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LAMERICA DI GIANNI AMELIO Ricerca dell'identità, attraverso il viaggio fisico e morale

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Academic year: 2021

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LAMERICA DI GIANNI AMELIO

 

Ricerca dell'identità, attraverso il viaggio fisico e morale

INTRODUZIONE

Nel cinema di Amelio Lamerica diventa una ricerca d’identità, attraverso il viaggio fisico e morale, il recupero di valori affidabili su cui costruire un futuro altrettanto degno.

1) La prima parte comprende l’arrivo di Fiore (Michele Placido) e Gino (Enrico Lo Verso) nell’Albania del 1991, e i loro tentativi di impiantare una finta fabbrica di scarpe tramite la società Albacalzature per intascare le sovvenzioni statali e lasciare ricadere la responsabilità su un “presidente” prestanome.

2) La seconda parte vede il viaggio di Gino alla ricerca di Spiro (Carmelo Di Mazzarelli), l’anziano prestanome che si è allontanato “per tornare a casa”, e il tentativo di riportarlo a Tirana.

3) L’ultima parte vede Gino ormai abbandonato da Fiore, con tutti i suoi beni persi ho sequestrati dalla polizia albanese (che ha scoperto il tentativo di truffa e corruzione), riuscire infine ad imbarcarsi con altri profughi e lo stesso Spiro/Michele alla volta dell’Italia.

Ma non c’è dubbio che alla fine il cuore vero del film è il rapporto tra Gino e Spiro, il rapporto tra il giovane imbroglione italiano, ma ormai cambiato profondamente proprio dall’esperienza fatta in Albania.

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La prima parte della tesi ha come principale protagonista Fiore, uomo avido e paternalista, che fin dal viaggio in jeep da Durazzo a Tirana impone la propria personalità, più attraverso il dialogo e la voce volgare e arrogante che attraverso l’immagine (la macchina da presa cerca, infatti di mantenere un certo equilibrio fra i due italiani). L’uomo rifiuta ogni contatto che non sia superficiale con la realtà albanese e la sua popolazione, e lo spettatore si trova spesso al suo fianco, portato a percepire il suo fastidio per lo spreco di forze e di terreno ma anche per l’apparente stupidità dell’intero popolo albanese; questo, infatti, viene considerato da Fiore un insieme di uomini che non sanno affrontare la vita – perché non sanno come arricchirsi – e pensano che l’Italia sia “il mondo”, ovvero presenti tutte le opportunità di felicità e ricchezza che la loro quotidianità non può offrire, come afferma il loro slogan fuori dal porto di Durazzo. Fiore però pensa di saper usare tanto bene l’oratoria da ingannare chi considera “bambini”, e le sue parole che rimbombano e vuote e il tono sicuro ricordano da vicino il commentatore del cinegiornale fascista che ha accompagnato i titoli di testa.

Il suo comportamento si conforma quindi all’atteggiamento coloniale più elementare, secondo il quale l’identità è legata all’appartenenza a un “popolo” ed è fissa e statica; e l’”altro” non può che essere “inferiore”, e

di conseguenza malleabile ma anche pericoloso perché “incivile”. La sua ignoranza, ma anche la vulnerabilità che ne deriva, è esposta nella

sequenza, ambientata in una vecchia prigione politica in cui sono andati a cercare il prestanome. Accompagnati da Selimi, Gino e Fiore seguono un uomo che sembra occuparsi della prigione, anche se i prigionieri sono ormai stati rilasciati. La fotografia scura (sui toni del nero, del grigio e del marrone) e i movimenti che segue i personaggi nelle camerate sudice ripresenta la sensazione di asfissia di Fiore, che non sopporta il contatto fisico con quegli uomini sporchi e segnati dalla fatica, che alla fine della

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sequenza lo circonderanno come volessero aggredirlo, senza che egli possa capire le loro richieste o farsi comprendere a sua volta. La breve scena è costruita come l’attacco degli zombie in un film dell’orrore, con tanto di mormorio incomprensibile sovrastato dalle urla di Fiore, e con la sua mano che si solleva a chiedere aiuto mentre viene sommerso dal gruppo di uomini. Costruita in modo tanto esplicito, ovviamente, la scena da un lato denuncia il pregiudizio di Fiore, che vede questi anziani resi “inutili” da anni di maltrattamenti come morti viventi, fisicamente attivi ma privi di emozioni umane; dall’altro, ne mostra la vulnerabilità nel momento in cui viene lasciato solo, ponendo lo spettatore al suo fianco, per fargli provare il suo stesso senso di orrore e di soffocamento.

Questo è l’unico momento in cui il dominio di Fiore è messo esplicitamente in discussione; ma proprio a partire da questa scena il film inizia a privilegiare visivamente il personaggio di Gino, fino a lasciarlo protagonista della seconda e soprattutto della terza parte. Fiore, infatti, è posto nella narrazione perché le sue dinamiche colonialiste con gli uomini che incontra possano essere messe in relazione con quelle di Gino. Il giovane ha preso il posto del padre nella società con Fiore, ma i due non sono mai alla pari. Evidentemente Fiore si ritiene il più esperto e capace, e considera Gino un subordinato, una sorta di apprendista a cui insegnare le verità della vita dell’uomo d’affari. Ed effettivamente Gino, nonostante sia aggressivo e arrogante a sua volta, non è adatto a svolgere il ruolo che ha ereditato. A differenza di suo padre, ha troppi scrupoli, sia morali che legali: da un lato convince Fiore a prendere il vecchio detenuto politico Spiro come presidente, perché, dice, “Che lo lasciamo qua?!”; dall’altro teme che arrivino dei controlli nell’edificio diroccato che Fiore ha scelto come fabbrica e che scoprano la truffa.

Ma soprattutto, Gino si mostra di quando in quando prudentemente curioso di conoscere qualcosa della realtà in cui lui e Fiore sono finiti.

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Diffidente, udiamo la sua voce per la prima volta quando chiede a Selimi chi sia a comandare in Albania in quel momento. In seguito, la sua prima mezza figura stretta ci viene mostrata all’ingresso del lussuoso albergo di Tirana che Selimi ha scelto per lui e Fiore; Gino si ferma stupito quando scopre che stanno trasmettendo una rete televisiva italiana, e nel controcampo ci viene mostrato un programma di intrattenimento pomeridiano, con ragazze in abiti succinti e sgargianti che cantano una canzone allegra e sdolcinata. Per tutto il film, sarà il giovane ad ascoltare alternativamente canzoni popolari albanesi e italiane, e ad essere talvolta accompagnato nel suo viaggio dall’audio o dalle immagini dei programmi televisivi italiani. In questo modo, Gino diviene il punto di contatto fra la cultura popolare italiana e il modo in cui viene affrontata dai personaggi albanesi, sottolineando con il proprio sguardo e la propria posizione le problematiche della rappresentazione univoca e statica di una qualunque “realtà”. L’aspetto più interessante del film si rivela quando Gino sarà costretto a viaggiare alla ricerca di Spiro, fuggito dall’istituto religioso che Fiore aveva scelto come suo alloggio. In poche sequenze, infatti, Gino scoprirà che Spiro è in realtà Michele Talarico, soldato e disertore siciliano convinto di avere vent’anni e che sia ancora in corso la seconda Guerra Mondiale. In un gioco di rispecchiamenti, le fantasie di Michele saranno vissute da Gino alla stessa stregua di quelle dei giovani albanesi in viaggio verso l’Italia che incontra lungo il suo cammino. Rifiuto, diffidenza, fastidio, ma anche compassione, dipendenza, umanità segneranno i suoi rapporti con tutti gli uomini rappresentati in questo film quasi esclusivamente maschile, con cui Gino è costretto a condividere l’intimità e la visibilità forzata della povertà. Per una serie di vicende, infatti, il giovane si troverà senza jeep, in una terra del tutto sconosciuta, con un anziano che teme che la milizia fascista lo arresti per diserzione, con cui deve tornare a Tirana perché firmi i documenti necessari per

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l’Albacalzature. La seconda e la terza parte del tesi, dunque, si configurano come un road movie in cui la paura e la rabbia hanno la meglio sull’avventura, ponendo lo spettatore al di fuori di ogni possibile esotismo nei confronti della ostile realtà albanese. La povertà degli uomini rappresentati viene esposta senza pietà, questo film non si limita a spiare i corpi dei poveri, a renderli oggetto dello sguardo di Gino o dello spettatore. Le ultime inquadrature, infatti, ambientate come abbiamo detto su un barcone carico di profughi in fuga verso l’Italia, propongono una serie di primi piani di uomini, donne e bambini che guardano direttamente in macchina, restituendoci lo sguardo. In questo modo lo spettatore non solo viene coinvolto umanamente nella loro vicenda, cosa a cui era stato preparato dal percorso di formazione che Gino compie nel suo viaggio, ma soprattutto viene fatto a sua volta oggetto di quello sguardo. Questi corpi di poveri, di profughi, di illusi non chiedono scusa per la loro esistenza, non cercano inutilmente di sottrarsi all’eccesso di visibilità cui sono costretti, ma interpellano direttamente lo spettatore, sfidandolo a giudicarli, chiedendogli di guardare oltre

