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Video! Io vedo. L’arte elettronica come “scrittura” dello sguardo: esempi e ipotesi teoriche

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Academic year: 2021

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INDICE

2 I. Introduzione (in cerca di nuovi strumenti di analisi)

2 I.1. Che cos’è la “soggettività” nel video? Cenni storici e premesse metodologiche 11 I.2. Lo studio analitico delle opere video: proposte per un glossario

23 I.3. Note esplicative sugli apparati: project desunti, schemi e grafici

26 II Hic fuit, lo sguardo racconta se stesso. These are not my images di Irit Batsry 26 II.1. Le forme della soggettività

35 II.2. Per una lettura di These are not my images in chiave autoriflessiva 38 II.3. Analisi dettagliata dell’opera

68 III Verso l’essenza: l’arte di Robert Cahen tra 7 visions fugitives e Plus loin que la nuit 68 III.1. Premessa metodologica: in cerca della soggettività nello stile che cambia

70 III.2. Due versioni di Plus loin que la nuit (2005): dentro il laboratorio dell’artista 83 III.3. 7 visions fugitives (1995): la terra di mezzo nello stile di Robert Cahen 107 III.4. L’opera di Cahen e la soggettività: alcune conclusioni

109 IV. Conclusioni (per una teoria del linguaggio videografico)

109 IV.1. Sul riconoscimento di una soggettività dell’atto discorsivo nelle opere video 115 VI.2. La parola agli artisti: il video come cinema di poesia

122 Bibliografia

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I. Introduzione (in cerca di nuovi strumenti di analisi)

I.1. Che cos’è la “soggettività” nel video? Cenni storici e premesse metodologiche

- L’eredità del cinema non narrativo come cinema della soggettività

Con questa ricerca mi pongo l’obiettivo di indagare l’arte video sotto una particolare luce, quella della soggettività: se è vero che ogni opera d’arte rappresenta sempre il protendersi verso l’esterno, verso gli altri, di una interiorità, un raccontarsi da parte di chi l’opera l’ha realizzata, per ogni ambito artistico ci sono però forme diverse di manifestazione, che necessitano di essere indagate. Nel caso delle opere filmiche gli indirizzi di studio sulla narrazione e quindi sull’enunciazione, sviluppatisi nell’ambito della semiologia del cinema, hanno fornito importanti strumenti per “leggere”, per riconoscere, le forme e la natura della presenza autoriale dentro l’opera. E il video? Arte più giovane e meno codificata, per quanto si sia rivelato sin dalle sue origini come un mezzo espressivo in cui venivano a mescolarsi in forme sempre nuove, e libere da schemi precostituiti, influssi diversi - dalla pittura al teatro, dalla musica alla letteratura, e poi la danza, la performance e altro ancora -, il video, nel momento in cui diveniva oggetto di studio, è stato spesso confinato nel recinto della vicinanza con il cinema. La critica e la teoria del video, giovani anch’esse, non sembrano infatti essere riuscite a sviluppare in maniera sistematica degli strumenti analitici propri. Il problema è stato lucidamente e autorevolmente messo a fuoco da Philippe Dubois in un breve saggio1 uscito nel 1995, sul quale dovremo ritornare estesamente più avanti: lo studioso francese vi si chiedeva come sia possibile accostarsi all’analisi delle opere video semplicemente mutuando termini e concetti dagli studi sul cinema; e di qui, cominciando a riconoscerne i principali tratti peculiari, arrivava a rivendicare l’esistenza e la specificità di un “linguaggio videografico”. E questo stato di cose, d’altra parte, non mi sembra essere mutato in maniera sostanziale negli anni recenti.

Come affrontare questo snodo teorico della soggettività? Quel che mi sono proposto di fare è di interrogare le opere, perseguire una forma di critica del video che sia fondata su un impianto analitico, sul quale si possano innervare le ulteriori osservazioni (di ordine estetico, contenutistico, simbolico e così via). E di qui, passando attraverso una conoscenza approfondita dell’opera, andare in cerca degli specifici meccanismi con cui vi si manifesta, appunto, la soggettività. Perché il paradosso è questo, che le opere video vivono quasi di un eccesso di soggettività; il fatto che la presenza autoriale sia in esse così smaccata e manifesta sembra aver fatto apparire superflue delle ricerche che andassero a cercare di cogliere i segni dei gesti lasciati dall’artista sulla sua “tela elettronica”:

L’autobiografia, il diario, il cinema in prima persona sono un antecedente importante per la produzione video, e forse il legame più forte fra la produzione sperimentale degli anni ’60 e l’arte elettronica: inclusione dell’autore stesso (o dei suoi amici, o familiari) nell’opera, “scrittura” personale, racconto della vita. […] Ma, a parte questo genere sempre più diffuso, che mutua (ricreandole in video) non poche poetiche e figure di scrittura dai diari cinematografici dei cineasti sperimentali, […] l’intera arte del video è fortemente caratterizzata dalla soggettività, dallo sguardo esibito, dichiarato, dell’autore: sguardo personale, parziale. In

1

Philippe Dubois, “Vidéo et écriture électronique. La question esthétique”, in Esthétique des arts médiatiques, vol. 1, Sainte-Foy, Presses de l’Université de Québec, 1995 [trad. it. di Andrea Lissoni, “Video e scrittura elettronica. La questione estetica”, in Valentina Valentini (a cura di), Il video a venire, Soveria Mannelli (CZ), Rubettino, 1999]. Da qui in poi si cita la traduzione italiana.

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questo senso queste opere sono costantemente pervase da quelle “marche di enunciazione” che svelano in vari modi la presenza dell’autore […]. Se nell’analisi di un film narrativo questi importanti segni vanno stanati, portati alla luce, perché rivelano lo “sguardo” dell’autore (d’autore), nel cinema sperimentale e, in modi diversi, nella videoarte, sono esibiti. […] Senza addentrarci in queste problematiche, oggetto di importanti studi e di continui aggiustamenti teorico-critici in campo cinematografico, mi limito a segnalare la produttività di questo approccio, che ci aiuta a individuare con maggiore precisione i modi in cui il “discorso”, la presenza dell’autore (esibiti, o comunque non occultati, nella videoarte, così come non è occultato l’artificio, e talvolta neanche la costruzione stessa dell’opera) si articola, attraverso una condensazione di tracce: dall’uso di scritte e didascalie, frequentissimo nell’arte video, alla frantumazione dell’inquadratura e all’esplosione stessa del quadro, all’esibizione del dispositivo fino alle stratificazioni (citate proprio da Metz, che si riferisce all’opera video di Thierry Kuntzel), dall’uso di specchi al “film nel film” e agli effetti stessi e all’uso della voce-soggetto (Metz si sofferma anche sulla voce «sublunare e disancorata» del cinema sperimentale). In questo le più recenti acquisizioni degli studi narratologici possono dare un contributo a un’analisi approfondita dei “testi” video, proprio perché consentono di superare modalità di analisi forgiate sul film narrativo (inapplicabili al video sperimentale e alla videoarte) per focalizzare l’attenzione sulla visione «intesa come attività, come linguaggio».2

Mentre sottolinea l’opportunità e il potenziale interesse di ricerche sull’arte video incentrate sulle questioni dell’enunciazione e della visione, Sandra Lischi mette anche l’accento sul forte legame di continuità che unisce questa forma espressiva a tutta una precedente tradizione di sperimentazione cinematografica. Il video sembra infatti raccogliere l’eredità di quella corrente minoritaria e sempre riemergente nella storia del cinema, da quello delle avanguardie storiche degli anni Venti e Trenta a quello sperimentale e underground degli anni Sessanta, che ha cercato l’elaborazione di un linguaggio audiovisivo articolato e complesso, fatto di schermi multipli, immagini stratificate, lavoro sul tempo. La grammatica di effetti e alterazioni dell’immagine costruita da questi sperimentatori del cinema era però destinata a trovare vera attuazione solo nel video: i “trucchi” che prima erano ottenuti con ingegnosi procedimenti tecnici - in fase di ripresa, sviluppo e proiezione - sono ora a portata di mano, letteralmente: è con un semplice gesto che si possono creare, ad esempio, una finestra nell’immagine o un rallentamento. Così Adriano Aprà, uno dei più importanti studiosi della produzione audiovisiva di ricerca, tra cinema e video, di quell’area di esperienze artistiche per cui egli ha proposto la definizione di “non-fiction”:

