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Specializzazione e diversificazione verticale lungo le filiere internazionali dell'aeronautica

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Academic year: 2021

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Specializzazione e Diversificazione Verticale lungo le Filiere

Internazionali dell’Aeronautica

Stefano Bolatto, Piercarlo Frigero, Salvatore Grimaldi Università di Bologna, Università di Torino, Alenia Aeronautica

Classificazione JEL:

1. INTRODUZIONE

Il presente rapporto di ricerca delinea un approccio originale all’analisi delle moderne catene globali del valore, sviluppando una proposta metodologica che, a giudizio degli autori, offre spunti interessanti per riflessioni sulla politica industriale e la strategia di crescita dei gruppi industriali; al contempo, essa può rappresentare una base utile sulla quale costruire futuri percorsi di ricerca in ambito microeconomico e di economia dell’innovazione. Questa proposta metodologica verrà qui illustrata adottando il settore dell’aeronautica come caso di studio, per due ragioni principali. La prima è che il settore in esame, fra quelli manifatturieri, è uno di quelli in cui sono maggiormente presenti, visibili e complessi i caratteri fondamentali delle moderne global supply chain. La seconda ragione è data dalla disponibilità di informazioni relative alla struttura e all’organizzazione della filiera internazionale dell’aeronautica e alle singole imprese che sono ivi protagoniste.

Di fatto, questo studio rappresenta una prosecuzione del lavoro di ricerca svolto dagli autori nell’ambito di un precedente progetto (condotto presso l’IRCrES-CNR e promosso e finanziato dalla Fondazione Ansaldo di Finmeccanica), i cui risultati sono riportati all’interno di un volume curato da Zanetti (2014). Le metodologie, i risultati e le riflessioni sviluppate nel capitolo dedicato all’industria aeronautica rappresentano il punto di partenza del presente elaborato, che si propone di estendere l’analisi sviluppata nel libro, aprendo nuovi possibili percorsi di ricerca futura. L’obiettivo di questo scritto è presentare e verificare le potenzialità di una particolare metodologia di analisi delle filiere (sviluppata rielaborando e combinando elementi propri di altri approcci metodologici, tradizionali e non) al fine di colmare, insieme ad altri contributi che verranno, un vuoto che esiste nell’attuale letteratura economica.

Il presente elaborato prende le mosse dal lavoro svolto dagli autori nell’ambito di un progetto di ricerca sul posizionamento dell’industria italiana all’interno delle moderne filiere internazionali, svolto presso l’IRCrES-CNR e voluto e finanziato dalla Fondazione Ansaldo-Gruppo Finmeccanica. Tale lavoro, a cui si rimanda per approfondire temi, metodologie e risultati illustrati in questo saggio, ha portato alla realizzazione di un volume intitolato «Catene globali del valore ed evoluzione della grande impresa», curato da Giovanni Zanetti e inserito nella Collana «Studi e Ricerche» della Fondazione Ansaldo. Quel progetto di ricerca, così come questo elaborato, costituisce il risultato del proficuo e prezioso rapporto di collaborazione instaurato tra Ceris-CNR ed Alenia Aermacchi SpA. A tal proposito si desidera ringraziare il Dott. Ugo Vinti, Direttore Generale Business di Alenia, per aver autorizzato la collaborazione ed aver messo a disposizione degli autori un pool di qualificati esperti del settore aeronautico, provenienti dalle diverse aree dell’azienda. Infine, gli autori desiderano ringraziare i colleghi ed il personale dell’IRCrES-CNR coinvolti nel progetto di ricerca sulla filiere, per il sostegno, i consigli e l’assistenza ricevuti. Resta ovviamente inteso che la responsabilità delle inevitabili imprecisioni e di eventuali errori è da ascrivere esclusivamente degli autori di questo saggio.

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Come noto, l’evoluzione recente della moderna produzione manifatturiera ha portato a forme e strutture complesse che gli strumenti di analisi tradizionali - propri dell’economia industriale e dell’economia internazionale - non appaiono in grado di interpretare appieno. Allo stesso modo, la semplice e tradizionale analisi dei network, pur offrendo spunti interessanti, non sembra sufficiente a garantire un’esplorazione completa delle dinamiche e delle logiche economiche sottostanti proprio a quelle forme e strutture che vengono descritte dall’intreccio di relazioni fra imprese, spesso operanti in mercati lontani non solo dal punto di vista geografico, ma anche merceologico.

Nel volume curato da Zanetti (2014), il tema delle global supply chain è interpretato con il modificarsi del ruolo della grande impresa, che assumeva la rilevanza di «campione nazionale» in un tempo passato, completamente mutato negli anni della globalizzazione. Si tratta di valutare come e in quali forme le imprese affrontino le nuove sfide del mercato globale, destrutturandosi e specializzandosi in fasi a maggior valore aggiunto, partecipando a un network complesso, che va ben al di là della semplice nozione di catena di fornitura. Si tratta, infatti, di un insieme di relazioni, spesso trasversali, che prescindono spesso dal livello di fornitura e non si limitano al trasferimento di semplici semilavorati o prodotti intermedi, ma coinvolgono know-how, competenze, software e tecnologie. In questo modo, le imprese possono assurgere a ruoli particolari, come quello di risk-sharing partner, o possono nascere joint venture e altre forme di collaborazione, anche tra rivali, o tra imprese operanti in settori di attività distanti tra loro.

In questo nuovo contesto, la grande impresa tradizionale, storicamente caratterizzata da un elevato grado di integrazione verticale, può ricercare le dimensioni e la flessibilità ottimali per operare in maniera profittevole ed efficiente nella nuova realtà globale, attraverso un processo di esternalizzazione e selezione di fornitori, partner e progetti. Questo consente a loro di mantenere il ruolo di riferimento nel panorama industriale, nazionale e internazionale, non in quanto «grandi», ma in quanto capaci di esercitare un ruolo di coordinamento e controllo della filiera, determinando l’organizzazione del ciclo o del processo produttivo completo, individuando i progetti e i segmenti di mercato sui quali concentrare investimenti e risorse disponibili e stabilendo (direttamente o indirettamente) i partner da coinvolgere nei vari programmi.

Le global value chain sono una conseguenza dell’aumento del grado di complessità tecnologica dei prodotti e, in molti casi, un’emanazione del processo di outsourcing delle grandi imprese del passato. Esse offrono interessanti opportunità di crescita dimensionale a quelle di minori dimensioni che partecipano al network, per le quali la sfida diventa il «rendersi indispensabili nella filiera», sviluppando, o meglio approfondendo le proprie competenze distintive in determinate fasi, magari anche molto circoscritte come ambito di attività, in cui le altre non dispongono delle conoscenze o delle caratteristiche (di flessibilità, di costo, ecc.) necessarie per operare efficientemente. Presidiare questi ambiti appare cruciale anche per potersi inserire in più

value chain, che forniscono prodotti diversi. Posto che si riesca a difendere tale

vantaggio competitivo (per esempio attraverso un upgrading continuo delle competenze), il posizionamento che ne deriva è garanzia di una stabile capacità di creare valore e reddito, e premessa per una crescita dimensionale che può alleviare le notevoli difficoltà occupazionali delle mature economie occidentali.

L’analisi delle value chain dovrebbe però andare oltre alla semplice riflessione sui caratteri fondamentali e costituenti delle moderne filiere internazionali, per contribuire a una riflessione sulla politica industriale del nostro Paese. A tal fine, l’analisi condotta in

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Zanetti (2104) propone un esame dei punti di forza e di debolezza della presenza italiana all’interno delle global supply chain dei settori prima citati, chiarendo quali delle nostre imprese partecipino alle principali filiere di settore e soprattutto con quale ruolo vi partecipino. Nel caso dell’aeronautica, lo studio è svolto in un’ottica comparativa, proponendo un parallelo fra i casi dell’Italia e quelli di Francia e Germania.

Ne scaturisce una fotografia del posizionamento dell’industria italiana nel panorama internazionale del settore, che (i) individua le imprese nazionali presenti all’interno dei network -sempre più complessi- organizzati attorno ai grandi costruttori mondiali, (ii) ne specifica il contributo in termini di parti, sistemi, sub-sistemi e componenti prodotti e (iii) ne valuta infine il posizionamento competitivo, considerando il pregio tecnologico delle loro produzioni, la posizione sul mercato di riferimento alla luce del regime di mercato dello stesso e il potere (contrattuale e relazionale, all’interno della filiera) che deriva loro dal fatto di occupare un certo ambito («nodo») della filiera, piuttosto che un altro.

