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Studio del sonno in terapia intensiva. Analisi della letteratura ed elaborazione di un protocollo di sedazione.

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Introduzione

Il sonno del paziente in Terapia Intensiva

L’Unità di Terapia Intensiva (UTI) si prefigge di offrire un trattamento a pazienti in condizione critiche ricorrendo frequentemente a procedure e apparecchiature intrusive ed invasive, come vie aeree artificiali e cateteri intravascolari. Queste, assieme naturalmente ai sintomi della malattia che affligge il paziente e ad altri fattori, come rumori ambientali e le stesse attività di cura, possono portare ad un discomfort che si traduce spesso nell’impossibilità di dormire, o comunque di avere un sonno “efficiente” . E’ ormai ben noto, inoltre che anche la terapia farmacologica può alterare in maniera più o meno diretta la qualità del sonno, contribuendo a complicare ulteriormente il quadro generale . Combinazioni di sedativi e analgesici utilizzati per facilitare la ventilazione meccanica sono tra i farmaci maggiormente responsabili della “sleep disruption” . Anche farmaci cardiovascolari, per la protezione gastrica, asma, anti-infettivi, antidepressivi e anticonvulsivanti sono stati collegati a varie alterazioni del sonno. Perfino i triciclici, gli antidepressivi e le benzodiazepine, comunemente prescritti nel trattamento dei disturbi del sonno, possono in verità alterarne l’architettura e, dunque, l’efficienza .

Nonostante le funzioni e i meccanismi fisiologici alla base del sonno non siano ancora stati pienamente chiariti, esso è considerato fisicamente e psicologicamente ristoratore, ed è ben nota la sua importanza per una guarigione più rapida dalla malattia. Al contempo, i possibili effetti negativi di un sonno insufficiente sulla salute dell’individuo stanno divenendo ormai sempre più chiari, e includono tra gli altri, incremento della suscettibilità alle infezioni, patologie neoplastiche e malattie cardiovascolari .

Da quanto qui esposto risulta chiaro come i pazienti in condizioni critiche, quali sono usualmente quelli ricoverati in UTI, si trovino da un lato ad avere maggior necessità di un sonno ottimale in termini qualitativi, e dall’altro ad essere inevitabilmente esposti ad un alto rischio di sonno

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2 insufficiente o inefficiente. Scopo della presente Tesi di Laurea è, dunque, quello di effettuare una revisione della letteratura per valutare lo stato delle conoscenze sull’argomento e definire possibili approcci di tipo farmacologico, che consentano un miglioramento della qualità del sonno dei pazienti ricoverati in UTI. Il lavoro di revisione si è avvalso dei motori di ricerca di PubMed e Google Scholar.

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Capitolo I

Principali cause di deprivazione di sonno in Terapia Intensiva e sue conseguenze

Come effetto dell’acquisizione di nuove conoscenze riguardo al ruolo del sonno e agli effetti della sua deprivazione, le possibili cause di compromissione del sonno nei pazienti critici hanno ricevuto crescente attenzione negli ultimi anni. E’ ormai ben noto che fattori ambientali come l’eccesso di rumore e d’illuminazione, la malattia stessa del paziente, le attività di cura e la ventilazione meccanica, possano inevitabilmente risultare dannosi per la qualità del sonno in Terapia Intensiva (Figura 3). In questo capitolo vedremo i più importanti di questi fattori e il loro ruolo nel determinare la deprivazione di sonno.

Figura 3. Principali fattori ambientali e patofisiologici che possono contribuire a

determinare deprivazione di sonno nel paziente ricoverato in Terapia Intensiva (Modificata da Friese, 2008).

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Il rumore. E’ stato dimostrato che i livelli di rumore in UTI possono raggiungere durante il giorno picchi di 150-200 dB, mentre durante la notte si mantengono frequentemente al di sopra degli 80 dB . Nonostante questo, studi svolti nella Terapia Intensiva sembrano indicare che solo il 10-30% dei risvegli può essere attribuito al rumore . Tale valutazione appare confermata da un rapporto soggettivo dei pazienti (Figura 4) che dimostra come il rumore non sia il maggior fattore di disturbo . Tuttavia, fra le specifiche fonti di rumore il 26% risulta provenire dalle conversazioni tra medici o infermieri, e questa sembra essere, assieme agli allarmi, la sorgente di rumore più frequentemente associata a risvegli e interruzione del sonno. Anche quando soggetti sani hanno dormito in camere private di Terapia Intensiva, ci sono stati cambiamenti nell’architettura del sonno e una frammentazione dello stesso, nonostante bassi livelli di picco nel rumore . Una possibile spiegazione è che l’interruzione del sonno sia causata prevalentemente da variazioni nel livello di rumore, piuttosto che da rumori intensi ma relativamente costanti . E’ stato osservato che una attenuazione del rumore ambientale con tappi per gli orecchi porta un incremento del sonno REM e migliora l'efficienza del sonno nei soggetti sani in un ambiente che simula la Terapia Intensiva, e determina un miglioramento soggettivo del sonno nei pazienti in UTI .