Il video prosegue, con tecniche e costi assai più leggeri, alcune esperienze del cinema, sperimentale [...] e non [...], portandole alle estreme conseguenze; e costituisce su un altro versante il logico proseguimento, grazie alla sua leggerezza ed elasticità, delle esperienze documentaristiche, tanto sul fronte del cinema-verità quanto su quello del cinema saggistico, di compilazione, diaristico e autobiografico. Il video sollecita la manipolazione della realtà, le incrostazioni e le ibridazioni di diversi tipi di immagini, fluidifica il montaggio e riformula le categorie spazio-temporali, favorisce la non linearità del discorso e la simultaneità delle informazioni e degli stimoli. Il video taglia il cordone ombelicale che lega il cinema alla realtà riprodotta. È perciò il mezzo ideale per chi tenda a superare il cinema narrativo con attori.3

Sulla stretta parentela che lega il video al cinema sperimentale un’altra testimonianza significativa è quella di Raymond Bellour che, trattando di Chott-el-Djerid di Bill Viola, afferma:

Il cinema sperimentale, o d’avanguardia (nessuna delle due definizioni mi pare pienamente soddisfacente) e la videoarte (anche questa definizione non è certo l’optimum) hanno in comune una precisa volontà di fuga a ogni costo da tre cose: l’onnipotenza dall’analogia fotografica, il realismo della rappresentazione e il regime di credibilità del racconto. Lo si è detto a più riprese; è questo che li ha resi spesso entrambi più vicini alle

2

Sandra Lischi, Visioni elettroniche. L’oltre del cinema e l’arte del video, Roma, Fondazione Scuola Nazionale di Cinema, 2001, pp. 17-8.

3

Adriano Aprà, “Il cinema e il suo oltre”, in Adriano Aprà., Bruno Di Marino (a cura di), Il cinema e il suo oltre. Verso il cinema del futuro, Film, video, CD-Rom, XV Rassegna internazionale retrospettiva, Mostra Internazionale del Nuovo Cinema, Pesaro, 19-24 ottobre 1996, p. 18.

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arti plastiche e alla poesia che al cinema di cui essi, tuttavia, risultano beneficiarii. Il che accade grazie a un insieme di procedimenti, figurazioni e modelli espressivi riassumibili, in modo assai schematico, con due sole parole: addizione e sottrazione.

In questo modo, infatti, viene a sciogliersi, nella maggior parte dei film sperimentali e dei nastri video, il “contratto naturale” di immagine e suono. In ogni caso si verifica sottrazione, o addizione: accelerazioni, rallentamenti, eccessi, assenze, perturbazioni d’ogni genere che mirano a snaturare quel contratto firmato da ormai quasi un secolo tra il film di fiction e lo spettatore. È perfino inutile insistervi ancora, eccetto forse per sottolineare che questa operazione di resistenza, di apertura della forbice, che consente l’instaurarsi di un tempo e di uno spazio di diversa natura, fondamenta quindi di un’arte specifica, si palesa in realtà assai diversa per il cinema sperimentale e per la video-arte. E questo a dispetto dei loro punti di comunanza e della comune filiazione […].4

A proposito della questione dei rapporti tra cinema (tra un certo cinema) e nuove tecnologie, c’è un autore che sicuramente merita di essere citato ed è Chris Marker: grande sperimentatore di mezzi e linguaggi nel corso di tutta la sua lunga carriera, cineasta la cui opera è divenuta oggetto d’elezione per gli studiosi e fonte di ispirazione per molti autori video, Marker sembra rappresentare nella sua avventura umana e artistica - con la pratica di un cinéma pauvre e con l’uso, nelle opere più recenti, del video e dei supporti multimediali - un modello per questa via di un cinema dello sguardo, di un cinema di poesia. Su di lui, sulla sua opera, avremo modo di approfondire il discorso più avanti. Se ora torniamo al saggio di Lischi, vi possiamo riconoscere l’individuazione e la messa a fuoco di un altro snodo teorico - arriviamo qui a toccare un punto che si rivela centrale nella presente ricerca -, ovvero l’esistenza, al di là delle manifestazioni esteriori della soggettività nel video, legate essenzialmente ai contenuti espressi dalle opere, di un’altra e più specifica forma di soggettività, interna all’opera.

A confondere ancor più le acque riguardo alla questione teorica della soggettività contribuiscono, per altro, anche le specifiche condizioni realizzative e produttive in cui di norma nascono le opere video; si tratta di qualcosa di completamente lontano dal modello cinematografico: l’artista video lavora spesso da solo alla creazione dell’opera - niente a che vedere con lo stuolo di figure professionali e di competenze che vengono coinvolte per la realizzazione di un film -, curandone ogni sua fase; o al più, in alcuni casi, ricorrendo all’aiuto di stretti e fidati collaboratori. Varrà la pena dare la parola, su questo argomento, agli artisti. Questa, ad esempio, l’immagine che la svizzera Pipilotti Rist ci offre del suo lavoro:

Se sei il regista di un lungometraggio sai un po’ di tutto, tuttavia non sei uno specialista in qualcosa in particolare, hai una conoscenza generale. Il regista di un video a basso budget ha ancora bisogno della conoscenza generale di un filmmaker, ma deve essere anche pratico, conoscere veramente ogni singolo passaggio tecnico del processo produttivo. Spesso dico che il video è come un dipinto su un vetro che si muove, perché il video ha anche una qualità imperfetta, irregolare e sembra un dipinto. Nel mio lavoro non voglio copiare la realtà: “la realtà” è sempre molto più contrastata e crudele rispetto a quello che potrei creare con il video. Il video ha le sue qualità particolari, la sua qualità di vile e nervoso mondo interiore, e io lavoro proprio con questo.5

Dichiarazioni come questa danno il senso del fondersi della stessa condizione operativa dell’artista video in ciò che le sue opere “raccontano”. Di qui fatalmente scaturisce quel rischio di eccesso di autoreferenzialità che, andando in direzione o dell’astrazione o della incapacità di comunicare,

4

Raymond Bellour, “I contorni della fiction”, in Rosanna Albertini e Sandra Lischi (a cura di), Metamorfosi della visione. Saggi di pensiero elettronico, Pisa, Edizioni ETS, 1988. Si cita qui la seconda edizione (2000): p. 168.

5

Pipilotti Rist, in I rist, you rist, she rists, he rists, we rist, you rist, they rist, tourist, Intervista a cura di Hans Ulrich Obrist in Peggy Phelan, Hans Ulrich Obrist, Elizabeth Bronfen (a cura di), Phaidon books, London, 2001 [Trad. it. I rist, you rist, she rists, he rists, we rist, you rist, they rist, tourist. Conversazione con Pipilotti Rist di Hans Ulrich Obrist, in Valentina Valentini (a cura di), Le pratiche del video, Roma, Bulzoni Editore, 2003]. Si cita qui la traduzione italiana: p. 319.

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sembra aver determinato un certo diffuso pregiudizio nei confronti delle opere video. A questo proposito un altro autore, lo spagnolo Francisco Ruiz de Infante, scrive:

Quanto al lavoro artistico, voglio prima parlare dell’esteriore partendo da una posizione intima. Ma so bene che quest’intenzione resterà lettera morta senza il controllo preciso di una distanza, necessaria per costruire dei livelli di lettura che trapassino l’interesse puramente voyueuristico dello spettatore. In ogni caso, l’“io” è al tempo stesso più complesso e semplice dell’intimità particolare. […]

Quanto alla proiezione dell’intimo nell’arte, e alla sua utilizzazione diretta verso un’apertura precisa, esistono strade diverse: l’esibizionismo, il pudore, la mitologia personale, la riflessione ingenua… ma anche la coscienza dell’“io” sociale, la costruzione dei tratti di un pensiero collettivo fatto “d’aneddoti”, la possibilità di “ricostruire” un personaggio-eroe in prima persona, ascoltandone i segni esterni… […]

Conosco i pericoli della linea di lavoro sulla quale cammino: il contesto “intimo” preme verso un pericolo di autocompiacimento e di ermetismo; il contesto “sperimentale”, e di costruzione di nuove forme narrative, preme verso un pericolo di formalismo (nel senso peggiorativo del termine), che dà nuovamente il via libera all’ermetismo o alla tautologia.

Bisogna, evidentemente, vedere i risultati pratici delle mie intenzioni. Le intenzioni non sono che parole e so che, per trovare l’equilibrio, proseguendo sul cammino caldo-freddo e interno-esterno che vorrei tracciare, bisogna cadere molto spesso.6

Queste note di Ruiz de Infante sul suo lavoro ci offrono lo spunto per alcune osservazioni. Intanto ci fanno notare che, anche se può sembrare pleonastico sottolinearlo, nel caso del video come per qualunque altra forma espressiva è sempre e soltanto una questione di opere più o meno buone, più o meno significative: ci sono certamente casi, neanche troppo rari, nell’ambito della produzione videoartistica - e la stessa definizione di “videoarte” ha d’altra parte finito per contenere una produzione fortemente variegata e difforme quanto a qualità ed interesse ( e non solo in anni recenti, dopo l’avvento del digitale) - di una ingenua o smodata chiusura nell’autoreferenzialità, o comunque di una sorta di “autismo” artistico. È per questo che nella mia ricerca intendo prendere a riferimento solo certe opere, scelte con cura, senza avere la pretesa di estendere le eventuali conclusioni raggiunte, in maniera indifferenziata, ad altri lavori.

