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Censura e istituzioni culturali in Urss: Dall'Ottobre alla risoluzione del 1925

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Academic year: 2021

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PISA Dipartimento di Filologia, Letteratura e Linguistica

Corso di Laurea in Lingue e Letterature Moderne Euro-americane

Tesi di Laurea Magistrale:

Censura e istituzioni culturali in Urss

Dall'Ottobre alla risoluzione del 1925

Relatore: Chiar.mo Prof. GUIDO CARPI Candidato: IGOR SCHIMIZZI ANNO ACCADEMICO 2015-2016

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INDICE

1. INTRODUZIONE 3

2. CENNI STORICI: IL «COMUNISMO DI GUERRA» E GLI ANNI DELLA

NEP 7

2.1 La composizione sociale ai tempi della Nep 19

2.2 I problemi e le conquiste sociali negli anni Venti 26

3. IL MONDO LETTERARIO RUSSO: DALLA GUERRA CIVILE AGLI ANNI

TRENTA 31

4. LA FINE DELLA NEP: LA VITTORIA DI STALIN E IL REALISMO

SOCIALISTA 41

5. BREVE STORIA DELLA CENSURA DA PIETRO IL GRANDE AL 1917

5.1 Dallo «Stoglav» al regno di Nicola I 44

5.2 Dall'«epoca del terrore della censura» alla Grande Guerra 57

6. L'APPARATO CENSORIO SOVIETICO: UN PERIODO DI FORMAZIONE

(1917-1925) 76

7. IL NARKOMPROS E I SUOI DIPARTIMENTI CULTURALI 124

7.1 Il Glavpolitprosvet 130

7.2 Il Proletkul't 133

7.3 I rapporti tra il Narkompros e il mondo dell'arte 143

7.4 La riorganizzazione del Narkompros 156

7.5 Dopo la commissione “Larin” 160

7.6 Il Gosizdat e il Narkompros nei primi anni Venti 163

8. BIBLIOGRAFIA 167

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1. INTRODUZIONE

La presente tesi si propone di tracciare un quadro, per quanto possibile esauriente e nitido, del funzionamento dell'apparato censorio sovietico nei suoi primi anni di formazione. Il nuovo regime, nato dalle ceneri dell'impero zarista, era arrivato al potere approfittando della fragilità e dell'inefficienza politica del governo provvisorio. Nessuno si aspettava, nemmeno gli stessi addetti ai lavori, che i bolscevichi potessero prendere le redini del paese. Lo stesso Lenin non era fiducioso nel buon esito della rivoluzione. Appena arrivati al potere, i bolscevichi si adoperarono per assumere il controllo della stampa avversa, con una repentinità che sorprese tutti, anche alcuni membri del partito come Zinov'ev e Kamenev, che minacciarono addirittura di abbandonare il Partito. Ma Lenin sapeva benissimo che l'arma della carta stampata era troppo importante per rinunciarvi: non si poteva infatti permettere alle forze borghesi, monarchiche e liberal-conservatrici di screditare e calunniare tramite il mezzo stampa un governo appena insediatosi che ancora non aveva avuto il tempo di mettere solide radici, e che dunque era ancora esposto a possibili ribaltamenti di fronte. I primi sequestri di giornale e i primi provvedimenti contro gli editori sgraditi si verificarono immantinente, e il primo decreto sulla stampa fu ratificato già il 27 ottobre (calendario giuliano). È da tale documento che si può far iniziare la storia della censura sovietica. Durante la fase del «comunismo di guerra» e della Guerra Civile l'editoria russa si trovò in una fase di stallo, bloccata com'era dalla carenza di carta, dalla terribile involuzione economica del paese e dalla nazionalizzazione o municipalizzazione dei centri tipografici e del mercato librario. In tale periodo la censura fu esercitata più che altro dal Gosizdat, ovvero le Edizioni di Stato, che fece da tramite tra il Commissariato agli approvvigionamenti e le case editrici sopravvissute agli eventi nella gestione della carta e nella concessione degli striminziti sussidi statali. Con un decreto del 21 giugno del 1918 fu instaurata la censura militare che di fatto, con la scusa di proteggere i segreti militari e di non rendere manifeste le manovre politiche del Partito, supervisionò la produzione e la diffusione degli organi periodici, filtrandone le notizie. Tra il 1917 e il 1921 le case editrici private, seppur non ufficialmente proibite, si ridussero esponenzialmente. Esse trovarono nuova linfa con la Nuova Politica Economica, che ridette slancio all'imprenditoria privata. Il Partito, dopo i cattivi risultati editoriali del Gosizdat e la rifioritura del mercato privato, il 6

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giugno del 1922 creò il Glavlit, la “Direzione generale per gli affari letterali ed editoriali”. Esso nacque soprattutto per ridare ordine all'apparato censorio, che ancora non aveva un struttura e una gerarchia ben definite. Prima della creazione del Glavlit il controllo della carta stampata fu spartito tra più enti e dipartimenti, tra cui il Politotdel (dipartimento politico) del Gosizdat, i comitati agitprop (agitazione e propaganda) e quelli politprosvet (educazione politica). Nel 1922, oltre al Glavlit, nacque la Gpu, che ereditò le funzioni della Čeka come organo poliziesco. Essa divenne il braccio armato del Glavlit, inaugurando un binomio che purtroppo diventerà tipico del sistema censorio sovietico degli anni a venire. Le decisioni in ambito censorio provenivano sempre dall'alto, su disposizione degli organi superni del governo comunista come il Sovnarkom, il Comitato Centrale del Partito o il Politbjuro. Nel febbraio del 1923 fu creato il Glavrepertkom, l'equivalente del Glavlit in campo teatrale. Tra il 1922 e il 1925 uscirono numerosi decreti e risoluzioni che perfezionarono il funzionamento del Glavlit, ottimizzandone l'efficienza. In pratica il Glavlit si occupò della lotta al misticismo, alle tendenze contro-rivoluzionarie e borghesi in letteratura, alle deviazioni politiche, al monarchismo, all'intelligencija reazionaria, alla letteratura d'emigrazione ecc., insomma, combatté con tutti i mezzi disponibili contro tutto ciò che metteva in pericolo la stabilità del Partito e la supremazia del proletariato.

La questione censoria si intrecciò con i problemi della letteratura e con i dibattiti sorti tra i vari gruppi letterari dei primi anni Venti a proposito della linea politica del partito in campo letterario. Uno tra i più attivi membri del partito in tale ambito fu Trockij, di cui abbiamo riportato molti documenti ufficiali che ci dimostrano come fosse vivo in lui l'interesse per la letteratura sovietica, lontana ancora dall'avere una forma ben definita. La diatriba vide protagonisti tra tutti il critico letterario Voronskij da una parte, un mecenate dei «compagni di strada», e dall'altra i napostovcy, che credevano che l'arte dovesse riflettere la lotta di classe e il volere del Partito. Alla fine la spuntò Voronskij, la cui rivista, Krasnaja nov' (Terra vergine rossa), promosse la diffusione di una letteratura che privilegiasse il valore artistico di un opera piuttosto che il suo contenuto politico. Con la risoluzione del 1° luglio Sulla politica del partito in campo letterario, nonostante le insistenti richieste dei napostovcy per la concessione del monopolio delle arti sovietiche, il governo scelse la linea del non-interventismo e lasciò che i vari gruppi letterari continuassero le loro politiche letterario-editoriali senza restrizioni, naturalmente nel pieno rispetto delle autorità e

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dell'ideologia comunista.

L'analisi più propriamente incentrata sul primo sistema censorio sovietico sarà preceduta da un'introduzione storica al periodo degli anni Venti e da una breve panoramica sul mondo letterario sovietico sino agli inizi degli anni Trenta, premesse che ci permetteranno di comprendere meglio la parte successiva che rappresenta il fulcro della nostra indagine. È inoltre stata inserita una breve storia della censura pre-rivoluzionaria, che partirà sostanzialmente dall'epoca di Pietro il Grande, il primo zar a utilizzare la stampa e la letteratura come strumenti politici e il primo regnante russo a secolarizzare la censura, sino ad allora appannaggio delle autorità religiose. Come spartiacque della plurisecolare storia della censura imperiale abbiamo posto il regno di Nicola I (1825-1855). Con Nicola I il sistema censorio raggiunse un'efficienza e una rigorosità mai riscontrate prima, grazie anche all'aiuto indefesso della “Terza Sezione”, la prima polizia segreta russa. Il periodo che va dal 1848 al 1855 fu denominato l'«epoca del terrore della censura», a testimonianza delle repressioni e delle punizioni a cui furono sottoposti i letterati e gli editori avversi al regime. L'analisi si concluderà con il regno di Nicola II, punto estremo dello zarismo più oscurantista e autocratico.