BIOGRAFIA DI GIANNI AMELIO

Gianni Amelio, per l’anagrafe Giovanni, nasce a San Pietro Magisano il 20 gennaio 1944 da Giuseppe Amelio e da Audina Amelio. Ambedue i genitori del futuro regista, sposatisi giovanissimi (lui 17 anni lei 15), provengono da famiglie contadine. Il padre di Giuseppe era emigrato in Argentina e non aveva più dato notizie di sé abbandonando la famiglia al suo destino; Audina, orfana di padre, è figlia di Carmela Scorza, classe

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1904, la mitica nonna di cui, in questi ultimi anni, parla spesso Amelio nelle sue interviste, e che ha ispirato alcuni personaggi dei suoi film. San Pietro Magisano è un piccolo paese, un centinaio di abitanti, della provincia di Catanzaro che sorge ai piedi della Sila Piccola, a una ventina di chilometri dal capoluogo. Un paese che, nel dopoguerra, e per molti decenni successivi, è composto prevalentemente da contadini che quando riescono vanno a lavorare come bracciantati nei pochi latifondi presenti nella zona o, visto il notevole spezzettamento della proprietà, basano la loro sussistenza sulla coltivazione diretta di piccoli pezzi di terra appena sufficienti al sostentamento di un nucleo familiare. In questa situazione di miseria, tipico del resto, all’epoca, della maggior parte del territorio calabrese, l’emigrazione si presentava come l’unica soluzione possibile per migliorare la propria condizione economica ed esistenziale.

Il padre di Amelio nel ’46, quando non ha ancora ventuno anni, spinto dalla mancanza di lavoro e dal desiderio di andare in cerca di suo padre, che era partito quindici anni prima, lascia la moglie, il figlio e una figlia, più piccola di Giovanni e che morirà all’età di due anni e mezzo, ed emigra in Argentina da cui farà ritorno solo dopo quattordici anni.

Amelio resta con la madre, che faceva la sarta; una zia, Edda, che era maestra; la nonna materna la quale, con il suo lavoro di infermiera presso l’Ospedale Civile di Catanzaro, dava un grosso contributo a mantenere tutta la famiglia. Questa lontananza-assenza del padre è un evento che segnerà profondamente, come spesso lo stesso regista ha ricordato, sia la sua vita sia il suo cinema.

Amelio, che amichevolmente per tutto il periodo vissuto in Calabria veniva chiamato Nino, frequenta le scuole elementari a San Pietro Magisano e, nel 1954, la prima Media a Taverna, un grosso paese del circondario. Nel ’55 si trasferisce a Catanzaro, dove vive con la nonna Carmela e termina la scuola media presso un istituto cittadino. Già in

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questi anni esplode la passione per il cinema. Inizialmente accompagnato dalla nonna, poi da solo, diventa un assiduo frequentatore delle tre maggiori sale cinematografiche della città: Il Politeama «Italia», il Comunale e il Masciari. Inizia anche a leggere tutto ciò che riesce a procurarsi e che ha a che fare con la «settima arte» (libri, riviste di critica, cineromanzi ecc.). Dal ’55 al ’59, su dei quaderni, tiene l’elenco di tutti i film che vede, e per ognuno di essi scrive una piccola scheda tecnica e dà una valutazione espressa, come ricorda lo stesso regista, con un voto da uno a dieci. Risale a questo periodo l’incontro con «Cinema Nuovo», la storica rivista di critica cinematografica diretta da Guido Aristarco. Amelio era destinato a fare il maestro, come la zia Edda, ma, all’ultimo momento, e senza dire niente ai suoi, invece di iscriversi all’Istituto Magistrale si iscrive, nel 1957, al Liceo-ginnasio «P. Galluppi», la scuola catanzarese riservata per lo più ai figli della buona borghesia cittadina e ai rampolli delle famiglie più in vista. Questi sono anni decisivi per Amelio, dal punto di vista della sua formazione umana e intellettuale. Approfondisce il suo amore per il cinema, non solo da spettatore ma anche come «critico», stringe amicizie destinate a durare fino ad oggi. Si delineano quelli che saranno i suoi due amori cinematografici, da un lato il cinema hollywoodiano dall’altro quello d’«autore» sia italiano che francese; basta ricordare Antonioni, Bresson, Fellini, Visconti, Hitchcock, Ford. Amelio conserva nella memoria questo periodo in modo contraddittorio, un periodo non del tutto felice, ma anche fondamentale per la sua formazione umana ed intellettuale. Della frequenza al liceo Amelio ricorda soprattutto due professori quello di Filosofia, Giovanni Mastroianni e quello di greco, Francesco Procopio, riservando al primo un ruolo importante nella sua formazione. Agli inizi degli anni ’60 il padre ritorna dall’Argentina, e nasce un secondo fratello, Erminio, di diciassette anni più giovane di lui. Nel 1961 scrive la sua prima

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recensione, dedicata al film di Renato Castellani Il brigante, su «il Sentiero», il giornale degli studenti del Liceo Classico «Galluppi». Sullo stesso foglio catanzarese compariranno altre quattro recensioni nel 1963. Nel 1962 si iscrive alla facoltà di Filosofia di Messina. Continua a vivere a Catanzaro e si reca nella città siciliana solo per dare gli esami. Fino all’ottobre del ’64 sostiene regolarmente gli esami (ne supera sei e tutti con ottimi voti), poi, prima di abbandonare definitivamente gli studi universitari, nel ’68, sostiene solo altri tre esami. In questo periodo insegna come supplente in alcune scuole della provincia calabrese e dà anche lezioni private. Partecipa all’esperienza del Circolo culturale «Piero Gobetti», una associazione in cui confluivano giovani che con diverse motivazioni avevano deciso di intervenire sui problemi politici e culturali della città. Amelio è spesso presente ai dibattiti organizzati dal gruppo e diventa ben presto l’animatore di un cineclub collegato al Circolo. Intorno al «Piero Gobetti» nasce, ben presto, la rivista mensile «il manifesto», su cui Amelio, nel ’64 pubblica l’articolo Epica d’intrattenimento e impegni solitari. Antifascismo e Resistenza dell’ultimo cinema italiano. Negli stessi anni frequenta, a Catania, il gruppo di giovani intellettuali che ruotano intorno alla rivista «giovane critica» (organo del Centro Universitario Cinematografico di Catania). Diventa collaboratore della rivista, e sul finire del ’64 pubblica una recensione di un libro dedicato al cinema di Michelangelo Antonioni. In questo periodo, esattamente nel 1963, realizza, insieme ad alcuni suoi ex compagni di liceo tre brevi cortometraggi in Super8: Luci d’estate, Risacca e Il viadotto. Nel ’65 il grande salto: durante le vacanze di Pasqua, senza dire niente ai suoi, si reca a Roma. Leggendo un articolo su «l’Unità» viene a sapere che Vittorio De Seta è in procinto a girare il film Un uomo a metà. Ben presto riesce a convincere il regista a farlo lavorare nella troupe, in qualità di assistente alla regia e segretario di edizione.

