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Federalismo fiscale e demaniale: i crocevia tra economia e diritto

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Academic year: 2021

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(1)

UNIVERSITÀ DI PISA

DIPARTIMENTO DI ECONOMIA E MANAGEMENT

CORSO DI LAUREA MAGISTRALE IN

CONSULENZA PROFESSIONALE ALLE AZIENDE

Federalismo fiscale e demaniale:

i crocevia tra economia e diritto

Relatore

Candidato

(2)
(3)

Indice

Introduzione

...

5

1. Evoluzione storico-legislativa del federalismo fiscale

...

8

1.1 Premessa ... 8

1.2 Le origini storico-legislative del federalismo fiscale: dall'Unità d'Italia ad oggi ... 9

1.2.1 Dal sistema di finanza derivata degli anni 60 al pre-riforma ... 11

1.2.2 La riforma del titolo V e la legge delega del 2009 ... 18

1.2.3 Il federalismo fiscale nella Costituzione: analisi degli articoli 114,117, 118 e 119 ... 24

1.2.4 Approfondimenti sui decreti attuativi più rilevanti: il federalismo municipale e il metodo dei fabbisogni standard ... 38

1.2.5 Le ultime manovre ... 51

1.3 Considerazioni conclusive ... 54

2. Il Federalismo demaniale

...

55

2.1Introduzione e definizioni ... 55

2.2Profili giuridici e giurisprudenziali ... 58

2.2.1 Giurisprudenza Costituzionale ... 67

2.2.2 Giurisprudenza amministrativa ... 72

2.3 La procedura devolutiva ... 73

2.3.1 La procedura individuata dal D.Lgs. 85/2010 ... 79

2.3.2 Le modifiche apportate dall'articolo 56bis della legge 98 del 2013 ... 87

2.3.3 Le nuove procedure della legge 164 del 2014 ... 89

3.Luci e ombre del federalismo demaniale

...

93

3.1 Introduzione ... 93

3.2 Gli effetti del D.Lgs. 85/2010 : aspetti negativi, positivi e problematiche ... 95

(4)

Indice

3.3 La particolare questione dei beni culturali ... 105

3.4 Il federalismo demaniale sul territorio italiano: breve analisi dello stato di attuazione e del caso toscano ... 109

Conclusioni

...

114

Bibliografia

...

117

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Introduzione

Negli anni della crisi delle ideologie, si è avuto la riscoperta e l'affermazione del federalismo che affonda le sue radici nella dichiarazione di indipendenza statunitense. Per responsabilizzare gli enti locali è necessaria un'attività di decentramento delle funzioni e delle entrate, come evidenziano i maggiori economisti in materia. Sia pure con sensibili diversità, a livello europeo, ma anche e soprattutto a livello italiano, a tale termine si affianca il concetto di fiscalità. Questa ha portato alla nascita del binomio "federalismo fiscale" il quale si qualifica come un punto d'incontro tra il diritto e l'economia ma dai confini tutt'altro che delineati. Difatti il legislatore lo aveva inteso come la possibile soluzione al groviglio di problemi da sempre inerenti la finanza pubblica, nei rapporti tra Stato e periferia. Presumibilmente perché l‘assetto delle relazioni economico-finanziarie fra i diversi livelli di governo ha un immediato effetto sulla concretezza dei principi di solidarietà e di eguaglianza. In tal senso, il concetto di federalismo fiscale dovrebbe considerare le esigenze di uniformità, a livello territoriale, nella tutela di tali principi. In particolare All'interno di questi, però, un ruolo determinante è dato dall'autonomia patrimoniale degli enti locali, che si può e si deve tradurre nella messa a disposizione diretta di beni demaniali.

Quest'elaborato ha lo scopo di definire ed analizzare il federalismo demaniale mostrandone gli aspetti positivi, negativi e dubbi. Per fare ciò è necessario muoversi dalle origini di questo ovvero partire dalla riforma sul federalismo fiscale, in quanto ne fa parte.

Il federalismo fiscale è un argomento di grande attualità sebbene la politica lo abbia più volte messo da parte. Per poterlo comprendere con esattezza, nel primo capitolo saranno analizzati gli aspetti giuridici di quest'ultimo fenomeno partendo dalle sue radici nell'Unità d'Italia fino ad arrivare allo stato attuale. Come si avrà modo di capire, la stagione federalista si è aperta con gli anni novanta. Si tratta di un'analisi che tende a mettere in luce anche i riflessi sull'assetto delle autonomie locali. Si esamineranno, precisamente, gli articoli della Costituzione che hanno maggiormente risentito dell'istituto del federalismo fiscale confrontando il loro contenuto letterale e dispositivo prima e dopo la riforma del titolo V. Tra di essi sarà lo stesso nuovo testo

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Introduzione

n. 3 del 2001, ad intervenire su un quadro delle relazioni finanziarie fra Stato, regioni ed autonomie locali, già fortemente innovato dal combinato disposto della legge delega n.133 del 1999 e del conseguente decreto legislativo n. 56/2000 con i quali si abbozzava una sorta di "via italiana" al federalismo fiscale. Proprio il dettato costituzionale ci evidenzierà vari elementi non chiari che ci faranno collegare alla necessaria legge delega per la quale si dovranno attendere ben 6 anni prima di vederla messa a punto. Questa avrebbe dovuto portare alla messa a punto del federalismo mediante anche la realizzazione degli 8 successivi decreti attuativi. Tra questi ci concentreremo sull'esame nel dettaglio di alcuni di essi. In particolare il decreto sul federalismo municipale d'interesse ai fini di quest'analisi perché mostra come il federalismo debba essere declinato nel senso di patrimonio autonomo e questo rappresenta il necessario collante tra il decentramento delle funzioni e una maggiore autonomia impositiva. Proprio alla luce di questa, si è approdati ad una nuova stima dei fabbisogni e dei costi standard che, come avremo modo di analizzare, ancora non è stata totalmente implementata. Proseguendo in questo senso si trarranno le conclusioni in tema di federalismo fiscale e soprattutto si discuterà circa il suo stato di attuazione sul territorio italiano.

Successivamente, nel secondo capitolo, studieremo il fulcro di questa tesi: il federalismo demaniale. Questo risulta di particolare interesse anche perché è il primo decreto attuativo della legge delega effettivamente e prontamente realizzato. Inoltre si rivolge un settore particolare ed antiquato come quello dei beni pubblici. Difatti si approfondirà nel dettaglio la normativa che gli ha dato vita, dopo aver definito i termini che più saranno utilizzati ovvero spiegando cosa siano i beni pubblici, quelli culturali nonché tutti gli enti che sono chiamati ad intervenire in questa procedura. Quindi tratteremo anche le poche ma decisive sentenze costituzionali in materia accennando anche all'orientamento dei giudici amministrativi nell'ultima decade. In seguito si arriverà ad enunciare i principi selettivi dei beni deducendo che la norma in esame delinea, come già detto, un procedimento devolutivo della proprietà statale a favore di quella locale. La disposizione prevede quindi diverse procedure che saranno enunciate con tutte le loro modifiche e le loro lacune. Così confronteremo quella normale da quelle speciali per i beni del Ministero della Difesa e per i beni culturali.

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Introduzione

Nel terzo capitolo si passerà a valutare il federalismo demaniale. Come si capisce anche dal titolo di questo, si noteranno con facilità le ombre della norma e della sua applicazione. Con più difficoltà ma seguendo quanto esposto dalle varie dottrine che si sono pronunciate, si evidenzieranno i pregi di questa disciplina. Di particolare interesse, sarà la singolare questione dei beni culturali. Su di essa ci soffermeremo anche per passare ad analizzare lo stato attuativo di quest'istituto sul territorio italiano, dotato di un sostanzioso patrimonio culturale. Per facilità di reperimento delle informazioni ma anche per numerosità di beni, soprattutto culturali, il campione che sarà brevemente studiato sarà la Regione Toscana col Comune di Firenze.