Il capitolo finale verterà sul Commissariato dell'istruzione, il Narkompros, e sugli organi, in particolare il Proletkul't, il Gosizdat e il Glavpolitprosvet, che intorno ad esso gravitavano. Il Narkompros sin da subito dovette fare i conti con l'ostruzionismo dei vecchi impiegati dell'ex ministero zarista, e con l'evidente caos amministrativo in cui quest'ultimo versava. Anatolij Lunačarskij, il commissario in pectore, non aveva grande peso politico e nei suoi primissimi anni di esistenza i problemi del Narkompros passarono quasi sempre in secondo piano rispetto a quelli economici o sociali. Dal Narkompros dipendevano una miriade di dipartimenti e sottodipartimenti: uno di questi, quello extrascolastico, guidato da Nadežda Krupskaja, sarà trasformato nel 1920 nel Glavpolitprosvet, il “Comitato politico-educativo centrale del Narkompros”. Secondo le parole dello stesso Lunačarskij la moglie di Lenin fu l'«anima del Narkomrpos». Essa si dedicò più che altro degli affari educativi del commissariato, con devozione e zelo. Il Glavpolitprosvet, di cui la Krupskaja fu per un periodo presidente, si occupava dell'educazione politica degli adulti e del miglioramento dei bassi livelli d'istruzione degli operai e dei contadini. Tra il 1921 e 1922 le funzioni propagandistiche e politico-educative del Gpp (così l'abbrevieremo nel corso del

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documento) passarono all'Agitprop (ufficio di agitazione e propaganda) del Comitato Centrale: ciò permise al Partito di avere un più diretto controllo su tali attività, ritenute essenziali e non delegabili ad un organo come il Narkompros, che non godeva della fiducia di molti membri influenti del Partito (così come lo stesso Lunačarskij).

Noi non ci occuperemo dell'amministrazione del sistema scolastico, ma di tutto ciò che riguardò il campo culturale e scientifico, come l'amministrazione dei teatri, la gestione delle accademie o i rapporti tra Lunačarskij e le varie correnti artistiche allora esistenti. In questo campo Lunačarskij credeva che un governo che si professasse civile e illuminato non potesse e non dovesse permettere che il processo creativo delle arti e delle scienze fosse disturbato dalle ingerenze politiche esterne. Egli inoltre pensava che nessun gruppo o corrente artistica dovesse avere una corsia preferenziale rispetto agli altri, e che l'arte non dovesse sottostare al monopolio di un unico gruppo di artisti, poiché essa era un bene che apparteneva a tutta la comunità.

Amico di Aleksandr Bogdanovič, filosofo del marxismo e principale ispiratore del Proletkul't, Lunačarskij dovette superare anche le diffidenze degli anti-bogdanovisti (tra tutti Lenin) e di coloro che non intendevano concedere l'autonomia al movimento di «cultura proletaria». Il Proletkul't, che istituì una propria università operaia e che realmente stava svolgendo un buon lavoro nel campo dell'educazione ideologica e artistica degli operai, dopo il 1921 perse gran parte dei privilegi che gli erano stati concessi, a causa soprattutto degli insuccessi del Narkompros, considerato dalle alte cariche un perfetto esempio di «burocrazia inefficiente», e dell'avversione di Lenin al bogdanovismo, ritenuto dalla corrente maggioritaria del Partito una vera e propria «eresia politica».

Lunačarskij, nonostante le carenze economiche e amministrative della sua creatura, si impegnò come poté nella salvaguardia della pluralità nell'arte e nell'aiuto, sia materiale che spirituale, agli artisti in difficoltà. Nel mondo del teatro, infine, il commissario riuscì ad accaparrarsi i migliori registi del momento, come Stanislavskij e Mejerchold, riuscendo a superare le diffidenze che il mondo teatrale dimostrò verso gli organi statali.

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2. CENNI STORICI

Durante il X° Congresso del Partito Comunista Russo (dei bolscevichi), tenutosi a Mosca dall'8 al 16 marzo del 1921, Lenin e i delegati ivi riunitesi presentarono il nuovo piano economico per il paese, che di lì a poco sarebbe divenuto effettivo. È l'inizio della NEP, la Nuova Politica Economica. Essa rappresentò un passo obbligato per il Partito: dopo tre anni di «comunismo di guerra», per ripartire dalle macerie della Guerra Civile, Lenin si vide costretto a fare un passo indietro, a scendere a compromessi, in un certo senso tradendo i principî stessi del marxismo. In un paese arretrato come la Russia, per di più uscito con le ossa rotte dalla Prima Guerra Mondiale e dalle battaglie fratricide tra Bianchi e Rossi, il passaggio ad una economia comunista non poteva essere immediato. Urgeva un mutamento delle prospettive politiche e finanziarie del Partito.

La nazionalizzazione delle piccole e medie imprese, assieme alla politica delle requisizioni agricole, avevano portato a un malcontento e a una carestia generali sia nelle campagne che nelle città. Le misure straordinarie adottate durante la fase del cosiddetto «comunismo di guerra» (1918-1921) furono frutto di decisioni affrettate e provvedimenti esiziali. Nel maggio del 1918, un decreto statale conferì ampi poteri al Commissariato agli Approvvigionamenti, che inviò sin da subito reparti speciali militarizzati nelle zone rurali con il compito di scovare e quindi requisire tutto il grano possibile, con la raccomandazione di colpire soprattutto i contadini più agiati (kulaki). All'uopo furono utilizzati anche comitati di contadini poveri, detti kombedy, che si dimostrarono i più attivi, in senso negativo, nella persecuzione dei possidenti e degli agricoltori più ricchi (Graziosi 2007, pp.106-107). Il grano confiscato servì per rifornire, per quanto possibile, le città. Le requisizioni delle scorte alimentari, e più in particolare i metodi barbari con cui esse venivano eseguite, destabilizzarono la già pencolante situazione nelle campagne. I prodotrjady, ovvero le unità speciali di approvvigionamento, composte per lo più da membri dell'Armata Rossa o da elementi della polizia politica, non andarono tanto per il sottile, adottando il terrore come principale mezzo d'azione e di persuasione. I proprietari terrieri e le loro famiglie furono deportate e i loro beni espropriati. Vi furono fucilazioni e impiccagioni, sequestri di persona

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e torture di massa (Graziosi 2007, p.108). Le zone più colpite dalle squadre di requisizione corrisposero alle aree più fertili dal punto di vista cerealicolo: Ucraina, Kuban' e Basso Volga. I bolscevichi, a seguito di queste violenze, si inimicarono la popolazione rurale, creando una profonda spaccatura tra il Partito e la classe contadina, per nulla attratta dalle retoriche e dalle teorie comuniste se esse nella pratica si dimostravano ben più perniciose di quelle del vecchio regime. Ad aggravare il rapporto con i contadini, contribuì anche la decisione da parte del Partito di estendere la coscrizione obbligatoria a tutti i contadini medi, del tutto restii ad entrare nell'Armata Rossa e desiderosi solo di pace; si generò di conseguenza un altissimo numero di diserzioni, che nel 1919 si contavano a migliaia (Graziosi 2007, p.127). Attenendoci ai dati, i risultati della «guerra alle campagne» furono tutt'altro che soddisfacenti. Il sistema dei sequestri delle eccedenze agricole (prodrazverstka), non raggiunse gli obiettivi prefissati, fallendo in maniera eclatante: per il 1919, il piano dei sequestri prevedeva la raccolta di 260 milioni di pud di cereali, mentre in realtà si toccarono appena i 100 milioni di pud (38,5%); nel 1920, il piano fu realizzato solamente al 34% (Werth 1993, p.174). Nel campo dell'industria, il governo procedette, il 28 giugno 1918, alla nazionalizzazione di tutte quelle imprese che possedevano un capitale superiore al mezzo milione di rubli, arrivando a 2500 imprese espropriate in data I° ottobre 1919; nel novembre 1920, fu decretata la nazionalizzazione di «tutte le imprese con più di 10 operai o di quelle che, avendo più di 5 operai, utilizzavano un motore» (cit. in Werth, 1993, p.171). Parliamo di circa 37000 aziende. Queste misure, lungi dall'essere efficaci, portarono all'esacerbazione dei conflitti sociali sia nelle campagne che negli ambienti industriali. Nelle zone rurali si registrarono numerose agitazioni e rivolte (quella scoppiata nel 1918 nella provincia di Tambov, guidata dal social-rivoluzionario A.S. Antonov, fu la più lunga e sanguinosa). I più colpiti dal sistema delle requisizioni agricole furono gli srednjaki, i contadini medi, poiché il peso dei sequestri non ricadeva sui soli contadini benestanti (kulaki), ma veniva spalmato più o meno equamente sull'intera classe agricola. Quest'ultima comprendeva anche i bednjaki, i contadini poveri, ovviamente meno proficui per la prodrazverstka, in quanto praticamente privi di eccedenze produttive. In linea generale i contadini, sfiancati e impoveriti dalla guerra e preoccupati per un futuro incerto, producevano ad un livello di esclusiva sussistenza oppure accumulavano viveri (col rischio di essere scoperti), negando in tal modo i loro prodotti agricoli al consumo fuori delle