Però Ruiz de Infante ci spinge implicitamente anche ad altre riflessioni – a loro volta non del tutto pleonastiche, a quanto pare -, intorno al fatto che gli studiosi non dovrebbero mai correre il rischio di scambiare l’“io” che si “racconta” nel testo con l’autore stesso, perché quell’“io” sarà sempre e comunque una rappresentazione, una immagine che l’autore offre di sé.

Nel quadro di una ricerca sulla soggettività nelle opere d’arte video e, più in particolare, a proposito della questione dei rapporti tra questa e il cinema sperimentale, meritano poi un breve approfondimento le tesi sostenute da Dominique Noguez nel suo Éloge du cinéma expérimental.7 Lo studioso francese prende provocatoriamente posizione, sin dal titolo, contro il predominio del cinema narrativo - di quello hollywoodiano in particolare -, in favore di una tradizione di ricerche e sperimentazioni in pellicola che attraversa tutta la storia del cinema e che dai qui modelli imperanti è confinata nell’oblio e nel disinteresse. L’oggetto della sua indagine è dunque rappresentato da quel filone di ricerca audiovisiva a cui le prime manifestazioni dell’arte video sembrano ricollegarsi senza soluzione di continuità; il video sembra anzi, in una certa misura, assumerne su di sé l’eredità. Preliminarmente, per arrivare ad una definizione di “cinema sperimentale”, Noguez propone due criteri. Il primo concerne le condizioni di produzione:

Chi voglia fare un film sperimentale dovrà trovare da solo le proprie risorse di finanziamento […] Questo limita le possibilità, ma in compenso costringe a soluzioni più economiche e dunque, spesso, a dei tesori d’ingegnosità e ad invenzioni (di cui, ironia della sorte, il cinema dominante approfitterà eventualmente in

6

Francisco Ruiz de Infante, “Lécriture: étape charnière”, in Id. (a cura di), Leçons de survie, Paris, Editions Emmy de Matelaere, 2000 [Trad. it. “La scrittura: tappa cardine”, in Valentina Valentini (a cura di), Le pratiche del video, cit.]. Si cita qui la traduzione italiana: p. 303.

7

Dominique Noguez, Éloge du cinéma expérimental, Paris, Centre Georges Pompidou, 1979 [2 ed.: Paris, Éditions Paris Expérimental, 1999]. Da qui in poi si cita la seconda edizione.

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seguito). Il cineasta sperimentale, sotto questo aspetto, è una sorta di ecologista: fa economia d’energia, postula una società più povera, e comunque più sobria e, di conseguenza, più libera […].8

E, ancora, prosegue: “[…] uno dei motori più fecondi della creazione artistica è la volontà di risparmiare - di fare molto con poco […] (quasi sempre, del resto, non si tratta di «volontà», ma di fatalità: «Fare, come si dice, di necessità virtù»).”9 L’altro criterio è, invece, di ordine formale; esso viene riconosciuto nel predominio della forma:

Diciamo dunque che ogni volta che un film, di per sé […] si renderà interessante meno per quel che mostra o racconta che per il modo in cui lo mostra o lo racconta, tutte le volte che lo schermo sembrerà dirci: “guardate il rettangolo che io sono, o il quadro che io sono, o la bianchezza che io sono; guardate la maniera con cui le forme sono collegate sulla mia superficie, la maniera con cui si spostano”; tutte le volte che i colori sembreranno dirci: “vedete il mio splendore o la mia discrezione”; che la pellicola sembrerà dirci: “vedete la mia grana, o la mia opacità”, allora saremo sul versante della funzione poetica trionfante e dunque del cinema sperimentale.10

La “funzione poetica”: Noguez sviluppa la sua difesa del cinema sperimentale rifacendosi agli Essais de linguistique générale di Roman Jakobson. Prende come riferimento il suo schema delle sei funzioni linguistiche presenti nella relazione verbale e, cercandone un’applicazione al “linguaggio” cinematografico, arriva a sostenere che un film sperimentale è un film in cui è la funzione poetica a prevalere sulle altre; in particolare su quelle fatica e referenziale.

Sulla definizione data da Jakobson del linguaggio poetico torneremo estesamente più avanti, in maniera autonoma, per cercare di comprendere il modo di comunicare delle opere video, e, su queste basi, riconoscere loro dignità. Quanto non fa Noguez, in sostanza. Perché egli, in maniera abbastanza sorprendente, attacca il video (quando vi fa riferimento), facendone un nuovo obiettivo polemico: non basta il fatto che le categorie da lui individuate per definire un film sperimentale appaiano altrettanto applicabili ai lavori di videoarte (e ricordo che non sono pochi gli artisti che dalla pratica del cinema sperimentale sono passati al video); e non basta, evidentemente, neppure la particolare presa di posizione di Noguez contro il “sistema” rappresentato dal cinema hollywoodiano. Non basta insomma la sua orgogliosa difesa di forme povere, e dunque anche libere, come egli sostiene, di espressione artistica: c’è povertà e povertà, insomma; ed è sempre meglio prendere le distanze. Al video, in particolare, viene imputato di aver rappresentato una grande speranza e di essersi rivelato, invece, come un nuovo e più subdolo strumento di quello che viene definito “l’imperialismo culturale americano”.11 È sì vero che le critiche mosse al video sono, principalmente, di ordine ideologico e non estetico, legate al contesto culturale degli anni Settanta, quando il saggio veniva scritto, ma è anche altrettanto evidente come lo studioso francese, ripubblicando il libro vent’anni dopo, non abbia sentito il bisogno storicizzare quelle affermazioni né tantomeno di collocare anche il fenomeno dell’arte video in una prospettiva unitaria con la tradizione del cinema di ricerca. Resta il fatto che alcuni spunti teorici presenti nel libro di Noguez rappresentano un precedente significativo per la ricerca che intendo condurre: la proposta di una applicazione ad opere di carattere non narrativo come i film sperimentali - o quantomeno una messa a confronto, con un gesto inatteso e sorprendente, quasi un cortocircuito - degli strumenti forniti dalla semiologia del cinema; il riconoscimento di una specifica natura di linguaggio poetico per opere che rifiutano il modello del cinema narrativo.

Certo è che quei vent’anni che separano la prima dalla seconda edizione dell’Éloge du cinéma expérimental, anche se Noguez dimostra di non farci troppo caso, rappresentano un tempo molto lungo nella storia del video. La “videoarte” a cui sinora mi sono genericamente riferito è stata sin dalle sue origini un fenomeno artistico complesso ed eterogeneo, situato al punto di confluenza di

8

Ibidem, p. 27 [trad. mia]. 9

Ibidem [trad. mia]. 10

Ibidem, pp. 35-6 [trad. mia]. 11

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arti diverse, luogo per eccellenza della mescolanza di stili, tecniche e generi. Occorre dunque, arrivati a questo punto, delimitare preliminarmente il campo di indagine.

- Delimitazione del campo d’indagine: il “video di creazione”

Nell’accostarmi alla materia di questa ricerca ho compreso ben presto i rischi legati all’assunzione di un punto di vista troppo ampio. E avvertivo, d’altra parte, la necessità di assumere come base di lavoro un confronto approfondito con le opere; solo da lì potevano venire delle risposte. Dunque si trattava, a partire dal termine “soggettività”, di capire di quale “videoarte” parlare, e quali potessero essere delle opere esemplari. Venivo così escludendo la stagione della sperimentazione pura, delle ricerche formali, astratte, che caratterizza gli anni Settanta, quando attraverso le opere gli artisti hanno scoperto e indagato le possibilità tecniche ed espressive del nuovo mezzo. Allo stesso modo decidevo di escludere da questa ricerca tutti gli usi performativi del video, caratteristici anch’essi soprattutto della prima fase della storia del medium, così come il settore delle pratiche legate alla collocazione dell’immagine video in uno spazio, le videoinstallazioni. Mi apparivano, inoltre, come ambiti chiaramente distinti alcune forme “applicate” della videoarte, con una loro storia e una loro fortuna, come il videoteatro e la videodanza. E attraversando anche la produzione degli anni Ottanta, caratterizzata soprattutto dal risveglio di un interesse per la narrazione - o meglio, per forme nuove e autonome di narrazione -, ho rivolto il mio interesse verso una stagione nuova di maturità del video, i cui segni sembrano cominciare a manifestarsi proprio sul volgere di quel decennio.