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Da questo momento in poi lavora come aiuto accanto a vari registi: Gianni Puccini, Anna Gobbi, Andrea Frezza, Ugo Gregoretti e Liliana Cavani. Attraversa così, i diversi itinerari percorsi, in quegli anni, dal cinema italiano: dai film d’autore agli «spaghetti western», alla pubblicità. In questo periodo, Amelio, per mantenersi, attraversa molti dei mestieri del cinema, fa anche il «negro», scrive soggetti e sceneggiature sotto falso nome o per conti di altri, cosa che continuerà a fare anche in anni successivi, anche dopo che, avendo deciso di non far più l’aiuto regista, esordisce nella regia. Sono gli anni della gavetta, in cui egli, caso abbastanza raro fra gli autori italiani, si forma sul campo, impara quelle che sono le tecniche e le regole della produzione cinematografica direttamente sul set e nel variegato mondo del sottobosco cinematografico. Nel 1967 realizza due servizi per la rubrica settimanale della RAI «Sprint»: Undici immigrati, in cui intervista i calciatori della squadra di calcio del Catanzaro, che crea molte polemiche nell’ambiente politico della città, e Il campione, un servizio che riguarda l'incontro di pugilato tra Nino Benvenuti e Emil Griffith che si scontrano, il 17 aprile 1967, sul ring del Madison Square Garden di New York. Il ’67 è anche l’anno della morte della madre che, come ricorda il regista, si spegne, a trentotto anni, dopo una breve degenza alle Molinette di Torino, in cui era stata ricoverata per subire un intervento che, all’epoca, era impossibile fare a Catanzaro. Il padre di si risposa, quasi subito, con una ragazza, Anna, quasi coetanea del regista, e da questo matrimonio nscono, in seguito, altri due figli, Franco e Marco. Giuseppe Amelio, ritornato in Calabria, svolge, come ricorda lo stesso regista, dei lavori precari, il principale dei quali è quello di autista di piazza, ha il noleggio pubblico e fa la spola tra il paese e Catanzaro, prima con una vecchia 1100 con il muso lungo, poi con una 600 multipla. Il film d’esordio è del 1970: La fine del gioco, prodotto nell’ambito dei programmi sperimentali della

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RAI. Realizzato in solo cinque giorni; costato 4 milioni di lire; ambientato, e girato, in parte, a Catanzaro, ma soprattutto in treno, mette in scena quello che sarà uno dei temi ricorrenti in tutto il suo cinema successivo: il confronto tra due caratteri, esemplificato attraverso l’incontro-scontro tra un adulto e un bambino/adolescente.

Anche i suoi film seguenti nascono come produzioni televisive. Nel ’73 gira La Città del Sole, ispirato all’opera del filosofo Tommaso Campanella, progetto che Amelio aveva maturato nel periodo universitario. Il film è presentato alla Quinzaine des Realisateurs del festival di Cannes. Tra il 1973 e il 1979 scrive parecchie sceneggiature che propone sempre alla Rai, ma che non diventeranno mai dei film: Politeama, il racconto della storia di una città vista dall’interno di una sala cinematografica; L’Orsa Maggiore, trent’anni di storia italiana raccontati seguendo gli spostamenti di una compagnia di attori girovaghi, ispirata a quella di Otello Sarzi che ebbe un ruolo nella tragico episodio della Resistenza legato alla vicenda dei fratelli Cervi, e che Amelio conobbe durante le riprese di I sette fratelli Cervi di Puccini; Il ladro di bambini, scritta insieme a Mimmo Rafele ed Enzo Ungari e che non ha niente a che vedere con l’omonimo film del ’92, il cui protagonista principale doveva essere Jerry Lewis; insieme ad Ungari, Il diavolo sulle colline, tratto dal romanzo di Cesare Pavese, ed infine Anonimo compagno; insieme a Mark Peploe e Jon Halliday un copione ispirato a Reparto numero 6 di Čechov, che era attualizzato ed ambientato nell’ospedale di Catanzaro.

Segue Bertolucci secondo il cinema del ’76, sulla lavorazione del film Novecento, documentario «rubato» sul set dell’opera di Bernardo Bertolucci.10 Nel ’78 con La morte al lavoro ed Effetti speciali rivisita il genere giallo, utilizzando la tecnica elettronica e le musiche di Bernard Herrmann. La morte al lavoro, liberamente ispirato ad un racconto di

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Hanns H. Ewers, viene premiato ai festival di Locarno e di Hyères. Ancora in ambito televisivo gira nel ’79 Il piccolo Archimede, tratto dal omonimo racconto di Aldous Huxley e ambientato nella Firenze degli anni ’30.11 Dello stesso anno è anche In cammino, un adattamento televisivo tratto da quattro racconti di Anton P. Čechov, della durata di un’ora circa. Ad Amelio non piace parlare di questo suo lavoro ed è, forse per questo che esso è assente da tutte le filmografie del regista fin qui pubblicate. Eppure in esso sono contenute, fin dal titolo, molti temi presenti in tutta la sua opera. Nello stesso periodo, collabora alla sceneggiatura di Hedda Gabler, un film di Maurizio Ponzi, tratto dall’omonima opera di Ibsen e scrive, con Vincenzo Cerami, Fratelli, una storia che non diventerà, però, mai un film.

L’opera successiva, Colpire al cuore del 1982, segna l’esordio di Gianni Amelio nel circuito cinematografico. L’opera fa discutere a lungo, opinioni e riflessioni hanno ampio spazio sulla carta stampata, soprattutto per quello che appare, ai più, il tema centrale del film: il terrorismo. In realtà, ad Amelio interessa analizzare i rapporti generazionali, la dialettica e l’inevitabile senso di sconfitta generati accostando l’infanzia e l’adolescenza all’età adulta, e più in generale il confronto fra «caratteri»; temi questi sempre presenti nella sua opera. Il film è presentato al Festival di Venezia del 1982, ed è premiato con il Nastro d’Argento per il miglior soggetto e col Premio Ischia per il migliore film italiano del 1982. Nel 1983 Amelio dirigere un altro film per la televisione: I velieri, tratto dal omonimo racconto di Anna Banti. È ancora un’opera sui rapporti fra genitori e figli, con al centro della vicenda lo scontro tra i sogni di libertà di un bambino di dodici anni e l’oppressivisì della madre malata di nervi. Il 1982, come ricorda lo stesso regista, è anche l’anno della morte del padre, che si spegne all’età di 59 anni.

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Dal 1983 all’87, Amelio insegna regia presso il Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma.Tra il 1984 e il 1985 realizza una serie di cortometraggi televisivi per la rubrica della RAI «3 Sette» (poi raccolti insieme con il titolo La cinepresa di Gianni Amelio e trasmessi nell’85 da RAI Tre). Nel 1988 ritorna al lungometraggio con I ragazzi di via Panisperna. L’attività del gruppo di fisici italiani, raccolti intorno alla figura di Fermi, e il mistero del caso Majorana diventano, ancora una volta, il pretesto per approfondire il confronto fra due caratteri, qui rappresentati dai personaggi di Enrico e di Ettore. Il film viene montato in due versioni: una televisiva di tre ore e una cinematografica più corta. Nel 1990, Amelio gira Porte aperte, tratto dall’omonimo libro di Leonardo Sciascia. La vicenda del giudice che nella Sicilia del ventennio fascista combatte la sua personale battaglia contro la pena di morte segna un grande successo del regista. Il film, interpretato da Gian Maria Volonté e da Ennio Fantastichini, è candidato al premio Oscar come miglior film straniero per il 1991, viene premiato con l’Oscar Europeo (Felix), riceve 4 David di Donatello, 2 Nastri d’Argento, 3 Globi d’Oro, la Grolla d’oro a Saint-Vincent e 2 Ciak d’Oro.

Nel 1992 realizza Il ladro di bambini, il film che, ad oggi, è quello che ha avuto, a livello internazionale, il maggior successo di critica e di pubblico. Esso racconta, attraverso un viaggio da Nord a Sud di due bambini (Luciano e Rosetta) e di un giovane carabiniere (Antonio) che li deve «tradurre» in un orfanotrofio, un certo degrado culturale dell’Italia degli anni Novanta. Degrado frutto dell’emigrazione, della disintegrazione di alcuni valori che costituivano la base della società contadina e che vedevano nella famiglia un punto fermo e sacro. Esso racconta come dalle ceneri della famiglia tradizionale, in modo utopistico, si forma un altro e diverso nucleo familiare (in definitiva un altro tipo di rapporto tra gli esseri umani che vivono in una determinata

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società) che però, proprio perché utopistico è condannato ad essere sopraffatto dalle regole della realtà e a sopravvivere solo come desiderio, come consolazione provvisoria. Presentato al Festival di Cannes nel maggio del 1992 il film ottiene il Gran Premio Speciale della Giuria. Vince inoltre 6 David di Donatello (tra i quali per il miglior film dell’anno e la migliore regia) e 2 Globi d’Oro.

Il 1994 è l’anno di Lamerica, un film che raccontando una storia ambientata nell’Albania post- comunista e la vicenda degli emigranti albanesi che sognano di vivere in Italia di oggi, parla della situazione italiana del dopoguerra. Esso si presenta come un grande affresco storico del nostro mondo contemporaneo colto nelle sue molteplici contraddizioni. Il film riceve numerosi riconoscimenti: l’Osella d’oro al festival di Venezia; il Premio Felix (miglior film europeo); il Premio Goya 1996; la candidatura al premio Oscar per il miglior film straniero 1995. Durante la realizzazione di Lamerica, conosce in Albania un ragazzo, Luan Ujkaj, che lavora come comparsa nel film. Il regista gli si affeziona talmente tanto che lo porta con sé a Roma e presto lo adotta, dandogli così anche il suo cognome, e lo avvia verso la professione di operatore cinematografico. Luan, che sarà presente, da questo momento in poi, nella troupe di tutti i film del regista, intanto si sposa ed attualmente ha tre figlie.