Figura 4. Principali fattori in grado di disturbare il sonno secondo i pazienti ricoverati

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Le cure al paziente. Nonostante l'uso di nuove tecnologie per il monitoraggio, la frequente manipolazione dei pazienti addormentati continua ad essere la norma nelle unità di Terapia Intensiva. Alcuni studi hanno documentato una media di 40-60 contatti diretti con il paziente durante la notte per attività quali medicazioni, somministrazione di farmaci, etc. . Di fatto, circa il 10% dei risvegli nel corso di 24 ore sembrano essere dovuti alla cura del paziente . In alcuni casi l’interazione col paziente è così frequente che il sonno non disturbato va dai 5 ai 30 minuti . Considerata la durata di un ciclo di sonno normale e, dunque, il tempo necessario per raggiungere gli stadi più profondi, dovrebbero essere prese precauzioni per consentire il consolidamento del sonno ai pazienti.

Illuminazione. Anche se i livelli di luce comunemente regolati per simulare variazioni circadiane, con un picco di luminosità durante il giorno e livelli più bassi durante la notte, la misurazione della variazione circadiana della melatonina urinaria, misurata tramite determinazione dei suoi livelli sierici, risulta frequentemente compromessa . Tale condizione può avere effetti negativi sul ciclo sonno-veglia dei pazienti. In questa prospettiva, evitare livelli elevati di luce notturna e incrementi temporanei di illuminazione può risultare importante per facilitare il consolidamento del sonno.

Ventilazione Meccanica. Circa il 60% dei pazienti in ventilazione meccanica lamenta disturbi del sonno, e di questi, circa la metà riferisce sensazioni di panico o ansia che inibiscono in maniera più o meno diretta la loro capacità di riposare o dormire . Fattori potenzialmente determinanti nel provocare disturbi del sonno includono modalità di ventilazione, asincronia paziente-macchinario, e inadeguati parametri di ventilazione . E’ stato osservato, ad esempio, che quando i parametri di pressure support ventilation (PSV) sono congruenti con l’attività del paziente, il sonno migliora, e la necessità di supporto pressorio e di pressione endespiratoria positiva diminuiscono . A conferma di questo risultato, alcuni studi hanno dimostrato che, mettendo a confronto la proportional assist ventilation (PAV) con la PSV nei pazienti sedati, è possibile osservare, in conseguenza di una migliore sincronia paziente-macchinario, un minor numero di arousal e risvegli, e un miglioramento dell’architettura del sonno .

I farmaci. Come già accennato nei paragrafi precedenti, e come vedremo meglio nei capitoli successivi, tutti gli agenti che agiscono sui neuorotrasmettitori implicati nella regolazione del sonno o sui loro recettori

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6 possono modificare in qualche misura l’architettura del sonno stesso. Sfortunatamente, nei pazienti critici è difficile accertare la modificazione delle proprietà del sonno indotte da un solo farmaco. Inoltre la farmacocinetica può essere alterata in seguito a variazioni del volume di distribuzione o a compromissione della clearance renale o epatica, e può esservi un effetto confondente legato alla componente adrenergica indotta dallo stress acuto . Per queste ragioni gli effetti specifici di molti farmaci sul sonno dei pazienti critici restano ancora oggi poco chiari. Quello che è certo è che molti farmaci, compresi quelli comunemente impiegati nella Terapia Intensiva, come analgesici e sedativi, hanno un effetto sull’architettura del sonno che spesso non viene tenuto in considerazione durante la fase di definizione della terapia. In questa prospettiva, ulteriori studi saranno necessari per determinare, ad esempio, se una sedazione prolungata facilita il sonno o danneggia il recupero e quali farmaci possano risultare ottimali. Se è vero che la sedazione sembra facilitare il sonno del paziente, infatti, è pur vero che una sedazione eccessiva può portare effetti negativi, come un aumento dei giorni di ventilazione meccanica e un prolungamento del ricovero il Terapia Intensiva . A ciò deve naturalmente aggiungersi il fatto che non necessariamente un sonno apparentemente profondo o continuato coincide con un sonno efficiente e rigenerante per il paziente.

La condizione clinica del paziente. Naturalmente, la condizione clinica del paziente ricoverato, il tipo di iter diagnostico/interventistico, la presenza di infezioni concomitanti, sono tutti fattori capaci di alterare in misura più o meno marcata le proprietà del sonno. Come abbiamo già avuto modo di accennare, ad esempio, procedure chirurgiche possono portare una riduzione o addirittura una scomparsa del sonno REM, con possibile effetto rebound nei giorni successivi all’operazione (Gogenur, Ocak et al. 2007). Tale alterazione, è probabilmente legata all’effetto stressogeno dell’intervento, ma anche farmaci impiegati in corso di anestesia o controllo del dolore postoperatorio potrebbero avere un ruolo di rilievo. Anche eventuali infezioni possono probabilmente portare consistenti alterazioni della struttura del sonno. E’ stato osservato che un’infezione sperimentale da virus influenzale può causare una riduzione della durata del sonno durante il periodo di incubazione e un aumento durante la fase sintomatica . Alte dosi di lipopolisaccaride, riscontrabili in corso di infezione batterica, sembrano poter disturbare il sonno provocando una riduzione iniziale della durata del sonno a onde lente (stadio N3/N4), a cui

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7 può far seguito un aumento della durata del sonno delta e una concomitante riduzione del sonno REM . Basse dosi di lipopolisaccaride, tuttavia, sembrano poter provocare un aumento di durata ed intensità del sonno a onde lente . Nel complesso, il risultato più comune dopo l'infezione sembra essere un aumento della durata totale di sonno. In questo contesto la riduzione del sonno REM appare generalmente compensata da un aumento dell’intensità e della durata del sonno a onde lente .