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campagne (Colucci/Picchio 1997, p.181). Le condizioni di vita nelle città, in questi primi anni dopo la Rivoluzione, andavano sempre più deteriorandosi. L'introduzione delle tessere di razionamento, la totale mancanza di servizi, la nazionalizzazione o la chiusura anche delle più piccole attività commerciali (a partire dal novembre 1918 a Mosca furono chiusi in poche settimane più di 3400 negozi), portarono a una penuria e a una povertà dilaganti. Corruzione e illegalità imperversarono nelle città, dove ruberie, violenze e uccisioni erano all'ordine del giorno. I cittadini, per non morire letteralmente di inedia, si ingegnarono come meglio poterono, facendo ricorso al mercato nero oppure falsificando le tessere per il pane (cfr. Graziosi 2007, p.126). Come magistralmente descritto nel racconto di Zamjatin Peščera (La caverna), a Pietrogrado, e in tante altre città, si viveva alla stregua di cavernicoli, di trogloditi che si sarebbero scannati l'uno con l'altro per un pezzo di legna da ardere. Le zone urbane erano diventate insomma teatro di una lotta capillare e brutale per la sopravvivenza. Nelle fabbriche, dove i dirigenti comunisti facevano la voce grossa, e dove i sindacati venivano eliminati o subordinati al Partito bolscevico, gli operai lavoravano in condizioni pessime, sottopagati e sfruttati. I bolscevichi irregimentarono la classe operaia, ad esempio con misure quali l'introduzione del libretto lavorativo, la «mobilitazione generale al lavoro» (obbligatoria per tutti i cittadini compresi tra i 16 e i 50 anni di età) o l'introduzione dei celebri subbotniki (i sabato comunisti, ovvero giorni di lavoro volontario non retribuito) (cfr. Werth 1993, p.175). Tutto ciò condusse a un costante spopolamento delle fabbriche, dove l'assenteismo aveva raggiunto livelli inauditi. Molte imprese furono costrette a chiudere la produzione per mancanza di combustibile o comunque di altre necessarie materie prime. Tali problemi comportarono il ritorno di migliaia di operai nelle campagne, magari nei loro villaggi di origine, alla ricerca di cibo che ormai scarseggiava nelle città. L'atrofizzazione dell'industria, inoltre, non garantì il ricambio dei mezzi di produzione che la classe rurale abbisognava per accelerare e modernizzare il lavoro agricolo. A tutto questo si aggiungano:

1. le diatribe sorte in seno al Partito su questioni come la contaminazione di elementi non proletari all'interno dello stesso e la burocratizzazione degli apparati;

2. l'inflazione sempre più alta e la svalutazione della moneta, a cui si cercò di rimediare tramite la creazione del Gosbank (Gosudarstvennyj bank – Banca di Stato) o l'impiego di

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altre unità di scambio che non fossero denaro;

3. il problema delle nazionalità, già presente in epoca imperiale e riacutizzatosi dopo il trattato di Brest-Litovsk, e la nascita di movimenti indipendentisti, soprattutto in Ucraina, Transcaucasia e nelle aree a maggioranza islamica, che propugnavano l'autonomia politica;

4. i difficili rapporti con l'Occidente, ancora sospettoso nei confronti del nuovo regime. Si pensi che il primo trattato internazionale fu stipulato solamente nel 1922 a Rapallo: esso sancì la riapertura dei rapporti diplomatici ed economici tra Urss e Germania, che condividevano lo stesso spirito di rivalsa dopo gli accordi di Versailles;

5. la lotta contro i Bianchi, dalla quale i bolscevichi uscirono vincitori. Ciò fu garantito principalmente da sei fattori: a) l'Armata Rossa occupava una zona nevralgica del paese, corrispondente più o meno all'antica Moscovia, che assicurava una miglior posizione strategica e una migliore efficienza nei trasporti, mentre i Bianchi erano relegati nelle zone più periferiche dell'ex Impero, dove le distanze da coprire erano enormi e dove strade e infrastrutture erano praticamente inesistenti; b) i bolscevichi seppero sfruttare al meglio, contrariamente ai Bianchi, i risentimenti, le insofferenze e le capacità del «popolo minuto», promuovendo nei ranghi militari e burocratici migliaia di elementi di umile origine; c) i contadini certamente non idolatravano i comunisti, ma i Bianchi non si dimostrarono certo migliori, poiché oltre al grano minacciavano di requisire anche le terre. Essi infatti intendevano abolire i decreti sulla terra approvati dopo l'Ottobre; d) i Rossi si avvalsero dell'aiuto delle altre nazionalità, non facendo distinzioni di razza o di religione tra coloro che si fossero dimostrati alleati del bolscevismo (ma spietati con quelli che l'avversavano). Per fare un esempio, nel 1918 era lettone più della metà dei membri della polizia politica, nella quale c'era inoltre una significativa presenza ebrea. I Bianchi, ancorati ad idee retrograde sciovinistiche e anti-populiste, evitarono di fare concessioni alle nazionalità straniere, essendo fautori di una «Russia una e indivisibile» scevra di minoranze etniche; e) i Bianchi erano guidati da grandi figure militari come Denikin, Kornilov o Kolčak, esperti di battaglie ma incompetenti in campo politico. Il bolscevismo, pur essendo una creatura in fieri, un potere che diciamo «si doveva ancora fare le ossa», seppe giovarsi dei punti forti del suo piano politico, che pur possedendo errori e incongruenze (tra tutti le confische dei generi alimentari), fecero presa su gran parte della popolazione; f) ultimo ma non meno importante lo scarso appoggio che le forze occidentali, soprattutto Francia e Gran Bretagna,

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riuscirono a garantire ai Bianchi. Occupate ancora a leccarsi le ferite della Grande Guerra, desiderosi di ritrovare la pace e la stabilità interna, francesi e inglesi poterono fornire solamente materiale bellico (in quantità insufficiente) ma non uomini (cfr. Graziosi 2007, pp. 113-116).

Ecco che adesso possiamo farci un quadro generale del caos che regnava in quel periodo nella Russia sovietica. Se da un lato le politiche economico-finanziarie del Partito, nella loro indifferenza della reale situazione, riuscirono tuttavia ad assicurare in qualche modo i rifornimenti e gli approvvigionamenti alle forze rosse vittoriose, dall'altro lato la popolazione si ritrovò nel 1921 totalmente depauperata e defraudata. «Originato da rudimenti marxisti sperimentati in una congiuntura economica catastrofica, imposto ad una società sfiancata da anni di guerra e di rivoluzione, il «comunismo di guerra» condusse a un palese fallimento» (Werth 1993, p.176).

Sul finire del 1920 la crisi aveva raggiunto livelli straordinari. La produzione industriale era ormai inferiore a quella del 1913 mentre i salari degli operai divennero irrisori. Le città si stavano velocemente spopolando, e i cittadini si rivolgevano sempre di più al mercato nero e al commercio clandestino. Nelle campagne i contadini, sempre più insofferenti nei confronti del monopolio statale, chiedevano a gran voce libertà e spazio d'iniziativa (cfr. Graziosi 2007, p.133). Con i Bianchi sconfitti, essi ora vedevano nei bolscevichi il nuovo nemico comune. Le circostanze imponevano ormai una nuova politica economica che tenesse conto dei reali problemi della classe operaia, della società civile e soprattutto della popolazione rurale, organizzatasi oramai, date le impellenze, in una sorta di stato feudale dedito all'autoconsumo e ostile al proletariato (Graziosi 2007, p.153). Il nuovo corso della storia sovietica fu incarnato dalla NEP. Essa rappresentò una ritirata strategica, un cambio degli orientamenti economici, frutto di numerose analisi e riflessioni da parte di Lenin e degli altri dirigenti comunisti. Si trattava di qualcosa di “nuovo” rispetto alla precedente politica economica, dimostratasi infruttuosa. Non si assistette tuttavia ad un vero e proprio ritorno al capitalismo, come molti detrattori della NEP asserivano, ma ad una relativa risistemazione delle basi economiche del paese prevedente un parziale ritorno all'iniziativa privata. Il commercio interno venne liberalizzato e furono offerte concessioni agli imprenditori industriali privati (cfr. Werth 1993, p.199). Nel luglio del 1921 si procedette alla denazionalizzazione degli stabilimenti che impiegavano meno di 21 persone. Più