Con gli anni Novanta arriviamo a quello che appare come il momento della definitiva affermazione culturale di quest’arte nuova: il video come espressione artistica diviene conosciuto – o almeno alcuni autori lo divengono - presso un pubblico vasto e non specialistico; le più importanti mostre e biennali presentano una grande quantità di opere in video. In realtà, ad uno sguardo più attento la situazione si rivela decisamente più complessa e articolata.12 Senza entrare nelle questioni riguardanti la produzione e la distribuzione delle opere video, che ci porterebbero evidentemente troppo lontano, possiamo limitarci qui a mettere in evidenza come sotto questa etichetta della “videoarte”, divenuta comoda e à la page, venga sdoganato un po’ di tutto: la gran parte dei lavori presentati nelle gallerie e nelle rassegne di tutto il mondo ha, in realtà, ben poco a che fare con quello specifico filone di ricerca audiovisiva che ha preso il nome di “videoarte”. Sono opere che non nascono da un interesse specifico per il mezzo video; spesso sono, anzi, ostentatamente sciatte, incuranti di ogni attenzione formale. I loro autori praticano un’arte concettuale o performativa che si serve del video in maniera del tutto strumentale, come semplice supporto di registrazione. Non vi è traccia, in questa “arte fatta con il video”, così la potremmo definire, dell’interesse per le possibilità espressive offerte dal mezzo, per il dare forma a una realtà attraverso l’elaborazione delle immagini, che sono propri dell’arte video. In altri casi gli artisti si servono di installazioni con proiezioni di immagini video, questa volta molto curate formalmente, ma che vogliono rimandare, in realtà, ben più al modello cinematografico che non alla videoarte (non di rado con riferimenti espliciti o ancora con l’utilizzo diretto di brani di film).

E tuttavia, con un paradosso solo apparente, proprio a partire dalla fine degli anni Ottanta e ancor più nel corso del decennio successivo assistiamo al comparire sulla scena di opere impegnative e ambiziose, con le quali gli autori dimostrano di avere ormai fatto del video un “linguaggio” strutturato, con la sua grammatica e la sua sintassi, una forma espressiva con i sui tropi e la sua retorica. Farò riferimento qui ad un breve scritto dell’artista inglese Michael Mazière13 che mi sembra descrivere con chiarezza questo fenomeno – la sua prospettiva guarda principalmente alla

12

Per questi argomenti rimando, in particolare, a: Sandra Lischi, “Anni Novanta: la vittoria (di Pirro) del video”, in Alessandro Amaducci (a cura di), Indiscipline. Invideo. Mostra Internazionale di video d’arte e ricerca. X edizione, Santhià, GS, 2000.

13

Michael Mazière, “La necessità poetica”, in Alessandro Amaducci (a cura di), Altrove. Invideo. Mostra Internazionale di video d’arte e ricerca. XI edizione, Milano, Edizioni Charta, 2001, pp. 38-44.

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scena artistica del Regno Unito ma si allarga ad abbracciare il panorama internazionale. Mazière si sofferma, inizialmente, ad osservare la disgregazione di quella che potremmo definire la “videoarte storica”: “Oggi, con la frammentazione e diversificazione delle pratiche mediatiche, l’involucro critico che teneva insieme le idee di videoarte è scomparso, lasciando un gran numero di pratiche ibride.”14 Di qui arriva però poi ad affermare:

C’è tuttavia una forma di videoarte che si riscontra internazionalmente, con affinità per quanto riguarda natura e struttura semiologica complessa, che richiede un alto sforzo produttivo e impegnata nel discorso intertestuale di poesia, letteratura e narrativa. [...] Negli anni ’90 questo approccio è stato sviluppato in modi particolarmente produttivi per mezzo di quello che possiamo chiamare “cine video”, una forma di collage elettronico a molti strati che prende più dal termine francese “Vidéo de Création” che dal concetto anglo-americano di “videoarte”. Esempi degni di nota di questa pratica sono Granny’Is di David Larcher, Remembrance of Things Fast di John Maybury, The Left Hand Should Know di Brenda Beban e Hrovje Horvatic, Obsessive Becoming di Daniel Reeves, These are not my images di Irit Batsry e gran parte del lavoro di Gianni Toti. Pur essendo molto diversi per tipo di immagini e interesse, tutti questi lavori usano una forma intertestuale sperimentale e di collage artistico ottenuto col processo di produzione dell’immagine elettronica: uno spazio in cui immagine, testo e suono si uniscono in una sintesi [...]. Si può dire che questo tipo di lavoro è caratterizzato da un approccio non narrativo, da ambizioni poetiche e dal radicamento del concetto classico di “Autore” […]. Esso fa chiaramente parte di un’area di lavoro diversa dalla videoarte: una forma di “scrittura” con le immagini, che attinge alla storia del cinema e della televisione più che ai discorsi delle arti visive. La fonte per questi lavori è spesso materiale personale, e l’opera che ne risulta si avvicina a un diario del subconscio dell’artista. Questo collage elettronico forma un testo che mira a essere insieme visionario e soggettivo, ma “materialista” nella sua manipolazione del medium: esso cioè esplora il medium come esplora l’io, puntando a creare un parallelismo fra l’artista e l’opera.

Ciò che unisce questi lavori è il loro rappresentare un’idea nuova di ciò che può essere un video; essi non si adattano bene alle definizioni esistenti di videoarte o film sperimentale e non impiegano come struttura forme narrative. Oggi possiamo dire che abbiamo un concetto riduttivo di quello che il video è e rende possibile, e che stiamo di fatto assistendo alla creazione di nuove forme di produzione di immagini difficili da afferrare in termini di forma, struttura e contenuto. Questi discorsi elettronici […] esigono un nuovo vocabolario nel punto di convergenza di film, video e arti digitali.15

Tra gli obiettivi di questa ricerca c’è proprio quello di cominciare a dare sostanza a questo nuovo vocabolario. Si possono in effetti riconoscere alcune caratteristiche comuni (anche se non tutte necessariamente presenti nelle singole opere) che ci permettono di identificare una forma espressiva che, con Mazière, possiamo definire “video di creazione” o ancora “video di ricerca”; tra queste si possono segnalare: un ricorso, innanzitutto, alla manipolazione dell’immagine, analogica e/o digitale, che non appare più come l’espressione di un gusto per la scoperta, o comunque di una pura ricerca formale, ma ha il senso di una ricerca estetica e formale sviluppata strettamente in funzione dei contenuti dell’opera; e ancora l’uso frequente della parola, scritta o pronunciata, così come una tendenza alla lunga durata, a creare opere complesse e strutturate. Questi artisti danno vita a densi ed ellittici racconti personali, a composizioni che, pur lontane dai modelli narrativi tradizionali, rivelano una chiara intenzione comunicativa. Ed evidente possiamo riconoscervi il marchio della soggettività.

In questa produzione video più recente si possono individuare alcune forme ricorrenti, o generi, se si vuole (ma un uso troppo disinvolto del concetto di “genere” è rischioso, e richiederebbe attente valutazioni), che risentono fortemente di modelli precedenti, letterari e cinematografici soprattutto, e che veicolano in maniera esplicita un punto di vista soggettivo: il diario o il ritratto (di una persona conosciuta o comunque “amata” dall’autore) - l’uno e l’altro sono spesso associati alla pratica del found footage -, il diario di viaggio. Per queste opere, comunque, sia detto per inciso, l’apporre etichette è sempre un gesto arbitrario e troppo deciso, perché ciascuna di esse rappresenta un ricerca espressiva libera, in forme nuove e non codificate.

14

Ibidem, pp. 38-9. 15

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In altri casi l’elemento soggettivo non è altrettanto apparente e pure costituisce il motore segreto dell’opera. Prendiamo ad esempio la rappresentazione del paesaggio, così spesso praticata da questi artisti. Opere che sembrano non far altro che aggiungere una dimensione temporale (esplicita) ad uno dei soggetti preferiti dalla pittura di tutte le epoche possono rivelare legami forti con il privato degli autori: il video Scénographie d’un paysage (1990) della francese Dominique Belloir, ci mostra una spiaggia bretone nel mutare dei colori e della luce, con una rigorosa fissità del punto di vista che esplicitamente rimanda alla pittura. Ma un fattore cambia la prospettiva: l’autrice è originaria di quella regione. Lo stesso si potrà dire a proposito di Orka (1997) di Steina Vasulka: in questa sorta di ode alla natura, all’aspra, primigenia bellezza dei paesaggi islandesi, riconosciamo la poetica dell’artista - il voler vedere, attraverso gli occhi delle macchine, in maniera nuova -, ma anche i segni di un legame profondo con la terra nativa.