Nel 1995 cura, presso il Teatro Carlo Felice di Genova, la regia di due opere liriche, Il tabarro di Puccini e Pagliacci di Leoncavallo.

Nel 1996 realizza un documentario, Non è finita la pace, cioè la guerra, in cui alcuni bambini e ragazzi di Sarajevo raccontano la loro vita quotidiana durante i quattro anni di guerra dell’ex Jugoslavia. Prodotto dalla RAIUNO con il patrocinio dell’UNICEF. Contemporaneamente realizza, per Radio Tre Rai, Storie alla radio, venti racconti a sfondo autobiografico narrati dallo steso Amelio. Nello stesso anno l’Università

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degli Studi di Arcavacata (CS) gli conferisce la Laurea honoris causa in Discipline delle Arti Musica e Spettacolo. Nel 1997, sempre per Radio Tre, adatta e dirige, per la serie «Teatri alla radio», Anna Christie di Eugene O’Neill. Frattanto, Amelio lavora intorno ad un soggetto che si presenta come una specie di sequel di Colpire al cuore, ed inizia a lavorare al trattamento con Vincenzo Cerami. Il progetto, però, si arena anche perché Cerami ha altri impegni cui non può rinunciare. Dopo un periodo di infruttuosi abbozzi di altri progetti, come racconta lo stesso regista, all’improvviso mette da parte tutto ciò a cui stava lavorando e scrive il soggetto di quello che sarà la sua opera successiva: Così ridevano. Il film, che esce nel 1998, consacrerà Amelio quale vincitore del Leone d’oro al Festival di Venezia. La pellicola, ambientata negli anni compresi tra il ’58 e il ’64, racconta le vicende di due fratelli siciliani emigrati a Torino. Sullo sfondo degli anni del boom e della massiccia emigrazione interna di quegli anni che vede il definitivo tramonto dell’economia e della cultura contadina, Amelio racconta la storia di una magnifica ossessione: «Un emigrato siciliano analfabeta, [Giovanni], ha portato a Torino il fratello minore adolescente, [Pietro]. Vuole che studi, che prenda il diploma di maestro, che viva con i libri in un ambiente adatto ai libri, tra gente che parla italiano: il suo sogno è la cultura, il sapere che ti cambia e ti fa progredire. Ma il ragazzo è quasi costituzionalmente inadatto al banco di scuola e alla vita da studente, vorrebbe lavorare, stare con altri siciliani. Il fratello maggiore fa tutti i lavori possibili per guadagnare e per mantenere agli studi il minore senza accorgersi che i confini di questa impresa gli si confondono, che perde il senso dei limiti del sacrificio e della legalità. Le cose non vanno come nei desideri: nel corso del tempo i due fratelli cambiano, e al termine dei sei anni si ritrovano in un’Italia pure cambiata, dove il sogno del progredire attraverso la cultura s’è perduto». Nonostante il film non abbia un grande

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successo di botteghino, i produttori Vittorio e Cecchi Gori offrono ad Amelio un contratto per tre film. Amelio si mette subito al lavoro, e realizza cinque sceneggiature che non diventeranno mai dei film: Cent’anni, su una maestrina napoletana che, dopo la Grande guerra, insegna in una scuola serale in Calabria per distribuire velocemente licenze elementari ai potenziali elettori di un politico locale; Il paradiso all’ombra delle spade, storia di un agronomo inviato in Libia ai tempi della colonizzazione e il suo ritorno in Italia negli anni ’70; Il banchiere dei poveri, tratto dal libro di Muhammad Yunus riguardante l’esperienza del suo istituto di microcredito sorto in Bangladesh e, in seguito, adottato in moltissimi Paesi del mondo; La lista nera, scritta insieme a Rulli e Petraglia e tratto dal romanzo postumo di Friedrich Dürrenmatt, che racconta la storia delle ultime indagini di un commissario che sta per andare in pensione. Per quest’ultimo, che in seguito prenderà il titolo di Numeri, Amelio, volendolo realizzare ai confini tra l’America e il Messico, si reca a fare dei sopralluoghi nella zona compresa tra Venice e San Diego. Nell’intenzione del regista esso doveva raccontare i rapporti tra il mondo americano e quello italiano. Questi progetti non saranno mai realizzati perché proprio questo è il periodo in cui la casa di produzione Cecchi Gori entra in uno stato di crisi irreversibile che la porterà al fallimento. Amelio, come altri registi, chiede che il contratto che ha firmato con la società sia sciolto, ma tale richiesta gli viene rifiutata, e così, prima di tornare a realizzare un film per il grande schermo dovrà attendere circa sei anni. Dal mese di giugno del ’99 inizia una collaborazione con la rivista «Film Tv», diretta da Emanuela Martini, che si protrarrà fino alla fine del 2007 (dal n. 26 del 27 giugno 1999, al n. 52 del 31 dicembre 2007). Ogni settimana, nella rubrica «Collezione grande schermo», è pubblicato un breve scritto di Amelio (della lunghezza di una pagina) che ha come pretesto un film, di cui, sulla rivista, è riprodotta,

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nelle due pagine centrali, la locandina. Tali film, per lo più, appartenenti agli anni della formazione del regista, sono strettamente legati al suo mondo poetico e alla sua concezione del cinema. Alla fine del ’99, realizza, per Radio Tre RAI, Quaderni e colori. Racconti di bambini di alcune scuole elementari di Roma, che è trasmesso il 1° gennaio, all’interno della trasmissione radiofonica «Il mondo salvato dai bambini: 24 ore per interrogare il futuro». Tra il 1999 e il 2000, vedono la luce una serie di documentari. Poveri noi (1999) utilizzando materiali degli archivi RAI, immagini dal vero, interviste, cronache tratte da programmi della nascente televisione, racconta l’Italia tra la fine degli anni ‘50 e i primi anni ‘60, gli stessi in cui è ambientato Così ridevano. Uno schermo sull’acqua (2000) realizzato su commissione del Comune di Reggio Calabria, racconta la città calabrese dello Stretto attraverso la voce dei suoi abitanti. L’onore delle armi (2000) costruito anche esso con i materiali degli archivi RAI, si concentra sulle atrocità di chi fabbrica armi, insegna ad usarle e, in fine le usa; parla del servizio militare in Italia, dal dopoguerra fino a oggi, dell’obiezione di coscienza, le inquietudini dei ragazzi in divisa; e si chiede, tra le altre cose, cosa sta cambiando nelle regole che impone la difesa dal «nemico», e quali misteri e speculazioni stanno dietro agli strumenti della morte. La terra è fatta così (2000) è commissionato da Legambiente per ricordare, a vent’anni di distanza, il terremoto che devastò Irpinia. Esso è realizzato sia utilizzando materiale di repertorio, sia riprese girate da Amelio oggi sui luoghi del terremoto. Il filmato, partendo dall’oggi e dai problemi solo in parte risolti, cerca di indagare sia sul passato terrore sia sulla «ricostruzione» del dopo il terremoto per cercare di capire cosa sia stato realmente fatto per ridare dignità non solo alle abitazioni ma anche alla vita degli individui. Nel gennaio del 2003 va in onda, sul terzo programma della Radio Rai, un adattamento radiofonico del testo teatrale

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Billy il bugiardo di Keith Waterhouse e Willis Hall di cui Amelio ha curato l’adattamento e la regia. Il protagonista è interpretato da Kim Rossi Stuart che sarà l’attore principale della sua prossima opera: Le chiavi di casa, che è già in preparazione. Il film, liberamente tratto dal romanzo Nati due volte di Giuseppe Pontiggia esce l’anno successivo ed è presentato al Festival di Venezia. La pellicola, racconta, ancora una volta, la storia del rapporto tra un padre, Gianni, e suo figlio, Paolo, un quindicenne che, fin dalla nascita, ha gravi problemi di disabilità. Durante il parto era morta la giovane moglie e da allora ha rifiutato di vedere il figlio. Dopo quindici anni, Gianni fa ritorno per accompagnare Paolo a Berlino, dove il ragazzo si sottopone periodicamente alle terapie di un centro specializzato. Il viaggio e la permanenza, prima in Germania e poi in Norvegia, dove si recano sulle tracce della «fidanzatina» di Paolo, costituiscono per i due l’occasione, pur tra tante difficoltà, per tentare di conoscersi e comprendersi. In definitiva, come lo stesso Amelio afferma, è «un film d’amore. Sulla capacità di volersi bene. L’handicap è quello di chi ha l’uso di braccia gambe e testa ma non sa amare». Nello stesso anno pubblica, per la casa editrice Enaudi, il libro Il vizio del cinema, in cui sono raccolti una parte degli scritti «critici-autobiografici» apparsi sulla rivista «Film Tv».