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specificatamente, «in un anno più di 10000 imprese vennero restituite a privati ̶ talvolta i loro ex-proprietari ̶ per una durata da due a cinque anni, in cambio della consegna del 10-15% della produzione» (Werth 1993, p.200). Per quanto concerne l'agricoltura, un decreto stabilì la sostituzione di una tassa in natura alle requisizioni imposte ai contadini durante il primo periodo post-rivoluzionario. In aggiunta a ciò si permise entro un certo limite ai contadini, ceduta la quota programmata allo stato, di vendere il surplus sul mercato libero (Colucci-Picchio 1997, p.182). I distaccamenti incaricati della requisizione furono ufficialmente sciolti, così come i posti di blocco contro gli «uomini con il sacco» (ovvero coloro che vendevano occultamente e illegalmente viveri e generi di prima necessità). Addirittura i contadini più forti, ovvero i kulaki, furono entro un certo limite incitati a produrre di più per generare in tempi brevi una ripresa del mercato rurale (Graziosi 2007, p.154). Tuttavia queste misure non produssero risultati nell'immediato, a causa di una estesa carestia che colpì le campagne tra la primavera del 1921 e l'estate del 1922. Questa carestia fu dovuta principalmente ai cattivi raccolti e all'ondata di requisizioni del 1920 che provocarono una penuria di sementi e un brusco calo della produttività agricola. Per fronteggiare la scarsezza di cibo si ricorse anche agli aiuti umanitari internazionali: in particolare fu la statunitense Ara (American Relief Administration) a dare il maggior contributo. Tra il 1921 e il 1922, per combattere la crisi, il Gosbank (la Banca di Stato) continuò progressivamente ad emettere cartamoneta che parallelamente si deprezzava, portando l'inflazione alle stelle. Solamente tra il 1922 e il 1923, grazie anche ad un eccellente raccolto, i decreti sulla terra della Nep (tra cui uno fondamentale che liberalizzava le modalità di conduzione agricola) daranno i loro frutti. Prima di andare oltre, ricordiamo che il X° Congresso non sancì solamente un decisivo cambiamento in termini di politica economica, ma comportò anche un inasprimento del controllo del Partito sui propri membri, azione che si concretizzò nell'esclusione di un quarto dei comunisti. Tra le motivazioni più comuni vi erano passività, carrierismo, scarso livello politico, corruzione, ubriachezza oppure pratiche religiose. Da evidenziare il fatto che molti iscritti al Partito si allontanarono spontaneamente: tra questi ci furono almeno 15000 operai delusi dalla svolta «borghese» della Nep (Werth 1993, p.202).

Il 1922 fu un anno fondamentale per il paese. Stalin fu nominato Segretario Generale, carica che gli permetterà di controllare e manovrare la nomina dei dirigenti comunisti e di

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intessere reti di appoggio all'interno degli apparati sovietici, spesso con mezzi illeciti e prevaricatori. Il 30 dicembre 1922 nasceva ufficialmente l'Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, che comprendeva oltre alla Repubblica Russa quelle di Bielorussia, Ucraina e Transcaucasica, a cui se ne aggiungeranno altre nel corso degli anni Venti. Furono dunque create nuove istituzioni federali, quali ad esempio il Vsesojuznyj S''ezd Sovetov (Congresso dei Soviet dell'Unione) o la GPU, acronimo di Gosudarstvennoe Političeskoe Upravlenie (Direttorato Politico dello Stato), che sostituì la Čeka come organo di polizia segreta. L'Urss nella pratica attuò una politica molto centralizzata e manipolatrice, lasciando ben poca autonomia alle altre repubbliche (Werth 1993, p.205-209). Sempre nel 1922 si celebrò il primo grande processo pubblico a danno dei social-rivoluzionari, accusati di aver fomentato e appoggiato le rivolte contadine contro il potere bolscevico degli anni precedenti. Gli imputati furono sottoposti a minacce e torture, e le loro confessioni estorte con la violenza. Inaugurata da Lenin, e perfezionata da Stalin, la formula del «processo-farsa» diverrà un potente strumento in mano al Partito per togliere di mezzo qualsiasi tipo di gruppo nemico, sia politico che sociale.

Questione cruciale agli occhi dei bolscevichi fu il rapporto tra proletariato e contadini. Nelle intenzioni di Lenin la Nep doveva poggiare su un'alleanza tra queste due categorie sociali, unico modo per dare l'abbrivo alla rinascita dell'economia sovietica. Secondo il padre della Rivoluzione, il governo sovietico non poteva concentrare tutte le forze e le risorse disponibili su una rapida industrializzazione senza andare a discapito dell'agricoltura. Dicasi lo stesso anche per il contrario: il rinnovamento dei mezzi di produzione agricoli, la riorganizzazione della classe contadina in aziende collettive (kolchozy) o l'aumento dei prezzi pagati dallo stato per i suoi acquisti di approvvigionamento potevano realizzarsi solamente se l'agricoltura e l'industria avessero proseguito il loro cammino a braccetto, di pari passo (cfr. Werth 1993, p.225). La linea da seguire in campo economico era dettata dal VSNCh (Vysšij Sovet Narodnogo Chozjajstva), il Consiglio Superiore dell'Economia Nazionale. In esso, riferendoci all'industria, vi erano due correnti di pensiero diverse: una, impersonata da Pjatakov, vicepresidente del suddetto organo dal 1923, che propugnava il rapido potenziamento dell'industria pesante e dei grandi centri produttivi; l'altra, cui principale artefice fu Dzeržinskij, presidente del VSNCh dal 1924, che invece proponeva con priorità assoluta «lo sviluppo delle industrie leggere, che avevano il vantaggio di

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procurare rapidamente allo stato benefici a breve termine, sotto forma di imposte, e di rispondere parzialmente alla domanda contadina» (Werth 1993, p.227). Alla fine prevalse la linea super-industrialista, perseguita anche dopo l'allontanamento di Pjatakov (dimesso a causa dei suoi stretti legami con Trockij) e l'avvicendamento a capo del VSNCh di elementi vicini a Stalin. Lo scontro tra Pjatakov e Dzeržinskij rispecchiava, a un livello più elevato, quello tra Trockij e Bucharin: il primo intendeva procrastinare la risoluzione della questione contadina convergendo tutte le forze sullo sviluppo industriale; il secondo riteneva il ritardo tecnologico e produttivo dei contadini la causa precipua del sottosviluppo economico del paese e dunque invocò l'aiuto del governo per l'agricoltura, mediante la creazione di cooperative sostenute dallo stato. Prevalse la corrente trockista, detta anche «di sinistra». A capo della cosiddetta maggioranza Stalin, forte del sostegno di Kamenev e Zinov'ev, con i quali formava una sorta di «triumvirato», avvicinò a sé Bucharin abbracciandone le tesi. Come vedremo però Stalin farà proprie, al momento più opportuno, le tesi dell'opposizione trockista, che avrebbe voluto utilizzare le campagne come delle sorte di «colonie», coordinate dallo stato e basate sul lavoro coartato dei contadini, per finanziare lo sviluppo accelerato delle industrie (Graziosi 2007, p.190). Si tratta degli stessi capisaldi della collettivizzazione e del Piano Quinquennale.

Se ci atteniamo ai dati, e in particolare alle cifre di produzione, possiamo concludere che la NEP riportò un relativo successo, ma solo per quanto concerne la produzione industriale, che nel 1927 superò del 18% quella del 1913. È nell'agricoltura invece che si registrò un insuccesso generale: la produzione di cereali negli anni 1924-27 fu inferiore del 10% rispetto a quella del periodo prebellico. Mancanza di bestiame, attrezzi e macchinari agricoli obsoleti e bassi costi di vendita sono solo alcune tra le tante cause del fallimento di un intero settore, che fu fiore all'occhiello del regime zarista, che esportava in media 11 milioni di tonnellate di cereali l'anno (Werth 1993, p.222).

Gli anni della NEP abbracciarono anche il periodo delle lotte intestine al Partito, susseguitesi dopo la morte di Lenin. Gli ammonimenti contenuti nel suo celebre «Testamento» non riuscirono ad evitare la vittoria finale di Stalin e della sua camarilla sugli oppositori.