Il sonno è una funzione biologica essenziale e la sua deprivazione può portare ad una varietà di disfunzioni fisiologiche e psicologiche. La deprivazione di sonno può avere diverse cause tra cui i disturbi del sonno (insonnia primaria, dyssomnias, e parasonnie), le condizioni cliniche (dolore cronico, le disfunzioni respiratorie, l’obesità, e l’insufficienza cardiaca congestizia), i fattori ambientali (eccessivo rumore e illuminazione), e i fattori psicologici (stress e ansia) . Indipendentemente dalla specifica causa, la deprivazione del sonno è stata associata a diversi esiti avversi tra cui anomalie del sistema immunitario e dei meccanismi di difesa, alterazioni del metabolismo e dell’equilibrio dell’azoto e del catabolismo proteico, disturbi psicologici e peggioramento della qualità della vita. Sebbene la maggior parte della ricerca sulla deprivazione del sonno sia stata condotta su volontari sani e modelli animali, ciascuno degli esiti avversi di questa condizione può essere osservata nei pazienti ricoverati in Terapia Intensiva. Al contempo però, gli effetti di tali esiti negativi sulla morbilità e la mortalità durante il recupero da una malattia acuta o un trauma rimangono ancora oggi mal definiti. Date queste premesse, è evidente l’importanza degli studi sulla deprivazione del sonno e la continua ricerca di soluzioni per ottimizzare questo aspetto durante il ricovero del paziente critico e migliorare la condizione clinica. Prenderemo di seguito in esame le principali alterazioni indotte dalla deprivazione di sonno, così da offrire un quadro generale del problema e chiarire le ragioni che rendono particolarmente importanti una sua comprensione e la ricerca di nuovi livelli di intervento e ottimizzazione.

Funzione immunitaria

la funzione del sistema immunitario . Sfortunatamente, nella maggior parte degli studi clinici vengono analizzati gli effetti della deprivazione di sonno sulla funzione immunitaria utilizzando volontari sani e pochi sono stati gli . Si pensa che la privazione del sonno sia associata ad un aumento della suscettibilità alle malattie infettive, tuttavia, la natura di questa associazione è oggetto di notevoli controversie. E’ comunque generalmente accettata l’esistenza di una relazione tra il sonno e

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8 studi che hanno approfondito gli effetti di questa condizione nei pazienti critici. Sembra comunque logico presumere che qualsiasi disfunzione immunitaria osservato nella deprivazione di sonno in soggetti sani possa essere ancor più pronunciata in pazienti affetti da malattie acute o croniche. Di fatto, l’abilità di un paziente critico di organizzare una risposta immunitaria forte contro i vari antigeni potrebbe essere cruciale per la sua sopravvivenza e ci sono ormai numerosi indizi che sembrano indicare l’ottimale qualità del sonno come una delle più importanti premesse perché ciò possa verificarsi. Tuttavia, un rapporto diretto tra la gravità della malattia e il grado di disfunzione del sistema immunitario causata dalla deprivazione rimane ancora da stabilire.

Studi su esseri umani sottoposti a deprivazione del sonno totale o parziale hanno dimostrato una aspecifica modulazione della risposta immunitaria e compromissione della funzione dell’immunità cellulare . Spiegel e collaboratori , ad esempio, hanno dimostrato che i soggetti deprivati di sonno mostrano una risposta attenuata all’immunizzazione conseguente a vaccinazione contro il virus dell’influenza. Simili risultati sono stati ottenuti anche da Lange e colleghi , con uno studio sulla vaccinazione contro l’epatite A in pazienti sani. In questo caso dopo la vaccinazione ad alcuni pazienti è stato permesso di dormire normalmente mentre un altro gruppo è stato deprivato di sonno. Coloro che sono stati deprivati di sonno hanno mostrato un titolo anticorpale inferiore dopo 4 settimane, confermando che la deprivazione di sonno è in grado di influenzare il processo di immunizzazione e la formazione delle difese immunitarie antigene specifiche. D’altro canto, gli stessi autori hanno recentemente evidenziato come, all’opposto, un sonno ottimale a seguito di una vaccinazione migliori l’efficienza della memoria immunitaria .

Studi che hanno investigato la relazione tra deprivazione di sonno ed diverse citochine dal sistema immunitario hanno indicato l’esistenza di forti correlazioni tra sonno, ritmi circadiani ed espressione di citochine (in particolare Interleuchina-6, Interleuchina-1 e Fattore di Necrosi Tumorale) . Un recente studio condotto da Irwin e colleghi, ad esempio, ha preso in esame i livelli di marcatori cellulari e genomici di infiammazione in trenta individui sani, prima e dopo deprivazione di sonno. I risultati di tale indagine hanno messo in evidenza un aumento consistente della produzione di IL-6 e TNF da parte dei monociti in seguito a deprivazione di sonno.