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1. Evoluzione storico-legislativa del federalismo fiscale

1.1 Premessa

Il termine federalismo fiscale indica un modello di gestione dei rapporti finanziari, tra lo Stato e gli enti territoriali minori, fondato sul decentramento. Coniato per la prima volta dal noto economista Musgrave, ha come scopo quello di definire i profili relativi alle responsabilità ed ai poteri dei vari livelli di governo del settore pubblico, garantendo una maggiore efficienza ed equità quali funzioni del benessere sociale. Tuttavia, sarà sempre necessario contemperare i fattori base per realizzare tale modello: autonomia e responsabilità. In particolare, il primo termine, assume un'accezione decisionale ma anche finanziaria. Infatti, in materia, si parla di autonomia di entrata e di spesa che dovrebbe riguardare sia il potere di istituire tributi propri, teoricamente istituiti e regolamentati dall'ente che ne acquisisce il gettito, quale declinazione dell'autonomia di entrata.

Tradizionalmente si riconoscono due modelli di federalismo: il federalismo competitivo e quello cooperativo. Il primo, come si evince dalla nomenclatura, può originare una competizione tra le varie istituzioni in quanto godono di ampia autonomia finanziaria e non vi è perequazione o redistribuzione del reddito facendo restare lo Stato centrale pressoché neutrale circa gli obiettivi economici e sociali fondamentali. La seconda tipologia1, invece, si distingue per una potestà tributaria

sostanzialmente accentrata a livello federale, in quanto i limiti all'autonomia sono ben definiti, e, di conseguenza, si caratterizza per un sistema fiscale uniforme. Il finanziamento degli enti territoriali avviene, solitamente, mediante compartecipazioni a tributi federali e con un modello di finanza derivata.

Tuttavia si deve sostenere che un sistema di federalismo fiscale debba affrontare in via prioritaria la selezione delle competenze da attribuire agli organi decentrati, in

1 Nata dal modello seminale di Tiebetout e sviluppatasi grazie ai contributi di importanti economisti

quali Breton e Salmon. Cfr. B.Baldi, Il federalismo competitivo: l'Italia in prospettiva comparata, in rivista Teoria Politica, 2009.

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funzione del principio del decentramento, e successivamente la definizione dell'autonomia finanziaria degli enti dislocati sul territorio.

Cerchiamo di analizzare come l'Italia ha provato a disciplinare le varie tipologie di decentramento mirando alla giusta combinazione dei suddetti termini.

1.2 Le origini storico-legislative del federalismo fiscale: dall'Unità

d'Italia ad oggi

In Italia, al momento dell'unità, la situazione economica presentava un enorme deficit. Infatti la classe politica dovette immediatamente decidere se era necessario mantenere l'autonomismo degli enti, rispecchiando la divisione del territorio italiano prima del 1861 oppure se adottare un sistema accentrato. Questo ben presto fu adottato con la legge sarda del 1859, nota come legge Rattazzi. Successivamente, con la legge Lanza2, si avvia l'unificazione amministrativa del regno italiano con la quale

si intendeva riconoscere la divisione del territorio in "province, circondari, mandamenti e comuni"3. Nel 1903 si ebbe la definitiva municipalizzazione dei

Comuni e i Sindaci divennero elettivi, dando il via alla nascita delle autonomie locali. Per quanto concerne la finanza locale, negli anni a venire, si autoalimentava con sovrimposte concesse in via demaniale. Nel pre-bellico e tra le due Grandi guerre, lo Stato imporrà un'elevata varietà di tassazione (merita un cenno la tassa sul macinato e la tassa sul celibato) con un'ampia gamma di tributi sempre in mano ad esso, senza accennare ancora al principio del federalismo fiscale. Anzi, dal 1908, in seguito alle forme di attivismo amministrativo furono inaspriti i controlli portando ad un adeguamento del significato di autonomia declinato in senso di autarchia4. Proprio

durante il fascismo, l'autonomia a Comuni e Province non sarà eliminata o ridotta ulteriormente ma si provvederà solo a sostituire tutti i Sindaci e i governatori con soggetti collegati a Mussolini stesso, per realizzare una maggiore connessione tra l'organo centrale e quelli periferici evitando che si dotassero di un proprio indirizzo

2 L.2248 del 20 marzo del 1865.

3 Art.1, allegato A della L.2248 del 20 marzo del 1865.

4 Cfr. F. Migliarese Caputi, Diritto degli enti locali dall'autarchia alla sussidiarietà, Giappichelli

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politico. Infatti negli anni '30, col "regio decreto" n.1175 del 14 settembre del 1931, si istituiva il Testo unico per la finanza locale il quale subirà innumerevoli modifiche negli anni successivi. Soprattutto con il fascismo gli enti locali divennero dei meri strumenti del potere centrale. Questo si evince dall'emanazione del Testo unico della legge comunale e provinciale del 19345.

Nell'Italia profondamente segnata dalle due guerre, nel 1° gennaio del 1948 entra in vigore la Costituzione : i cittadini ottengono diritti inviolabili mentre la Repubblica ne garantisce la sostanziale uguaglianza. Tali principi si traducono in una compartecipazione alla spesa pubblica in ragione della propria capacità contributiva e secondo criteri di progressività6. Inoltre i "padri costituenti" iniziano il lungo

cammino verso il federalismo prevedendo il riconoscimento delle autonomie locali all'art.5 della Costituzione. Più precisamente il suo testo ripartiva la Repubblica in Regioni, Province e Comuni, definendo le prime come enti autonomi con propri poteri e funzioni secondo i principi fissati dalla Costituzione (artt. 115-127) e le Province e i Comuni come enti autonomi nell‘ambito dei principi fissati da leggi generali della Repubblica, che ne determinano le funzioni (artt. 128-133). Da questo si evince che il lungo dibattito tra forze politiche avverse, durante l'assemblea, aveva in sostanza originato un modello in cui le Regioni non costituivano un vero e proprio ente autonomo ma generavano un modello intermedio tra lo stato federale e quello accentrato. In tal senso, la bozza proposta dalla Commissione Ruini , palesemente regionalista, fu ostacolata dai conservatori contrari a qualsiasi sconvolgimento dell’ordinamento. Così si attribuirono alle Regioni un ristretto complesso di funzioni e poteri, concedendone di più ampi a quelle a Statuto speciale (Sardegna, Sicilia, Valle d'Aosta, Trentino Alto Adige7 e successivamente, Friuli Venezia Giulia8).

L'ottava disposizione transitoria della Costituzione fissava il termine di un anno, dall’entrata in vigore della medesima, per l’ indizione delle “elezioni dei Consigli regionali e degli organi elettivi delle amministrazioni provinciali”. Con interventi derogatori a tale imposizione, l’elezione dei Consigli Regionali avvenne il 7 giugno

5 R.D. 3 marzo del 1934, n.383. 6 Art.53, Costituzione.

7 Introdotte con le leggi costituzionali nn.2, 3, 4 e 5 del 26 febbraio del 1948. 8 L. cost. n. 1 del 31 gennaio 1963.

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del 1970 e con questa le Regioni, dapprima esistite solo come suddivisione geografica, entrarono nelle storia istituzionale italiana.

Ulteriore innovazione fiscale arriverà da Ezio Vanoni, l'allora ministro delle finanze, con la legge sulla perequazione tributaria9 volta ad assicurare l'equità della pressione

fiscale introducendo la dichiarazione dei redditi.

1.2.1 Dal sistema di finanza derivata degli anni 60 al pre-riforma

Gli anni 60-70 saranno caratterizzati dal boom economico e poi dalla crisi petrolifera mentre il governo metterà mano al sistema tributario, introducendo nuove imposte dirette quali IRPEG, IRPEF e ILOR10, e nuove imposte indirette come l'IVA e

l'invim11. Tuttavia queste saranno solo le basi per dare avvio ad una grande riforma

durata circa 40 anni che ha originato, e sta tuttora originando, un sistema basato sul decentramento. In senso contrario a questo, il 22 maggio 1970 fu pubblicata la legge 16 maggio 1970 n. 28112 ,c.d. legge finanziaria per le Regioni a statuto ordinario. La

normativa risultò essere espressione di una scelta “restrittiva” dell’autonomia finanziaria regionale. Difatti, alla luce del dettato dell’art. 119 della Costituzione si adottò una interpretazione riduttiva, non consentendo alle Regioni di istituire tributi propri pur nei limiti dei principi statali.