Lenin riconobbe ed evidenziò l'enorme potere che Stalin si era guadagnato durante il suo segretariato. Temeva la «brutalità» del futuro dittatore e la tendenza ormai imperante degli

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organi politici e statali alla burocratizzazione. Temeva anche la rottura dell'unità del Partito, venuta alla luce già prima della morte del leader e acuitasi dopo le accuse di Trockij (contenute in una lettera dell'8 ottobre 1923 al Comitato Centrale) dirette alla «dittatura dell'apparato», prima responsabile secondo lui delle difficoltà del paese (cfr. Werth 1993, p.236). Istituzioni quali appunto il Segretariato, il Politbjuro o l'Orgbjuro acquisirono sempre più maggiori poteri decisionali a discapito del Comitato Centrale (Centralnyj Komitet), e ciò fu percepito come un pericolo dai detrattori di Stalin. Le idee di Trockij furono riprese anche nella «Dichiarazione dei 46», sottoscritta da 46 personaggi di spicco del Partito e ideata come accusa della frazione maggioritaria del Politbjuro e del Segretariato Generale, colpevole ai loro occhi di aver causato la corrente crisi politica ed economica. Trockij, in sostanza, voleva promuovere una democratizzazione del Partito, reo di aver portato avanti una politica repressiva ignara dei reali problemi della popolazione (Werth 1993, p.237). Nella tredicesima Conferenza del Partito (16-18 gennaio 1924), tenutasi nei giorni immediatamente antecedenti la morte di Lenin, Trockij e i suoi seguaci furono tacciati di «frazionismo» e di «anti-leninismo» e minacciati d'esclusione. È a partire da questi eventi che si inizierà a parlare, con accezione negativa, di «trockismo» e di «correnti deviazioniste». La morte di Lenin (21 gennaio 1924), e la sua trasformazione da capo della Rivoluzione a oggetto di culto quasi «mistico», parvero rasserenare gli animi, che si mantennero pacati anche durante il XIII° Congresso del Partito Comunista Russo (23-31 marzo 1924). Il divieto di leggere in aula il lascito testamentario di Lenin, tradendo così la volontà della vedova del leader Nadežda Krupskaja, contribuì a non creare ulteriori dissensi tra i membri partecipanti. Mentre Stalin si pose, durante il Congresso, come indefesso difensore dell'unità del Partito contro ogni deviazione, Trockij si vide costretto a fare autocritica, affermando:

«so che non si può avere ragione contro il Partito. Si può avere ragione solo con il Partito e attraverso questo, perché la Storia non ha ancora creato altri mezzi per realizzare ciò che è giusto.» (cit. in Werth 1993, p.240)

Le cose precipitarono con la rottura della cosiddetta trojka, composta da Stalin, Zinov'ev e Kamenev. Questa unione si realizzò, agli inizi del 1923, con il fine di smantellare

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l'opposizione trockista, una vera e propria spina nel fianco per Stalin. La pubblicazione, nell'ottobre 1924, de Le lezioni d'Ottobre, opera cui tema principale era il tradimento della rivoluzione da parte delle sue forze di «destra», rese ancor più saldo il rapporto tra i tre, che rimproverarono a Trockij il suo passato menscevico e il ruolo secondario, a detta di loro, che costui aveva ricoperto durante la Rivoluzione e la Guerra Civile (cfr. Werth 1993, pp.240-241). Alla base della polemica tra Stalin e il suo nemico più acerrimo stava però la questione, assolutamente primaria, dell'evoluzione del socialismo al di fuori dei confini sovietici. Il concetto di «rivoluzione permanente», proveniente dalle tesi di Marx ed Engels, fu ripreso e rivisto in vari suoi scritti da Trockij, che ne fece la bandiera del movimento comunista internazionale. In poche parole, nella Russia imperiale la rivoluzione democratico-borghese, stadio precedente la rivoluzione socialista nelle tappe storiche dettate dal marxismo, non poteva realizzarsi tramite la borghesia, classe dai contorni ben poco definiti in Russia e intrinsecamente diversa da quella Occidentale, ma attraverso il proletariato, che poteva e doveva saltare la fase intermedia della democrazia borghese per puntare diritto alla rivoluzione socialista. Certamente, e qui sta la spiegazione del significato di «permanente», la rivoluzione non poteva risolversi in un unico atto ma avrebbe richiesto tempi più lunghi, per portare a termine progetti quali l'abbattimento delle autorità tradizionali, il mutamento in profondità della cultura e delle coscienze degli individui o l'eliminazione di ogni forma di sfruttamento e alienazione (fonte Enc. Treccani). Trockij, inoltre, credeva fermamente che la Russia sovietica non sarebbe durata a lungo se il socialismo non avesse messo radici in altri paesi. Sia in Europa che in Asia, al comunismo servivano nuovi «proseliti», nuove forze alleate «rosse». Solo creando un vasto fronte comunista transnazionale sarebbe stato possibile evitare l'accerchiamento delle forze capitalistiche occidentali. Stalin, dal canto suo, riteneva possibilissima la creazione del «socialismo in un solo paese», considerando la Russia autosufficiente sia economicamente che militarmente. Egli confutò le tesi trockiste adducendo esempi di fallite insurrezioni comuniste contro il potere centrale, quale ad esempio quella scoppiata in Germania nel 1919 che vide la disfatta della Lega Spartachista1, oppure facendo leva sul malcontento e

1 Il Gruppo Internazionale (Gruppe Internationale in tedesco), fu un'organizzazione rivoluzionaria socialista fondata nel 1914 da Rosa Luxemburg. Il suo nome originario venne modificato in Lega Spartachista nel 1918, su iniziativa dell'altro leader del movimento, Karl Liebknecht. La Lega Spartachista nacque in seno all'SPD (Sozialdemokratische

Partei Deutschlands), e fu tra gli artefici della fondazione del Partito Comunista Tedesco. Il gruppo fu soppresso

dall'esercito e dai freikorps nel gennaio 1919, dopo un tentativo insurrezionale contro il neo costituito governo della Repubblica di Weimar.

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l'insofferenza generali di gran parte dell'«elettorato» comunista, stanco ormai di dover attendere una rivoluzione mondiale per vedere finalmente stabilito in modo saldo il socialismo nel proprio paese (cfr. Werth 1993, p.241). Attaccato su più fronti, dal Comitato Centrale alla stampa, Trockij nel gennaio del 1925 si dimise dalla carica di Commissario del Popolo alla Guerra, sostituito da Frunze, un alleato di Zinov'ev che morirà pochi mesi più tardi a seguito di una sospetta operazione chirurgica (per saperne di più su questo tragico avvenimento si consiglia la lettura del bel racconto di Pil'njak Storia della luna che non fu spenta). Fu il primo segnale di cedimento da parte di Trockij. La solidità della trojka però cominciò a scricchiolare quando sorsero delle diatribe tra il governo centrale e la sezione del Partito di Leningrado, guidata da Zinov'ev. Quest'ultimo si oppose fermamente a quella serie di provvedimenti, presi da parte del Comitato Centrale durante la quattordicesima Conferenza del Partito, volti a favoreggiare e facilitare il lavoro agricolo. Misure quali la riduzione delle imposte fondiarie o l'introduzione di agevolazioni nelle assunzioni di manodopera dovevano spingere i contadini verso una migliore produttività, verso un relativo «arricchimento» che rendesse più ricco anche lo stato e che facesse da traino per l'economia dell'Urss. Fu Bucharin il fautore di tali provvedimenti pro-contadini, ai quali, come abbiamo già riferito, aderì lo stesso Stalin; e fu coniato sempre da Bucharin il famoso slogan «Arricchitevi, accumulate, sviluppate le vostre aziende», rivolto ai contadini di tutta l'Urss. Bucharin credeva che la Nep avesse trascurato il problema agricolo, quasi disinteressandosene del tutto, per dirigere tutti gli sforzi verso l'industria. Pensava inoltre che la povertà diffusa nelle campagne andasse rapidamente debellata, grazie anche a un ripensamento dell'incongruente politica condotta sino ad allora verso i kulaki e verso la piccola e media imprenditoria agricola e artigianale (cfr. Werth 1993, p.241). Zinov'ev considerò tale politica troppo condiscendente verso i kulaki, che in effetti accumularono provviste e si arricchirono favoriti dalla nuova congiuntura economica, e si impegnò, in opere quali ad esempio Il leninismo, nella revisione del pensiero del grande leader. Zinov'ev ricordò che

«nelle intenzioni di Lenin la Nep era solo una ritirata strategica, e non un'evoluzione, che non si poteva, di conseguenza, avanzare verso il socialismo favorendo una classe contadina per definizione antisocialista, e che la teoria del «socialismo in un solo paese» era errata da un punto di vista

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leninista» (cit. Werth 1993, p.242)