Assumendo come prospettiva quella dell’industria nazionale nel suo complesso, anziché quella della singola impresa, un’indagine del tipo appena descritto risulta utile a fornire elementi di discussione in merito alla politica industriale del Paese oggetto di studio. In primo luogo, diventa possibile chiarire in quale misura le piccole e medie imprese italiane dispongano di un’autonoma capacità di inserimento all’interno delle principali filiere internazionali del settore, e in quale misura, al contrario, la loro presenza nelle global value chain considerate vada ricondotta unicamente al loro rapporto di fornitura con le grandi imprese nazionali. È possibile che, se la partecipazione è mediata da una relazione subalterna con la grande impresa, si riducano le prospettive di un accrescimento dimensionale grazie al ruolo indispensabile svolto in un ambito anche molto ristretto della filiera. In seconda battuta, l’analisi condotta consente di chiarire quale sia la capacità dell’industria nazionale di «coprire» l’intera gamma delle specializzazioni e delle competenze necessarie a realizzare il prodotto finale. In altri termini, essa può chiarire quali regioni del network, o meglio, quali parti della value chain le nostre imprese siano in grado di «occupare» (ed anche con quale rilievo sulla scena internazionali) e quali invece no. Questo impone una seria riflessione di politica industriale, per capire quanto sia importante o strategico saper fare tutto e disporre quindi di un know-how completo, piuttosto che specializzarsi in determinati ambiti e dipendere dalla necessaria collaborazione con altri Paesi per coprire gli ambiti che le imprese nazionali non riescono a presidiare in maniera rilevante.

Lo studio di Bolatto e Frigero (2014), in Zanetti (2014), offre dei primi risultati e mostra delle evidenze sul posizionamento italiano nelle global value chain dell’aeronautica, che di fatto aprono tali questioni. Tuttavia, la loro analisi è di tipo statico: si limita infatti a rappresentare ed interpretare la realtà del settore (e delle sue filiere principali) così come essa appare oggi. Il tentativo che si proverà a fare in questo saggio è quello di utilizzare le informazioni raccolte in tale studio, così come la rappresentazione della filiera internazionale ivi proposta, per sviluppare l’analisi in senso dinamico, delineando alcuni scenari per il futuro e individuando possibili percorsi attraverso i quali sviluppare le specifiche competenze e specializzazioni produttive presenti nel nostro Paese.

Dal punto di vista metodologico, questo obiettivo viene qui perseguito rivisitando le intuizioni di Hidalgo et al.(2007). Nel loro studio, alcuni elementi di teoria e analisi dei network vengono applicati ai dati sul commercio internazionale, al fine di individuare e

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caratterizzare lo spazio dei beni (product space) e fornire un approccio del tutto nuovo al tema dello sviluppo industriale ed economico dei paesi. L’idea di fondo sviluppata dagli autori è quella di sfruttare le similitudini nella composizione del paniere di esportazioni tra paesi per stabilire delle interconnessioni fra i diversi beni manifatturieri producibili, rappresentabile in forma di network. In questo quadro, due beni differenziati orizzontalmente hanno un legame più o meno intenso, a seconda della frequenza relativa con cui i paesi specializzati nel primo bene risultano essere specializzati anche nella produzione del secondo. Il legame, se intenso, rivela che i due beni in questione richiedono, nella loro realizzazione, competenze, risorse e tecnologie comuni o quantomeno simili, per cui i paesi che hanno un vantaggio comparato in uno dei due prodotti, tendono ad avere un vantaggio comparato anche nell’altro.

Il riferimento alla nozione di vantaggio comparato è appropriato, dato che il lavoro degli autori prende le mosse proprio dal calcolo dei tradizionali indici di vantaggio comparato rivelato (proposti da Balassa, 1965) per una molteplicità di prodotti manifatturieri e di paesi. Una volta ricostruito il product space (attraverso il calcolo delle frequenze relative e quindi di probabilità condizionate, e sfruttando la dimensione

cross-country dei dati a disposizione, come verrà illustrato più avanti), Hidalgo et al.

(2007) arrivano a collocare ciascun paese all’interno di tale spazio, in base alle specializzazioni produttive del paese stesso. Questo permette loro, in primis, di valutare quante e quali regioni dello spazio dei beni risultino «coperte», o meno, da ciascun paese. In secondo luogo, consente loro di individuare possibili sentieri di transizione che modifichino in modo opportuno la struttura produttiva. Lo studio delinea quindi, per ciascun paese, dei percorsi attraverso cui muoversi, precisando verso quali prodotti convenga «spostare» la propria specializzazione produttiva a partire dal modello di specializzazione attuale, in modo da minimizzare distanza, tempo o difficoltà di raggiungere i ruoli desiderati e non ancora occupati.

Questo approccio è certamente interessante, benché presenti degli evidenti limiti, primo fra tutti quello di non dire nulla sul perché un dato paese si collochi in una certa regione del product space e non in un’altra, e quindi perché presenti un modello di specializzazione diverso da quello di un’altra nazione. Tuttavia, l’idea di fondo del

paper appare interessante se applicata all’analisi della filiere, che è quanto si propone di

fare il presente elaborato.

Peraltro tanto la nozione di specializzazione orizzontale quanto l’utilizzo degli indici di Balassa e delle altre misure basate sul valore lordo di importazioni ed esportazioni risultano superati in riferimento ad una realtà sempre più pervasa dalla presenza di

global value chain. Per tenere il passo dell’evoluzione della moderna produzione

industriale, si impone quindi il passaggio a concetti nuovi (come quello di

specializzazione verticale) nonché a misure e indici più sofisticati di quelli tradizionali,

capaci di cogliere maggiormente la complessità del fenomeno descritto1.

Il presente lavoro utilizza i dati qualitativi già utilizzati in Bolatto e Frigero (2014) per rappresentare uno spazio dei «nodi» della filiera aeronautica, simile al product 1 In questo articolo si utilizzerà il termine «specializzazione verticale» per indicare la specializzazione maturata in riferimento a una determinata fase, o più fasi diverse all’interno di uno stesso processo produttivo (articolato in una molteplicità di fasi, più o meno sequenziali) che porta quindi alla realizzazione del bene scelto come oggetto di studio. L’espressione è da considerare antitetica rispetto al tradizionale concetto di specializzazione orizzontale, secondo il quale ci si specializza in processi produttivi diversi, che portano alla realizzazione di beni merceologicamente distinti.

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space, ma con la differenza fondamentale che il network non è costituito da legami fra

prodotti, ma fra nodi di una stessa value chain. Con il termine «nodi» intendiamo insiemi di compiti o fasi di produzione che (i) richiedono una particolare specializzazione produttiva da parte delle imprese e (ii) portano alla realizzazione di un bene intermedio «compiuto», che può rappresentare una parte o una macro-componente o un determinato sistema di cui si compone il prodotto finito (in questo caso, l’aeromobile). L’intensità del legame, in questo caso, è data dalla probabilità che un’impresa operante nel primo nodo risulti attiva anche nel secondo.

Come avremo modo di vedere, collocando ogni Paese all’interno dello spazio dei nodi (node space) la nostra analisi consentirà di valutare il posizionamento all’interno delle global value chain del settore tanto dell’industria aeronautica italiana nel suo complesso, quanto dei singoli gruppi industriali. Soprattutto, darà modo di individuare possibili percorsi futuri che le imprese italiane potranno perseguire (attraverso processi di acquisizione, collaborazioni o altro) per cercare di raggiungere nodi ritenuti strategici, ma che al momento non risultano presidiati da imprese italiane o da imprese del gruppo in esame. Questo esercizio appare certamente interessante sia per fornire materiale di discussione sulle scelte strategiche che deve compiere la politica industriale (tenendo conto che quello aeronautico è un settore in cui il ruolo dello Stato appare ancora preminente in molte delle maggiori realtà aziendali mondiali), sia per offrire spunti di riflessione sulle scelte strategiche dei principali gruppi operanti sul mercato.