Ed è qui, in un confronto con opere che sono essenzialmente espressione senza filtri di un autore che (si) racconta in prima persona, che prende pienamente senso un approccio alla questione della soggettività che cerchi di mettere in luce, come propone Lischi nel passo sopra citato, l’esistenza nelle opere video di una specifica natura soggettiva, di ordine essenzialmente formale, distinta dalle forme più esteriori di soggettività, legate ai loro contenuti o al contesto della loro realizzazione.

- Il passo ulteriore: la scelta delle opere da trattare

La scelta è infine caduta sulla israeliana Irit Batsry e sul francese Robert Cahen. L’uno e l’altra, pur appartenendo a due diverse generazioni artistiche, occupano oggi un posto di rilievo nel panorama della videoarte internazionale. Nato a Valence, in Francia, nel 1945, Cahen segue un percorso di formazione artistica in ambito musicale e per questa via (lavorando alla sperimentazione musicale con i sintetizzatori presso i laboratori di ricerca dell’ente radiotelevisivo francese), diviene uno dei “pionieri” del video, rientrando nel ristretto novero di quegli artisti che nel corso degli anni Settanta cominciano a scoprire le possibilità espressive offerte dall’elaborazione dell’immagine elettronica. Sarà però nel corso degli anni Ottanta che Cahen raggiunge una vasta notorietà, ottenendo consensi e riconoscimenti nei festival di tutto il mondo e vedendo molti suoi lavori trasmessi da varie reti televisive.16

Irit Batsry, nata a Ramat Gan, in Israele, nel 1957, scopre il video durante gli studi presso l’Accademia di Belle Arti di Gerusalemme e da quel momento ne fa il suo linguaggio artistico d’elezione. Si trasferisce quindi a New York. Lavora come artista in residenza presso istituzioni quali il CICV-Centre de Recherche Pierre Schaeffer di Montbéliard-Berlfort e l’Accademia d’Arte e Media di Colonia. Il suo lavoro ha conosciuto, a partire dalla fine degli anni Ottanta, un crescente riscontro di pubblico e di critica a livello internazionale.17 È proprio Batsry, autrice profondamente

16

Ricordo, di seguito, alcuni dei premi da lui ricevuti: primo premio al Festival di San Sebastian e a quello di Grenoble nel 1983 per Juste le temps; primo premio al Festival Internazionale di Video Arte di Locarno nel 1985 per Cartes postales vidéo; Tucano d’argento per il miglior video sperimentale al 4° Festival di Rio e premio speciale al 10° Tokyo Video Festival 1987 per Montenvers et mer de glace; Tucano d’argento al Festival di Rio per il miglior video sperimentale, 1988, e premio speciale al Tokyo Video Festival 1988 per Le deuxième jour; primo premio al Festival Internazionale di Video-Art di Locarno 1989 per Hong Kong song; Grand Prix de l’Europe, Festival International vidéo Estavar/Llivia, Spagna, 1995 e Internationaler Videokunst Preis, Karlsruhe, Germania, 1996, per 7 visions fugitives. Ricordo inoltre che Juste le temps, uno dei suoi lavori più noti, fa parte delle collezioni del Museum of Modern Art di New York, del Kunsthalle di Zurigo e del Museo di Arte Contemporanea di Amsterdam.

17

Ricordo di seguito alcuni premi da lei ricevuti: per Leaving The Old Ruin Grand Prix, all’11º Videoart Festival di Locarno, Svizzera, 1990; per Traces of a Presence to Come Primo Premio al Vº Itl.Video Festival di Vigo, Spagna, 1994; per Scale Grand Prix Video de Création, La SCAM (Société Civile des Auteurs Multimedia), Paris, France, 1996, Primo premio al 15º Videoart Festival di Locarno, Svizzera, 1995; per These Are Not My Images, Grand Prix VideodeCréation, La SCAM (Société Civile des Auteurs Multimedia), Parigi, Francia 2001; Primo Premio all’ Intl. Video Festival di Vigo, Spagna, 2001, Menzione Speciale della Giuria, 21º Videoart Festival di Locarno, Svizzera, 2001. Nel 2002 ha vinto il prestigioso Whitney Biennial Bucksbaum Award. Nel 1992 ha ricevuto la Guggenheim Foundation Fellowship. Suoi lavori sono stati esposti nei seguenti musei: ICA di Londra, Museu de Arte Moderna di

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consapevole, che sempre si interroga sul proprio lavoro, sul senso del fare immagini, sulle possibilità tecniche ed espressive dei mezzi di cui si serve, ad offrirci una immagine dello stato dell’arte(video) nel corso degli anni Novanta. Ecco come descriveva l’evoluziozione del linguaggio video quando, nel dicembre del 2000, ho avuto l’opportunità di intervistarla:

La questione dei limiti del linguaggio video è molto interessante. Devo dire che per un lungo tempo il lavoro con il video è stato un po’, per quanto riguarda il linguaggio, poter aggiungere sempre nuove parole a un dizionario, quindi una continua evoluzione, una continua scoperta di nuove modalità con cui si poteva usare il linguaggio video. Ora la cosa è diversa, perché si è come arrivati al punto in cui si sono trovate tutte queste possibilità di linguaggio. Questo non vuol dire che è finita la possibilità di lavorare col video: è finita la possibilità di una certa ricerca e scoperta di cose che non erano mai state fatte prima, come invece era avvenuto negli anni Ottanta. Si può certo continuare a fare ricerca formale con tutto quello che è stato scoperto fino ad ora. Ma non so se ora si potrebbe dire, come prima, “Ah, questa cosa non l’avevo mai vista”; è come se fosse completa, non finita ma completata, una certa ricerca formale, come se ora con tutti questi elementi si cercasse di costruire l’opera. Quindi non più una ricerca formale ma, con questi elementi di ricerca formale, la costruzione di un’opera.18

Immediatamente prima, nel corso di quell’intervista, Batsry aveva parlato della evocazione, delle ambiguità di significato e della capacità di scatenare qualcosa nello spettatore come dei meccanismi per la creazione di senso caratteristici, specifici del video. Da qui potremo partire per la nostra indagine sulla soggettività, in cerca di strumenti nuovi.

Rio, Palays de Tokyo di Parigi, Reina Sofia Museum di Madrid, Museum of Modern Art di New York. Suoi lavori sono stati trasmessi da La sept e ARTE.

18

Irit Batsry, in, Andrea D’Orazio, Gianluca Paoletti (a cura di), “Modellare le immagini. Intervista a Irit Batsry”, in Simonetta Cargioli (a cura di), Immagini oltre. Incontri con Irit Batsry e Dominique Smersu, Ondavideo, Quaderno n. 10, 2001, pp. 50-1.

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I.2. Lo studio analitico delle opere video: proposte per un glossario

Dell’esistenza di un “linguaggio videografico” (con leggi proprie), per cominciare

Sarà però opportuno, accostandoci ad una trattazione puntuale dei video di Cahen e Batsry, dare conto preliminarmente di alcuni strumenti di analisi che sono stati individuati durante la stesura delle sceneggiature desunte dei video, modellando e sottoponendo a verifica termini e concetti mutuati dal linguaggio cinematografico. È il concetto stesso di sceneggiatura desunta che, associato ad opere video, impone di correggere il tiro, adattare e, in parte, battere altre strade: allo stato attuale si tratta, nel tentare questo approccio d’indagine, di avanzare su un territorio che è ancora in gran parte ignoto; mancano ancora tentativi seri e sistematici, perché ancora prevalgono altre forme di critica - contenutistica, psicologica o genericamente estetica - su una rigorosamente analitica; in questo quadro, le proposte teoriche e terminologiche sviluppate qui non pretendono di avere un carattere d’immediata estensibilità e applicabilità a qualunque altra opera video.