Queste considerazioni furono supportate anche da Kamenev. Zinov'ev difese a spada tratta l'organizzazione del Partito di Leningrado, cui era a capo, con l'appoggio anche della Leningradskaja Pravda o di personaggi come Nadežda Krupskaja. Nella sua forma mentis Leningrado si stagliava come il centro pulsante della Rivoluzione, come il luogo in cui il proletariato non era stato contaminato da elementi impuri (al contrario di Mosca) e dove vi era la più alta percentuale di comunisti rispetto alle altre città. Lo scontro si inasprì dopo che il Segretariato fece destituire dalla sua carica Zaluckij, vice di Zinov'ev a Leningrado (cfr. Werth 1993, p.242). Durante il XIV° Congresso del Partito (18-31 dicembre 1925), Stalin si pose quale intermediario tra le posizioni di Bucharin e quelle di Zinov'ev riguardo alle decisioni da intraprendere in ambito di sviluppo economico. L'atmosfera tra i delegati si surriscaldò quando Kamenev indicò pubblicamente la gestione dittatoriale di Stalin come causa precipua delle tensioni all'interno del Partito. Il Rapporto delle Attività di Stalin fu comunque approvato dalla stragrande maggioranza dei delegati e gli scontri avvenuti in seno al Congresso parvero chiudersi senza effetti perniciosi. Ciò almeno fino a quando una commissione del Politbjuro, presieduta da Molotov, da poco cooptato, non decise di mettere ordine nella sezione del Partito di Leningrado, esautorando Zinov'ev e sostituendolo con Kirov (Werth 1993, p. 243). Per effetto di questi avvenimenti, venne formandosi una più ampia opposizione, comprendente, oltre ai già citati personaggi, Trockij e i suoi più influenti sostenitori: Radek, Preobraženskij, Serebrjakov, Pjatakov, Sokol'nikov, Antonov-Ovseenko e Muralov. Anche Šliapnikov (leader di Opposizione Operaia) e i suoi seguaci si unirono al gruppo. Quest'ultimo però mostrò ipso facto le proprie debolezze e la propria fragilità, poiché i suoi partecipanti, le cui idee politiche ed economiche divergevano su più punti, convenivano solamente sulla necessità di porre argine allo strapotere accumulato da Stalin, sempre più insofferente verso qualsiasi tipo di obiezione (Werth 1993, p.244). Trockij e Zinov'ev inoltre avevano ormai perso la loro influenza all'interno della maggior parte degli organi governativi, tra cui il Comitato Centrale. Nel corso del 1926 si assistette al tentativo da parte di Trockij di ribaltare la situazione. Egli propose ed invocò un cambiamento radicale della linea politica governativa che comprendesse «un rapido sviluppo dell'industria pesante, un miglioramento delle condizioni della vita operaia, la democratizzazione del

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Partito e la lotta contro l'arricchimento dei kulaki» (cfr. Werth 1993, p.244). Il problema fu che le idee della cosiddetta «opposizione di sinistra» non attecchirono sui militanti di base e all'interno delle più piccole cellule del Partito. Il comunista medio era più attratto dalla retorica quasi elementare e dalla semplicità delle idee di Stalin, molto abile nel comprendere in anticipo la volontà delle masse e nel convincere, tramite circonlocuzioni e tautologie, l'uditorio della validità delle sue convinzioni. Nel luglio 1926 il potente Politbjuro fu riorganizzato con l'esclusione di Zinov'ev e l'introduzione di elementi vicini a Stalin, quali ad esempio Kaganovič, Ordžonikidze e Kirov. L'opposizione, sorvegliata strettamente dalla Gpu, perdeva sempre più terreno rispetto alla maggioranza e si stava ormai screditando di fronte al Partito. L'ammissione di colpevolezza da parte di 6 dei più importanti membri antagonisti ̶ Trockij, Zinov'ev, Kamenev, Sokol'nikov, Evdokimov e Pjatakov ̶ non riuscì ad ottenere i risultati sperati. Nell'ottobre del '26 Trockij e Kamenev furono esclusi dal Politbjuro, mentre a dicembre Zinov'ev fu deposto dalla carica di presidente del Komintern (al suo posto fu chiamato Bucharin). La quindicesima Conferenza del Partito, caratterizzata dai continui diverbi tra delegati, adottò in pieno le tesi di Stalin sulla «costruzione del socialismo in un solo paese», che poggiavano le loro basi sul senso patriottico dei sovietici e sul desiderio di milioni di individui di trovare quella stabilità politico-economica, scevra di frazionismi, che garantisse un reale rilancio dell'Urss. Durante il 1927, andarono in fumo anche gli ultimi ed estremi tentativi da parte dell'opposizione di cambiare le cose, facendo leva ad esempio sull'inadeguata politica condotta da Stalin in Cina. Essa aveva portato, nell'aprile del 1927, al massacro di migliaia di comunisti cinesi da parte di Chiang Kai-shek e del suo Kuo-min-tang, dopo che questi avevano rotto i loro rapporti col potere sovietico (Werth 1993, p.246).

Lo stretto controllo della Gpu, il costante attacco da parte dei media e l'unanime consenso che ormai riscuoteva Stalin portarono il movimento d'opposizione al collasso. Trockij e Zinov'ev furono esclusi dal Comitato Centrale alla fine di luglio, e addirittura espulsi dal Partito il 14 novembre. Il XV° Congresso del Partito (2-19 dicembre 1927) decretò l'allontanamento dal Partito di altri 93 personaggi di rilievo dell'opposizione. Se da una parte Zinov'ev, Kamenev e altri oppositori fecero autocritica, cercando disperatamente di essere reintegrati, Trockij si dimostrò tetragono e non si mosse dalla sue posizioni. Il 19 gennaio 1928 fu esiliato ad Alma-Ata, «dove comunque continuò un'intensa attività politica

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spedendo e ricevendo migliaia di lettere e telegrammi» (cit. Graziosi 2007, p.228). Lo stesso Bucharin, ultimo tra i grandi a cadere, si vedrà estromesso dal Komintern e dal Politbjuro nel 1929, a causa del suo comportamento troppo prudente e scettico nei confronti della collettivizzazione e del Piano Quinquennale, i due pilastri della Grande Svolta (Velikij Perelom) programmata da Stalin. «Bucharin dovette infine dare le dimissioni dalla direzione della Pravda, l'organo ufficiale del Partito. Stalin era ormai padrone del campo» (cit. Colucci-Picchio 1997, p.186).

2.1 LA COMPOSIZIONE SOCIALE AI TEMPI DELLA NEP

Scongiurato il pericolo dei bianchi, nel 1921 la Russia doveva ripartire. Per farlo, bisognava ridare ampio spazio al libero commercio e all'iniziativa privata, senza per questo snaturare e modificare la composizione sociale del popolo sovietico. Ma tra i milioni di abitanti della terra russa, ce ne furono molti che approfittarono della nuova situazione economica della Nep per arricchirsi e impinguarsi il portafoglio, dando vita a una nuova categoria sociale, quella dei nepmany. Si trattava di piccoli imprenditori e commercianti di ogni genere, perlopiù accaparratori e speculatori, che grazie ai nuovi regolamenti in ambito economico poterono avviare delle attività proprie, spesso anche di successo. Ci riferiamo per intenderci ai Djad'ev e ai Kisljarskij del romanzo Le dodici sedie (1928), quel capolavoro satirico di Ilja Il'f ed Evgenij Petrov che più di ogni altra opera letteraria seppe immortalare, in maniera veritiera e sagace, la realtà quotidiana della Russia neppista. Nonostante questi nuovi «borghesi» abbiano veramente dato nuovo impulso al commercio sovietico, sin dai primi tempi non furono visti di buon occhio dai membri del Partito o dalle altre realtà sociali, in primis operai e contadini. La stragrande maggioranza della popolazione, che viveva fondamentalmente in uno stato di indigenza, non poteva sopportare la presenza di questi novelli uomini d'affari, che lucravano alle spalle dei più deboli e dei più stolti. Ma in quell'epoca, per risalire la scala sociale, vi erano sostanzialmente due metodi: o entrare nell'immensa macchina burocratica sovietica, tentando di far carriera all'interno degli apparati statali e militari, oppure cercare fortuna attraverso le nuove possibilità che la Nep offriva (Werth 1993, p.229). I nepmany si inimicarono soprattutto i

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comunisti più zelanti e fondamentalisti, che videro in essi nient'altro che dei capitalisti arraffatori. La loro fortuna fu garantita anche dalla corruzione imperante e da funzionari non proprio integerrimi, che spesso nascosero alle autorità i loro traffici illegali. Presi di mira come «nemici del popolo», ostacolati per la loro natura anti-marxista, i nepmany caddero in declino già prima della fine della Nep.