Del 2006 è La stella che non c’è, film che si ispira ancora ad un romanzo, quello di Ermanno Rea, intitolato La dismissione. Girato quasi tutto in Cina, il film, attraverso la storia di Vincenzo Buonavolontà, un operaio specializzato, che intraprende, a proprie spese, un viaggio attraverso la Cina per sostituire una centralina difettosa di un altoforno che è stato acquistato dai cinesi, affronta i temi essenziali della nostra epoca. Una Cina, entrata di prepotenza tra le superpotenze del nostro tempo, ricca e invadente in cui è forte il dislivello tra ricchi e poveri, tra zone super industrializzate e zone agricole arretrate, e in cui sono stati quasi del tutto

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cancellati i sentimenti e i diritti umani. Il mondo diviso tra miseria e consumismo. La mescolanza, non più evitabile, di culture e identità diverse. L’occidente che esporta all’oriente il suo modello e i suoi guasti. La fine di quel «lavoro ben fatto» che ha rappresentato l’orgoglio, universale operaio; finito perché, oramai, la quantità sconfigge la qualità. Il film oltre ad essere un viaggio «geografico e sociale» è, soprattutto, un percorso interiore: Buona volontà viaggiando nei territori immensi della Cina, viaggia anche alla scoperta di sé, nel tentativo a trovare risposte che riguardano l’esito della propria vita. Un’opera, per molti versi, pessimista, ma in cui si racconta anche, forse per la prima volta in Amelio, dell’amore che vince tutto, del «vero» amore, di «un amore che non uccide». Il regista accetta di realizzare un film tratto dal libro Senza Patricio, di Walter Veltroni, una raccolta di cinque racconti incentrati sullo stesso personaggio e ambientato in Argentina. A settembre, Amelio dichiara che la sceneggiatura è già pronta, che esso sarà girato in Argentina e che racconterò la storia d’amore tra una ragazza di 18 anni e un uomo di 40. Il film, però, ad oggi, non è stato ancora realizzato.

Nel dicembre del 2008, è nominato direttore del Torino Film Festival, e la prima edizione del festival, sotto la sua guida è quella svoltasi nel novembre del 2009. Il regista annunciando quelle che saranno le linee guida della sua direzione dichiara, tra l’altro che il «festival sarà povero ma bello, più popolare e meno radicale, nel tentativo di allargare la comunità dei cinefili che lo seguono. Una manifestazione senza divi e passerelle e con un unico scopo: mettere i film al centro di tutto».

Nel giugno del 2009, Amelio si reca in Algeria per i sopralluoghi del suo nuovo film, Il primo uomo, tratto dall’omonimo romanzo incompiuto e postumo di Albert Camus. Tra i rottami dell’auto sulla quale Camus trovò la morte, il 4 gennaio del 1960, fu trovato un manoscritto con correzioni, varianti e cancellature: la stesura originaria e incompiuta di Il primo

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uomo (titolo originale: Le premier homme), sulla quale la figlia Catherine, dopo un meticoloso lavoro filologico, ricostruì il testo e lo pubblicò, nel 1994, presso l’editore Gallimard. Stando alle dichiarazioni dello stesso regista, il primo progetto per realizzare il film, risale addirittura, a subito dopo la pubblicazione del libro quando, nel 1995, glielo aveva proposto Bruno Pesery, quello che poi produrrà effettivamente il film, (ad oggi, Pesery ha già coprodotto tre film di Amelio: Il ladro di bambini, Lamerica e Le chiavi di casa). Il progetto, però, si arenò quasi subito, perché la figlia di Camus non volle cederne i diritti. Finalmente, nel 2003, il produttore, dopo essere riuscito a comprare i diritti, ripropone l’idea ad Amelio che accetta ed inizia a scrivere la prima stesura della sceneggiatura nel dicembre 2006. Le riprese erano previste per metà luglio dello stesso anno, ma sono

rimandate al 2010 (e dureranno un po’ più̀ di nove settimane) a causa, sembra sia del suo impegno al Festival di Torino sia a difficoltà produttive.

Nel 2010, pubblica, sempre per i tipi Enaudi, Un film che si chiama desiderio (una sorta di continuazione del precedente Il vizio del cinema), in cui sono raccolti altri suoi scritti apparsi sulla rivista «Film Tv». Nel febbraio del 2012, al Teatro San Carlo di Napoli, va in scena, per la regia di Amelio, la Lucia di Lammermoor, di Donizetti.

Finalmente nell’aprile del 2012, dopo varie e alcune volte spiacevoli vicissitudini produttive, di esclusioni dai grandi Festival cinematografici e di ritardi sul piano della distribuzione, esce Il primo uomo, in cui il regista affronta, per la prima volta in modo abbastanza esplicito e diretto, la sua autobiografia, («impastandola» con quella di Camus), che sempre ha sotteso tutti i suoi film. Nonostante, però, i numerosi innesti che Amelio trae dalla propria vita, la trama è abbastanza fedele al romanzo e ci racconta il ritorno, nel 1957, dello scrittore Jean Cormery (alter ego di

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Camus) nella sua patria d’origine, l’Algeria, che ormai da tre anni si trova immersa in una vera e propria guerra civile tra l’esercito francese e gli indipendentisti algerini. Durante il suo soggiorno ad Algeri, Comery, in alcune occasioni sia pubbliche sia private, sostiene la sua idea di un paese in cui francesi e musulmani possano convivere in pace. Lo scrittore approfitta del viaggio per ritrovare sua madre e rivivere parte della propria vita, concentrate essenzialmente in due periodi: il 1913 (anno della sua nascita) e, soprattutto, il 1924. Proteso verso la ricerca del padre, morto durante la Prima Guerra Mondiale (un anno dopo la sua nascita), e delle sue radici, rivive parte della sua fanciullezza costellata da vicende dolorose di un bambino la cui famiglia poverissima è retta da una nonna spesso arcigna e dispotica. Gli anni ‘20 sono, però, per il piccolo Jean anche il momento della formazione, delle scelte più difficili, come quella di voler continuare a studiare nonostante tutte le difficoltà, in cui gioca un ruolo fondamentale, l’insegnante Bernard, il suo maestro della scuola elementare. In definitiva il film si presenta come la ricerca interiore della figura di un uomo ideale, quel «primo uomo» che forse potrebbe essere in ciascuno di noi.

   

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Da ladro di bambini a Così rideva la trilogia.1

Assieme al Ladro di Bambini e a Lamerica, Così ridevano.

(Leone d’oro a Venezia 1998 ) completa una ideale trilogia : anche qui la storia di esistenze povera , il rapporto in lavoro accurato tra adulti e adolescenti, qui in un arco di tempo tra il 1958 e il 1964 a Torino . Anche qui la Storia, lo scorrere del tempo, raccontata attraverso le passioni, le inquietudini e le contraddizioni di due esseri umani. L’amore fraterno non era stato mai rappresentato al cinema in modi così accesi e profondi, nella cornice del cosiddetto “familismo amorale” alimentato tra le genti del Sud italiano. In questa storia si rispecchiano gli anni cruciali della grande immigrazione al Nord di tanti meridionali, in una enorme rivoluzione che trasformava la società italiana e le sue culture da contadine a urbane , con una violenza di mutamento sociale che feriva soprattutto le esistenza . Se ne Lamerica si cercava di togliere il più possibile colore

( la luce , anche nel giorno, era soprattutto livida ) in un film fotograficamente poco contrastato, in Così ridevano i neri sono profondissimi e i rossi color del sangue : la straordinaria fotografia di Luca Bigazzi in super35 rende un effetto sgranato , in rapporti di luce molto accentuati . In una Torino ripresa come una città dal fascino misterioso e senza confini. Si vede la grande capacità di Amelio di raccontare una storia con linguaggio cinematografico elegante e nello stesso tempo appassionato , in una continua ricerca del mezzo espressivo più adeguato a rendere un’atmosfera , uno stato d’animo , ma senza cercare ruffianerie , a costo di risultare arduo. In Così ridevano, per rendere la durezza e la fisicità propria dell’ambiente sociale e culturale in                                                                                                                

1  Sergio  Gatti  .  Lamerica  di  Gianni  Amelio,  stori  e  critica  del  cinema  .  Morpheo,  

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cui effettivamente i due fratelli vivono, c’è l’uso del dialetto strettissimo, a volte di difficile comprensione.