Il resto del presente elaborato è strutturato come segue. La sezione 2 propone una rassegna della letteratura incentrata sulle metodologie utilizzate per l’analisi delle filiere internazionali, allo scopo di contestualizzare la nostra proposta nel quadro dell’attuale offerta metodologica in riferimento al tema delle global value chain. Nella sezione 3 viene costruito, rappresentato ed interpretato lo spazio dei nodi della filiera, e viene illustrato il caso specifico dell’Italia, mostrando come le nostre imprese si collochino all’interno di tale spazio. La sezione 4 propone alcune elaborazioni sui possibili scenari futuri che si presentano all’industria italiana e ai suoi principali gruppi industriali. La sezione 5 riporta infine le conclusioni finali del lavoro.

2. LETTERATURA

2.1. Modelli con produzione sequenziale e network bipartiti

Come noto, oggi giorno la produzione manifatturiera risulta sempre più strutturata attraverso catene globali del valore: il processo di globalizzazione, le esternalizzazioni e le delocalizzazioni produttive hanno considerevolmente aumentato il grado di frammentazione dei processi produttivi, accrescendo i volumi di scambio relativi a semilavorati e beni intermedi.

Per tenere conto di questo aspetto, gli economisti hanno sviluppato nuovi modelli di equilibrio generale in economia aperta, in cui il processo produttivo è descritto come sequenziale, ovvero fatto di compiti e fasi che vanno eseguiti in sequenza ma che possono essere svolti in parti diverse del mondo, prima dell’assemblaggio finale del bene. Tra gli esempi più rilevanti, va annoverato il modello proposto da Costinot et al. (2011), che mostra come le specializzazioni maturate lungo la filiera abbiano

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implicazioni profonde sulla distribuzione del reddito tra paesi e sul modo in cui si propagano gli shock a livello internazionale2.

Sebbene questo modelli offrano una chiave di lettura particolarmente interessante per inquadrare a livello teorico il fenomeno delle global value chain, essi risultano però affetti da una duplice limitazione. La prima è quella di essere difficilmente sottoponibili a verifica empirica. Per implementare empiricamente questo genere di modelli, occorre infatti andare oltre gli indici e le misure economiche convenzionali (come quelle relative al valore lordo di importazioni ed esportazioni) che non forniscono alcuna informazione sul grado di specializzazione verticale delle varie economie. Negli ultimi anni, molti sforzi sono stati fatti per cercare di ovviare a questo inconveniente, raccogliendo nuovi dati e proponendo nuovi metodi per elaborarli. In particolare, risultano ora disponibili tavole input-output internazionali, come WIOD, GTAP, o quelle edite dall’OCSE, dalle quali diversi studi, fra cui Hummels, Ishii e Yi (2001), Koopman, Wang e Wei (2012), Rahman e Zhao (2013) oppure ancora Cappariello e Felettigh (2013) mostrano come sia possibile derivare misure della specializzazione verticale dei vari paesi3.

Per quanto questi contributi aprano nuove possibilità per l’implementazione empirica dei modelli teorici a produzione sequenziale (rendendo misurabili variabili che prima non lo erano, come il grado di specializzazione verticale di ogni economia), risulta ancora difficile utilizzare questi modelli per sviluppare un’analisi delle singole

value chain, settore per settore, almeno fintanto che i nuovi indicatori potranno essere

misurati solo a livello aggregato, per paese, e non a livello di singole categorie merceologiche o settori industriali.

La seconda limitazione dei modelli a produzione sequenziale appare invece meno sanabile in chiave futura, poiché connaturata alla particolare rappresentazione della

value chain che tali modelli propongono. La produzione sequenziale può infatti

descrivere, pur con le approssimazioni del caso, le filiere che assumono la classica configurazione ad albero, dove l’impresa centrale esternalizza parti e componenti del bene finale a fornitori di primo livello, i quali si rivolgono a fornitori di secondo livello che, a loro volta, posso chiamare in causa semplici componentisti. Molta della letteratura economica recente mostra come le filiere internazionali -specie in settori 2 Il modello consente, in particolare, di simulare e quantificare gli effetti di varie forme di progresso tecnico (locale o globale) in riferimento a salari, redditi e specializzazioni verticali.

3 In particolare, Hummels et al. (2001) mostrano come misurare il grado di specializzazione verticale di un paese in base al contenuto di import inglobato nel valore delle sue esportazioni, incrociando le tavole input-output nazionali con i flussi di commercio bilaterali, disaggregati per settore. Sulla scorta di tale lavoro, l’OCSE ha sistematizzato la pubblicazione di tavole input-output internazionali creando, insieme al WTO, la banca dati TiVA, relativa alla misurazione dei flussi commerciali in valore aggiunto. Banche dati particolarmente utili ed innovative, sviluppate solo di recente, sono GTAP (edita dall’Università di Purdue, USA), che fornisce statistiche sul commercio estero per 57 settori e 114 paesi, e

WIOD (iniziativa della Commissione Europea), che riporta serie storiche relative a tavole input-output internazionali relative al periodo 1995-2009, in riferimento a 27 paesi UE e 13 delle altre maggiori economie mondiali. Contestualmente alla pubblicazione di questi nuovi database, diversi autori hanno proposto un’algebra delle matrici che, applicata alle tavole input-output internazionali, individua un metrica ad hoc per l’analisi delle filiere internazionali e delle specializzazioni verticali dei vari paesi. Koopman et al. (2012), per esempio, hanno proposto alcune identità contabili che scompongono il valore lordo dell’export complessivo di un paese nelle sue componenti di valore aggiunto, differenziate per Paese d’origine. Da qui Rahman e Zhao (2013) hanno derivato indicatori di specializzazione relativa nelle fasi a monte (upstream) ed in quelle a valle (downstream) della filiera, successivamente estesi da Cappariello e Felettigh (2013).

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dove maggiore è la complessità tecnica e tecnologica del prodotto- si caratterizzino per l’esistenza di relazioni fra imprese operanti anche a livelli diversi e in mercati diversi, in riferimento ai quali non è ravvisabile un rapporto fornitore-cliente di tipo tradizionale. Partenariati, collaborazioni, trasferimenti di know-how e condivisione di tecnologie conferiscono quindi alle moderne global value chain i caratteri di network molti complessi, ben lontani da quelli relativi a semplici reti di fornitura (nei quali i legami tra imprese sono sempre riconducibili al trasferimento «fisico» di semilavorati o prodotti intermedi).

Nei network sottesi alle moderne catene globali del valore assumono quindi un rilievo particolare quei legami che hanno per oggetto il trasferimento della tecnologia tra imprese, o tra imprese e istituzioni; non a caso, quello del trasferimento tecnologico è uno dei temi più ricorrenti nell’ambito dell’odierna ricerca in campo economico. Molta della letteratura sul tema si avvale di indagini econometriche, sia su dati di tipo microeconomico (spesso utilizzando le patent citations come proxy del trasferimento tecnologico) sia su dati di tipo macroeconomico o settoriali (misurando gli spillover tecnologici attraverso misure dalla TFP). L’evidenza empirica che emerge da tali studi è che la diffusione tecnologica (soprattutto quella di tipo intra-settoriale) rappresenta un fenomeno più locale che non globale, dal momento che avviene principalmente tra soggetti localizzati a distanza ravvicinata. A differenza di quanto avveniva in passato, quando il trasferimento tecnologico era fondamentalmente connesso al flusso fisico delle merci (essendo la tecnologia «incorporata» nei prodotti), molta della nostra moderna tecnologia appare costituita da conoscenza tacita, e la sua diffusione presuppone un contatto diretto, e soprattutto un’interazione umana, fra chi la possiede e chi la vuole acquisire.

Se la distanza (intesa in senso geografico) ha un ruolo critico nella diffusione della tecnologia, è chiaro come gli economisti interessati a studiare il fenomeno abbiano sviluppato un notevole interesse ad integrare l’analisi economica classica con gli strumenti offerti dall’analisi dei network, portando i loro studi in un ambito che è sempre più di confine tra l’economia dell’innovazione, la geografia economica e la teoria del commercio internazionale.