Si ritiene che la perdita di sonno possa influenzare la risposta immunitaria mediante un effetto diretto sul sistema nervoso centrale, con

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9 interessamento dell’asse neuroendocrino . E’ evidente, tuttavia, che altri studi sono necessari per chiarire cause e conseguenze di questo legame, e meglio definire l’effettiva rilevanza clinica per il paziente critico. I diversi effetti della privazione di sonno sulla funzione immunitaria sono riassunti in Tabella 2.

Funzione Immunitaria Effetto della Deprivazione

Tasso metabolico Aumentato Conta PMN e Linfociti Ridotta

Cellule NK Funzionalmente alterate Cellule PMN Funzionalmente alterate Difesa antigene specifica Compromessa

Mortalità Aumentata

Tabella 2. Anomalie della funzione immunitaria nei pazienti deprivati di sonno (Tratta

da Friese, 2009).

Catecolamine, Ormoni e Metabolismo

Studi condotti sull’uomo hanno dimostrato che la secrezione di azoto urinario aumenta marcatamente con la deprivazione del sonno, ma anche con l’inversione del sonno tra il giorno e la notte. Inoltre il cortisolo urinario, la glicemia e gli elettroliti (Sodio e Cloro) diminuiscono durante la deprivazione di sonno o nel caso di sonno disturbato o alterato . Vari studi hanno però descritto un aumento del livello di cortisolo nel siero la sera successiva ad un periodo di privazione del sonno, ma non durante la fase di deprivazione . D’altro canto, il cortisolo risulta invece generalmente aumentato nelle condizioni di stress acuto . Questa diversa gestione . La perdita di sonno in un paziente in Terapia Intensiva rappresenta uno stress, e può dunque contribuire a alla determinazione dello stato catabolico che caratterizza generalmente il paziente critico . Il corpo richiede più energia durante i periodi di deprivazione del sonno, dunque vengono metabolizzate le riserve proteiche con conseguente aumento dell’escrezione di azoto. Vale comunque la pena tener presente che la risposta comunemente osservata può non essere del tutto sovrapponibile a quella che si riscontra nella condizione classicamente descritta come “Fight or Flight” (“combatti o fuggi”).

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10 metabolica degli ormoni steroidei può essere secondaria ad una interruzione dei normali ritmi circadiani causata dalla privazione del sonno. Più recentemente, è stato dimostrato che anche la secrezione di altri ormoni è influenzata dal sonno e dalla sua deprivazione. La perdita di sonno è frequentemente associata con la perdita della normale variabilità circadiana di norepinefrina, prolattina e GH nei soggetti esaminati . E’ stato scoperto che la deprivazione di sonno è associata a resistenza insulinica ed a uno stato "prediabetico" del metabolismo muscolare, tuttavia, i livelli plasmatici di glucosio a riposo, in soggetti deprivati di sonno possono risultare normali . In questa prospettiva va ricordato che la resistenza insulinica nei pazienti critici è un fenomeno comune e clinicamente importante, e che la misurazione della glicemia rappresenta un potenziale predittore di mortalità . La deprivazione di sonno si associa inoltre, in individui sani, ad un aumento dell’ingestione di cibo, probabilmente legato ad un aumento dei livelli di grelina sierica e ad una riduzione di quelli di leptina .

Uno studio condotto da Zhong e colleghi su soggetti sani deprivati di sonno per 36 ore, durante misurazione della modulazione cardiovascolare da parte del sistema autonomo, ha messo in evidenza un potenziamento della componente simpatica e un decremento dell’attività parasimpatica, con una compromissione del riflesso barocettivo. Frequenti arousals durante il sonno, inoltre, sono stati associati ad un incremento delle catecolamine circolanti e ad un aumento dei valori pressori . Queste alterazioni sono probabilmente alla base dell’aumentato rischio di infarto miocardico acuto negli individui caratterizzati da sonno insufficiente .

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11 In conclusione, la deprivazione di sonno è stata associata a rilevanti alterazioni dei profili metabolico e ormonale, con l’induzione di un quadro catabolico e il riscontro di un bilancio negativo dell’azoto . Nonostante siano ancora da chiarire le interazioni tra deprivazione di sonno e condizioni preesistenti e concomitanti del paziente critico, i dati presenti in letteratura lasciano intendere che possa esservi una interazione tra questi aspetti e, perfino, un reciproco potenziamento.

Parametro Deprivazione di Sonno

Ormone Tiroideo Aumentato

Norepinefrina Aumentato

Ormone Somatotropo Ridotto

Cortisolo Aumentato

Resistenza all’Insulina Presente

Iperglicemia Solitamente Assente

Massimo Consumo O2 Alterato

Massima Produzione CO2 Alterato

Bilancio dell’Azoto Negativo

Tabella 3. Anomalie metaboliche ed ormonali associate a deprivazione di sonno e

condizione di malattia critica (Modificata da Weinhouse, 2006).

