatore a raggiungere la propria sintesi soggettiva. Dal momento che un punto di vista è necessario al fine di adattare

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l’Akallabêth in un trattamento per il cinema, una scelta va comunque compiuta. Le vicende del mio adattamento, pertanto, saranno veicolate dal punto di vista di Ar-Pharazôn e di Sauron, non da quello dei Valar o degli elfi. Se così non fosse, da un lato sarebbe difficile creare un prodotto accattivante per il pubblico - ne verrebbe fuori un adattamento sin troppo classico -, dall’altro verrebbe meno la possibilità di dare allo spettatore la facoltà di raggiungere la propria sintesi soggettiva sulle vicende attraverso un adattamento di tipo moderno. Se si legge l’Akallabêth, infatti, la richiesta di una vita eterna da parte dei Númenóreani appare immediatamente insensata e inottenibile proprio perché Ilùvatar ha decretato la loro mortalità da prima della loro creazione e non ha alcuna ragione per cambiare intendimento. Tuttavia, questa è una nozione che il lettore possiede in quanto tale. La conoscenza interna dei personaggi è nebulosa e confusa. Di fatto, dal loro punto di vista, è legittimo avanzare la pretesa di una vita eterna proprio perché le risposte date al lettore vengono loro negate. Se pertanto è sensato considerare i Númenóreani arroganti e empi perché rifiutano la fede, è altrettanto possibile ipotizzare, dal loro punto di vista, un inganno da parte dei Valar volto alla non volontà di condividere potere e privilegi; d’altra parte, è anche possibile considerare che, se Manwë avesse mostrato più empatia verso la richiesta degli uomini, pur non soddisfacendola, forse le cose sarebbero andate diversamente. Certo è che, da un punto di vista narrativo, è più accattivante presentare la questione attraverso la complessità dei punti di vista degli interessati, senza fornire a priori al fruitore “il lato giusto” al quale schierarsi.

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1.5. Il messaggio dell’Akallabêth:

Il messaggio interno a una storia e il punto di vista con cui viene narrata sono interdipendenti. Quando si procede all’adattamento di un testo, infatti, per quanto ci si possa distaccare al fine di renderlo adeguato al gusto attuale, si deve sempre porre particolare attenzione a mettere in relazione i temi presenti nell’opera originaria.68 Non tener conto di tali elementi potrebbe portare a una resa troppo distante rispetto all’essenza dell’opera di riferimento. Di particolare rilevanza è il finale del film, in quanto vertice ultimo del climax delle azioni sino a quel momento trattate. Secondo lo studioso Age è fondamentale che esso sia da un lato sempre imprevedibile e, dall’altro, seguito da una breve scena che aggiunga un punto conclusivo alle vicende.69 Ovviamente Age si riferisce, in questo caso, a sceneggiature originali, non a progetti di adattamento. È abbastanza improbabile infatti che un adattamento risulti sorprendente per tutto il pubblico in sala, dal momento che ci sarà sempre chi ha letto il libro e sa cosa aspettarsi dalla storia. Nel merito dell’Akallabêth, quello che potremmo definire il tema cardine dell’intera vicenda è costituito dalla tracotanza degli uomini70. Per quanto, infatti, la posizione dei Númenóreani possa essere condivisibile, è anche vero che, verso la conclusione delle vicende, essi decidono di ignorare i benefici concessi loro -una vita più longeva e un’isola particolarmente prospera - per seguire il loro re in battaglia. I Númenóreani sfidano apertamente gli dèi e, per estensione, il Creatore stesso al fine di conquistare con la forza (ovvero tramite esercizio della Wille zur

68 A. Fumagalli, I vestiti nuovi del narratore, pp. 138-139.

69 A. Incrocci (Age), Scriviamo un film, Parma, Pratiche Editrice, 1990. 70 Cfr. supra pp. 21-22.

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Macht, di una volontà d’azione e dominio) la loro immortalità. Tale blasfemia rappresenta perfettamente quella ricerca di Potere e quell’attaccamento materiale alle cose che nei testi di Tolkien hanno una valenza particolarmente negativa, come è stato discusso nel precedente paragrafo.

Ar-Pharazôn, in quanto protagonista delle vicende, è il veicolo preferenziale per descrivere sullo schermo tale dinamica. Spetta infatti all’Eroe affrontare tutte le tappe che ci condurranno al finale. Dal momento che il testo tolkieniano sorvola sull’introspezione e sulla caratterizzazione dei suoi personaggi, è necessario, ai fini di un adattamento cinematografico, ricostruire, sulla base degli spunti forniti dal testo, delle figure che risultino interessanti anche nel nuovo contesto. Affronterò nel successivo capitolo tale sviluppo, per ora ci basti sapere che, al fine di una resa moderna dei contenuti classici dell’Akallabêth, è mia intenzione cercare di rendere l’orgoglioso re Númenóreano un protagonista con il quale lo spettatore possa essere simpatetico. Un Eroe che lotta per le proprie idee, anche di fronte a una disfatta inevitabile, può coinvolgere lo spettatore in sala, lanciando a sua volta un messaggio condivisibile: è meglio tentare e perire che rimanere immobili ad accettare la sorte che altri hanno deciso per noi. Il mio Ar-Pharazôn, per necessità più delineato di quello tolkieniano, saprà che ci saranno conseguenze per le sue azioni, ma le accetterà come un rischio necessario. L’ Ar-Pharazon adattato richiamerà quindi, da un punto di vista dell’entroterra culturale, quella tipologia di eroe magistralmente incarnato dal Lucifero miltoniano, per cui è meglio regnare all’inferno che servire in paradiso.