Un chiaro esempio di ciò viene dal recente lavoro di Bahar et al. (2012) che, partendo dalla premessa secondo cui la tecnologia si diffonde su corto raggio, mostra come la struttura economica di ogni paese, e la sua evoluzione nel tempo, siano in realtà legati al patrimonio di conoscenza tacita dei paesi limitrofi o comunque vicini. Il loro lavoro si concentra sull’ingresso di nuovi prodotti all’interno del paniere delle esportazioni di una nazione e si basa sull’assunto che la realizzazione di ciascun prodotto richieda disponibilità diverse di conoscenze specifiche, ma comunque di tipo tacito. Il fatto che, nel tempo, la composizione delle esportazioni divenga più o meno simile tra Paesi, può allora rivelare processi di diffusione tecnologica in atto: se i paesi iniziano a produrre ed esportare beni per i quali non avevano originariamente vantaggi comparati, significa che avranno acquisito le competenze necessarie a produrli da altri Paesi, verosimilmente quelli vicini, dato che il trasferimento tecnologico risulta condizionato dalla distanza geografica.

Il contributo di Bahar et al. (2012) ha un duplice pregio. In primis, considera il tema del trasferimento tecnologico alla luce della composizione settoriale di un’economia, guardando al modello di specializzazione e quindi al portafoglio di prodotti in riferimento ai quali ciascun paese detiene vantaggi comparati; nel fare ciò, adotta una strategia del tutto nuova rispetto agli studi basati sulle misure di TFP o sui dati dei

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brevetti. In secondo luogo, il loro lavoro si ricollega alla vasta letteratura di economia internazionale volta ad esplorare il cosiddetto «margine estensivo» nel commercio con l’estero, ovvero la possibilità di espandere l’export non aumentando le quantità vendute all’estero dei beni tradizionalmente esportati, ma sviluppando vantaggi comparati nella produzione di beni nuovi, o di beni che in precedenza non venivano esportati.

A onor del vero, il lavoro di Bahar et al. (2012) porta a completa maturazione una serie di intuizioni già presenti in Hidalgo et al. (2007), dove il network bipartito paesi-prodotti viene utilizzato per ricostruire un product space all’interno dei quale i diversi prodotti sono tra loro legati -su basi bilaterali- in funzione della frequenza relativa con cui i paesi specializzati nella produzione di un bene risultano specializzati anche nella produzione dell’altro. Seguendo tale metodologia, si arriva a mappare e caratterizzare lo spazio dei prodotti, stabilendo per ogni coppia di beni l’intensità del loro legame, data dalla probabilità che i due prodotti in questione tendano a comparire assieme nel paniere di esportazioni di una stessa nazione4. Questo sforzo apre alla possibilità di prefigurare possibili evoluzioni future del modello di specializzazione di ciascun paese, in funzione del modello attuale5.

Pur fornendo spunti metodologici particolarmente interessanti, anche questi studi presentano tuttavia dei chiari limiti. Anzitutto, il loro schema interpretativo risulta poco coerente con la tradizionale teoria del commercio internazionale, dalla quale mutuano però gli indicatori economici sui cui si fonda tutta l’analisi empirica condotta. Il paniere dei beni esportati da ciascun paese viene infatti definito sulla base del calcolo degli indici di specializzazione proposti da Balassa (1965), che fanno riferimento alla tradizionale teoria Ricardiana (secondo cui i paesi, nel commerciare tra loro, si specializzano in settori produttivi diversi e tendono quindi ad avere strutture produttive disomogenee, senza le quali non vi sarebbero vantaggi dallo scambio)6. Da questo punto

4 Il product space di Hidalgo et al. (2007) può essere pensato come un network dove i nodi rappresentano beni manifatturieri differenziati orizzontalmente, ma legati tra loro dal fatto di presupporre, per la loro realizzazione, della disponibilità di risorse e competenze comuni o comunque simili. Tanto più i Paesi tendono a essere specializzati contemporaneamente in due prodotti diversi, tanto più tali risorse e competenze saranno comuni, e tanto più semplice diventerà sviluppare la specializzazione produttiva verso uno dei due, partendo dal vantaggio comparato che si possiede in riferimento all’altro.

5 Per delineare un possibile sviluppo della specializzazione produttiva di un paese i verso un bene j, gli autori associano al nodo (prodotto) j un misura di densità, ovvero una media ponderata dell’intensità dei legami tra il nodo j e gli altri nodi h≠j, dove l’intensità é data dalla probabilità che chi é specializzato in j sia anche specializzato in h, e i pesi sono 1 o 0, a seconda che il paese i risulti, rispettivamente, specializzato o despecializzato in h. Inoltre, disponendo di dati osservati in più anni, gli autori individuano due classi particolari di nodi (prodotti), ovvero i transition products (quelli con indice di Balassa superiore a 0,5 nel 1990, e superiore a 1 nel 1995) e gli undeveloped products (quelli con indice di Balassa superiore a 0,5 nel 1990, ma inferiore nel 1995), sui quali concentrano le loro elaborazioni.

6 La teoria Ricardiana, un tempo superata sia per limiti teorici (impossibilità di estendere il modello due paesi-due beni al caso più paesi-più beni) che empirici (incapacità di spiegare il commercio intra-settoriale) è stata recentemente rivisitata, con successo, attraverso l’introduzione di nuovi elementi, quali l’eterogeneità tecnologica delle produzioni e il ruolo della distanza (e dei costi di trasporto) nel commercio bilaterale, evidenziato dalla letteratura sui cosiddetti gravity models. Tali modificazioni non hanno però modificato il messaggio di fondo di Ricardo: è vero che i volumi di import ed export si riducono all’aumentare della distanza geografica tra le nazioni, ma il commercio con i paesi vicini presuppone sempre l’emergere di specializzazioni produttive differenti.

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di vista, il processo di diffusione tecnologica, cosi come interpretato dagli studi recenti, dovrebbe avere come conseguenza un processo di convergenza nella composizione dei panieri di prodotti esportati, il che restringerebbe però i vantaggi dello scambio internazionale, implicando una contrazione dei flussi di import ed export che non trova alcun sostegno empirico nei dati.

Per uscire da questa contraddizione, si rende necessario un cambio di prospettiva che, da un lato, consenta di tenere in conto l’evoluzione della moderna produzione manifatturiera (sempre più articolata in value chain globali, e quindi profondamente diversa da quella che avevano in mente David Ricardo, ma anche solo più recentemente Bela Balassa) e, dall’altro, consenta di salvaguardare le intuizioni e le metodologie di questi approcci di nuova generazione.

La chiave per compiere questo passaggio è rappresentata dal tentativo di «calare» lo studio dei trasferimenti tecnologici nell’ambito della modellizzazione delle moderne catene del valore. La diffusione della tecnologia si presta naturalmente ad essere analizzata mediante la teoria dei network ed i relativi strumenti, ma il network tra imprese va ricostruito tenendo conto della complessità dei rapporti e della diversità dei ruoli svolti da ciascuna impresa, che scaturisce dal suo partecipare ad una filiera internazionale. La recente letteratura economica (tanto quella sull’innovazione e la diffusione delle tecnologie, quanto quella sullo sviluppo basato sull’evoluzione delle specializzazioni produttive) offre spunti metodologici interessanti che, se opportunamente rielaborati, sembrano aprire nuove possibilità di ricerca ed analisi sul tema delle filiere internazionali.

La questione prioritaria diventa ora quella di stabilire quali siano le domande di ricerca più importanti a cui deve tendere l’analisi delle singole filiere internazionali, ovvero quali debbano essere gli obiettivi di uno studio che abbia per oggetto la ricostruzione di un network complesso quale quello sotteso a molti dei moderni prodotti industriali. È bene precisare che, in questa sede, l’analisi delle filiere viene considerata come l’evoluzione, nonché il sostituto naturale dei tradizionali studi settoriali, ormai inadeguati a spiegare una realtà sempre più frammentata ed estesa dal punto di vista geografico. Per questa ragione, l’obiettivo che si pone in questa analisi sarà quello di fornire materiale utile per una riflessione sulle strategie industriali del nostro Paese.

Ogni discussione in proposito deve necessariamente partire da un esame della situazione contingente, che consenta di prendere consapevolezza sui punti di forza e di debolezza della presenza italiana all’interno delle filiere principali del settore in esame. Il primo passaggio consiste quindi nel ricostruire la filiera -individuandone i nodi principali, e caratterizzandoli da un punto di vista economico ed industriale- e nell’individuare le imprese che vi partecipano, chiarendone il rilievo sulla scena internazionale. Questa mappatura preliminare tratteggia un quadro generale della situazione che non solo può suggerire spontaneamente delle domanda di ricerca con importanti implicazioni di policy, ma può, in alcuni casi, imporre delle serie riflessioni sulla politica industriale del Paese o sulle strategie industriali dei suoi principali gruppi.