La prima questione terminologica si pone nel momento stesso in cui parliamo di “sceneggiatura desunta” a proposito di una ricostruzione analitica a posteriori condotta su un’opera che, come molte volte accade in ambito video, non è stata costruita a partire da una sceneggiatura ma ha preso forma attraverso un lungo e accurato lavoro, al montaggio, di selezione ed elaborazione delle immagini; se scelgo di continuare ad usare l’espressione sceneggiatura desunta, lasciando da parte il ricorso a neologismi, è dunque per una questione di comprensibilità. Agli strumenti di cui un regista cinematografico si serve durante la lavorazione del film, e che lo prefigurano – sceneggiatura, storyboard -, mi pare che si possa far corrispondere soltanto, se si guarda ai passaggi che oggi conducono alla realizzazione di un “video di creazione”,19 il “project”20 (“progetto”, in italiano) realizzato con il software di montaggio;21 e dovremmo parlare allora di project desunto. Occorre però, da un lato, rimarcare la specificità del “project” del video, che a differenza della sceneggiatura di un film prende forma solo con il prendere forma dell’opera stessa, ne è la sua traccia visibile, e scomponibile in unità, sullo schermo di un computer; dall’altro, si dovrà considerare che l’espressione dovrebbe essere utilizzata, in senso proprio, soltanto per le opere video realizzate in digitale: Irit Batsry, ad esempio, è un’artista che, durante l’image processing,22 fa

19

Uso questa definizione - scegliendo di non parlare genericamente di “video” - per ricordare come qui ci si riferisca ad un ambito di produzione in video sperimentale e non narrativa (o, se si vuole, non essenzialmente narrativa) riconducibile al più ampio alveo di quella forma espressiva che – con un termine che, a detta di alcuni studiosi, è divenuto negli anni ormai logoro, se non desueto, ma che è ancora ampiamente usato e condiviso – è chiamata “videoarte”. Molti film oggi vengono girati in digitale (anche se poi riversati in pellicola); e d’altra parte, in termini ancor più generali, si dovrà tenere presente che l’immagine elettronica può essere usata anche per realizzare prodotti audiovisivi in tutto e per tutto aderenti ai modelli e alle possibilità espressive del cinema, così come un computer può essere usato alla stregua di una macchina da scrivere. Il termine “video” risulterebbe dunque troppo generico, e soggetto a fraintendimenti.

20

Non si fa qui riferimento al significato comune del termine “progetto”, non si tratta dell’idea che l’artista ha – nella sua mente soltanto o fissata, registrata su un qualche supporto – dell’opera che intende realizzare. “Project” è il termine inglese con cui nei principali programmi di montaggio video è indicato lo spazio di lavoro, il “luogo” in cui immagini e suoni vengono assemblati, manipolati, stratificati.

21

È sì vero che di frequente gli artisti video si servono, nella realizzazione delle loro opere, di molti materiali preparatori - può trattarsi di testi (dettagliati quaderni di appunti o più sintetiche dichiarazioni d’intenti) come anche di disegni o di schemi (soprattutto nel caso delle videoinstallazione, più che per video monocanale) – ma rimane il fatto che se, all’interno di quel variegato panorama e dai confini mal definibile che è la videoarte, fissiamo la nostra attenzione su quel fare video che pone come fondante, ed elegge quale essenziale forma espressiva, l’elaborazione dell’immagine, in tutti questi casi vedremo come, sia pure anche in presenza di una cospicua produzione di materiali preparatori di varia natura, il momento del montaggio e della post-produzione rappresenti quello della vera genesi dell’opera, è qui che essa prende forma.

22

Uso qui la definizione che proprio l’artista israeliana ritiene corretta per indicare il lavoro di montaggio e trattamento delle immagini.

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ancora spesso ricorso alla tecnologia analogica, attribuendo ad essa una maggiore libertà creativa e riconoscendovi una possibilità di lavorare con le immagini in diretta, come se fosse una performance o una jam session, che almeno per adesso è negata al computer. Di passaggio possiamo dunque soffermarci a prefigurare degli scenari futuri (di un futuro, però, che è quasi presente) in cui gli studiosi del video potrebbero farsi cercatori, presso fondazioni o negli studi degli artisti, non solo di materiali cartacei ma di tesori racchiusi dentro archivi di dati costituiti da hard-disk, CD o DVD; nei casi più fortunati, il reperimento di copie del progetto precedenti la versione finale potrebbe offrire possibilità di ricerca quasi del tutto inedite, legate allo studio delle varianti.

Nello scarno panorama della riflessione teorica sugli strumenti d’analisi per le opere video un intervento significativo è rappresentato da un saggio di Philippe Dubois23 a cui già si è fatto cenno nell’introduzione;24 ad esso, principalmente, faccio riferimento in questa parte della trattazione: pur non arrivando a scendere nella prassi dell’analisi testuale, e a confrontarsi dunque con essa, il saggio offre alcune illuminanti riflessioni teoriche e pone i primi capisaldi per il riconoscimento dell’autonomia e delle specifiche leggi di funzionamento di quello che lo studioso francese, senza esitazione, definisce il “linguaggio videografico”, riconosciuto e legittimato come ontologicamente altro da quello del cinema. Il punto da cui trae origine il saggio è proprio una domanda sugli strumenti e le modalità di analisi delle opere video:

[…] l’immagine-video. Una cosa mi ha sempre colpito nei discorsi sviluppati riguardo a tale soggetto, ed è il fatto che si parli sempre di immagine-video in termini assai spesso presi in prestito. Più in particolare si utilizza un lessico che serve a caratterizzare quella “grande forma” ben stabilita di immagine-movimento che è il cinema. […] Tutto il vocabolario che è stato messo a punto per parlare di immagine cinematografica si trova trasposto tale e quale, senza avvertenze particolari, come se la cosa andasse da sé, come se non si potesse pensare l’immagine elettronica che attraverso i concetti (attraverso il linguaggio stesso) del cinema. Come se l’uno e l’altro fossero indifferenziati.

Ora, si è riflettuto sulla validità di questo gesto di transfert? Tutte le immagini in movimento funzionano sulle medesime basi? Fare delle inquadrature al cinema e fare un montaggio di immagini video è la stessa operazione? C’è la medesima posta in gioco? Il fuori campo videografico, se esiste, è dello stesso tipo di quello del cinema? Il totale, la profondità di campo, la soggettiva si fondano sugli stessi dati ed hanno lo stesso senso?25

Posti questi interrogativi, sarà intorno alle nozioni di piano e di montaggio, in particolare, che la riflessione di Dubois si andrà articolando nello sviluppo ulteriore del saggio: alcuni dei suoi snodi segneranno come un filo rosso la breve ricognizione terminologica, il glossario che abbiamo appena iniziato a tracciare. Preliminarmente, lo studioso francese deve però precisare:

Beninteso, bisogna cominciare col dire che non è raro ritrovare nel video un uso ‘classico’ – vale a dire cinematografico – della nozione di montaggio dei piani. Niente impedisce di “fare dei piani” con delle immagini registrate su supporto magnetico e catturate da una telecamera, come si fa con una macchina da presa 35 o 16 mm, e al montaggio in regia video nulla impedisce di montare in successione ciascuno dei piani così ripresi per creare quella continuità a base di linearità e di omogeneità che è un racconto audiovisuale. Tuttavia […] in video, l’attuazione di un racconto […] non rappresenta il modo discorsivo dominante. […] nel campo delle pratiche video, il modo narrativo e di finzione è ben lontano dal rappresentare il genere maggioritario. Esiste senza dubbio, ma meno che altri, e con meno forza. In video i modi principali di rappresentazione mi paiono essere, in effetti, da un lato il modo plastico (l’‘arte video’ sotto le sue multiple forme e tendenze) e dall’altro il modo documentario (il ‘reale’ – brutale e non – in tutte le sue strategie di rappresentazione). E soprattutto […] entrambi con un senso costante del saggio, della

23

Non a caso si tratta di uno dei pochi studiosi di cinema, tutti comunque di area francese, ad aver sistematicamente adottato una prospettiva più ampia, in cui il cinema diviene terreno d’indagine insieme con la fotografia e il video, l’uno e gli altri collocati nell’alveo unificante della storia delle immagini prodotte dalle macchine.