«La religione è il singhiozzo di una creatura oppressa, il sentimento di un mondo senza cuore, lo spirito di una condizione priva di spirito. È l'oppio dei popoli». Come si evince dalle celebri parole di Marx, in un paese comunista non poteva trovar spazio la fede religiosa. Con la Rivoluzione il clero divenne una categoria sociale antagonista. Già il 23 gennaio del 1918 il governo bolscevico, attraverso un'apposita legge, proclamò la separazione della Chiesa dallo stato e dalla scuola. Per effetto di ciò, la Chiesa perse il diritto di possedere beni e di ricevere finanziamenti. Agli ecclesiastici fu impedito di insegnare negli istituti scolastici, sia pubblici che privati (Werth 1993, p.218). Ciò rappresentò indubbiamente un cambio epocale: nel corso dei secoli, in Russia come in tutta Europa, l'educazione dei giovani era stata tradizionalmente prerogativa degli ordini religiosi (ad esempio in Italia dei Barnabiti o dei Gesuiti), e il precettore spesso apparteneva al clero. Questo perché gli ecclesiastici erano riconosciuti come i veri depositari della cultura, i soli assieme ai componenti delle classi più abbienti (nobiltà/borghesia) ad avere la possibilità di ricevere una certa educazione e raggiungere un soddisfacente grado di erudizione. Con la legge del 1918 la Chiesa rimaneva proprietaria degli edifici di culto e di tutti quei beni, come le reliquie, che avevano valore religioso e spirituale. I preti conservarono inoltre il diritto di svolgere appieno le loro funzioni liturgiche, «nella misura in cui esse non turbassero l'ordine pubblico» (cit. Werth 1993, p.218), mentre i credenti erano assolutamente liberi di professare il loro culto. Ma i bolscevichi, tramite propagande e azioni «squadriste», cominciarono ad attaccare con sempre più veemenza preti e santoni. Il patriarca Tichon, che aveva già condannato i bolscevichi per l'uccisione della famiglia dello zar, e che protestò animatamente contro le persecuzioni che la Chiesa Ortodossa subiva sistematicamente, lanciò l'anatema. Angariati e perseguitati come «nemici di classe» (pensiamo al pope del racconto di Zoščenko Il pesce femmina), gli ecclesiastici svolsero parte attiva durante la Guerra Civile appoggiando il più delle volte i Bianchi; per questo furono sovente vittime di violenze e di rappresaglie. Nell'opera teatrale Beg (La corsa) di

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Bulgakov si può avere un chiaro esempio di come la classe clericale e le forze monarchiche si fiancheggiassero a vicenda nella comune lotta contro i Rossi. Nel corso degli anni Venti le misure anti-clericali si inasprirono. Nel 1921 gran parte dei monasteri furono chiusi e le terre annesse confiscate. Per porre rimedio alla carestia del 1921-22, Lenin ricorse anche al sequestro di tutti i tesori e gli oggetti preziosi della Chiesa. Per dare dei numeri, si riuscirono ad ottenere 350 chilogrammi di oro e 384 tonnellate di argento, un risultato abbastanza notevole. Altri metalli, come bronzo o ghisa, furono recuperati spesso dalle campane di chiese e monasteri ormai dismessi. L'esproprio dei beni religiosi provocò numerose sommosse e rivolte da parte degli ecclesiastici, a cui i bolscevichi risposero con deportazioni e condanne a morte (Graziosi 2007, p.159). Le celebrazioni religiose dovevano essere ormai svolte di nascosto, alla chetichella. Ogni eccesso di spiritualità e di devozione verso i santi era da considerarsi inopportuno e indecente. La semplice oblazione poteva essere perseguita come atto criminale. Dopo essere stato imprigionato nel Monastero Donskoj (aprile '22 - giugno '23) con l'accusa di sabotaggio, Tichon fu costretto a riconoscere la legittimità del potere sovietico. Ma ormai il paese si avviava sempre più verso l'ateismo di Stato. Nella seconda metà degli anni Venti la campagna anti-religiosa serrò le fila e si fece più virulenta. La creazione nel 1925 della “Lega degli atei militanti”, influenzata e supportata dal Partito Comunista, il successo di riviste come «Bezbožnik» («L'ateo»), la sostituzione delle feste religiose con altre di natura laica, come la Pasqua comunista o i carnevali, ridussero la Chiesa ortodossa (e in generale qualsiasi tipo di credo religioso) ad uno stato di clandestinità (cfr. Werth 1993, p.219). Colpito dalla satira giornalistica e dal potere politico, il clero cessò praticamente di esistere come classe sociale. Nessun patriarca succedette a Tichon, morto il 7 aprile del 1925.

Oltre ai clericali, dopo l'Ottobre anche aristocratici e borghesi andarono incontro alla segregazione e alla rovina. Appartenuti un tempo ai ceti dominanti, dopo la Rivoluzione i nobili russi, in netta minoranza rispetto al resto della popolazione, per scampare dalle persecuzioni e dalle rimostranze dei bolscevichi e soprattutto dei contadini, furono costretti a emigrare oppure a cambiare identità cercando in qualche modo di trovarsi una sistemazione dignitosa all'interno della nuova realtà comunista. Proprio quello che è riuscito a fare l'ex-aristocratico Ippolit Vorob'janinov ne Le dodici sedie: relegato assieme alla suocera in un'anonima casetta di un'anonima cittadina di provincia, nel romanzo

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Vorob'janinov si deve accontentare di un modesto impiego comunale per sopravvivere, guardando ai tempi remoti con nostalgia e autocommiserazione. Riferendoci invece alla borghesia, è essenziale precisare che nella Russia monarchica questa fu radicalmente differente da quella dei paesi capitalistici più sviluppati. Più che grandi imprenditori o businessmen, i borghesi russi furono per lo più piccoli e medi impresari, commercianti urbani, artigiani, semplici negozianti lontani anni luce dall'agio, dalla ricchezza e anche dall'influenza politica che avevano i loro omologhi occidentali. Durante la Nep comunque essi, almeno quelli più accorti, seppero profittare della nuova favorevole congiuntura economica che gli permise di rimettere in moto oppure di avviare ex novo buone attività commerciali, naturalmente entro i livelli consentiti. Quelli che però oltrepassavano il limite, diciamo i più avidi e «ingordi», venivano arrestati o deportati. Molti tra ex-nobili, oppositori, ecclesiastici, borghesi ed ex-bianchi furono assorbiti nella categoria dei lišency: questo era il termine con cui venivano designati i cittadini privati dei loro diritti civili poiché invisi all'ideologia comunista. Una direttiva top secret del 1922 stabilì, in base a criteri sociali, politici e comportamentali, quali elementi erano da considerarsi come «nemici del popolo». Della lista nera facevano parte: i membri di partiti politici esistenti prima del 1917, cui si aggiunsero social-rivoluzionari e anarchici; monarchici ed ex-deputati del governo zarista; mercanti, imprenditori, ex- latifondisti e proprietari terrieri; i credenti di ogni tipo di confessione e gli adepti delle sette religiose, ancora molto influenti soprattutto nelle aree rurali; i kulaki e in generale tutti quei contadini che davano il minimo segno di benessere e opulenza; i membri dell'intelligencija, gli specialisti e gli scienziati della vecchia scuola; parassiti, malversatori, speculatori e «furbetti» della Nep; le persone con parenti o comunque con contatti all'estero; prostitute, ubriaconi e accattoni; i condannati per truffa, furto, rapina, falsificazione di documenti o di denaro ecc. Secondo le autorità gli appartenenti a questi gruppi antagonisti dovevano essere resi inoffensivi oppure liquidati (Graziosi 2007, p.180-181). Per pochi c'era possibilità di redenzione: la maggior parte di loro subì le conseguenze dell'emarginazione sociale, che comportavano l'impossibilità di votare, di entrare negli apparati e negli organi statali, di iscrivere i propri figli nelle scuole e nelle università, di ricevere sussidi o assistenza medica e via dicendo. Anche il solo fatto di possedere un titolo d'istruzione secondaria poteva dare adito a sospetti e attirare le attenzioni della polizia politica. Nei periodi di crisi e di carestia nelle liste per il razionamento

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alimentare i «nemici del popolo» venivano per ultimi, anzi, il più delle volte, dato che le riserve di cibo terminavano rapidamente, rimanevano a bocca asciutta. Vi furono tuttavia, almeno nei primi anni post-rivoluzionari, e per buona parte degli anni Venti, due campi dell'attività umana in cui ancora c'era bisogno dell'impiego e delle conoscenze di figure qualificate formatesi in epoca imperiale: stiamo parlando di esercito e industria. Trockij, capo dell'Armata Rossa e titolare del dicastero della guerra, fece ampio uso di ex-ufficiali zaristi. Questi ultimi, durante la Guerra Civile, furono spesso attratti e inglobati nelle forze rosse con la promessa, in caso di vittoria, di una posizione di rilievo all'interno dei ranghi militari. Trockij, resosi conto dell'inesperienza e dell'inadeguatezza del suo esercito, composto per lo più da contadini e operai, sapeva benissimo che non era possibile «fare gli schizzinosi» e che il miglioramento delle forze armate passava anche dall'utilizzo di professionisti ed esperti di battaglia dell'odiato ex-esercito imperiale. Per quanto concerne l'industria, nelle fabbriche si rese assolutamente necessaria la permanenza di ingegneri e specialisti altamente qualificati formatisi prima del 1917. Questi tecnici, frutto della tarda modernizzazione zarista, possedevano un'istruzione superiore alla media e di fatto erano i soli a conoscere il corretto funzionamento delle macchine e dei metodi industriali, oltre a essere tra i pochi in grado di apportare migliorie effettive ai sistemi produttivi mediante innovazioni e nuove invenzioni. Indicati in russo col termine specy, essi giocarono naturalmente un ruolo rilevante e decisivo nella formazione professionale degli operai, i quali negli intenti del Partito avrebbero poi dovuto sostituire i primi alla guida delle fabbriche. Avversati dal regime e dalla stampa, additati come «specialisti borghesi» ostili al comunismo, nel corso degli anni Venti gli specy persero sempre di più i loro privilegi di casta «intoccabile». A seguito del secondo grande processo pubblico di Šachty (1928), che li vide protagonisti come imputati principali, la parola spec venne irrimediabilmente accomunata a quella di «sabotatore», condannandoli praticamente all'estinzione.