2.2. Verso una nuova analisi delle filiere

Un’analisi del tipo sopra descritto è quella condotta da Bolatto e Frigero (2014) che costituisce il punto di partenza di questo elaborato. Di fatto, essa si sviluppa secondo

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una traccia definita da una serie di quesiti ai quali, a giudizio degli autori, lo studio delle filiere dovrebbe tendere:

- in riferimento a quali fasi della filiera le imprese italiane riescono a partecipare ai principali programmi aeronautici internazionali?

- In quale misura le imprese italiane, attraverso le loro competenze e specializzazioni produttive, riescono a coprire l’intera filiera aeronautica? È necessario disporre, a livello Paese, del set completo di competenze e tecnologie necessarie alla produzione di un velivolo, o è sufficiente presidiare dei nodi rilevanti, pur avendo alcuni ambiti «scoperti» ?

- se la specializzazione delle nostre imprese si concentra solo in alcuni ambiti, lasciandone altri privi di una presenza significativa a livello internazionale, possiamo comunque dire che i nodi presidiati dalle imprese italiane sono tra quelli a maggior valore aggiunto, in quanto di maggior pregio dal punto di vista tecnologico o di maggiore redditività?

- le imprese che entrano nelle value chain principali del settore, quale ruolo rivestono in riferimento al mercato sotteso al nodo da loro presidiato? Qual è il loro posizionamento competitivo? Dispongono di vantaggi competitivi difendibili? Possono sviluppare competenze in altri nodi strategici, magari al momento non presidiati, partendo da quelle che dimostrano di aver maturato nel loro ambito attuale?

Nel tentativo di elaborare una risposta anche solo parziale ad alcune di queste domande, gli autori partono da una ricostruzione della filiera aeronautica basata sulla rielaborazione delle informazioni raccolte dalla società inglese Stansted News Limited (SNL) all’interno dell’archivio internet airframer.com. L’analisi si dipana attraverso una scomposizione della filiera in nodi o ambiti produttivi, ognuno dei quali viene qualificato in una serie di valutazioni e giudizi espressi da un panel di esperti e testimoni privilegiati del settore. Ogni nodo è valutato per il grado di controllo che implica sul resto della value chain, ma anche per il pregio tecnologico delle relative produzioni (valutato rispetto a quattro diversi criteri) e per il suo impatto economico (sia in termini di redditività/profittabilità del relativo mercato, che di ricadute occupazionali).

Una volta qualificati i nodi, il contributo degli esperti di settore viene nuovamente utilizzato per qualificare il posizionamento competitivo delle singole imprese che, secondo airframer.com, risultano operare all’interno di ciascun nodo della filiera7.

Il quadro che scaturisce incrociando le valutazioni dei nodi con quelle delle imprese che «popolano» tali nodi, è un quadro sintetico che si limita a scattare una fotografia della situazione attuale, certamente utile ad individuare spunti di riflessione per le scelte future di imprese e policy-maker, ma non a fornire indirizzi e suggerimenti specifici, né elementi in grado di chiarire il modo in cui si sia giunti a tale situazione. Per di più, l’analisi è condotta secondo un’unica logica: quella di scomporre la realtà complessa della filiera nei suoi elementi essenziali -i nodi-, che sono poi studiati e valutati separatamente. Eppure, se la value chain aeronautica assume le forme di un network complesso, è perché evidentemente la produzione di beni complessi, quali i prodotti 7 Il database consente di selezionare i programmi aeronautici più importanti e di ottenere, per ciascuno di essi, una lista dettagliata delle imprese che partecipano al programma scelto in qualità di OEM

piuttosto che di integratori, sistemisti, sub-sistemisti o semplici componentisti. Utilizzando tali informazioni, per ogni azienda diventa quindi possibile definire l’attività, il ruolo, il servizio o il prodotto con il quale tale impresa partecipa a ciascuno dei programmi selezionati. Lo studio considerato limita l'analisi a 32 programmi, scelti perché giudicati di particolare rilievo nel panorama internazionale e per i quali si disponeva di migliori e maggiori informazioni.

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aeronautici, presuppone interdipendenze di tipo tecnologico e/o economico fra imprese altamente specializzate, e l’intreccio delle relazioni e dei legami (di fornitura, ma non solo) costituisce un elemento chiave dell’attività di produzione dei velivoli.

L’analisi della filiera deve quindi prendere in esame l’esistenza, l’importanza e le caratteristiche di questi legami e di queste relazioni, che sono elementi fondanti della

value chain. Sono propri questi legami a rappresentare l’oggetto di studio del presente

rapporto di ricerca, che fa ancora ricorso a valutazioni affidate a esperti del settore, ma con la differenza che oggetto di valutazione non è più l’impresa o il nodo della filiera, ma la relazione che esiste tra due nodi, o meglio tra imprese che occupano due nodi diversi della stessa filiera.

Per sviluppare questa analisi si utilizzeranno ancora le informazioni fornite dal sito airframer.com. Questo archivio si compone di quattro directory principali. Se lo studio precedente utilizzava quella denominata Programs (che consente di selezione i programmi aeronautici più importanti e di ottenere, per ciascuno di essi, un lista dettagliata delle imprese che, a vario titolo, partecipano al programma, specificando l’attività, il ruolo, il servizio o il prodotto con cui partecipa), questo si avvale invece delle informazioni contenute nelle directory «Airframers», «Suppliers» e «Sectors». La prima riporta un elenco di tutte le imprese mondiali che risultano essere responsabili di un programma aeronautico, ovvero operano in qualità di OEM in merito ad uno o più modelli di aeromobile, quale che sia il segmento di mercato di appartenenza del modello (dai grandi jet airliner agli alianti, passando per aerei da turismo o fighters). La seconda fornisce invece una lista delle principali imprese mondiali attive, nei vari settori di attività, in qualità di fornitori degli OEM elencati nella directory precedente8. I vari fornitori sono classificati su tre diversi livelli di disaggregazione: il primo individua 9 macro-ambiti («Management», «Design», «Testing», «Airframe Systems», «Avionics», «Materials», «Power Systems», «Production», e «Components»), il secondo li suddivide, complessivamente, in 87 settori (che diventeranno i «nodi» della filiera, in questa analisi) mentre il terzo procede ad una suddivisione ancora più ampia, individuando un numero variabile di sottocategorie all’interno di ciascun settore. In questo studio, si è deciso di fermarsi al secondo livello di disaggregazione, in maniera tale da disporre di un numero gestibile di nodi, né troppo scarno (come sarebbe stato limitandosi ai 9 macro-gruppi), né eccessivo (come sarebbe stato col terzo livello, con liste di imprese in molti nodi troppo esigue per poter abbozzare qualsiasi tentativo di fare inferenza intra-gruppo, e con un livello di dettaglio nella descrizione delle attività delle imprese non ancora sufficiente per qualificarle compiutamente).

È bene precisare che la classificazione dei nodi adottata da airframer.com è diversa di quella (semplificata e ragionata) utilizzata in Bolatto e Frigero (2014), appositamente costruita per valorizzare al massimo il grado di dettaglio e le modalità di descrizione delle attività delle imprese riportate nella directory «Program»9. In questo studio si è

8 Appare opportuno precisare che sia la directory «Airframers» che la directory «Sectors» riportano, per ogni impresa censita, la nazionalità (basata sulla sede legale dell’azienda) ed il programma aeronautico al quale l’impresa partecipa in riferimento al tipo di attività descritto.