In questo momento storico, il legislatore italiano aveva delineato un modello di gestione dei tributi basato sulla cosiddetta "finanza derivata". Tale apparato consisteva nel trasferimento di parte delle entrate erariali agli enti locali che rinunciavo alla propria autonomia impositiva. Invero, con la riforma tributaria avviata con la legge Preti13, vennero soppresse le principali entrate comunali e, sia la

funzione impositiva sia quella di spesa, vennero accentrate per lo più nelle mani dello Stato. In controtendenza, mediante i decreti legislativi 1-11 del 14 e 15 gennaio del 1972, si provvedeva ad una prima delega alle Regioni di funzioni svolte da enti statali. Speranze più solide vennero dalla riforma del 1975 attuata con il DPR

9

L. n. 25 dell'11 gennaio del 1951, legge Vanoni.

10Introdotte dai DD.PP.RR. nn. 597, 598 e 599 del 29 settembre 1973. 11 DD.PP.RR. nn. 643 e 633 del 26 ottobre 1972.

12 Rubricata“Provvedimenti finanziari per l’attuazione delle Regioni a statuto ordinario”. 13 L.825 del 1971.

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616/1977, emanato a seguito di un lungo e lento procedimento. Questo trasferiva le funzioni relative alle materie indicate nell'art. 117 della Costituzione agli enti locali suddividendole in quattro settori: ordinamento e organizzazione amministrativa, sviluppo economico, servizi sociali e assetto e utilizzazione del territorio. A questo punto erano trasformate in enti di gestione con una lenta e pesante struttura burocratica. Ma il 1977 fu anche l'anno dei noti "decreti Stammati", emanati dall'omonimo Ministro del Tesoro. Con il primo14 di questi venne richiesto ai consigli

comunali e provinciali di adoperarsi ai fini di una riorganizzazione e ristrutturazione degli uffici, dei servizi e delle aziende dipendenti, in base a criteri di efficienza ed economicità. Inoltre lo Stato si accollava l'indebitamento di questi enti contratto a causa dell'aumento di personale, conseguenza della divisione delle funzioni, ma imponeva il divieto assoluto di assunzione di nuovo organico.

La più significativa inversione di rotta nei rapporti tra finanza locale e statale si ebbe con il secondo15 decreto Stammati che sanciva l’obbligo di deliberare il bilancio in

pareggio, bloccando l'espansione della spesa corrente degli enti locali . Il suddetto decreto mise fine alla contrapposizione fra amministrazione centrale e amministrazione locale, con l'obbiettivo di evitare che gli enti locali ricorressero a finanziamenti bancari o della neonata Cassa depositi e prestiti. Rappresentò il punto di partenza per il definitivo riassetto dei Comuni e delle Province ma soprattutto per l'affermazione del principio dell’unitarietà della finanza pubblica discostandosi dal federalismo, seppure soltanto per un periodo limitato di tempo. Si presentava, quindi, un panorama indefinito ma particolarmente contradditorio poiché prevedeva il decentramento delle funzioni amministrative statali a favore degli enti locali, implicando un aumento delle spese in capo ad essi, senza che però vi corrispondesse una maggiore autonomia in termini impositivi, bensì una riduzione.

Nei pochi anni a seguire, le risultanze dei bilanci locali evidenziarono i profondi squilibri esistenti tra Comuni della stessa dimensione, tra Comuni delle diverse Regioni e tra piccoli e grandi Comuni. Fu così che, ben presto, ci si accorse della palese inadeguatezza del sistema di finanza derivata e dell'ingigantimento

14D.L. 17 gennaio 1977 n. 2 convertito nella L. 17 marzo 1977 n. 62 . 15 D.L. 29 dicembre 1977 n. 946, convertito nella L. 27 febbraio 1978 n. 43.

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dell'accentramento fiscale in capo allo Stato. Conseguentemente, negli anni ottanta, ci furono vari tentavi normativi per arginare questo sistema.

Nel 1981 “Andreatta 1” andò in questa direzione cercando di riequilibrare le dotazioni dei singoli enti istituendo un fondo perequativo per compensare i suddetti divari. Con la stessa finalità, il primo Decreto Goria16, statuì che le finanze locali

fossero costituite da una compartecipazione alla finanza statale, sulla quale faceva perno il sistema di finanza derivata, un contributo perequativo e le entrate locali. Per gestire meglio il suddetto modello, il ministro Goria prevedeva l'istituzione del sistema di tesoreria unica17: lo Stato avrebbe provveduto a tutti gli incassi e i

pagamenti relativi alla gestione del bilancio statale assumendo anche delle mansioni bancarie di tutti gli enti tenuti a depositare le loro disponibilità presso la tesoreria. Pertanto questa normativa aveva una portata in contrasto con quell'andamento più "federalista" che si pensava si iniziasse a profilare. Non stupisce, infatti, che la bozza di riforma elaborata dalla Commissione Bassanini che, incaricata dello studio dei rapporti tra Stato e Regioni, propose una rivisitazione della finanza regionale, basata su una maggiore responsabilizzazione di spesa delle Regioni, in conseguenza al disallineamento tra entrate e spese riscontratosi con i trasferimenti erariali, fu presentata all'approvazione delle Camere. Le proposte della Commissione, seppur incentrate sempre sul concetto di finanza derivata, prevedevano la costituzione di due fondi per finanziare le spese regionali, di varie tipologie. Queste idee erano coerenti con il dettato costituzionale che prevedeva l'impiego di un fondo comune eliminando i fondi settoriali che servivano per finanziare ciascuno dei quattro settori nei quali erano state suddivise le funzioni locali.

Per varie ragioni che rendevano l'Italia non ancora pronta all'ennesimo primo passo verso il decentramento fiscale e non solo amministrativo, tale proposta non fu attuata.

Tuttavia ben presto i riflettori tornarono ad essere puntati sul federalismo fiscale, in parte per motivi politici ed in parte per motivi economici. Difatti gli inizi degli anni novanta furono il periodo di "tangentopoli" che fece emergere tutte le inefficienze

16 D. L. 28 febbraio 1983, n. 55 convertito in L. del 26 aprile del 1983 n. 131. 17 Legge 29 ottobre 1984, n. 720

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del sistema amministrativo ma anche il periodo della crescita esorbitante del debito pubblico che portò alla crisi valutaria.

Seppure appaia di second'ordine rispetto al fulcro dell'analisi, merita di essere citata la legge 144 del 198918 che introduceva un'imposta comunale e altre previsioni

fiscali. Mentre risulta essere più incisiva sul rapporto tra enti locali ed erario la L.142/199019che, all'art.54, statuiva che "l'ordinamento della finanza locale è

riservato alla legge." Tale previsione non rappresentava alcun cambiamento rispetto al previgente sistema, infatti le innovazioni sono da rinvenire nei successivi punti che, citando la norma, prevedevano:

 Ai Comuni e alle Province la legge riconosce, nell'ambito della finanza

pubblica, autonomia finanziaria fondata su certezza di risorse proprie e trasferite.

 La legge assicura, altresì, agli enti locali potestà impositiva autonoma

nel campo delle imposte, delle tasse e delle tariffe, con conseguente adeguamento della legislazione tributaria vigente.

 La finanza dei Comuni e delle Province è costituita da: a) imposte proprie; b) addizionali e compartecipazioni ad imposte erariali o regionali; c) tasse e diritti per servizi pubblici; d) trasferimenti erariali; e) trasferimenti regionali; f) altre entrate proprie, anche di natura patrimoniale; g) risorse per investimenti; h)altre entrate.

 I trasferimenti erariali devono garantire i servizi locali indispensabili e sono ripartiti in base a criteri obiettivi che tengano conto della popolazione, del territorio e delle condizioni socio-economiche, nonché in base ad una perequata distribuzione delle risorse che tenga conto degli squilibri di fiscalità locale”.