E’ un film inquietante, di grande intensità, che emoziona e nello stesso tempo lascia tracce profonde di riflessione. E’ un film molto più spietato dei due precedenti di questa trilogia.

Nel Ladro di bambini per esempio alla fine si lasciava intravedere una qualche conciliazione nel rapporto tra i fratelli, con la bambina che copre con la giacchetta le spalle del fratellino che ha freddo e che accetta senza più scontrosità questo contatto affettuoso . Ne Lamerica Gino vive un’odissea e viene spogliato poco a poco del suo essere occidentale rampante e consumistico fino ad albanesizzarsi. Dallo sguardo sempre più assorto e angosciato sembra capire profondamente il cambiamento che lo attraversa e quando il vecchio sulla nave poggia la testa sulla sua spalla lui non si sposta, accetta quest’uomo che dorme e forse che muore, come una specie di Enea che si porta sulle spalle il padre Anchise dopo la caduta della sua civiltà. In Così ridevano Lo Verso/ Giovanni è uno che è diventato un altro e non se ne rende conto. Addirittura è uno che condanna al carcere la persona che più ama e vuol continuare a credere di farle ancora del bene. Perde il treno per accompagnare il fratello perché è andato a prendergli una gazzosa “ per fargli ancora del bene” e rimane con questa gazzosa in mano prigioniero del suo “familismo amorale” e della mancata coscienza della sua integrazione negativa di ex proletario che ha perso ogni radice, mentre il fratello con lo sguardo perso e disperato, deve sorbirsi dall’educatore/accompagnatore sul treno che lo riporta al carcere.

L’identità dei personaggi principali nella trilogia sull’emigrazione è rappresentata in un innesto di tessere complementari; Gino perde il passaporto quindi l’identità italiana che prima aveva messo in mostra sfoggiando i vestiti, la macchina e i soldi. Ironicamente nel momento

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stesso in cui ufficialmente dichiara al poliziotto albanese il suo nome e cognome, è sottratto all’identità che prima aveva, diventando uno dei tanti che vuole andare in Italia. Antonio, il carabiniere, è costretto a perdere il ruolo sociale che aveva come carabiniere sotto l’accusa infamante di aver rapito i bambini. Non potrà più rimettersi la divisa, ha perso l’identità datagli dal tesserino, ma ha acquistato una nuova identità umana vicina alla meridionalità ameliana. Sulla nave gli Albanesi sono calmi, difatti per la prima volta nel film non li vediamo agitati. Assieme a Gino e Spiro/Michele, sulla nave formano una grande famiglia di emarginati. I primissimi piani, sembrano fototessere che mostrano i protagonisti del domani, i loro volti interpellano gli spettatori e esprimono il desiderio di un altro futuro. Gino ha perso l’identità di cui si era forgiato, ed è costretto ad andare in Italia da clandestino. Il suo volto sulla nave ci trasmette il senso tragico del film che è iniziatico per lui e per noi spettatori. L’italianizzazione degli Albanesi iniziata dal fascismo e continuata dai programma televisivi e ripetuta nel film attraverso le canzoni: Michele vuole che cantino Rosamunda, un ritorno a cinquanta anni fa, ma loro invece cantano Sono un italiano imparata dalla televisione.

In Così ridevano su uno schermo nero, si sente Neil Sedaka che canta “One-Way Ticket” (1959), che rinforza il messaggio sul progresso del regista calabrese. Giovanni sta meglio dal punto di vista economico ma deve convivere con il suo rimorso e con la sua anomia emozionale, mentre Pietro utilizza il suo biglietto di sola andata per scontare la prigionia per un omicidio che non ha commesso.

La canzone non è usata per evocare l'identificazione con un periodo. Agli Americani la canzone potrebbe suggerire la frizzante stupidità degli anni cinquanta negli Stati Uniti, ma in Italia la canzone ispirava viaggi stravaganti che contrastano in maniera netta con ciò che accade nel film.

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Le vite di Pietro e Giovanni simboleggiano il prezzo pagato per giungere lo stato in cui sono. Come l'Italia, Giovanna ha raggiunge un’agiatezza economica ma ha perso l’anima e ha ucciso quella del fratello.

In molti modi il suo progresso è il risultato di questa violenza agli onesti ideali e ai veri valori umani.

Ne Lamerica il presente si intreccia con il passato per ricordare agli Italiani chi erano, un incastro ingrandito dal formato, il Pan focus da infatti al film l’occhio epico dell’astrazione, la qualità fantomatica della visone cinematografica che aggiunge astrazione visiva alla storia.

Sulla nave che va verso l’Italia, Spiro diventa Michele perché non poteva essere un Albanese, il portatore di una realtà italiana senza più memoria. Lo spessore dei suoi ricordi senili portano lo spettatore a riflettere sulle due dittature presentate nel film. Il viaggio a ritroso dal presente al passato della trilogia sull’emigrazione diventano storie sull’Italia dal fascismo al presente, dando vita a un viaggio nella storia italiana, ad un’analisi collettiva su i sensi di colpa individuali e collettivi. Spiro è l’Italia dissotterrata, Amelio cerca se stesso bambino, il dialogo tra Spiro/Michele a Tirana in piazza sotto la pioggia, simbolicamente diventa il dialogo del regista con suo padre, ma anche tra gli Italiani di generazioni diverse.

In conclusione il Meridione e la meridionalità sono stati sempre temi centrali nel cinema italiano. Giuseppe De Santis nella trilogia della terra con il suo neorealismo militante ne esaltava la lotta dei contadini per i propri diritti. Francesco Rosi seguendo il suo principio che attribuiva al cinema la funzione di testimonianza, ha raccontato la mafia, l’emigrazione dei magliari in Germania, la cultura della vendetta, la corruzione politica e una realtà agricola al margine e non inserita pienamente nel resto della nazione. Dopo il fallimento della lotta per la terra dei contadini e dopo la riforma agraria, Germi ha iniziato a

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raccontare l’emigrazione e poi ha raccontato le abitudini e i costumi arretrati del Meridione che hanno dato vita a un lungo filone di commedie, satire e melodrammi. Amelio per raccontare la realtà del paese Italia, ha innanzitutto cercato un linguaggio diverso e uno sguardo nuovo che spesso ricorre ai primi piani di volti per trasmettere le emozioni che i personaggi provano. I lunghi primi piani ameliani colgono il vero che sta dentro le cose e le persone, e mostrano il rispetto per quella realtà e per quelle persone che la vivono. La necessità di fare dello stile la forma di una morale nasce dal mondo che ha visto da piccolo, al quale vuole restare fedele. Lo sguardo etico lo porta a esporre il familismo e la mentalità mafiosa del geometra Papaleo, durante la festa al ristorante, gli abusi edilizio, la malignità della giovane donna che a tutti i costi vuole scoprire e denunciare la vera identità di Rosetta ne Il ladro di bambini. Nel cinema ameliano i valori umani di Spiro/Michele, della nonna che Antonio incontra durante il suo ritorno a casa, sono quelli che portano Antonio stesso ad aiutare i bambini e ad assumere una valenza etica che resiste alla consumabilità e alla relatività dell’oggi.

ESODO ALBANESE 1990

 

Lamerica (1994) si svolge nell’Albania degli anni novanta. L’Albania e un paese in rovina, con un caos indescrivibile la gente cerca di scapare per andare in Italia, ma alcuni, al contrario, sono diretti in Albania, come i protagonisti del film che vogliono aprire una fabbrica di scarpe.

Le ambizioni sono quelle del cinema neorealista, con la partecipazione di migliaia di persone non professioniste.

I volti sono molto studiati e messi in evidenza. Il film si chiama Lamerica, riferito a come gli albanesi vedano l’Italia, nella loro povertà e ingenuità. Gli albanesi sembrano a partire in massa verso l’Italia

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soprattutto per via dell’effetto della televisione, che promette ai loro occhi l’America.2

L'"esodo albanese" 1991 è stato considerato una crisi nazionale in Italia. L'arrivo di oltre ventimila albanesi ano costretto l'Italia a riflettere sulla propria storia come paese di emigrazione, e ha posato le sfide materiali immediate. Nel marzo del 1991, dopo la dittatura socialista di Ramiz Aija si sono svolte le prime elezioni democratiche in Albania e cade il sistema, più di 24.000 albanesi arrivano in Puglia nel giro di tre giorni. Anche se questo diluvio era considerato una crisi nazionale, i profughi sono stati accolti calorosamente. Politici italiani a sostenuto che l'Italia e l'Albania sono parte di una cultura comune, e quindi ha avuto legami e obblighi speciali per l'un l'altro. Gli albanesi che sono arrivati a marzo  sono  stati   concessi i permessi di lavoro e sistemati in tutta Italia, in un programma progettato per integrare i rifugiati.