9 La qualità di quelle informazioni consente infatti di «collocare» le imprese nei vari nodi anche come semplici sub-fornitori o componentisti del nodo in questione, dal momento che l’informazione consente sempre di capire in quale sistema, parte o macro-componente del velivolo viene utilizzato il sub-sistema o la componente elementare prodotta da ciascuna di queste imprese. Quella proposta dal sito, invece, è una classificazione in cui alcuni nodi (fra quelli individuati nel secondo livello di disaggregazione) sono, per definizione, occupati solo da sub-fornitori o componentisti, che fanno semilavorati o intermedi di cui non si conosce la

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deciso di adottare comunque la classificazione del sito airframer.com poiché la riclassificazione che si potrebbe ottenere incrociando le informazioni provenienti dalle diverse directory del sito appare troppo dispendiosa se confrontata con i benefici che se ne possono trarre per l’analisi, considerato che il presente elaborato si propone di illustrare uno spunto metodologico, più che arrivare a dire qualcosa di definitivo sulla

value chain aeronautica.

Detto delle informazioni contenute nelle directory «Airframers» e «Suppliers», restano da introdurre quelle fornite nella directory «Sectors» in riferimento a ciascuno degli 87 nodi della filiera individuati (al secondo livello di disaggregazione) della classificazione settoriale utilizzata dal sito. Tra queste, la più rilevante è quella che specifica, per ogni nodo considerato, la lista dei nodi clienti e quella dei nodi fornitori, fornendo indicazioni utili per la ricostruzione della supply chain. L’archivio airframer.com è infatti costruito a partire dalle informazioni desunte da articoli, documenti ufficiali, pubblicazioni di settore, report e altri fonti riguardanti l’industria aeronautica. Nella logica di costruzione del database, se da una di queste fonti l’impresa

j, che svolge attività classificate nel nodo m, relativamente a tale attività risulta

fornitrice dell’impresa i classificata nel nodo n, allora la directory «Sectors» riporta il nodo m come supplier del nodo n che, a sua volta, sarà customer rispetto a m per mere ragioni di simmetria.

È sulla valutazione dei legami supplier-customer tra nodi, riportati dal sito, che si gioca la qualificazione dei nodi della filiera aeronautica all’interno di questo studio. Come illustrato nella Sezione che segue, l’analisi condotta non si sofferma invece sui legami tra le singole imprese, essendo questi non disponibili (se non rielaborando le informazioni riportate nella directory «Programs») e comunque non necessari se l’intenzione è quella di ricostruire la struttura generica delle filiere aeronautiche e non quella specifica di un dato modello.

3 I NETWORK DELL’INDUSTRIA AERONAUTICA

3.1 La matrice dei legami di fornitura fra nodi della filiera

L’analisi presentata in questo capitolo si propone di completare quella condotta in Bolatto e Frigero (2014), rivisitando alcuni elementi propri dell’analisi dei network ed applicandoli allo studio delle principali filiere dell’aeronautica. Per fare ciò, essa descrive la value chain in forma di network, dove i nodi sono ancora rappresentati non da singole imprese, ma dai settori di attività nei quali il sito airframer.com scompone il processo produttivo completo che porta alla realizzazione dei prodotti aeronautici. In questa rappresentazione, i legami bilaterali fra i vari nodi sono individuati attraverso le informazioni riportate nella directory «Sectors» del sito, e relativi all’esistenza di rapporti di fornitura fra le imprese classificate in un nodo e quelle classificate nell’altro (a condizione che tali forniture siano pertinenti alle attività caratteristiche dei nodi in esame).

Nell’analisi che segue, ogni nodo della filiera si qualifica in funzione della particolare posizione che risulta avere all’interno del network, basata sul numero e sul tipo di legami che intrattiene con gli altri nodi, e non in virtù di attribuzioni che gli possono essere riconosciute da un punto di vista tecnologico o economico.

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Al fine di caratterizzare al meglio i ruoli rivestiti dai diversi nodi della filiera all’interno del network, anche in questo studio si è scelto di ricorrere alle valutazioni di testimoni privilegiati ed esperti del settore, in modo tale da sanare una lacuna nel contenuto qualitativo delle informazioni riportate da airframer.com. Il sito riporta infatti l’esistenza di relazioni supplier-customer tra nodi, senza però introdurre gradazioni, e quindi senza distinguere le possibili e diverse caratteristiche del rapporto che si viene a creare tra le imprese del nodo supplier e quelle del nodo customer.

Per evitare di trattare tutti i legami censiti allo stesso modo (ignorando la varietà di rapporti che verosimilmente vi si cela dietro) si è chiesto ad esperti del settore di produrre un loro giudizio di valore su ciascuna delle relazioni supplier-customer individuate dal sito. In particolare, è stato chiesto di valutare, in riferimento ad ogni relazione di fornitura tra nodi, e quindi di ogni legame bilaterale, quanta consapevolezza tecnica le imprese del nodo customer abbiano delle attività svolte delle imprese loro fornitrici attive nel nodo supplier, ovvero quanto ne padroneggino le competenze e ne sappiano valutare gli standard fondamentali.

Lo spettro delle possibili risposte è stato ristretto a quattro possibili ambiti, anche per limitare i gradi di discrezionalità nelle risposte. Ad ognuno di essi è stato attribuito un punteggio utile a «pesare» in misura diversa legami qualitativamente diversi presenti all’interno del network.

Il punteggio massimo (4) individua quindi quei legami che vengono riconosciuti come rapporti particolarmente forti dal punto di vista industriale e tecnologico, basati su una solida conoscenza tecnica del prodotto/servizio acquisito e/o fornito, con definizione del requisito di dettaglio, qualificazione e testing, e forte controllo tecnico se non addirittura co-progettazione. Ad uno stadio inferiore (con punteggio 3) si collocano invece quelle relazioni supplier-customer giudicate come rapporti industrialmente e tecnologicamente di livello medio, con definizione del requisito di alto livello ma limitata capacità di controllo tecnico. A seguire (con punteggio 2) vengono classificati i legami ritenuti descrivibili come rapporti industrialmente e tecnologicamente deboli, caratterizzati da acquisto off-the-shelf o come totale black-box. Infine, il punteggio minimo (pari a 1) individua le relazioni che, nella maggior parte dei casi, possono essere derubricate a semplici rapporti di pura acquisizione da parte delle imprese del nodo

customer rispetto a quelle del nodo supplier. A queste quattro classi, occorre

aggiungerne una quinta (associata al punteggio 0), costituita dall’insieme dei legami bilaterali fra quei nodi che, in base all’archivio airframer.com, non risultano intrattenere rapporti di fornitura diretti tra loro.

Rielaborando tali informazioni, si giunge a rappresentare il network corrispondente alla value chain dell’aeronautica, illustrato nelle Figure 1a e 1b che seguono. In queste figure, ogni nodo ha associato un’etichetta composta di tre lettere, secondo la legenda riportata in Appendice (tab. A). I nodi sono rappresentati attraverso forme e colori diversi, in base al macro-ambito a cui afferiscono; tali forme servono ad identificare i nodi come relativi alle aree: «Design» (quadrato chiaro), «Materials» (triangolo chiaro), «Components» (rombo chiaro), «Airframe Systems» (triangolo capovolto scuro), «Avonics» (cerchio scuro), «Power Systems» (quadrato scuro), «Production» (triangolo scuro) e «Testing» (rombo scuro). I nodi relativi all’area «Management» non sono presenti nel grafo, a causa della natura non industriale di tali attività.

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La figura 1a presenta il network completo, che si ottiene considerando -e visualizzando- tutti i legami rilevati dal sito, a prescindere dalla loro intensità, o meglio, dal punteggio loro assegnato dai valutatori. Data l’impossibilità di districarsi nel groviglio di legami rappresentato dalle relazioni di fornitura fra nodi, la figura 1b propone una rappresentazione semplificata del network, riportando solo i legami fra nodi più rilevanti, quelli a cui è attribuito un punteggio pari a 4. Pur tralasciando i rapporti di fornitura che appaiono più banali, o comunque meno significativi, il network conserva comunque un notevole grado di complessità e continua a presentare una certa tendenza alla «clusterizzazione», con i nodi riconducibili allo stesso ambito (e quindi raffigurati attraverso le stesse combinazioni di forma e colorazione), che tendono a formare raggruppamenti ben distinguibili all’interno del grafo, grazie ad un intreccio molto fitto di legami di fornitura diretti10.