24

Philippe Dubois, “Video e scrittura elettronica. La questione estetica”, cit. 25

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sperimentazione, della ricerca, dell’innovazione. Non per nulla, il termine più adatto che si è trovato per parlare di questa diversità di generi di opere elettroniche, è quello di creazione-video.26

Nei lavori di Cahen (in una forma più immediatamente leggibile) e Batsry (al di sotto di una veste narrativa che riconosceremo come non essenziale) in particolare - sembrano manifestarsi insieme, e fondersi l’una nell’altra, le due tendenze prevalenti che Dubois riconosce in atto nella produzione video; forme, l’una e l’altra, che segnano il superamento del linguaggio cinematografico.27 Dalla considerazione dell’alterità di queste opere bisogna dunque partire per trovare termini e concetti adeguati, gli strumenti utili a comprenderne i meccanismi espressivi. Questo è il video secondo lo studioso francese: “Un linguaggio particolare (ma per niente esclusivo) che dipende da logiche differenti e che rivela una posta in gioco di un altro ordine rispetto a quella cinematografica.”28

- La segmentazione

Il lavoro di segmentazione dell’opera, propedeutico al momento analitico, poneva subito delle questioni, concettuali e terminologiche, fondamentali. Nella prassi della critica cinematografica il primo passo è quello della individuazione di grandi blocchi: si è scelto di mantenere nella presente analisi i termini sequenza e sottosequenza essenzialmente per ragioni di immediata comprensibilità, sia pure nella consapevolezza che al fine dell’individuazione di queste unità possono risultare utili osservazioni di ordine formale ben più che la riconoscibilità di segmenti narrativi distinti come accadrebbe nel caso di un qualsiasi film di finzione. L’emergere, proprio attraverso il lavoro di scomposizione dei video, di strutture regolari, di impianti compositivi accuratamente costruiti, spingerebbe semmai verso termini come “strofa” o “movimento”, più adeguati a includere l’idea di una relazione tra la singola parte e l’insieme dell’opera in termini tanto di ritmo quanto di struttura. Nell’analisi viene inoltre usata anche una definizione più generica, quella di blocco: saranno in questo caso le spiegazioni che vengono date di volta in volta a stabilire se il termine riguardi una sequenza, una sottosequenza o ancora una porzione più piccola dell’opera.

- Unità minime: le immagini

Al livello ulteriore di frammentazione dell’opera divengono invece necessari, rispetto al modello del linguaggio cinematografico, degli interventi. Lì le sequenze o sottosequenze vengono divise in “inquadrature”. Confrontiamoci allora, preliminarmente, con una definizione di inquadratura cinematografica: “In senso stretto l’inquadratura è un’unità tecnica, vale a dire un segmento di pellicola girato in continuità; a livello di ripresa esso è delimitato da due arresti di motore della macchina da presa, e a livello di montaggio da due tagli di forbice.”29 A partire da questa potremo sviluppare alcune osservazioni.

Innanzitutto vale la pena ricordare come in molti prodotti della ricerca video vada perduto uno dei fattori distintivi dell’inquadratura cinematografica, il suo lasciarsi riconoscere come frammento di

26

Ibidem, p. 21. 27

Se, nello spiegare le nuove proposte terminologiche, saranno più frequenti gli esempi da These are not my images di Irit Batsry, piuttosto che dai lavori di Robert Cahen, è perché, come viene più estesamente spiegato nei capitoli successivi, diverso è il modo in cui i due autori, attraverso le opere, sviluppano una loro teoria del video: nel lavoro di Batsry, che pure abbandona in quest’opera il ricorso costante all’elaborazione delle immagini per mettere in scena un confronto dialettico tra immagini realistiche e immagini trattate, vediamo dispiegarsi ampiamente, in tutto il suo spettro, la “grammatica” del video; di Cahen invece, attraverso l’analisi e la messa a confronto di due diverse opere, si descrive proprio una parabola artistica che lo vede passare dallo stile “ricco” e fortemente personale degli anni Ottanta (tanto che lunga era la lista dei “lavori caheniani”, talvolta anche a firma di autori molto noti, che si incontravano nei festival di tutto il mondo) a una essenzialità della forma in cui il ricorso a trattamenti, stratificazioni e ricoloriture diviene via via più rarefatto.

28

Philippe Dubois, op. cit., p. 21. 29

Francesco Casetti, Federico Di Chio, Analisi del film, Milano, Bompiani, 1990. Da qui in poi si cita la IV edizione, 1992.: p. 30.

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ripresa marcato, scandito, da due arresti di motore: gli autori video, in genere, considerano la realizzazione delle riprese come una fase preliminare in cui vengono immagazzinati i materiali audiovisivi tra cui successivamente, nel vero momento della realizzazione, quello del montaggio e della elaborazione delle immagini, potranno scegliere: non si ha più dunque alcuna corrispondenza, nel momento delle riprese, fra i singoli frammenti di girato e le effettive necessità del montaggio - nessun ciak, nessuna sceneggiatura - e dunque lo scarto tra la parte di riprese poi effettivamente usate e quella che rimane inutilizzata è, in genere, molto maggiore. Può darsi invece, con frequenza, la situazione opposta, ben più rara al cinema, del riutilizzo delle stesse immagini, magari con il ricorso a elaborazioni diverse per ciascuna occorrenza.

Ma converrà a questo punto tornare alla riflessione condotta da Dubois, per scendere nel dettaglio delle differenti logiche caratterizzanti, secondo la sua ipotesi, il “linguaggio videografico”: “Una prima figura che appare con forza quando si osservano alcuni video d’artista è quella della mescolanza delle immagini. Tre grandi procedimenti regnano e dominano in questo ambito: la sovrimpressione (multistrato), i giochi di finestre (sotto innumerevoli forme) e soprattutto l’incrostazione (o chroma-key).”30 Ed ecco che, alla luce della frequenza con cui nelle opere video le immagini si caratterizzano per una compresenza di più elementi, spesso provenienti da fonti diverse, può arrivare a concludere:

[…] le nozioni di totale, piano americano, primo piano, campo lungo, etc., che organizzavano le forme dell’inquadratura al cinema (all’inizio, è noto, su un modello eminentemente antropomorfico: la scala di misura che è il corpo umano), queste nozioni di grandezza dei piani dunque - nella misura in cui presuppongono l’unità e l’omogeneità dello spazio dell’immagine a partire da un punto di vista unico - non sono più applicabili nel caso dell’incrostazione e del mescolamento delle immagini in generale. […] L’omogeneità spaziale organizzata intorno alla presenza unica di un corpo, inscritta nel suo spazio “naturale”, è qui completamente esplosa […]: in video si ha più spesso a che fare con più spazi e più corpi o più immagini dello stesso corpo imbrigliati gli uni negli altri (e spesso in simultaneità visiva, cosa che aggiunge l’impressione di un caleidoscopio). Al realismo percettivo della scala dei piani in funzione dello spettatore cinematografico, il video oppone così un irrealismo della scomposizione/ricomposizione dell’immagine.31

Proprio la necessità di riflettere su queste differenze rende opportuna, in questa sede, l’analisi di opere come 7 visions fugitives di Cahen e come These are not my images di Batsry, nel loro accostare e far collidere immagini di diversa natura (la scelta è addirittura programmatica e struttura l’opera nel caso di quest’ultima): la scelta di inserire immagini (all’apparenza, almeno) non toccate, mera registrazione del reale, diversamente da quanto accade in genere nell’arte video (una scelta che risulta, del resto, prevalente anche nella produzione dei due artisti di cui si tratta qui), rende, per contrasto, più evidente la particolare qualità delle altre, che si lasciano riconoscere come immagini video per via delle elaborazioni, i giochi di “assemblaggio” di varie immagini (magari girate in luoghi e momenti diversi), e ancora, spesso, per l’una e l’altra cosa insieme: sono immagini “di sintesi” (non nell’accezione tecnologica del termine ma in un senso del tutto letterale), dunque, attestazioni di una realtà interiore. Ecco che, ancora muovendoci tra termini che non possono continuare ad essere quelli del cinema, arriviamo a toccare una questione centrale, sul piano concettuale e terminologico, nella riflessione dello studioso francese: “Alla nozione di inquadratura, spazio unitario ed omogeneo, il video preferisce quella di immagine, spazio multiplo e eterogeneo. Allo sguardo unico e strutturatore, il principio di concatenamento significante e simultaneo delle riprese. È ciò che chiamerò l’immagine come composizione.”32

A proposito della specifica natura dell’immagine video come composizione di più immagini andrà notato come nella monografia di Lischi su Cahen, si possa incontrare già identificata e codificata la

30

Philippe Dubois, op. cit., p. 21. 31

Ibidem, pp. 24-25. 32

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categoria del mélange d’images a proposito dei video degli anni Ottanta dell’artista francese (con particolare riferimento ad opere come Le deuxième jour, del 1988, e Hong Kong Song, del 1989). In accordo con le tesi di Dubois ho scelto di sostituire nella mia analisi il termine inquadratura con immagine, sia pure al prezzo di qualche difficoltà esplicativa e di possibili ridondanze nel testo (fatta questa scelta, ci si trova infatti di frequente a dover chiarire se ci si riferisce all’immagine nel suo insieme o soltanto a uno degli elementi che la compongono). Alla luce, poi, della particolare natura di queste opere di Cahen e Batsry, che si innervano intorno all’accostamento dialettico di immagini marcatamente videografiche con altre che del cinema, pur non essendo più fissate su una pellicola, conservano ancora l’aspetto, ho scelto di servirmi di un ulteriore e più specifico concetto, quello di immagine complessa: con esso faccio riferimento a quelle porzioni dell’opera che per ragioni formali o di coerenza interna, o ancora per il modo con cui sono legate a ciò che segue e precede, si lasciano individuare come frammenti autonomi pur essendo il frutto di un assemblaggio di elementi eterogenei. 33 Naturalmente, questa definizione ne presuppone, almeno in linea teorica, un’altra, quella di immagine semplice (o non articolata) di cui poi, nella prassi della scrittura, non si è sentita una effettiva necessità, venendo queste unità audiovisive semplici a coincidere col termine “immagine”, senza altra specificazione.