Disfunzioni Respiratorie

I risultati qui descritti indicano come la deprivazione di sonno possa associarsi a disfunzione respiratoria nei pazienti critici della Terapia

. Spengler e colleghi hanno dimostrato che la deprivazione di sonno in un ambiente sperimentale controllato non riduce la sensibilità dei chemocettori centrali, né altera la ventilazione e il metabolismo a riposo. Questi dati contrastano con studi precedenti che indicavano che la risposta ventilatoria all’ipercapnia e all’ipossiema può ridursi in seguito a deprivazione di sonno . E’ pur vero però che tali studi erano stati svolti su individui sani, e che i risultati ottenuti potrebbero non estendersi alla popolazione dei pazienti critici, caratterizzata da un pattern di disturbo del sonno piuttosto che da una deprivazione completa.

Una ricerca condotta su volontari sani per valutare gli effetti della deprivazione di sonno sulla funzione dei muscoli respiratori ha riportato come, dopo 30 ore trascorse senza dormire, la resistenza muscolare risultasse ridotta . Lo stesso studio riportava valori nella norma di Volume Espiratorio Massimo nel Primo Secondo (FEV1) e di Capacità Vitale Forzata (FVC).

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12 Intensiva, e in particolare in quelli in ventilazione meccanica . Sembra plausibile, dunque, che l’effetto negativo sull’azione muscolare conseguente alla compromissione del ciclo sonno-veglia, possa contribuire ad aggravare il quadro di questi soggetti e possa prolungare la necessità della ventilazione meccanica .

Disturbi Psicologici e Neurocognitivi. Il ricovero in Terapia Intensiva è stato associato a possibile comparsa di delirium, cambiamento dello stato mentale e altri disturbi piscologici .

Secondo i criteri del DSM IV il delirium può essere definito come una diminuzione dell'attenzione associato a deficit della memoria e alterazione della coscienza, ad insorgenza acuta e decorso fluttuante nelle ventiquattr'ore. Manifestazioni cliniche potenzialmente associate includono alterazioni del ciclo sonno-veglia con insonnia o agitazione notturna e disturbi emotivi come, ansia, paura, depressione, irritabilità, rabbia, euforia o apatia. Le cause mediche di delirium e sintomi psicologici includono lo sbilanciamento metabolico e elettrolitico, infezioni acute, ipossia, disidratazione, traumi cranici e disordini vascolari comuni in UTI . Altri fattori potenzialmente implicati comprendono farmaci, età avanzata, ansia e stress indotti dall’ambiente della Terapia Intensiva, fenotipo lipoproteina E4 e deprivazione di sonno . Studi recenti indicano che il delirium può presentarsi nel 20-50% dei pazienti con malattie lievi curate in UTI, e in quote fino all’80% dei pazienti che richiedono la ventilazione meccanica . Il significato del delirium in terapia intensiva diviene più evidente quando si valuta in relazione all’outcome dei pazienti. Il delirium in UTI è predittivo di un aumento di tre volte del tasso di tasso di re-intubazione, di un ricovero più lungo in ospedale, e di un aumento della mortalità . Anche se l’esatto collegamento tra deprivazione di sonno e delirium resta da chiarire, le alterazioni cognitive frequentemente riscontrate in individui deprivati di sonno lasciano pensare che vi possa essere un legame di tipo causale o facilitatorio tra le due condizioni .

Più in generale, la perdita del sonno in UTI è associate con una diminuzione soggettiva della qualità della vita . Complicazioni a lungo termine relative alla sfera psichica includono depressione, prosecuzione dei disturbi del sonno, fino ad arrivare al Disturbo Post Traumatico da Stress (PostTraumatic Stress Disease, PTSD) .

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13 Gli aspetti fin qui trattati hanno messo in risalto l’esistenza di un legame, ed eventualmente, di un vero e proprio circolo vizioso, tra condizione clinica del paziente critico ricoverato in UTI e disturbi del sonno. L’alterazione del ciclo sonno-veglia infatti, sembra poter costituire sia una conseguenza di fattori direttamente correlati alla malattia del paziente critico, sia una delle possibili cause di un aggravamento della malattia stessa. Su questa interazione complessa, e ancora in larga parte non compresa, si inserisce l’influenza di numerosi altri fattori, in alcuni casi potenzialmente controllabili da parte di medici e infermieri. Essi includono, tra le altre cose, gli stessi trattamenti farmacologici sedativi ed analgesici utilizzati per migliorare la condizione del paziente e, idealmente, facilitare proprio la comparsa di un sonno rigenerante. In questa prospettiva appare evidente l’importanza di una maggiore conoscenza del problema per la definizione di strategie di trattamento che permettano di prevenire, o almeno attenuare, i disturbi del sonno. Nei prossimi capitoli ci concentreremo dunque sull’identificazione di quelli che sono i farmaci comunemente impiegati per sedazione e analgesia del paziente ricoverato in UTI, cercando di comprendere le attuali conoscenze relative ai loro effetti sul sonno e le possibili strategie in grado di ottimizzare i benefici per il paziente.

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Capitolo II

Principali farmaci impiegati nella sedazione

I sedativi più frequentemente impiegati nell’ambito della Terapia Intensiva sono quelli che agiscono su recettori GABA, vale a dire propofol e benzodiazepine (in particolare il midazolam). Un farmaco più nuovo, che verosimilmente entrerà a breve nell'uso corrente, è la dexmedetomidine, che è invece un agonista α2 selettivo.