***FIGURA 1B***

Se questo non è di per sé sorprendente, più interessante appare il fatto che i network rappresentati nelle figure 1a e 1b si discostino largamente dalla classica forma ad albero, tipica di quelli captive o modulari caratterizzati da una struttura rigidamente gerarchica tra nodi. L’organizzazione della moderna produzione aeronautica non sembra quindi presentare i caratteri delle tradizionali supply chain, dove l’OEM seleziona un gruppo di fornitori di primo livello, tra loro non necessariamente in contatto, i quali acquistano da fornitori di secondo livello spesso esclusivi, e comunque anche loro non legati da rapporti di fornitura diversi da quelli intrattenuti con l’impresa o il nodo cliente.

La value chain del settore appare piuttosto assumere i caratteri di un network relazionale, dove i nodi (e le imprese operanti al loro interno) intrattengono una molteplicità di relazioni di fornitura, qualitativamente eterogenee, ma spesso trasversali a più ambiti. Ne risulta una rete complessa, caratterizzata da cluster ma anche con una pluralità di link e collegamenti inter-gruppo che riflettono la complessità del prodotto finale, ma anche e soprattutto quella dei sistemi e dei sub-sistemi di cui esso si compone. Quella aeronautica si presenta come un’industria nella quale le attività di integrazione sono largamente predominanti rispetto a quelle di puro assemblaggio, marcando una differenza significativa rispetto ad altri comparti, come, per esempio, quello dell’automotive.

Allo stesso tempo, la configurazione complessa del network rivela la forte interdipendenza, in alcuni casi tecnologica, in altri economica, esistente tra i diversi ambiti della filiera. Si tratta di un aspetto cruciale dell’industria in esame, che verrà ripreso ed approfondito nella parte finale di questo elaborato, e che apre interessanti fronti di ricerca sul tema della transizione da un nodo ad un altro. Come si avrà modo di vedere in seguito, infatti, lo studio del network rappresentativo delle value chain aeronautiche consentirà di valutare, anche in chiave prospettica, le opportunità di 10 Nel realizzare le sue elaborazioni grafiche, il software utilizzato per la nostra analisi (UCINET) dispone i nodi in maniera tale da minimizzare la distanza tra i nodi che risultano essere

maggiormente interdipendenti, in base alla matrice delle adiacenze da cui si origina il network. Il fatto che i nodi dello stesso colore (e quindi relativi allo stesso macro-ambito della filiera) tendano a disporsi uno accanto all’altro, è quindi riconducibile al fatto che quei nodi tendono ad essere tra loro più collegati di quanto ognuno di essi risulti rispetto a nodi di diverso colore.

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integrazione/diversificazione verticale di cui dispone ogni impresa, in funzione delle proprie specializzazioni produttive.

3.2 Qualificazione dei nodi della filiera aeronautica: Degree Centrality

Lo studio dei network è fondamentalmente lo studio di un dato insieme di relazioni tra soggetti diversi. La ricerca condotta e descritta in queste pagine delinea una proposta metodologica per l’analisi delle filiere internazionali (in questo caso, quelle dell’aeronautica) che rivisita ed utilizza alcuni elementi tradizionali della teoria e dell’analisi dei network, ma che -è bene precisare- non si esaurisce con l’analisi formale delle relazioni e dei rapporti di fornitura tra le imprese o i gruppi di imprese del settore.

L’analisi delle global value chain qui proposta parte dall’individuazione di una serie di prodotti finali di cui viene ricostruita la filiera, scomponendoli in parti, sistemi e macro-componenti, per identificare fasi produttive e ambiti, che diventano i «nodi» del network attraverso cui si rappresenta la value chain del settore. I nodi, in quanto ambiti di attività, hanno un diverso pregio dal punto di vista tecnologico ed economico, e quindi assumono un rilievo diverso all’interno della filiera stesse, determinando, per le imprese che li occupano, un diverso grado di controllo sull’organizzazione della filiera e sull’attività svolta dalle imprese operanti negli altri nodi, nonché un diverso ruolo all’interno del sistema relazionale su cui si poggia l’industria in esame.

L’analisi della filiera deve quindi riconoscere la diversa valenza economica ed industriale dei nodi individuati, procedendo ad una valutazione separata degli stessi sotto differenti profili, ma pur sempre nella consapevolezza che il network rappresentativo della value chain è comunque una struttura gerarchica. Appare dunque necessario comprendere quali siano i nodi dai quali la si controlla, sulla scorta di quanto si propone di fare la chain commodity analysis.

In questo senso, l’intreccio dei legami fra nodi illustrato nella figura 1a (e ricostruito a partire dalla informazioni ricavate dal sito airframer.com) consente non solo di rappresentare la value chain in forma di network, ma anche di qualificare i singoli nodi in base alla loro posizione all’interno del network stesso, ovvero in funzione del numero e del tipo dei legami che ogni nodo risulta avere con gli altri.

Un primo modo, elementare, per qualificare i singoli nodi all’interno di un network è quello di calcolarne la centrality. I link esistenti fra i nodi, rappresentati nella Fig.1a, sono pesati in base alle valutazioni fornite dagli esperti, volte a caratterizzare la qualità del legame tecnologico sotteso al rapporto di fornitura con punteggi (1, 2, 3 o 4) assegnati in misura crescente al crescere della competenza tipicamente detenuta dalle imprese di un nodo, in merito all’attività svolta dalle imprese attive nell’altro nodo (si veda il paragrafo precedente).

I legami sono inoltre orientati, in modo tale da distinguere i legami in base all’essere ciascun nodo venditore (supplier) o acquirente (customer) di un bene intermedio. Questo consente di qualificare i vari attributi dei nodi, o meglio, le varie misure calcolabili per ciascun nodo, in una duplica versione:

- come outdegree, ovvero calcolando la misura d’interesse considerando solo i legami in uscita, ovvero quelli relativi a rapporti di fornitura in cui il nodo in esame risulta supplier;

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- come indegree, ovvero calcolando la misura d’interesse considerando solo i legami in entrata, ovvero quelli relativi a rapporti di fornitura in cui il nodo in esame risulta

customer.

La tabella 1 riporta il ranking dei nodi della filiera aeronautica stabilito in base alla misura di centrality calcolata per ciascun nodo. La misura cardinale riportata non ha particolare significato, essendo la somma dei punteggi assegnati dai valutatori ai singoli legami, scelti all’interno di una scala del tutto arbitraria. Tuttavia, essa è utile a stabilire l’ordinalità fra nodi, che possono quindi essere classificati in modo da riflettere la gerarchia interna al network.

Nella parte di sinistra della Tabella sono riportati i primi dieci nodi per outdegree

centrality. Quest’ultima va interpretata come una misura di quanto i nodi customer

abbiano competenze e conoscenza dell’attività svolta dal nodo in esame (quello riportato in riga).

Il nodo in testa al ranking è «Non-Destructive Testing» (NDT). Tale posizionamento è figlio della natura stessa dell’attività di fornitura. I controlli non distruttivi rappresentano infatti un’attività che gran parte dei produttori aeronautici, indipendentemente dalla posizione che occupano nella catena del valore, deve realizzare per dimostrare che il prodotto del business ha un livello di affidabilità e sicurezza adeguato, sia in termini di rispondenza del progetto al requisito, sia in termini di qualità della produzione. Tale tipo di controlli è d’altra parte indispensabile per l’ottenimento delle certificazioni propedeutiche alla vendita e costituisce quindi un elemento altamente sensibile sia per l’OEM, che per il fornitore di componenti. Come tale, può condizionare fortemente il controllo del prodotto stesso e ciò appare coerente con il risultato che indica come il customer di servizi di NDT mantenga notevoli competenze nella tecnologia stessa.11

Considerazioni simili possono essere fatte per gli altri nodi classificati nelle posizioni di testa dell’ outdegree ranking. Nella classifica completa (riportata in Appendice, tabella B) il nodo in coda al ranking è «Engine» (WWE): il produttore di motori aeronautici è un integratore di alto livello di un prodotto ad alta tecnologia, estremamente complesso, che ha quindi la necessità di un forte controllo delle conoscenze che integra in qualità di acquirente, ma difficilmente sarà controllabile come fornitore.

***TABELLA 1***

La parte di destra della tabella 1 riporta invece il ranking dei nodi della filiera, stabiliti in base alla loro misura di indegree centrality, interpretabile come un indice di quanto le imprese attive nel nodo di interesse (quello in riga) mantengano competenze nell’attività svolta dai loro fornitori. La situazione è ovviamente -e coerentemente-capovolta rispetto a prima.