Ovvio che si possa incorrere in difficoltà, in vere e proprie trappole linguistiche, perché usando il termine “immagine” si può avere bisogno di isolare, come una istantanea fotografica, il contenuto di una o più singole unità (le immagini appunto) che formano il video, il suo nucleo: potrò, per esempio, a proposito di These are not my images, soffermarmi su “l’immagine della donna intenta a spazzare la polvere del cortile…”, quando so che quella parte della sottosequenza III.2. è formata da sette “immagini” distinte e in successione; o invece ci si vorrà riferire, in un passaggio, solo ad una delle immagini, ad uno degli strati o livelli d’immagine che formano un’immagine complessa (in questo senso si potrà parlare anche di immagine complessiva): per indicare una sola delle diverse immagini che vengono a comporre l’immagine complessa propongo la definizione di immagine interna. In ogni caso, questi ostacoli terminologici costituiscono un rischio che deve essere corso: per marcare uno scarto, stabilire una differenza.

Un’ulteriore proposta terminologica che vorrei formulare, alla luce del lavoro di scomposizione sui video è la distinzione tra due diverse categorie di immagini complesse, quelle in cui l’ispessimento dell’immagine si manifesta essenzialmente nella durata del frammento audiovisivo e quelle invece che più si avvicinano al fenomeno descritto da Dubois della compresenza di elementi diversi, dell’addensarsi di molte immagini dentro una sola (in These are not my images delle tre strategie individuate dallo studioso francese è quella della stratificazione di più immagini a svolgere un ruolo essenziale): propongo di individuare queste due categorie con i termini immagine-sequenza e sovrimmagine. Se ho scelto di dare conto di una effettiva distinzione tra queste due diverse forme di immagine complessa solo, a titolo di esempio, nella seconda (e parziale) delle sceneggiature desunte di These are not my images è perché si tratta essenzialmente di strumenti utili a “smontare” e comprendere i “meccanismi di funzionamento” delle opere, il cui riconoscimento diventa però difficile nella prassi dell’analisi, perché le due forme si manifestano spesso fuse l’una nell’altra: più che come categorie ben distinte mi appaiono dunque come due poli; nello spazio che si estende tra l’uno e l’altro, si situano i diversi gradi, le forme miste, e la tensione verso l’uno o verso l’altro di questi punti limite. Di queste definizioni si tiene comunque conto nell’analisi delle opere (paragrafo III.3.). Una forma ulteriore di immagine complessa è quello delle immagini che risultino dall’elaborazione per mezzo di filtri di un’unica immagine di partenza; in questo caso potremo parlare di immagine lavorata.

Ma torniamo ora alla distinzione tra immagine-sequenza e sovrimmagine per citare degli esempi dalle opere studiate per questa ricerca. Col termine immagine-sequenza, mutuato dal

33

Il caso delle immagini che risultano dal trattamento, dall’applicazione di filtri su un’unica immagine di partenza può essere, a mio parere, considerato come il grado più basso della composizione; rientra comunque in pieno in quella stessa logica dell’antinaturalismo e della complessità, dell’assemblaggio individuata da Dubois con la categoria della “immagine come composizione”.

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cinematografico “piano-sequenza”, mi riferisco a quei passaggi in cui più immagini sono montate (in una successione lineare ancora, almeno sul piano visivo se non concettuale, vicina al cinema) in modo da rendere l’impressione di un’unica immagine che evolve nel tempo, con una sorta di effetto-morphing: si veda, a titolo di esempio, l’immagine I.1.1. di These are not my images, in cui, durante la scena iniziale dell’incontro (A), vediamo il palmo della mano dell’artista passare davanti all’obiettivo, quasi oscurandolo brevemente, per poi tornare a mostrarci il corpo dell’uomo che si accosta alla camera (A1): quel passaggio, lo scorrere della mano (B) viene in realtà mostrato due volte e le due occorrenze sono separate da un’altra immagine (C), quasi indistinguibile (si riconoscono delle canne e il corpo di un bambino). Questa breve immagine è collegata semplicemente da due dissolvenze incrociate a quella della mano, che la precede e la segue, e che segna, essa stessa una interferenza visiva rispetto alla scena dell’incontro; si crea quindi un andamento speculare (A-B-C-B1-A1). Se dunque gli strumenti, minimi, usati in questa immagine sono ancora quelli del cinema (un “intervento” in fase di ripresa e due dissolvenze incrociate) è la logica ad essere completamente diversa.

Quanto alla forma della sovrimmagine – anche qui il termine è di derivazione cinematografica, rimanda a “sovrimpressione” - possiamo soffermarci, sempre guardando alla parte iniziale di These are not my images, sull’immagine II.1.5.; qui il racconto, l’idea stessa del viaggio prendono forma in una densa stratificazione, non solo visiva ma anche sonora: le stratificazioni e le dissolvenze incrociate addensano una quantità di frammenti d’immagini diverse, intessuti in un disegno mutevole (i vagoni - bulloni, maniglie, scritte -, volti di uomini e donne, sospesi nel loro transito); e tutto questo denso, quasi tattile, montaggio va a crescere d’intensità crescendo, per accumulo, l’impressione che questi suoni e queste immagini erompano dallo schermo e ci vengano addosso, fino a trovare tregua in un lento scivolare nell’immagine successiva, quella dei due bambini che giocano, su cui la voce della protagonista, e dell’autrice, torna a raccontare: “These are not my images …”.

Ma, visto che dalle questioni inerenti l’inquadratura siamo andati impercettibilmente scivolando verso l’altro nodo teorico, quello del montaggio - ovvero, cosa ne è del montaggio cinematografico nelle opere video -, ecco che possiamo soffermarci ancora sugli sviluppi ulteriori del discorso di Dubois:

Si monta, volendo, ma uno sull’altro (sovrimpressione), l’uno a fianco dell’altro (finestra), uno nell’altro (incrostazione), o i tre procedimenti insieme, ma sempre all’interno dell’immagine-quadro. […] Ecco perché, all’idea troppo cinematografica del montaggio delle inquadrature, mi sembra che si possa opporre il concetto più videografico di mixage di immagini […].

D’altra parte questo tipo di concatenamento per mixage di immagini permette anche di far emergere delle logiche di raccordo che non sono i sempiterni raccordi cinematografici tipo: raccordo sulla congiungente degli sguardi, raccordo di movimento, di posizione, di dialogo, etc., tutti modi di concatenamento retti da una verosimiglianza dell’umanismo percettivo o per causalità delle continuità. I concatenamenti video esplorano dei modi di associazione più variati e più liberi, sovente polivalenti, sempre retti dal “lavoro delle immagini stesse”.34

Rispetto a queste conclusioni a cui giunge Dubois, che additano e lasciano aperti nuovi ambiti di ricerca, quello che di certo urge qui è una ulteriore precisazione di carattere terminologico: ho infatti evitato, per ragioni di più immediata comprensibilità, di sostituire il termine montaggio con, ad esempio, quello di mixage di immagini usato da Dubois stesso, dando però per acquisito il fatto che si tratta, nel caso di These are not my images, di un montaggio video, che può certo, in alcuni passaggi, ridursi alla forma di quello cinematografico – al suo aspetto esteriore, potremmo dire, pur non ricercandone più le regole e la grammatica – ma che poi, e per contrasto, arriva a mostrarsi nella qualità che gli è propria, con immagini prese le une nelle altre, nel cui flusso diviene difficile riconoscere delle unità distinte.

34

Figura

Tabella 1. Suddivisione in sequenze di Plus loin que la nuit - prima versione
Tabella 5. Disposizione delle due serie d’immagini eminenti in Plus loin que la nuit - seconda versione (questa  tabella deve essere raffrontata con la tabella 2)
Tabella 6. Distribuzione delle diverse serie di immagini nella sequenza I di 7 visions fugitives  Legenda colonna contenuto
Tabella 7. Prospetto sinottico della distribuzione delle diverse serie di immagini nella sequenza I di 7 visions  fugitives
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Riferimenti

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