Analizzando brevemente tale prescrizione, si evince immediatamente la maggior autonomia in campo impositivo e soprattutto un più elevato numero di elementi che costituiscono la finanza comunale e provinciale che dovrebbero tradursi in maggiori risorse monetarie in entrata. Parte della dottrina ritiene, infatti, che queste siano le

18 Derivante dalla conversione in legge del D.L. del 2 marzo del 1989 n.44. 19 Legge dell'8 giugno del 1990, n.142.

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fondamenta dell'abolizione della fiscalità derivata, seppure tali previsioni non siano state attuate in toto.

Per quanto concerne la relazione intercorrente tra Stato e Regioni, non è trascurabile il cambiamento che si concretizzò con la legge n. 158/199020.

Con questa il legislatore intese ampliare l’autonomia tributaria regionale riassettando anche i trasferimenti statali. Suddetta norma si configurava quale una prima soluzione dei principali problemi della finanza regionale poiché istituiva anche alcuni nuovi tributi.

Nella stessa direzione è da inserire il D.lgs. n.502/1992 in tema di sanità, che delegava gran parte di queste funzioni in mano regionale ma soprattutto parte del gettito dei tributi per il sistema sanitario localmente riscossi. Ed, ugualmente, il D.lgs. n. 504/1992, in tema di finanza territoriale istituendo l'ICI : imposta comunale sugli immobili. Seppure ad occhi inesperti potesse apparire come una modifica di libertà impositiva non così fondamentale, parte della teoria economica ha ripetutamente sottolineato come l'imposizione immobiliare rappresenti una delle forme più efficaci di tassazione locale poiché stabile nel tempo e fortemente connessa al territorio21.

Sempre in tema di competenza regionale è fondamentale anche la "Seconda bicamerale"22formatasi nel 1993 con lo scopo di apportare delle modifiche alla

seconda parte della Costituzione poiché disgiunse la legislazione statale da quella regionale individuando le materie di competenza del Parlamento e lasciando quelle residuali ai Consigli regionali, senza apportare alcuna variazione all'assetto di funzionamento ma cercando di rendere più concreto l'obbiettivo di autonomia finanziaria delle Regioni. Una simile situazione sembrava essere l'origine di un neoregionalismo in cui le Regioni non sono più un'entità astratta e puramente di indirizzo, bensì soggetti operativi ai quali il cittadino può rivolgersi.

Tali progetti non trovarono riscontri positivi e finirono ben presto nell'oblio, seppure la legge finanziaria del 1996 individuasse ulteriori nuovi tributi regionali. La finanziaria per il 1997 fu di grande interesse, in materia tributaria, poiché introdusse

20 L. del 14 giugno del 1990, n.158.

21 Cfr. R. Musgrave, Finanza pubblica, equità, democrazia, Il Mulino,1996. 22 Cfr. L. Tentoni, Le tre bicamerali per le riforme istituzionali, in La stampa, 2009.

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l'IRAP abolendo altri tributi regionali minori, e l'addizionale IRPEF cercando di ottenere una maggiore efficienza economica. Altrettanto nota in ambito amministrativo perché delineò un nuovo sistema di trasferimenti tra erario ed enti locali che rappresentò un'ulteriore evoluzione in senso federalistico. Infatti le Regioni avrebbero goduto di una maggiore autonomia finanziaria dotandole di una maggior attenzione per svolgere la politica di bilancio.

Benché le suddette norme appaiano cariche di significato, è negli anni novanta che fu varata la più importante legge in materia : la Legge Bassanini23. Nel 1998 l'Italia si

trovava a firmare un Trattato a livello europeo che le imponeva il rispetto di determinati parametri piuttosto stringenti. Emblematicamente casuale è il fatto che l'insieme di leggi più corposo mai realizzato in materia amministrativa venga emanato proprio in questo periodo. Tuttavia, tralasciando tale considerazione di poco interesse ai fini della nostra analisi, occorre ricordare che alla base di tale decreto24 vi

è, però, la legge 59 del 15 marzo del 1997 che delegava al governo la delibera circa " il conferimento di funzioni e compiti alle Regioni ed enti locali, per la riforma della pubblica amministrazione e per la semplificazione amministrativa". Con questa si attuava il federalismo amministrativo nei limiti massimi dell'immodificabilità della Costituzione ma attuando quanto previsto dalla riforma degli anni 70.

L'elemento di innovazione è da rinvenire precisamente nella seconda parte dell'art. 1, il quale enuncia: "Sono conferite alle regioni e agli enti locali tutte le funzioni e i

compiti amministrativi relativi alla cura degli interessi e alla promozione dello sviluppo delle rispettive comunità, nonché tutte le funzioni e i compiti amministrativi localizzabili nei rispettivi territori in atto esercitati da qualunque organo o amministrazione dello Stato, centrali o periferici, ovvero tramite enti o altri soggetti pubblici."

Tale disposizione subiva, però, il correttivo relativo al terzo punto del primo articolo che individuava le materie sottratte alla suddetta disciplina poiché permanenti nelle mani statali. Si trattava della prima volta nella storia italiana in cui le competenze dello Stato erano state individuate in via residuale. Inoltre la norma, soprattutto nella

23 Decreto Legislativo 31 marzo 1998, n. 112. 24 D.Lgs. 112/1998.

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parte programmatica, faceva più volte riferimento al concetto di sussidiarietà con l'intento di trasferire le competenze all'ente più vicino al cittadino.

Così brevemente descritta, tale legge sembrava porre solide fondamenta per il decentramento amministrativo, tuttavia presentava una reale difficoltà di realizzazione e messa in atto. In tale senso, si mossero una serie di decreti emanati nel triennio successivo tra i quali spicca il D.Lgs.112/1998. Con quest'ultimo le Regioni, in base alla propria autonomia legislativa, dovevano stabilire le "funzioni amministrative di loro competenza" lasciando ai Comuni e alle Province gli altri compiti. Ciò nonostante permaneva in capo allo Stato un potere generico di coordinamento e direzione.

Con questa Legge e con il decreto attuativo, nonché le innumerevoli leggi regionali in materia, si realizzò un vero e proprio decentramento amministrativo non corrisposto da una rilevante cessione di autorità e autodeterminazione impositiva. Accanto agli interventi sulle funzioni amministrative, il collegato alla finanziaria 1997 ha ridisegnato il sistema dei trasferimenti erariali agli enti locali.

Infatti il D.Lgs. n. 344/1997 ha ottimizzato il sistema mediante la trasposizione di risorse basata sul concetto di fabbisogno standardizzato, che si concentra su un'accurata quantificazione dei mezzi monetari essenziali per ogni ente. Tale indicatore era calcolato considerando dei parametri concernenti anche i servizi indispensabili e quelli maggiormente diffusi.

Non resta difficile immaginare che in virtù dell'ampliamento delle funzioni regionali, questi enti necessitassero di più risorse finanziarie mentre l'erario, in controtendenza, cercava di contenere il più possibile la spesa pubblica. Il D.Lgs 56/200025 nasceva per

ovviare a queste problematiche, eliminando i trasferimenti dallo Stato alle Regioni ma inserendo una compartecipazione all'IVA e un aumento dell'addizionale IRPEF, i cui incassi erano destinati a finire tra le entrate regionali. Inoltre dette vita anche ad un fondo perequativo interregionale ovvero a livello nazionale per ridurre il divario di capacità di spesa tra le Regioni.

25 D.Lgs. del 18 febbraio del 2000, n.56 "Disposizioni in materia di federalismo fiscale a norma

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1.2.2 La riforma del titolo V e la legge delega del 2009

Il vero fulcro del cambiamento dei rapporti tra organi centrali e periferici ma soprattutto del modello di governo territoriale, si avrà con la nota riforma del Titolo V della Costituzione. Questa fu attuata con l'approvazione della legge costituzionale n.3 del 18 ottobre del 2001 quale frutto di una lunga e complessa elaborazione parlamentare, grazie ad un ampio confronto tra le forze parlamentari e le rappresentanze delle Regioni e delle autonomie locali. Seppure il contenuto del testo riprendesse in larga parte quello dalla Commissione bicamerale per le riforme costituzionali26, questa modifica alla carta costituzionale fu approvata con la minima

maggioranza richiesta, elemento che dimostra quanto fu penetrante l'influenza esercitata dalle rappresentanze degli organismi locali.