 Propofol

Il propofol è un anestetico endovenoso ad azione rapida. Alle concentrazioni cliniche, esso aumenta la sensibilità del recettore GABA-A al GABA, potenziando così la neurotrasmissione inibitoria e deprimendo l'attività del sistema nervoso. L'azione dell'anestetico sul recettore GABA-A è mediata dal suo legame a specifici siti della proteina, meccanismo suggerito dal fatto che mutazioni puntiformi a carico del recettore possono eliminare gli effetti dell'anestetico sulla funzione del canale ionico. L’effetto del propofol è di breve durata; l'elevata velocità di risveglio dopo infusione può essere spiegata dalla sua spiccatissima clearance associata alla lenta diffusione del farmaco dal compartimento periferico a quello centrale ed alla lipofilia della molecola. Tale aspetto non è osservabile con gli oppioidi per via endovenosa o con l'uso di benzodiazepine, e rappresenta il motivo del crescente utilizzo di propofol. Il propofol è metabolizzato principalmente a livello epatico con produzione di metaboliti meno attivi che sono escreti dal rene.

Il propofol dispone di una vasta gamma di effetti, tra i quali quelli ansiolitico, anticonvulsionante, e antiemetico, ed in grado di ridurre la pressione endocranica. Si associa inoltre ad amnesia anterograda, causata dall’azione inibitoria sui recettori eccitatori NMDA per il glutammato e dall’inibizione in siti specifici del rilascio di glutammato, aspartato e serotonina.

Le più comuni indicazioni terapeutiche includono: induzione e mantenimento dell’anestesia generale (la dose di induzione in un adulto in buona salute è compresa tra 1,5 e 2,5 mg/kg di peso corporeo); sedazione di pazienti ventilati artificialmente nelle unità di terapia intensiva (in questo

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15 contesto la velocità di infusione dipende dal grado di sedazione richiesto e complessivamente dosi comprese tra 0,3 e 4,0 mg/kg/ora permettono di raggiungere livelli soddisfacenti di sedazione).

Il propofol induce una riduzione dose-dipendente della pressione arteriosa mediante vasodilatazione e modesta depressione della contrattilità del miocardio. A dosi equianestetiche, il propofol produce un grado leggermente maggiore di depressione respiratoria rispetto ad altri farmaci, come il tiopentale. Non è indicato per la sedazione di pazienti dell’età di 16 anni o meno, e deve essere evitato in pazienti allergici alla soya. Pur non raccomandato per trattamenti di lunga durata, il propofol è particolarmente utile per pazienti neurologici in Terapia Intensiva, tanto da essere il primo sedativo raccomandato dalle Linee Guida del Brain Trauma Foundation nei pazienti con trauma cerebrale.

 Benzodiazepine (Midazolamam)

Le benzodiazepine vengono comunemente impiegate per la sedazione piuttosto che per l'anestesia generale a causa della prolungata amnesia e sedazione che possono comportare a dosi anestesiologiche. Come farmaco aggiuntivo, le benzodiazepine sono usate per indurre ansiolisi, amnesia e sedazione prima dell'induzione dell'anestesia o per la sedazione durante le procedure che non richiedono l'anestesia generale. Le benzodiazepine sono efficaci anticonvulsivanti e sono talvolta somministrate per trattare lo stato epilettico.

Il midazolam è la benzodiazepina più frequentemente utilizzata nel periodo perioperatorio. Il principale vantaggio farmacocinetico è quello di mostrare una più rapida induzione dell’effetto e una più contenuta durata d'azione rispetto ad altri farmaci, in particolare il lorazepam. Gli effetti delle benzodiazepine sono prodotti mediante una riduzione dell’eccitabilità del sistema limbico attraverso il legame reversibile al recettore GABA. Tutte le benzodiazepine producono un certo grado di depressione cardiovascolare e respiratoria, inducendo occasionalmente apnea. Questo effetto è dovuto all’abolizione del drive ipossemico alla ventilazione.

Le bendodiazepine a somministrazione endovenosa - diazepam, lorazepam e midazolam - sono ampiamente usate come sostegno nella gestione della sedazione. Le altre indicazioni terapeutiche del midazolam includono: sedazione cosciente prima e nel corso di procedure diagnostiche o terapeutiche, premedicazione prima dell’induzione dell’anestesia, induzione dell’anestesia.

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16 Le controindicazioni all'uso di midazolam sono rappresentate dall'ipersensibilità verso la molecola o verso uno qualsiasi degli eccipienti e la sedazione cosciente di pazienti con grave insufficienza respiratoria o depressione respiratoria acuta. L’uso a lungo termine di questi farmaci predispone alla dipendenza chimica: brusche o imprudenti interruzioni possono causare la “withdrawal syndrome”, ovvero un effetto rebound che può compromettere la condizione clinica del paziente. Per queste ragioni è raccomandata, dopo un'esposizione costante e prolungata alle benzodiazepine, una riduzione progressiva della dose.

Propofol Midazolam Lorazepam Diazepam

Dose Bolo 2 mg/kg 1–5 mg 1–5 mg 2–10 mg

Emivita 30–60 min 1–4 h 10–20 h 20–70 h

Onset d’Azione 1–2 min 2–5 min 5–20 min 2–5 min

Lipofilia Elevata Elevata Moderata Elevata

Metaboliti Attivi No Si No Si

IV Continua Si Si Si No

Tabella 4. Proprietà dei principali sedativi utilizzabili per via endovenosa.