Eppure, da agosto dello stesso anno, la risposta è diventata certamente meno entusiasta. Sul 7-8 AGOSTO oltre 15.000 albanesi ormeggiano sulle coste pugliesi e sono stati accolti dalle squadre antisommossa, detenuto in uno stadio senza bagni, e fornito con il cibo lasciati dagli elicotteri. Cinque giorni più tardi sono stati dati più $ 40, e una nuova maglietta e pantaloni e sono stati trasferiti in aereo per Albania (Economist, 17 agosto 1991). Complessivamente, 17.466 albanesi sono stati deportati durante la terza settimana di agosto 1991 (Economist, 17 agosto 1991). Le allucinanti immagini della loro deportazione sono trasmesse da vari canali televisivi italiani. Testimone di tale sciagura di quel tempo Gianni Amelio si era convinto che era arrivata l’ora di

                                                                                                               

2  Maurizio  Massa.  Saggio  sul  cinema  italiano  del  dopoguerra,  Smashwords  2009,  

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realizzare cinematograficamente un suo vecchio progetto ispirato all’emigrazione meridionale verso il Nuovo Mondo.3

Che lui personalmente ritiene come una parte di storia contemporanea cancellata da memori della società italiana che film gli avrebbe permesso anche l’occasione di riflettere sullo stato dell’Italia degli anni 90 con mani puliti tangentopoli. Il film, pur affrontando le drammatiche vicende di Albania nei primi anni '90, i punti direttamente a due periodi specifici della storia italiana - l'era del regime fascista e l'emigrazione verso l'America degli anni Trenta, ed epoca attuale del neocapitalismo - al fine di esplorare le relazioni tra i due paesi diversi in due momenti distinti, entrambi affetti dallo stesso tipo di emigrazione di massa. Il ruolo svolto dall’Italia negli anni 1990, dopo la disintegrazione del governo di Albania - quando una moltitudine di albanesi stava cercando di raggiungere le coste italiane alla ricerca del "sogno italiano" - va di pari passo con la   situazione in Italia nella prima parte del ventesimo secolo, come una terra di emigranti. Lamerica diventa una ricerca dell’alterità dell'altro, l'altro di Italia è in America come l'Albania è in Italia: perché questo confronto storico. Perché la scelta dello schermo diviso, una rottura visiva al momento della comparsa di tale analisi in cui il dimenticato passato coloniale italiano riemerge grazie a queste vecchie immagini. Attraverso un'attenta lettura di significativi passaggi cinematografici, a dimostrare come il filmato del cinegiornale è il nucleo più oscuro e dimenticato che il film tenta di svelare. Diventa chiaro quanto noi scopriamo la narrazione circolare a più livelli e la struttura visiva del film che la scena di apertura funziona come metafora master per il ritorno del represso che Lamerica porta Qualcosa di nascosto che tormenta sia il protagonista e la storia stessa. Da un lato, ciò è reso evidente nel modo in cui tutto il film e le                                                                                                                

3  Antonio  vitti.  Albanitaliamerica:  viaggio  come  sordo  sogno  in  Lamerica  di  

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nozioni di memoria storica e l'identità sono direttamente messi in questione e fatti per scontrarsi con indagini pazienti di Amelio dei risultati di spostamento culturale nella mente e nel corpo dei personaggi della storia. D'altra parte, i motivi temi e visivi appartenenti alla tradizione del cinema italiano è portato alla scena nel tentativo di affrontare le innumerevoli storie d'Italia del XX secolo.

 

RICORSI STORICI E LA PRAPAGANDA DEL FASCISMO

 

“Forse la tragedia dell’Albania è di essere troppo vicino a quello penisola: per i bei tempi, e nella cattiva sorte, il suo destino è legato a l’Italia.”

Il rapporto fra Italia e Albanesi sono stati da secoli molto stretti e le due nazioni hanno percorso diversi tratti di strada insieme. Nel Novecento, però, è stata scritta una pagina piuttosto amara sui rapporti fra i due paesi. Mira espansionistica quasi naturale, a causa della vicinanza delle sue coste, del sogno imperiale fascista, lo stato albanese subì le pesanti conseguenze dell’alleanza fra Mussolini e Hitler con l’invasione italiana nel 1939, alla quale oppose una coraggiosa guerriglia. Decisivo si rivelo l’arrivo dell’esercito nazista nel 1942, quando la Germania si rese conto che l’alleato italiano non era in grado di portare a termine autonomamente le imprese militare in Grecia e in Albania. Il 6 aprile 1939 le truppe fasciste invadevano le coste albanesi, occupando le citta di Valona, Durazzo e costringendo a fuga il re Zog. Il 25 marzo Mussolini gli aveva inviato un ultimatum nel quale, in poche parole, chiedeva la capitolazione totale. Secondo le richieste del Duce, l’Albania avrebbe dovuto accettare un’unione doganale con l’Italia e l’occupazione militare italiana nei punti nevralgici del paese.

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I difficili rapporti fra italiani e albanesi, durante ma soprattutto dopo la Seconda Guerra mondiale, sono alla base del bel romanzo del più noto scrittore albanese contemporaneo, Ismail Kadare, che con il generale dell’armata morta4 ha analizzato in chiave surreale il dolore e la angoscia lasciati dall’invasione italiana. Nel testo, un generale italiano che aveva partecipato alla campagna d’Albania, alla fine della guerra è costretto a ritornare a Tirana per riperdere i corpi dei soldati morti e consegnare alle rispettive famiglie. Nel suo viaggio inquietante l’uomo si trova di fronte un paese chiuso, poco propenso ad aiutarlo e soprattutto ancora ostile nei confronti degli italiani, che in quella guerra che tutti sembrano aver dimenticato hanno commesso crudeltà e violenze gratuite. L’impossibilita della sua missione è chiara fin dal principio, eppure il protagonista continuerà nella sua assurda ricerca, poiché solo in quei corpi morti potrà comprendere un passato che egli stesso ha cercato di dimenticare.5 Riprendendo in parte le tesi di Amelio, si può affermare che la produzione si collochi a meta strada fra letteratura della migrazione e letteratura postcoloniale.

La scelta di aprire con il documentario di propaganda costituisce una delle problematiche fondamentali del film: come la storia creata attraverso le immagini? Mentre molti telespettatori possono ancora ricordare la "invasione" della folla di persone disperate che lasciano l'Albania per raggiungere le coste del sud dell’Italia su imbarcazioni fatiscenti, nell'estate del 1991, le immagini sullo schermo a punto una "invasione". Diverso Essi si riferisce cinematograficamente per il modo in cui queste imprese militari sono state celebrate dal regime. Amelio mette in discussione le immagini mostrate sullo schermo - cinegiornali,                                                                                                                

4  Kadare  I  GJenerali  i  ushtris  vdekur,  Tiran,  Onufri,  1963;  trad.  it.  il  generale  

dell’armata  morta,  Milano,  Longanesi,1982.  

5  Scrivere  nella  lingua  dell’altro:  la  letteratura  degli  immigrati  in  Italia.  P.I.E.  

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documentari, propaganda - e apre allo spettatore la possibilità di guardare la macchina della propaganda fascista. Molti critici hanno notato la posizione poco chiara del regime verso il cinema6.