La classe più avvantaggiata all'interno del sistema sovietico fu, ça va sans dire, il proletariato. Tuttavia, lungi dall'essere un paradiso in terra degli operai, lo stato bolscevico si dimostrò spesso indifferente nei confronti dei problemi e delle richieste della classe proletaria. Quest'ultima si vide in definitiva negare quei diritti che già invocava durante il periodo capitalistico. Paradossalmente, come ebbero modo di accertare diversi delegati di partiti comunisti stranieri, come il croato Ante Ciliga o l'italiano Ignazio Silone, nelle

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fabbriche sovietiche si lavorava in condizioni precarie, con orari e straordinari massacranti e con il costante e opprimente controllo dei superiori, timorosi di non raggiungere gli obiettivi prefissati dagli organi dirigenziali e per questo ancor più intransigenti e inflessibili nei confronti dei loro sottoposti (Graziosi 2007, p.235). Ufficialmente vigevano le otto ore lavorative ma le politiche del Partito, soprattutto dopo la prima metà degli anni Venti, premettero verso una sempre più rapida e intensa produttività industriale, stabilendo di volta in volta obiettivi difficili se non impossibili da raggiungere che costringevano gli operai a sforare quotidianamente l'orario d'uscita. Dissentire, lagnarsi con i compagni o venir meno al proprio dovere equivaleva al licenziamento. La disciplina sul lavoro era molto rigida ed era garantita da appositi controllori. Se accadeva che gli operai manifestassero o inscenassero proteste contro gli organi politici, il Partito, invece di ricercare le cause del dissenso, reagiva duramente imputando solitamente tali disordini alla presenza nelle fabbriche di lavativi od oppositori politici. Dato che la maggior parte dei nuovi assunti veniva dalle campagne, sovente si pensava che i disordini negli ambienti industriali fossero una diretta conseguenza della eccessiva presenza nelle fabbriche di operai di origine contadina. Questo perché la classe contadina era considerata tradizionalmente avversa all'ideologia marxista. Ai proletari lassisti e indisciplinati il governo opponeva gli udarniki, i lavoratori d'assalto, che rappresentavano l'«avanguardia operaia cosciente» (cit. Graziosi 2007, p.235) totalmente dedita alla causa comunista. È da questi lavoratori indefessi che prenderà spunto il movimento stacanovista degli anni Trenta. Con l'aumento vertiginoso della produttività industriale, che riguardò anche il settore bellico, e con l'avvio di grandi progetti infrastrutturali come quello del Turksib (la linea ferroviaria Turkestan-Siberia), ci fu bisogno di sempre maggiore forza lavoro. Nel 1925 gli operai impegnati nell'industria pesante erano 1781000, mentre nel 1928 si passò a 2,5 milioni di unità. In quest'arco di tempo anche gli addetti alle costruzioni erano quasi raddoppiati (Graziosi 2007, p.234). Nel 1927 i salari, grazie agli ingenti finanziamenti statali e ai buoni rendimenti dell'industria pesante, risultarono notevolmente accresciuti. Dall'altro lato però con l'aumento esponenziale delle nuove assunzioni, unito alle carenti norme in materia di sicurezza, si verificò un parallelo incremento degli infortuni sul lavoro. Grazie all'irrigidimento delle regole in ambito disciplinare, e grazie anche alle minacce di licenziamento, negli anni 1928 e 1929 l'assenteismo calò considerevolmente. Parlando ancora della situazione negli

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ambienti industriali, bisogna inoltre considerare il fatto che la classe operaia non poté contar molto sull'appoggio del sindacato, che perse quel ruolo di intermediario tra proletariato e padronato che nei paesi capitalistici l'aveva contraddistinto. Il sindacato doveva agire a nome del Partito, seguendo strettamente le sue direttive. Come specificò Trockij «i sindacati debbono insegnare agli operai a non negoziare e lottare con il proprio stato ma aiutarlo a imboccare la via dello sviluppo economico» (cit. in Graziosi 2007, p.152). Ma con la fine della Nep, e con i progetti di super-sviluppo industriale di Stalin, questo «aiutare lo stato» diverrà sempre più sinonimo di «sacrificarsi allo stato».

Naturalmente il poter vantare una pura e pretta origine operaia, o comunque l'appartenere alla classe «regina» del marxismo, implicava automaticamente una serie di vantaggi di cui non poteva avvalersi la maggioranza della popolazione. Riferendoci ad esempio al libretto sindacale, che dimostrava la propria appartenenza al proletariato, riportiamo un estratto contenuto nel celebre racconto di Pil'njak Krasnoe derevo (Mogano), che ci descrive alcuni dei tanti benefici di cui godevano gli operai nella vita di tutti i giorni:

«La cosa in città più necessaria era il libretto sindacale; nei negozi c'erano due code: dei detentori del libretto e di coloro che non lo possedevano; il noleggio delle barche sul Volga costava dieci copeche per i detentori del libretto e quaranta copeche l'ora per tutti gli altri; i biglietti al cinema, venti, quaranta e sessanta copeche per gli altri; dieci e quindici per i detentori del libretto. Il libretto sindacale, dove lo si possedeva, stava sempre al primo posto, accanto alla tessera del pane...» (Pil'njak 1965, p. 218)

I figli di operai avevano più facile accesso alle università e agli istituti scolastici, e i loro padri più chance degli altri di fare carriera all'interno degli apparati amministrativi, politici e giurisdizionali. Gli istituti di previdenza sociale avevano un occhio di riguardo per il proletario e la sua famiglia, i quali ricevevano pensioni e sussidi statali più corposi rispetto ai membri di altre categorie sociali. Discendere da una famiglia operaia era inoltre motivo di vanto e di orgoglio.

Vi erano infine le migliaia di persone impiegate nella miriade di enti, organi e organelli politico-amministrativi, militari e culturali del Partito. La profusione di tali organismi negli anni Venti diede la possibilità a molti sovietici di trovarsi un impiego meno faticoso e relativamente più redditizio rispetto a quello nelle fabbriche o nelle cooperative contadine.

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Soprattutto nell'imponente macchina burocratica sovietica erano più alte le probabilità di promozione e di avanzamento. Certo, corruzioni, concussioni, abusi d'ufficio, delazioni e prevaricazioni erano all'ordine del giorno; per salire la scala sociale era necessario avere le giuste conoscenze, ingraziarsi i propri superiori e svolgere appieno, anzi oltre i limiti richiesti, le proprie mansioni, anche se si trattava delle più umili. Gran parte di questa classe impiegatizia era formata da individui provenienti dalle campagne, poco istruiti e imbevuti di retorica e di propaganda comunista. L'ipertrofia dello stato bolscevico, che si insinuò in tutti i campi del sapere e dell'attività umana, assicurò una continua offerta di nuovi posti di lavoro dando però vita ad una macchina burocratica lenta, sovraffollata e sostanzialmente inetta che diverrà una sorta di marchio di fabbrica del regime.

2.2 I PROBLEMI E LE CONQUISTE SOCIALI NEGLI ANNI VENTI

«In contrasto con la vita intellettuale brillante dell'intelligencija, negli anni della Nep il livello culturale delle masse progredì lentamente» (Werth 1993, p.219). Questo certamente non desta scalpore, se si pensa che la quasi totalità della popolazione sovietica viveva nelle campagne ed era sostanzialmente analfabeta e ignorante. Le università, che furono addirittura chiuse durante la Guerra Civile, furono appannaggio di pochi eletti. In linea generale, le famiglie contadine preferivano usufruire della figliolanza come forza lavoro nei campi piuttosto che inviarla nelle scuole: quando si muore di fame, non c'è tempo per l'istruzione. Per combattere l'incultura, il Partito ricorse alla creazione di associazioni volontarie e società come «Abbasso l'analfabetismo», promosse lezioni e seminari all'interno delle fabbriche e dei luoghi di lavoro e fece uso dell'Armata Rossa anche come mezzo educativo. Il problema era che «l'educazione si limitava spesso a un indottrinamento ideologico sommario e all'acquisizione troppo rapida e mal digerita di rudimenti di cultura, impartiti in genere nell'esercito» (Werth 1993, p.220). Gli stessi iscritti al Partito possedevano un bagaglio culturale limitato e conoscenze elementari: per fornire dei dati reali, nel 1924 tra i 350000 militanti comunisti più del 90% aveva un'istruzione primaria e all'incirca i ¾ del totale ammettevano di non leggere mai giornali (Graziosi 2007, p.173). La situazione era critica soprattutto nelle campagne, mentre era nelle città che si riscontrarono i

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