Sostanzialmente sarebbe dovuto trattarsi di una presa d'atto del nuovo rapporto tra Stato e Regioni dovuto anche alle riforme in tema amministrativo ma la commissione incaricata si soffermò sull'analisi delle due possibili alternative per incrementare le risorse locali. Queste consistevano o nell'adottare un sistema simile a quello varato in Germania in cui il gettito delle maggiori imposte è ripartito tra Stato ed enti locali (questa appariva come la soluzione più semplice) oppure dotare tali enti di maggiore autonomia impositiva (soluzione decisamente più difficile da adottare poiché portava ad un riassetto totale del sistema tributario).

Partendo da un punto di vista generale, le principali caratteristiche di questa riforma dalle quali si evince la portata federalistica sono da rinvenire sia nell'abbandono del "parallelismo tra competenze legislative e amministrative"27 compensato

dall'inserimento del criterio di sussidiarietà ed adeguatezza utile per la suddivisione di queste, sia nella mancanza di tassatività delle funzioni svolte dalle Regioni poiché si procede a definire le materie in cui lo Stato detiene la legislazione piena. Inoltre si cerca di particolareggiare la nuova struttura della perequazione Stato-Regioni, laddove il legislatore prevede che lo Stato istituisce un fondo perequativo, senza vincoli di destinazione, per i territori con minore capacità fiscale per abitante.

26 Si fa riferimento alla seconda bicamerale istituita con la legge costituzionale n. 1 del 1997. 27 E. De Marco, Percorsi del nuovo costituzionalismo, Giuffrè editore, 2008.

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Infatti l'art.119 della Costituzione prima della riforma, riconosceva l'autonomia finanziaria delle Regioni senza disciplinare quella degli altri enti locali. La legge costituzionale 3 del 2001 modifica tale articolo inserendo la possibilità per Comuni, Province e città metropolitane di stabilire ed applicare tributi propri con la succedanea necessità di detenere e gestire un proprio patrimonio, ma con l'impossibilità di ricorrere all'indebitamento se non per sovvenzionare spese di investimento escludendo ogni garanzia dello Stato sui prestiti contratti da essi. In realtà, avendo brevemente analizzato l'excursus storico del cosiddetto "diritto degli enti locali", si trattava di un mero riconoscimento del legislatore costituzionale di un processo, che alcuni autori hanno definito come "federalizing process ", avviatosi con la Legge Bassanini e tutti i successivi decreti che ampliavano le autonomie di questi enti.

D'altro canto, la riforma può essere interpretata più che come base del federalismo, come pietra miliare del decentramento volto a spostare la potestà fiscale in capo agli enti locali con l'intento di ottenere un più efficiente dispendio di risorse monetarie dovuto alla stretta connessione tra destinatario dei servizi pubblici ed erogatore. In virtù di questo, il Comune appare essere il "punto di riferimento" per i cittadini, in attuazione del principio di sussidiarietà verticale. In relazione ai rapporti regioni-autonomie locali è da rinvenire anche l'abolizione dei controlli regionali sugli atti amministrativi degli enti locali(riforma dell'art 123)

Oltre all’organica disciplina stabilita nel T.U.E.L. (Testo Unico degli Enti locali, adottato con decreto legislativo n. 267/2000), all’art. 123 Cost., per come già modificato dalla l. Cost. 1/99, viene inserita, nell'ultimo comma, la previsione del “Consiglio delle autonomie locali”.

In relazione all’attuazione statutaria di tale nuovo istituto, si temeva potessero insorgere problemi soprattutto nelle regioni meridionali, in quanto non presentano tradizionalmente delle significative capacità di “programmazione dal basso”.

Le affermazioni di principio che si possono rinvenire post riforma in quasi tutti gli articoli del titolo V appaiono sicuramente nella direzione di un decentramento che però sembra essersi "confuso e fuso" con un regionalismo di cui l'Italia è vittima dall'Unità. A riprova di questo, basti pensare alle modifiche apportate già con legge

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costituzionale n.1 del 199928 agli articoli 121, 122 e 123 in tema di autonomia

statutaria regionale ed elezioni del presidente della Giunta.

Tuttavia tale regionalismo si scosta sicuramente dai sistemi di federalismo tipici dell'Europa nei quali le Regioni partecipano alle funzioni statali, hanno attribuzioni giurisdizionali più ampie del dettato dell'art.116 c.3 e sono realmente rappresentate in Parlamento. L'altra innovazione opposta alla crescita "dell'autogoverno locale", riguarda l'art. 120 nel quale si statuisce che lo stesso legislatore "individua le procedure atte a garantire che i poteri sostitutivi siano esercitati nel rispetto del principi di sussidiarietà e del principio di leale collaborazione" garantendosi un controllo indiretto sull'elaborato delle autonomie locali.

A fronte di una riforma costituzionale così imprecisa e di difficile interpretazione si è dovuti ricorrere allo strumento della delega legislativa a favore dell'esecutivo.

Infatti, proprio al fine di integrare e specificare il nuovo dettato costituzionale nei suoi punti di maggior complessità interpretativa, è intervenuto il disegno di legge «La Loggia », dal nome del Ministro proponente, intitolato all’"Adeguamento dell’ordinamento della Repubblica alla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n.3"e definitivamente varato dal Consiglio dei Ministri il 14 giugno 200229. Tale decreto

cercò di avviare l'adeguamento del nuovo sistema alle nuove previsioni chiarendo i confini del potere legislativo tra Stato e Regioni. Nei suoi 12 articoli definisce i reciproci rapporti tra Stato, Regioni e Enti locali; regolamenta una serie di aspetti dell’amministrazione centrale e locale immettendo delle nuove misure di garanzia delle posizioni riservate alle Regioni e agli Enti locali dalla Costituzione. Tuttavia, sebbene l'intervento legislativo per l'attuazione fosse stato piuttosto tempestivo, concerneva solo una parte delle norme sottoposte a modifica e delegava, per le restanti, al Governo. Si rivelò, quindi, di esiguo spessore ai fini della messa in atto del "federalismo fiscale".

L'inattività ai fini di rendere operativa la riforma, vide necessaria anche una pronuncia della Corte costituzionale con la quale richiedeva "l’intervento del legislatore statale, il quale, al fine di coordinare l’insieme della finanza pubblica, dovrà non solo fissare i principi cui i legislatori regionali dovranno attenersi, ma

28 Legge costituzionale del 22 novembre del 1999, n.1. 29 Convertito il 5 giugno 2003 con la l. 131/2003.

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anche determinare le grandi linee dell’intero sistema tributario, e definire gli spazi e i limiti entro i quali potrà esplicarsi la potestà impositiva, rispettivamente di Stato,regioni, ed enti locali"30. La stessa sentenza distingue inoltre tra tributi propri e

tributi impropri, individuando i primi come quelli ricavati da una autonoma potestà impositiva delle Regioni, mentre i secondi erano quelli istituiti e disciplinati da leggi statali . Infatti tra il 2004 e il 2005 venne proposta una riforma della seconda parte del titolo V che non riuscì ad essere approvata né in prima battuta dalle due Camere con la maggioranza richiesta dei due terzi né dalla popolazione dopo essere stata oggetto di referendum costituzionale. Di fatto, quindi, non si avrà fino al 2008 una normativa in grado di rendere esecutive le variazioni del titolo V che più volte sono state e sono criticate.

Tuttavia, come è noto, in data 3 ottobre 2008 è stato approvato dal Consiglio dei Ministri il disegno di legge delega titolato “Attuazione dell’articolo119 della Costituzione: delega al Governo in materia di federalismo fiscale”, presentato il 15 ottobre 200831. L’art. 1 della proposta di legge delega stabilisce appunto: “in maniera

da sostituire gradualmente, per tutti i livelli di governo, il criterio della spesa storica e da garantire la loro massima responsabilizzazione e l’effettività e la trasparenza del controllo democratico nei confronti degli eletti”.