 Clonidina

La clonidina è un α2 -agonista il cui utilizzo come sedativo in pazienti di Terapia Intensiva sottoposti o meno a ventilazione meccanica è in aumento. E’ particolarmente utile nel caso il paziente presenti agitazione o dopo la sospensione di benzodiazepine od oppiodi. Può essere somministrato in dose bolo o in infusione.

Questo farmaco agisce stimolando i recettori α2 del nucleo reticolare del midollo allungato, e portando ad una riduzione del tono simpatico, con conseguenti analgesia e sedazione, ma senza depressione respiratoria. Per questa ragione risulta sicuro in pazienti con respiro spontaneo o estubati. Accanto agli effetti sul sistema nervoso centrale è comunque importante ricordare quelli sulla funzione emodinamica. La clonidina può infatti causare un iniziale rialzo pressorio seguito da una caduta prolungata. Bradicardia può comparire come conseguenza della riduzione del tono

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17 simpatico e per un aumento del tono vagale. In caso di brusca interruzione della somministrazione è possibile osservare un rebound con crisi ipertensiva acuta.

La clonidina ha una emivita di circa 8.5 ore. Circa il 50% viene metabolizzato a livello epatico con produzione di metaboliti inattivi, mentre la restante quota viene eliminata con le urine (questa può risultare compromessa in caso di insufficienza renale).

 Dexmedetomidine (DEX)

La dexmedetomidine è un agonista altamente selettivo del recettore α2 adrenergico. DEX, a differenza di altri farmaci, possiede sia effetto analgesico che sedativo. L'effetto antinocicettivo di DEX sembra esplicarsi proprio mediante i recettori α2A e α2C sulle fibre C presinaptiche e sui neuroni postsinaptici del corno dorsale del midollo spinale. Per contro, è ancora non chiara la modalità attraverso cui viene espletata l'attività analgesica in caso di somministrazione sistemica del farmaco. In caso di somministrazione endovenosa, non è evidente una consistente azione analgesica dose dipendente nei confronti degli stimoli nocicettivi. Piuttosto, il farmaco ha notevole efficacia nell'incrementare la potenza o ridurre il ricorso ad analgesici aggiuntivi; permette quindi di risparmiare l'uso di oppioidi, riducendo l'effetto depressivo sulla funzione respiratoria. Risulta pertanto di grande utilità nei pazienti che respirano autonomamente o che sono stati svezzati da un ventilatore.

L'azione di DEX, dopo somministrazione endovenosa, si esplica dopo 15 minuti ed il picco di concentrazione viene raggiunto dopo circa 1 ora di infusione continua; l'emivita è di 2-2,5 ore. La dose standard raccomandata per la sedazione in Terapia Intensiva prevede un carico di 1 μg/kg somministrato in un periodo di 10 minuti, seguito da un'infusione continua di 0.2-0.7 μg/kg/h (< 24 h).

Il farmaco circola essenzialmente legato alle proteine plasmatiche, con solo il 6% di farmaco libero, e viene ampiamente metabolizzato attraverso coniugazione con acido glucucuronico e biotrasformazione epatica. Non esistono al momento dati circa l'esistenza di metaboliti attivi o tossici. La clearance può essere ridotta fino al 50% in caso di disfunzione epatica grave e l'effetto sedativo può risultare prolungato in caso di insufficienza renale (entrambe le condizioni richiedono pertanto un aggiustamento posologico, necessario anche in condizioni di ipoalbuminemia, riduzione della gittata cardiaca ed età avanzata).

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18 La depressione dell'attività simpatica provocata da DEX porta ad una riduzione dei livelli di catecolamine circolanti in maniera dose-dipendente, con conseguente riduzione di frequenza cardiaca e della gittata. Pressione arteriosa media, pressione arteriosa polmonare e resistenze vascolari mostrano una risposta bifasica alla somministrazione di DEX, con un'iniziale decremento seguito da un successivo aumento con l'incremento della dose. Gli effetti cardiovascolari di DEX prevengono l'ipertensione e la tachicardia e/o riducono la necessità di ricorrere all'uso di agenti antiipertensivi. La bradicardia rappresenta peraltro l'unico effetto collaterale importante che si osserva in caso di elevate dosi di carico e di mantenimento (> 0.7 μg/kg/h). Se la bradicardia è facilmente reversibile con una riduzione della dose, molto più grave è la possibilità di asistolia, condizione rara per quanto possibile in caso di contemporanea somministrazione di simpaticolitici o agonisti colinergici. Diversamente da quanto osservato con la clonidina, la sospensione del farmaco non sembra associarsi a possibili rebound ipertensivi o agitazione.

Nonostante gli aspetti incoraggianti sopra citati il farmaco risulta ancora relativamente “nuovo” è ulteriori studi clinici sono necessari per comprenderne appieno i potenziali vantaggi o svantaggi nelle diverse popolazioni di pazienti critici.