A differenza dei nazisti in Germania e degli stalinisti in Unione Sovietica, il regime fascista era in ritardo di riconoscere la potenza del nuovo mezzo. Ciò nonostante, quando Mussolini ha aperto Cinecittà - i nuovi studi cinematografici sulle rive del Tevere - nel 1937 aveva un cartello installato sul cancello d'ingresso proclamando [Il cinema è la più forte arma]. La società di produzione di film Luce è stata fondata nel 1926 dal regime fascista con l'intento di produrre e distribuire materiale educativo e di propaganda nazionalista per le masse. Dalla sua nascita fino alla fine del fascismo, nel 1943, l'Istituto Luce ha emesso 2.972 [cinegiornali]. Tra questi film muti dal 1927 fino al 1931, e dei film sonori fino al 1943. L'Istituto Luce è stata l’unica agenzia fascista dedicata esclusivamente alla propaganda cinematografica. Lungometraggi del tempo si sono distinti per i loro temi di evasione e sotto toni. L'Istituto Luce ha precisato per proiettare cinegiornali settimanali nelle sale cinematografiche in tutto il paese prima del film. Ci sono stati molti temi trattati dai cinegiornali. Si andava da celebrazioni semplice applicazione delle realizzazioni del fiero e laborioso popolo   italiano per le celebrazioni dello sciare del Duce a torso nudo nelle Alpi, la raccolta - ancora a torso nudo - nel recente bonificato Paludi Pontine Pons, o con orgoglio mostra le sue eccezionali capacità notare nel Mediterraneo. La struttura e il tema di questi documentari sono stati basati su riviste popolari del tempo, come la Domenica del Corriere.7 Anche se molti sono stati persi durante la guerra, i cinegiornali Luce costituiscono idealizzato "Unico testo" 8,una lunga                                                                                                                

6  Brunetta,  Gian  Piero.  Storia  del  cinema  italiano.  Roma.1993,  pp.  121   7  Ivi,  pp.  101  

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storia ininterrotta di eccellenza, il sacrificio, l'impegno, e, infine, il successo. Se gli ostacoli da superare sono stati un nemico militare o il miglioramento delle condizioni di lavoro per la forza lavoro rurale, il messaggio era chiaro: "L’uomo nuovo" di Italia riuscirà sotto il controllo paterno del Duce. Con l'avvento dell'impero e della guerra in Africa, i cinegiornali Luce ha trovato nuove e più efficaci strategie retoriche per festeggiare nuove vittorie. Il breve cinegiornale usato in Lamerica 'di questo periodo: con il titolo "DALL'ALBANIA" in lettere maiuscole, accompagnati da musica drammatica, la prima inquadratura mostra il corteo di un gruppo di soldati a cavallo accolto da una folla festante.  

     

Il regime di Enver Hoxha 50 anni di buio

   

“La cinematografia è l’arma più̀ forte”. La frase, nonostante si sia portati a collegarla a Mussolini che la scelse come slogan inserendola in una grande scenografia per l’inaugurazione degli studi di Cinecittà, non è sua. Lo slogan era di Lenin, l’adottò Stalin e la fecero loro anche altri dittatori nei paesi comunisti. Non poteva fare eccezione il dittatore albanese Enver Hoxha che nel 1952 fece suo lo slogan mentre inaugurava a Tirana i teatri cinematografici di posa e di sviluppo, il Kinostudio.

Sotto la guida di Enver Hoxha, il Partito Comunista Albanese assunse il potere il 29 novembre del 1944 Hoxha si dichiarava un marxista-leninista, grande ammiratore del dittatore sovietico Stalin. Prese come modello l'Unione Sovietica e irrigidì le relazioni con i suoi vecchi alleati, i comunisti jugoslavi, in seguito alla condanna della loro ideologia, decisa

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a Mosca nel 1948. Il suo ministro della difesa, Koçi Xoxe , fu condannato a morte e giustiziato un anno dopo per attività pro-jugoslave.

Fino a quando la Jugoslavia non fu espulsa dal Cominform nel 1948, l'Albania agì come un satellite della federazione di Tito, che la rappresentava alle riunioni del Cominform. Nella possibilità di un'invasione occidentale o jugoslava, dal 1950 Hoxha fece costruire in tutto il paese migliaia di bunker in cemento per una persona, per essere usati come posti di guardia e ricoveri di armi; il loro numero potrebbe essere superiore ai 500.000. La loro costruzione accelera quando nel 1968 esce ufficialmente dal Patto di Varsavia, aumentando il rischio di un attacco straniero.

Hoxha rimase un convinto stalinista nonostante la relazione del ventesimo congresso del Partito Comunista Sovietico, e questo significò l'isolamento dell'Albania dal resto dell'Europa orientale comunista. Hoxha era deciso di seguire la politica stalinista e criticando i revisionisti russi di aver cambiato il loro sistema economico. Nel 1960 Hoxha avvicinò l'Albania alla Repubblica Popolare Cinese in seguito alla crisi sino-sovietica, compromettendo le relazioni con Mosca negli anni seguenti.

Nel 1968 l'Albania si ritirò dal Patto di Varsavia come reazione all'invasione sovietica della Cecoslovacchia. Nel 1967, dopo due decenni di ateizzazione sempre più forte, Hoxha dichiarò trionfalmente che la nazione era il primo paese dove l'ateismo di stato era scritto nella Costituzione. In quella del 1976 l'articolo 37 recitava: "Lo Stato non riconosce alcuna religione e sostiene la propaganda atea per inculcare alle persone la visione scientifico-materialista del mondo", mentre il 55 proibiva la creazione "di ogni tipo di organizzazione di carattere fascista, anti-democratico, religioso o anti-socialista" e vietava "l'attività o propaganda fascista, democratica, religiosa, guerrafondaia o

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anti-socialista, come pure l'incitazione all'odio nazionale o etnico". L'articolo 55 del codice penale del 1977 stabiliva la reclusione da 3 a 10 anni per propaganda religiosa e produzione, distribuzione o immagazzinamento di scritti religiosi. Parzialmente ispirato dalla Rivoluzione Culturale in Cina, egli procedette alla confisca di moschee, chiese, monasteri e sinagoghe. Molti di questi furono trasformati in musei o uffici pubblici, altri in officine meccaniche, magazzini, stalle o cinema. Ai genitori fu proibito dare nomi religiosi ai figli.

I villaggi con nomi di santi furono rinominati con nomi non religiosi. La morte di Mao nel 1976, e la sconfitta della Banda dei quattro nella successiva lotta intestina al partito comunista cinese nel 1977 e 1978 portò alla rottura tra Cina e Albania, che si ritirò in un isolamento politico, mentre Hoxha si ergeva a baluardo anti-revisionista criticando sia Mosca che Pechino.

Nel 1981 Hoxha ordinò l'arresto e l'esecuzione capitale di diversi dirigenti di partito e di governo accusati di corruzione e di attività controrivoluzionaria. Probabilmente per questo motivo il Primo ministro Mehmet Shehu, la seconda figura politica del regime, si suicidò nel dicembre 1981.

La repressione politica di Hoxha in Albania provocò migliaia di vittime. Dopo la morte di Enver Hoxha (1985), Ramiz Alia assunse anche la carica di segretario del Partito del Lavoro d'Albania. Il regime di Alia comportò una certa distensione sia interno che in politica estera, sotto la guida del suo successore Ramiz Alia, mentre il potere del partito comunista s’indeboliva. Tuttavia i problemi di sistema che Hoxha aveva lasciato in eredità con la propria politica erano di una natura e dimensione tale da rendere necessaria un'attenzione drastica ed immediata, e il tentativo di Alia negli anni 1985-1989 volto a revisionare il sistema fu insufficiente a scongiurare il disastro. Rieletto alla guida dello Stato dopo

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le elezioni presidenziali del 1987, avviò una timida apertura politica e nel 1990, contestualmente alla caduta dei regimi comunisti dell'Europa orientale, introdusse il multipartitismo. Eletto nel 1991 alla presidenza della repubblica, si dimise il 3 aprile 1992 dopo la vittoria elettorale del Partito Democratico d'Albania di Sali Berisha. In seguito fu arrestato con l’accusa di corruzione e rilasciato dal carcere nel luglio 1995.

Le prime produzioni in comune con gli stranieri

 

Il regista Pirro Milkani accenna alla storia delle produzioni cinematografiche albanesi in collaborazione con gli stranieri. La prima risale al 1952, nel periodo in cui è stato inaugurato il “Kinostudio”, con il film “Scanderbeg”, una coproduzione albano-sovietica del regista Sergei Yutkevich. Nel 1959, si realizza la seconda collaborazione con i sovietici: “Furtuna” (La bufera) dei registi Kristaq Dhamo e Yuri Ozerov. Il film fu girato in Albania e le decorazioni furono realizzate a Mosca. Con la rottura dei rapporti tra i due paesi finì anche la collaborazione cinematografica e di conseguenza anche la formazione artistica dei giovani albanesi nelle accademie russe. Dopo è seguito un isolamento trentennale e come ricorda il regista Milkani: “non erano immaginabili collaborazioni o produzioni con compagnie estere”. Il primo segnale dall’Occidente è arrivato sul romanzo “Il generale dell’Armata morta”. È un caso particolare, trattandosi di un film con un trama albanese che non si poteva girare né in Francia e né in Italia. Come già accennato, le riprese furono vietate da un ordine secco del Comitato centrale del Partito dato al Direttore del “Kinostudio”: “Non aiuterete l’equipe francese venuta in Albania…”. In Albania la lotta del governo contro i gruppi oppositori si era inasprito a dismisura. Con l’eliminazione del Primo

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