Il disegno di legge costituisce certamente il primo passo verso una concreta attuazione del nuovo titolo V. Di fatto questo darebbe vita a più livelli di tassazione, ovvero i tributi saranno destinati parzialmente alle casse erariali mentre l'altra parte sarà riscossa dalle Regioni e destinata per una frazione ad esse e, per il restante, agli enti locali. Affiancando i tributi impropri, si intende dar vita al nuovo sistema di perequazione delineato dal legislatore e che in pratica concernerà i livelli essenziali delle prestazioni alimentandosi, per le Regioni, dalla compartecipazione all’IVA, mentre, per le altre spese, dall’addizionale regionale all’IRPEF. Per coordinare il gettito all'interno dei confini nazionali appare quindi necessaria l'istituzione di un organo noto come la Conferenza permanente di coordinamento della finanza pubblica che nascerà con legge n. 42 del 5 maggio del 2009, riconosciuta con esattezza all'art.5. Essa nasce accanto alle conferenze permanenti che sono

30 Cfr.Sentenza Corte cost., 26 gennaio 2004, n. 37. 31La delega è la n. 1117.

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configurate come il naturale punto d'incontro e comunicazione tra Stato e periferie. L'ulteriore elemento innovativo concernente l'attuazione della trattata legge costituzionale, riguarda l'autonomia di spesa degli enti locali ed il definitivo tramonto della finanza derivata sulla base della spesa storica ma questa sarà individuata sulla base dei costi standard ovvero di una media buona amministrazione.

Di conseguenza il sopraccitato disegno di legge venne convertito con la legge 42/2009 che è entrata in vigore il 21 maggio 2009 dopo aver ottenuto una solida maggioranza in Parlamento. Tuttavia la legge delegava il Governo ad emanare “entro ventiquattro mesi dalla data di entrata in vigore”, cioè entro il 21 maggio 2011, “uno o più decreti legislativi” (art. 2 c.1) per dare attuazione all’art. 119 della Costituzione, oltre a due anni di tempo per l’adozione di decreti legislativi correttivi ed integrativi che meritano di essere citati e brevemente esaminati.

Quindi nel biennio successivo furono emanati i seguenti decreti:

 Il decreto legislativo n. 85 del 201032 il quale ha contribuito perché gli enti

territoriali diventassero dei soggetti capaci di potenziare i beni immobili presenti nel proprio territorio dotandoli di un proprio patrimonio.

 Il decreto legislativo n. 156 del 201033che sanciva il trasferimento di funzioni

dallo Stato alla “nuova” entità di Roma Capitale .

 Il decreto legislativo n. 216 del 2010 34che ha introdotto un sistema per

l’individuazione dei fabbisogni standard necessari all’attuazione del meccanismo di perequazione relativo alle funzioni fondamentali35. Tuttavia il

suddetto valore era individuato da una società esterna, la Sose spa, la quali si sarebbe occupata anche dei criteri metodologici con cui pervenire a tale stima.

32 Recante “Attribuzione a Comuni, Province, Città metropolitane e regioni di un proprio patrimonio,

in attuazione dell’art. 19 della legge 5 maggio 2009, n. 42”.

33

Rubricato “Disposizioni recanti attuazione dell’art. 24 della legge 5 maggio 2009, n. 42 e successive modificazioni, in materia di ordinamento transitorio di Roma Capitale”.

34Recante " Disposizioni in materia di determinazione dei costi e dei fabbisogni standard di Comuni,

Città metropolitane e Province".

35 L. Antonini, La rivincita della responsabilità. A proposito della nuova legge sul federalismo fiscale,

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 Il decreto legislativo n. 23 del 201136, ha avviato la riforma della finanza dei

comuni (il cosiddetto fisco municipale), attraverso l’istituzione dell’imposta municipale propria (l’IMU) e delle altre imposte municipali secondarie.

 Il decreto legislativo n. 68 del 201137il quale interviene sul federalismo

regionale, da un lato, prevedendo l'abolizione dei trasferimenti statali e, dall’altro, individuando la combinazione di tributi ritenuta adeguata per garantire alle Regioni le risorse essenziali per l’espletamento delle proprie attività. Più significativa fu l'innovazione concernente il tema della sanità per la quale si delineò un sistema per identificare i costi standard.

 Il decreto legislativo n. 88 del 201138 affinché si minimizzasse il divario

strutturale tra nord e sud .

 Il decreto legislativo n. 118 del 201139 volto ad avviare la riforma della

contabilità degli enti locali.

 Il decreto legislativo n. 149 del 201140 che ha circoscritto i meccanismi

premiali e sanzionatori per Regioni, Province e Comuni.

Nonostante gli innumerevoli provvedimenti, l'imprecisione della riforma del titolo V e la sua difficoltà attuativa, non hanno ancora portato ad un vero federalismo fiscale seppure si sia attuato un maggior decentramento decisionale.

Inoltre, nel decreto del 2009 furono oggetto di trattativa anche le cosiddette Regioni a Statuto speciale. In particolare, l’articolo 27 della legge 42/2009, rivolgendosi agli enti differenziati, impone il coordinamento della finanza pubblica degli stessi con quella statale, mirando ad un bilanciamento tra le esigenze della specialità e la

36 Rubricato“Disposizioni in materia di federalismo fiscale municipale”.

37 Recante“Disposizioni in materia di autonomia di entrata delle Regioni a statuto ordinario e delle

Province, nonché di determinazione dei costi e dei fabbisogni standard del settore sanitario”.

38

Recante“Disposizioni in materia di risorse aggiuntive ed interventi speciali per la rimozione di squilibri economici e sociali, a norma dell’art. 16 della legge 5 maggio 2009, n. 42”.

39

Recante“Disposizioni in materia di armonizzazione dei sistemi contabili e degli schemi di bilancio delle Regioni, degli enti locali e dei loro enti ed organismi, a norma degli artt. 1 e 2 della legge n. 42 del 2009”

40Recante “Meccanismi sanzionatori e premiali relativi a Regioni, Province e Comuni, a norma degli

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conseguente differenziazione territoriale, da un lato, e la partecipazione al riequilibrio della finanza pubblica, dall’altro.

Si trattava, nello specifico, di realizzare un accordo con il Governo centrale per fissare le modalità e i termini quantistici e tempistici della partecipazione delle 5 Regioni al "pareggio" del bilancio statale.

1.2.3 Il federalismo fiscale nella Costituzione: analisi degli articoli 114,117, 118 e 119

Prima di proseguire con le ultime manovre in tema di federalismo, è necessario soffermarsi più nel dettaglio sulle modifiche apportate alla Carta Costituente a seguito della già esaminata riforma del titolo V, analizzando anche il contenuto degli articoli che hanno maggiormente risentito del cambiamento.

La Costituzione del 1948 evidenziava un sistema accentrato con il riconoscimento e la presenza di autonomie. Infatti il tentativo di introduzione, nel nostro ordinamento, del federalismo fiscale, ha ridisegnato le fondamenta dell'organizzazione interna e del meccanismo del finanziamento pubblico.

Sottoponendo ad una breve analisi l'originale testo costituzionale, col fine di evidenziarne il suo capovolgimento atto ad accogliere il decentramento, si rileva l'affermazione del principio di decentramento dei poteri con il connesso riconoscimento degli enti sussidiari e la promozione delle autonomie locali. Tale previsione era inserita nell'art.5 subordinatamente al fondamentale di unità e indivisibilità della Repubblica. Si desume, inoltre, che con il termine "decentramento", il costituente intendesse definire una forma di organizzazione dei poteri pubblici con la quale un elevato numero di compiti e autonomie, tipici degli organi centrali, viene trasferito ad organi periferici.