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due tipi di speranza: Estel e Amdir71. La prima, più simile alla fede, è una speranza fondata sulla fiducia incondizionata nell’operato del Creatore, in questo caso Ilùvatar, e non necessita di alcuna base sensibile; la seconda è, invece, una fiducia concreta, che si basa sul reale, come asserisce la stessa Andreth:

«“What is hope?” she said. “An expectation of good, which though uncertain has some foundation in what is known? Then we have none.”.»72.

Ar-Pharazôn rifiuta ogni forma di Estel e ricerca l’Amdir. Come la maggior parte del suo popolo, non è più disposto ad accettare la veridicità di dogmi trascendenti. Vuole una speranza concreta, che possa vedere e toccare. Per secoli il sovrano di Númenor si accontenta delle risposte ottenute dal Maia Sauron, ma quando si rende conto di non aver più molto tempo, prima che la vecchiaia lo conduca alla morte, Ar-Pharazôn arma la flotta per veleggiare verso il Reame Beato e prendere la sua verità, incurante più che ignaro delle conseguenze. L’obiettivo è dunque quello di fare di Ar-Pharazôn un personaggio con connotati maggiormente ambivalenti rispetto a quelli del testo originale, oscillante tra luce e ombra, che lentamente percorra una parabola discendente. Si può quindi dire, in un certo qual modo, che una simile rivisitazione dell’Akallabêth veicolerebbe due messaggi: da un lato il monito a non essere empi e tracotanti, a non voler eccedere nell’ambizione, pena il rischio di venirne corrotti e travolti; dall’altro il valore insito nella scelta di non arrendersi mai, ma di lottare con coraggio per ciò in cui

71 J.R.R. Tolkien, Morgoth’s Ring, p. 320. 72 Ibidem.

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si crede, anche se questo significa imbarcarsi in una lotta impari. Ciascuna polarità non esclude l’altra a livello interpretativo, e ogni spettatore potrà estrapolarne la sua sintesi soggettiva. È tuttavia necessario sottolineare che quanto appena espresso rappresenti una chiave di lettura originale rispetto ai testi di analisi sull’Akallabêth. Normalmente i critici non si discostano dalla visione elfo-centrica e Valar-elfo-centrica, che è, d’altra parte, anche quella più fedele al punto di vista tolkieniano. Per fare un esempio, all’interno del saggio L’errato cammino

del sub-creatore: dalla Caduta alla Macchina rifuggendo la Morte73 di Alberto Ladavas, i Númenóreani vengono posti in una luce totalmente negativa. Secondo la sua analisi, l’errore degli abitanti di Númenor si configura proprio nel rifiutare la tesi espressa da Fingon all’interno dell’Athrabeth Finrod ah Andreth sulle sorti degli uomini dopo il trapasso. Tale rifiuto, infatti, porta gli uomini a distaccarsi dal sistema di valori considerati positivi dall’autore74. Lo studioso prosegue, poi, con un’aspra critica alla figura di Ar-Pharazôn, condannando le sue azioni e giungendo, tramite la citazione dello studioso Ferdinando Castelli, alla conclusione che «il rifiuto della morte e la pretesa dell’immortalità “entro la vita” equivale al rinnegamento della propria natura per appropriarsi di una prerogativa divina. Chi segue questa chimera si abbandona alle forze distruttrici del male[...]»75. Dal punto di vista dell’analisi contenutistica, è indubbio che i Númenóreani pecchino di superbia nei confronti del loro Creatore e che tale

73 A. Ladavas, L’errato cammino del sub-creatore:dalla Caduta alla Macchina rifuggendo la

Morte, in R. Arduini, C. Testi (a cura di), La falce spezzata Morte e immortalità in J.R.R. Tolkien, Milano, Marietti, 2009

74 Ivi, pp. 58-59

75 F. Castelli, Tolkien il signore della fantasia, La Civiltà Cattolica n.3647 pp. 432-444, cit. in R. Arduini, C. Testi (a cura di), La falce spezzata Morte e immortalità in J.R.R. Tolkien, Milano, Marietti, 2009, p. 66.