Il primo nodo nel ranking, «Airframe Assemblies» (AAA), è quello relativo agli assemblatori di un prodotto complesso, con alti requisiti di affidabilità e sicurezza (di cui devono rispondere). Tali imprese devono avere il controllo totale di ciò che assemblano e devono quindi disporre un patrimonio di conoscenze e competenze quanto più possibile esteso. Scorrendo l’ordinamento verso il basso, i nodi elencati -e i relativi prodotti- si caratterizzino per un grado di complessità via via inferiore; le attività di 11 Non a caso, alcuni OEM mantengono questa tipologia di competenze, come dimostra la loro produzione brevettuale sull’argomento.

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integrazione diventano relative a componenti che si fanno tecnologicamente più sofisticati, in riferimento ai quali risulta maggiore il ruolo della tecnologia integrata.12

Il secondo nodo è il già citato «Engines» in cui le imprese che lo occupano, come si è detto, svolgono il ruolo integratori di alto livello di un prodotto ad alta tecnologia, estremamente complesso, e hanno quindi un forte controllo delle competenze che integrano in qualità di acquirenti, con conseguente elevato indicatore di indegree

centrality. Il loro potere contrattuale, anche rispetto agli OEM, è tipicamente molto alto, sia per la struttura del mercato (oligopolistica) sia per la forte caratterizzazione tecnologica del prodotto. La tecnologia e i capitali necessari a svilupparla costituiscono pertanto un’elevata barriera all’ingresso per eventuali new-comers e ciò rende complesso, se non impossibile, risalire la catena del valore. Questa situazione si riflette nel fatto che l’OEM (il cliente del motorista) non è in grado di avere un significativo controllo tecnico del fornitore di motori, anche perché l’ambito tecnologico (strutture calde e, semplificando, fluidodinamica calda e tecnologie per la combustione) risulta piuttosto lontano dal suo (sempre semplificando, strutture e fluidodinamica fredda).

Applicando queste categorie di ragionamento, l’ordinamento complessivo (sempre riportato in Appendice) appare ampiamente plausibile, anche guardando ai nodi risultanti nell’ultima parte del ranking13. È chiaro come l’ordinamento possa essere

messo in discussione in riferimento alle singole posizioni, ma è altrettanto ovvio che la classificazione tra una posizione e quella adiacente andrebbe caratterizzata per singolo prodotto, distinguendo quanto meno i vari segmenti del mercato aeronautico.

3.3 Qualificazione dei nodi della filiera aeronautica: analisi degli Egonet

Gli ordinamenti individuati in base alle misure di indegree e outdegree centrality dei nodi riflettono il giudizio qualitativo formulato dagli esperti sul tipo di relazioni di fornitura intrattenute da ciascun nodo, quando interpretato, rispettivamente, come nodo

customer o nodo supplier. In altre parole, nel calcolare l’indice di centralità di ogni

nodo, i legami sono pesati per il punteggio assegnato loro dai valutatori in base alla scala utilizzata. Il processo di valutazione non ha ovviamente lo scopo di quantificare il legame tecnologico esistente tra nodi, ma si propone semplicemente di differenziare i legami da un punto di vista prettamente qualitativo; la metrica utilizzata deve quindi 12 Potrebbe stupire il posizionamento non elevatissimo dei nodi «Communication» (AVC) e

«Navigation aids» (AVN). Tuttavia tali nodi integrano componenti ad alta specificità

tecnologica, come i componenti ad elettronica attiva, di cui il sistemista (ovvero chi produce il sistema di navigazione) può non avere una conoscenza totale (sulla scorta delle possibili differenze in termini di competenze tecnologiche, ravvisabili fra chi assembla PC e chi sviluppa

i processori).

13 I nodi al fondo della graduatoria risultano «Design Software» (DSF), «Cold Forming» (PCF) e «Plastic Processes» (PPP). Chi sviluppa DSF, salvo casi specifici, sviluppa tipicamente un software (come ad esempio CATIA) rivolto a industrie diverse (aerospace, automotive, navale, ecc.), per cui è ragionevole che non abbia una forte competenza specifica nell’ambito del suo fornitore. Per quanto riguarda PCF e

PPP, il posizionamento dei nodi appare invece legato al livello di dettaglio della lavorazione: di norma chi fa questo genere di attività è un’azienda di piccole dimensioni, che occupa i livelli più bassi della catena del valore, con ridotti margini e scarsa specificità ed una competenza fortemente legata alla lavorazione di dettaglio di cui si occupa (si vedano alcuni esempi relativi all’indotto aeronautico campano) mentre i fornitori sono invece colossi mondiali, come per esempio Alcoa, nel caso dei fornitori dell’alluminio (ma lo stesso si potrebbe dire per i materiali plastici).

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favorire la convergenza dei giudizi individuali, limitando i profili di discrezionalità presenti in ogni valutazione.

Tuttavia, è chiaro che nel convertire i giudizi in punteggi, la scelta dei punteggi stessi ha inevitabili conseguenze nella formazione dei ranking, quando questi si basano su indici (come quelli di centrality) che costruiti sui punteggi stessi. Diviene allora necessario verificare la robustezza degli ordinamenti individuati nel paragrafo precedente, confrontandoli con ranking alternativi individuati sulla base su numeri indice, per nodo, non più sensibili alla scelta dei punteggi assegnati ai legami.

Come si avrà modo di vedere in questo paragrafo, e sempre nella prospettiva di individuare la struttura gerarchica interna al network, gli ordinamenti stilati in precedenza e basati sulla centrality dei nodi risultano molto simili a quelli che si possono stabilire guardando alle misure di size e density dei nodi, che hanno il pregio di non dipendere dai punteggi e quindi dalla classificazione dei legami esistenti fra nodi.

Queste misure richiamano il concetto di egonet del singolo nodo, definibile come una partizione del network, che si ottiene estrapolando dalla rete il nodo di interesse con tutti i suoi legami diretti. In altre parole, l’egonet di un nodo j è costituito dal suo intorno, formato da tutti i nodi i≠j che hanno legami diretti con j, da questi stessi legami e dai legami che i nodi i risultano intrattenere fra loro.

Anche in questo caso, l’analisi degli egonet dei singoli nodi può essere bipartita, attraverso lo schema indegree/outdegree. Per esempio, la tabella 2 riporta gli ordinamenti dei nodi, così come le corrispondenti misure di size e density, quando gli

egonet dei vari nodi sono individuati considerando solo i legami in entrata rispetto al

nodo in esame, ovvero i rapporti di fornitura in cui il nodo d’interesse figura in qualità di customer.

***TABELLA 2***

La size rappresenta il numero di nodi che riforniscono il nodo j considerato (quello riportato in riga). La density esprime invece il rapporto (percentuale) tra il numero di legami effettivamente esistenti all’interno dell’egonet del nodo considerato ed il numero massimo di legami possibili all’interno dello stesso egonet (quello che si avrebbe qualora tutti i nodi facenti parte dell’egonet di j risultassero tra loro mutuamente collegati). Per costruzione, entrambe le misure risultano quindi indipendenti rispetto alle valutazioni prodotte dagli esperti sulla qualità del legame tecnologico sotteso ai diversi rapporti di fornitura.

Per interpretare tali misure, è bene tenere a mente che quanto più complesso è il prodotto di cui si occupa il system integrator, tanto maggiore è il numero di nodi suoi fornitori (quindi size elevata); contestualmente, tali nodi tenderanno ad essere più slegati tra loro (presentando valori ridotti di density). È proprio questa, in effetti, la caratteristica saliente dei grandi system integrator, capaci di dare valore aggiunto al loro prodotto grazie proprio al ponte -tecnologico nello specifico- che riesce a creare tra diversi prodotti, singolarmente anche di alto valore ma inutili se non integrati. Per contro, risulta assai difficile per i fornitori avanzare nella catena del valore, proponendo se stessi come system integrator; vi possono essere dei casi in cui ciò avviene, ma restano comunque episodi marginali14.

14 Con l’affermarsi dei droni (o UAV), alcuni fornitori di sistemi elettronici (ausili alla navigazione, sistemi di comunicazione o di flight management) hanno, per esempio, dato origine a loro segmenti di business che producono UAV, sfruttando l’alto contributo al prodotto che viene proprio dalla componente

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