Circa l'autonomia che veniva concessa a questi enti occorre identificarla sia nella potestà di darsi un proprio assetto normativo che un proprio indirizzo politico amministrativo. Per quanto concerne il primo aspetto, questo si intrinseca in un'autonomia statutaria e regolamentare. Si trattava, infatti, di inserire un vero e proprio decentramento amministrativo individuando accanto agli organi centrali, altri centri di azione e potere. Mentre, circa l'assetto normativo, questa definizione merita di essere declinata in senso tributario. Difatti all'art.23 della Costituzione vige e vigeva il principio di riserva di legge in base al quale le prestazioni patrimoniali e

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personali possono essere imposte solo da questa. Questo principio resta tuttora di difficile conciliazione con il concetto di autonomia intensa come libertà impositiva. Addentrandosi nel cuore della materia, di fondamentale interesse risultano tutte le disposizioni contenute nel titolo V della Costituzione. Nell'originario testo costituzionale era presente anche l'art.115 che prevedeva che le Regioni fossero costituite in enti autonomi con loro poteri e funzioni, e l'art 128 stabilente l'autonomia di Province e Comuni all'interno di principi fissati con leggi della Repubblica che ne determinassero anche le funzioni. Questi ultimi due richiami evidenziano la rilevanza dell'ingerenza e del controllo centrale anche sulle autonomie locali. Non è un caso che, con la riforma del Titolo V, siano stati abrogati, in toto, in favore del principio di pari dignità istituzionale mantenendo la sovranità dello Stato. Parallelamente era prevista l'impossibilità di creare provvedimenti o dazi che limitassero la circolazione delle merci e delle persone tra le varie Regioni, previsione tutt'oggi permanente ma alla quale si è affiancato l'esercizio dei poteri sostitutivi da parte del livello centrale di fronte alle inadempienze delle autonomie locali41.

Oltretutto, dopo la riforma del 2001, la carta costituente prevede anche la facoltà che il Governo intervenga in caso di mancato rispetto di norme e trattati internazionali o della normativa dell'Unione Europea. Infatti, come emerge dalla L. 234 del 24 dicembre del 2012, agli enti decentralizzati è imposto di adottare le misure necessarie a porre tempestivamente rimedio alle violazioni ma, qualora queste non adottassero le suddette manovre nell'immediato, lo Stato eserciterà i debiti poteri sostitutivi. Tale autorità è riconosciuta anche alle Regioni verso l'inadempienza degli enti sottostanti42.

Rilevante è anche la modifica apportata all'articolo 116 con il quale si introduce il concetto di regionalismo differenziato il quale può significare, come ricorda Roberto Bin, sia che le Regioni abbiano formalmente poteri diversi sia che si differenzino, utilizzando diversamente, per qualità o per quantità , l’autonomia di cui sono egualmente dotate43. Il terzo comma di quest'articolo prevede che “ulteriori forme e

41 Art. 120 della Costituzione.

42 Sentenza della Corte Costituzionale,n.43 del 2004.

43 R.Bin, “Regionalismo differenziato” e utilizzazione dell’art. 116, terzo comma, Cost. Alcune tesi

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condizioni particolari” di autonomia possano essere concesse: in relazione alle materie “concorrenti” dell’art. 117 comma 3 in relazione ad alcune materie “esclusive” dello Stato. Così si estende, solo alle suddette condizioni, l'ampiezza dell'autonomia delle Regioni a statuto ordinario, assimilandole a quelle a Statuto Speciale. Pertanto parrebbe che il federalismo "attuato" con la riforma sia di tipo cooperativo, fondato sul coordinamento.

Sebbene il complesso di norme fosse di notevole interesse ai fini della trattativa dell'argomento principale, passiamo ad esaminare gli articoli che rappresentano il fulcro di questo lungo procedimento non ancora terminato.

Analisi degli articoli 114,117,118 e 119

Nella definizione di un siffatto sistema di gestione finanziaria, hanno inciso in maniera eloquente le disposizioni insite negli articoli dal 114 al 119.

Il fulcro del federalismo è da rinvenire nel novellato articolo 119 il quale ha concepito e introdotto l'autonomia finanziaria delle Regioni e degli Enti locali. Le radici di tale disposizione si ritrovano nel necessario "parallelismo tra funzioni di ciascun ente e le risorse di cui dispone per esercitare tali funzioni"44. Infatti ogni

livello di governo deve poter disporre di risorse finanziarie sottoposte al proprio autonomo controllo utili allo svolgimento delle funzioni di sua competenza, le quali si paleseranno in un'autonomia di entrata e di spesa.

Questa, nel testo previgente alla riforma del 2001, era prevista solo a favore delle Regioni, le quali potevano istituire dei tributi propri per svolgere le loro funzioni ordinarie. L'art. 119 recitava:

Le Regioni hanno autonomia finanziaria nelle forme e nei limiti stabiliti da leggi della Repubblica, che la coordinano con la finanza dello Stato, delle Province e dei Comuni.

Alle Regioni sono attribuiti tributi propri e quote di tributi erariali, in relazione ai bisogni delle Regioni per le spese necessarie ad adempiere le loro funzioni normali.

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Per provvedere a scopi determinati, e particolarmente per valorizzare il Mezzogiorno e le Isole, lo Stato assegna per legge a singole Regioni contributi speciali.

La Regione ha un proprio demanio e patrimonio, secondo le modalità stabilite con legge della Repubblica».

Dall'esame del suddetto testo, emerge che, tutte le modifiche apportate dagli innumerevoli decreti in tema di federalismo fiscale dagli anni 80 in poi, sarebbero rimaste solo su carta in quanto il primo livello della gerarchia delle fonti restava immutato e, quindi, di assoluto stampo regionalista.

Già tale enunciazione presentava dei dubbi interpretativi circa, ad esempio, la definizione del binomio "autonomia finanziaria" che veniva interpretato in dottrina e in pratica legislativa come concernente tutte le politiche di bilancio. Inoltre, il termine "tributi propri" lascerebbe immaginare una determinata autonomia legislativa, anche se questi erano definiti da leggi statali mentre il gettito spettava alle Regioni. Tale compartecipazione alle entrate erariali era funzionale alle necessità di spesa e subordinata all'approvazione di una legge ordinaria dello Stato che prevedesse la specifica individuazione dei suddetti tributi. Le risorse finanziarie proprie erano quindi insufficienti a sovvenzionare il passivo e questo portava, con cadenza annuale, una vera e propria "contrattazione di natura politica45",

caratterizzata dalla "predominazione" delle Regioni con maggiore forza contrattuale. Per allentare una siffatta dipendenza, per costituire un fondo perequativo basato sulla solidarietà internazione ma soprattutto al fine di valorizzare le autonomie locali, fu presentata la riforma del Titolo V del 2001. I principi costituzionali delineati dal novellato art.119 della Costituzione concernono il finanziamento pubblico nonché l'individuazione delle relative risorse finanziarie ottenute attraverso tre strumenti: risorse ordinarie, perequate e aggiuntive o speciali. Pare rilevabile che il contenuto del nuovo Titolo sia ascrivibile al concetto di federalismo fiscale in quanto responsabilizza gli enti decentrati.

45 Cfr. E. Jorio, Attuazione del federalismo fiscale per Regioni, Enti locali, Sanità, Maggioli editore,

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Effettivamente, corroborando ed attuando il lungo processo federalista, il primo46

e il secondo comma del nuovo articolo, determinano il conferimento dell'autonomia finanziaria e patrimoniale a Comuni, Province, Città metropolitane e Regioni eliminando il limite connesso alla subordinazione alle "leggi della Repubblica"..Come nota Brancasi47, da qui si evince "lo scavalcamento del parallelismo tra potestà legislative e competenze amministrative" rende piuttosto

evidente che l’autonomia finanziaria non è l’unica dimensione del fenomeno finanziario degli enti territoriali ma ne rappresenta un attributo squisitamente strumentale. La dottrina sostiene che questa serva per consentire agli enti di cercare di realizzare le proprie politiche nell’esercizio delle competenze loro attribuite, cosicché, limitatamente agli ambiti in cui questa possibilità sia loro preclusa nonostante dispongano di competenze amministrative, questi vengono a disporre di risorse che rimangono separate rispetto alla loro autonomia finanziaria e che possono configurarsi in maniera diversa dalla tipizzazione imposta dell'articolo in esame.