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azione, all’interno del legendarium, sia e debba essere condannabile. Ciò nonostante, il lavoro di adattamento, come descritto nei paragrafi precedenti, non dipende necessariamente dalla pedissequa riproposizione dei medesimi contenuti e può prevedere un mutamento, anche radicale, del punto di vista, pur mantenendo inalterati sia gli sviluppi che la conclusione delle vicende. In sostanza, l’argomentazione ivi proposta non è normativa in sede di reimpiego del testo, quantomeno nel senso di una pedissequa traduzione in avvenimenti su pellicola, mentre è indubbio che il contatto con la letteratura secondaria possa solo arricchire il lavoro di adattamento. L’obiettivo in questo caso - motivato, come è stato detto, dal proposito di sviluppare una rappresentazione più coinvolgente per lo spettatore moderno - è quello di creare un adattamento sulla base di un punto di vista interno, che renda possibile tanto il distacco che l’immedesimazione con il protagonista. Proprio per questo motivo, il messaggio dell’opera non si circoscrive più a un monito nei confronti della tracotanza e dell’eccessiva ambizione, ma inserisce il tema del perseguimento di un obiettivo malgrado la dubbia moralità dei mezzi per raggiungerlo e la sorte avversa.

1.6. Chi è l’Eroe? Ar-Pharazôn o Sauron?

«Quando si valuta una sceneggiatura, a volte è difficile dire chi è o chi dovrebbe essere il personaggio principale. Spesso la risposta migliore è: Quello che impara e cresce di più nel corso della storia.”.»76.

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Proprio come dice Vogler, anche io, in fase preparatoria, mi sono domandata chi tra Ar-Pharazôn e Sauron dovesse essere il protagonista e l’Eroe delle mie vicende. Il dubbio nasce dal fatto che entrambi i personaggi dispongono di un mandato che portano a termine: Ar-Pharazôn quello di raggiungere le coste del Reame Beato per conquistare la vita eterna; Sauron, invece, vuole da un lato liberarsi della presenza dei Númenóreani in Arda, dall’altro danneggiare Manwë e tutti i Valar il più possibile. Nessuno dei due, prendendo il testo come base, intraprende un vero e proprio percorso di crescita. Da come ci vengono presentati, infatti, appaiono, nella loro abiezione, più come figure marmoree, eroi di tempi ormai trascorsi, cristallizzati (soprattutto Sauron) nella scelta di un percorso che le avvicina sempre più all’Ombra, malgrado le loro aspirazioni. Ciò è, probabilmente, dovuto al fatto che le loro posizioni non debbano essere considerate condivisibili da parte del lettore.

In realtà, se si decide di manipolare il materiale originale per dare una più completa caratterizzazione ai personaggi, cogliendo i pochi spunti di ambiguità che si possono reperire nel testo (e su cui in seguito ci si soffermerà più in dettaglio), sia Sauron che Ar-Pharazôn appaiono come figure complesse con un potenziale di crescita molto alto. Ciò che li differenzia al fine di scegliere il protagonista delle vicende è la tipologia del mandato e la durata dello stesso. Sauron è una creatura antica, potentissima che, da ere, combatte contro i Valar. La sua battaglia è cominciata molto tempo prima ed è destinata a concludersi, con Il

Signore degli Anelli, in un futuro molto remoto rispetto agli eventi trattati

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tutti gli eventi che precedono e che succedono la Caduta di Númenor. Come se ciò non bastasse, Sauron, in questa fase della sua lunga e travagliata esistenza, sembra calarsi alla perfezione nel ruolo del Mentore dispensatore di doni e consigli. Non solo, in quanto creatura divina, egli possiede le caratteristiche per disporre di una conoscenza superiore rispetto a quella di Ar-Pharazôn - solo un uomo, per quanto straordinario -, ma non è neppure la prima volta che assume i panni del Mentore all’interno del legendarium tolkieniano. Prima degli eventi dell’Akallabêth, Sauron, tramutato il proprio aspetto, si mescolò agli elfi per creare gli Anelli del Potere (nove per gli uomini e sette per i nani). Nelle sembianze di Annatar - il cui significato è, non a caso, portatore di doni -, con inganni e oculati consigli, riuscì a ingannare l’elfo Celebrimbor perché forgiasse con lui i pericolosi anelli. Solo quando Sauron, nella solitudine delle fucine di Mordor, creò per sé un Unico Anello in grado di controllare tutti gli altri, Celebrimbor si rese conto dell’inganno e, per preservare il mondo dal controllo del Maia, forgiò altri tre anelli, destinati agli elfi, indipendenti dal potere dell’Unico77.

È quindi indubbio che Sauron, all’occorrenza, sappia mettere da parte la spada per vestire più che bene i panni del Mentore. Tuttavia, pur essendo tale, è un Mentore che non perde mai di vista il fine ultimo che determina ogni sua azione: la sconfitta dei Valar.

Al principio delle vicende, Ar-Pharazôn, forte delle conquiste ottenute, marcia entro Mordor per battere Sauron in un’ultima, monumentale battaglia, ma lo scontro non avviene. Il Maia semplicemente si arrende, consegnandosi ad Ar-Pharazôn come prigioniero. La resa, tuttavia, è l’ultima delle sue intenzioni: se

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