Al secondo comma dell'art. 11948 sorgono i primi dubbi interpretativi. Infatti il

legislatore ha mutato, rispetto al vecchio scritto, la forma del verbo che è passata da passiva ad attiva: non si legge più "sono attribuiti" ma "stabiliscono"49. Tale

previsione parrebbe deporre a favore delle Regioni circa la facoltà di introdurre, in modo autonomo, alcuni tributi. Volontariamente non si è citato gli altri enti locali in quanto l'art.117 definisce solo le materie in cui ha potestà legislativa lo Stato, le

46

"I Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni hanno autonomia finanziaria di entrata e di spesa, nel rispetto dell'equilibrio dei relativi bilanci, e concorrono ad assicurare l'osservanza dei vincoli economici e finanziari derivanti dall'ordinamento dell'Unione europea."

47 A.Brancasi, L'autonomia finanziaria degli enti territoriali: note esegetiche sul nuovo articolo 119

della Costituzione, in www.astridonline.it , 2003.

48 I Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni hanno risorse autonome. Stabiliscono e

applicano tributi ed entrate propri, in armonia con la Costituzione (art.53 c.2) e secondo i princìpi di coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario.

49 Cfr. G.Massa Gallerano, L'autonomia finanziaria nel nuovo articolo 119 della Costituzione, in

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Regioni e quelle concorrenti. Difatti la legge n. 131 del 2003 50dispone che “i

Comuni, le Province e le Città metropolitane hanno potestà normativa secondi i principi fissati dalla Costituzione". Quest'ultimo potere si articola nella possibilità di emanare regolamenti e definire il proprio Statuto inerente" i princìpi di organizzazione e funzionamento dell’ente, le forme di controllo, anche sostitutivo, nonché le garanzie delle minoranze e le forme di partecipazione popolare51".

Nonostante ciò, anche la definizione del margine di potestà legislativa regionale non è agevole poiché tra, le suddette materie di competenza esclusiva dello Stato, è presente la definizione del sistema tributario ma soprattutto dal momento che vi è il vincolo del "coordinamento" della finanza pubblica.

Quest'ultimo termine è suscettibile di essere interpretato sia in modo stringente che estensivo, prestandosi a manovre elusive da parte delle diatribe sorte tra le ingerenze di poteri dell'ente centrale verso quelli periferici e viceversa. Pertanto è intervenuta la Corte Costituzionale con la sentenza n. 37 del 2004 con la quale ha chiarito che s'intende la fissazione di "principi cui i legislatori regionali dovranno attenersi ma anche la determinazione delle grandi linee dell’intero sistema tributario e definire gli spazi e i limiti entro i quali potrà esplicarsi la potestà impositiva rispettivamente dello Stato, delle Regioni e degli Enti locali.”

Difatti la ratio legis della riforma del 2001 era sicuramente quella di apportare rilevanti innovazioni nel sistema siffatto, così come si otterrebbero da un'interpretazione estensiva in favore della potestà legislativa delle Regioni.

Rimanendo in tale percorso di progressiva responsabilizzazione delle realtà locali, le funzioni attribuitegli saranno finanziate principalmente con risorse proprie. Tuttavia il reddito all'interno del territorio italiano non è distribuito in modo omogeneo e si riscontrano notevoli differenze circa le disponibilità "di cassa" delle varie istituzioni. Per ovviare a tale problematica, il terzo e il quarto comma dell'art.119 prevedono una compartecipazione ai mezzi monetari statali e

50Recante “Disposizioni per l’adeguamento dell’ordinamento della Repubblica alla legge

costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3”

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l'istituzione di un fondo perequativo a vantaggio delle zone con minor capacità fiscale per abitante52.

Analizzando tale enunciato, nel sistema pre-riforma si aveva una partecipazione alle entrate del bilancio statale mentre adesso, come ha precisato anche la Corte Costituzionale53, s'intende la partecipazione ai tributi statali. Infatti il gettito dei

tributi propri e della compartecipazione affluisce direttamente alle Regioni senza transitare primariamente nelle casse statali.

É facile ravvisare la funzione dei suddetti commi nell'attenuare le differenze territoriali guardando al territorio come parametro per valutare i fondi necessari al fino di ottenere l'equità all'interno del sistema. Infatti è volto ad attuare il principio di uguaglianza di cui all'articolo 3 della Costituzione in virtù del dettato dell'articolo 53 circa l'obbligo di concorso nelle spese pubbliche in ragione della propria capacità contributiva. Si tratta, quindi, di rispettare il cosiddetto dovere tributario concernente la redistribuzione del reddito, anche con finalità solidali, all'interno della nazione.

L'inciso "senza vincoli di destinazione" circa il fondo perequativo risulta la pietra angolare del fondo stesso. Infatti gli enti locali hanno la "libertà" di stabilire come utilizzare le risorse tratte dal suddetto nel vincolo di destinazione di queste alle spese di funzionamento. Infatti, nella legge 42/2009 e nei decreti attuativi si è stabilito che questo fosse individuato sulla base dei costi e dei fabbisogni standard associati ai livelli essenziali delle prestazioni. Tali norme prevedono un lento passaggio verso il nuovo fondo ma soprattutto ulteriori strumenti a sostegno delle aree più deboli, seppure appaia ugualmente un sistema molto fragile ed inadatto a risolvere i divari tra Nord e Sud54.

52 c.3: Dispongono di compartecipazioni al gettito di tributi erariali riferibile al loro territorio.

C.4:La legge dello Stato istituisce un fondo perequativo, senza vincoli di destinazione, per i territori

con minore capacità fiscale per abitante.

53 Sentenza 16 e 17 del 2004.

54 Cfr.A. Mammoliti, Linee evolutive dell'art.119 Cost. in materia di autonomia finanziaria, in

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Oltre al suddetto fondo, al sesto comma del 11955, il novellato testo prevede

l'attribuzione di risorse aggiuntive e interventi statali a favore di quelle autonomie territoriali che presentino problemi di concreto sviluppo. Difatti tali fondi sono da destinare a necessità ben individuate e radicate nelle singole aree geografiche. Sebbene tale norma non definisca nel dettaglio le "risorse aggiuntive" sembra che queste siano da configurarsi quali contributi speciali, come era disposto nel vecchio testo, nell'accezione di contributi di scopo56.

Sia il fondo perequativo che le risorse aggiuntive sono la rappresentazione del principio di sussidiarietà verticale introdotto nella stessa modifica costituzionale all'art.118. Lo stesso si esplica nell'ambito di distribuzione delle competenze all'interno dei diversi organi statali e dispone le modalità di intervento degli enti superiori solo in caso di "inadeguatezza" per il raggiungimento degli obiettivi prefissati. La legge delega ha inoltre stabilito che il fondo venga ripartito tra le Regioni secondo uno schema tipicamente orizzontale volto a ridurre, in una misura non specificata, le differenze interregionali di gettito per abitante dell’addizionale IRPEF (all’aliquota di riferimento) rispetto al gettito medio nazionale.

Con gli ultimi due commi di quest'articolo, il legislatore ha inteso riconoscere la proprietà di tutti quei beni, siano essi mobili o immobili, funzionali allo svolgimento delle attività locali, riconoscendo a tali istituzioni un'ulteriore via di responsabilizzazione.

É necessario, infine, concentrarsi specificatamente sulla previsione dell'ultimo comma il quale statuisce che Regioni ed enti locali possano ricorrere al debito solo per finanziare spese d’investimento. S'intende quindi precludere la possibilità per quest'ultime di contrarre mutui per finanziare spese correnti, impedendo allo Stato di concedere garanzie sui prestiti contratti dalle Regioni.

55 "Per promuovere lo sviluppo economico, la coesione e la solidarietà sociale, per rimuovere gli

squilibri economici e sociali, per favorire l'effettivo esercizio dei diritti della persona, o per provvedere a scopi diversi dal normale esercizio delle loro funzioni, lo Stato destina risorse aggiuntive ed effettua interventi speciali in favore di determinati Comuni, Province, Città metropolitane e Regioni."

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