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Capitolo III

Principali farmaci impiegati nell’analgesia

Gli analgesici più frequentemente impiegati nell’ambito della Terapia Intensiva sono gli oppioidi, e in particolare morfina, fentanyl e remifentanil. La principale azione farmacologica degli oppioidi è la riduzione del dolore e della sensibilità verso stimoli nocicettivi. Un'altra azione significativa è quella sedativo-ansiolitica, tanto che gli oppioidi sono spesso impiegati per questi effetto. L'azione analgesica e quella sedativa si esplicano attraverso il legame dei farmaci ai recettori κ e μ. Gli oppioidi non provocano un apprezzabile effetto amnesico, mentre sono in grado di portare a ritenzione urinaria, ileo, depressione respiratoria ed ipotensione. L'ipotensione risulta da una combinazione tra venodilatazione, attività simpaticolitica, bradicardia vago-mediata e rilascio di istamina. L’antagonista di tutti questi farmaci è il naloxone, un antagonista competitivo per i recettori µ.

 Morfina

La morfina appartiene alla classe degli analgesici narcotici ed è il principale alcaloide dell’oppio. Le principali azioni della morfina si esplicano a livello del sistema nervoso centrale, dell’apparato respiratorio e dell’apparato digerente e la sua somministrazione ripetuta induce dipendenza sia di natura fisica che psicologica e tolleranza.

La morfina possiede un'emivita di 2-3 ore dopo somministrazione endovenosa, eccetto in caso di disfunzione epatica o renale. Ha una solubilità modesta che aumenta il tempo di penetrazione nel Sistema Nervoso Centrale ed ne prolunga gli effetti. Il metabolita attivo della morfina, morfina-6-glucuronide, che possiede azioni farmacologiche indistinguibili da quelle della morfina, si accumula in caso di insufficienza renale incrementando ulteriormente la durata d'azione.

Gli effetti sul sistema nervoso centrale comprendono analgesia, sonnolenza, cambiamenti dell’umore (euforia, sedazione, letargia e apatia) e obnubilazione mentale. La morfina modifica il punto di equilibrio dei meccanismi regolatori ipotalamici e tale azione determina una leggera diminuzione della temperatura corporea (Martin, 1983). Il farmaco, sempre a livello ipotalamico, inibisce il rilascio dell’ormone stimolante le gonadotropine (GnRH) e del fattore stimolante la corticotropina (CRF),

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20 determinando una diminuzione delle concentrazioni dell’ormone luteinizzante (LH), follicolostimolante (FSH), ACTH e beta-endorfina. La somministrazione di morfina riduce l’azione inibitoria esercitata dalla dopamina sulla secrezione di prolattina; tale effetto provoca un aumento dei livelli plasmatici di prolattina.

Il più pericoloso effetto collaterale della morfina è rappresentato dalla sua potente azione depressiva sul centro del respiro, che in caso di intossicazione acuta può portare a coma e a morte per paralisi respiratoria. Per questo motivo la morfina è controindicata per i soggetti asmatici e per chi soffre di enfisema o di altre patologie caratterizzate da ridotta efficienza respiratoria. Altri effetti indesiderati comprendono nausea, prurito, miosi (pupilla puntiforme) e stipsi. L'assunzione cronica di morfina provoca assuefazione e, come tale, si accompagna ad una resistenza ai suoi effetti terapeutici. Per ovviare a questo fenomeno della tolleranza e mantenere la medesima azione, è dunque necessario aumentare gradualmente la dose. Da non sottovalutare, infine, la vera e propria dipendenza fisica dall'alcaloide: quando l'assunzione viene interrotta bruscamente, il paziente lamenta infatti una forte mancanza dello stato euforico da esso prodotto.

 Remifentanil

Il remifentanil è un potente agonista del recettore μ degli oppioidi che è stato approvato per l'uso analgesico durante l'induzione ed il mantenimento dell'anestesia generale per la prima volta nel 1996. Nel 2002 il farmaco è stato approvato dalla European Medicines Agency come analgesico per una durata fino a 3 giorni in pazienti ventilati meccanicamente in Terapia Intensiva, di età superiore o uguale ai 18 anni. A differenza degli altri oppioidi, remifentanil è completamente metabolizzato ad opera di esterasi non specifiche ematiche e tissutali. Il principale prodotto di questo metabolismo, l'acido remifentanilico, è scarsamente attivo a causa della sua bassa affinità per il recettore μ. L’attività µ-oppioide di remifentanil è antagonizzata dagli antagonisti dei narcotici, come il naloxone.

Il farmaco è caratterizzato da una rapida insorgenza di attività e da una durata d’azione molto breve: possiede un onset time di circa 1 minuto ed un'emivita efficace, a seguito della somministrazione di dosi raccomandate (6–15 μg/kg/h), da 3 a 10 minuti circa.

Gli eventi avversi più comunemente associati con l’impiego di remifentanil sono una diretta conseguenza dell’azione farmacologica

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21 agonista µ-oppioide: brividi post-operatori, nausea, vomito, depressione respiratoria, ipotensione, bradicardia e rigidità muscoloscheletrica. Tali eventi avversi scompaiono entro alcuni minuti dall’interruzione o dalla riduzione della velocità di somministrazione di remifentanil. Il rischio di effetti cardiovascolari quali ipotensione e bradicardia, che possono raramente essere la causa di arresto cardiocircolatorio e che non raccomandano l'uso di remifentanil in bolo, può essere limitato riducendo la velocità di infusione del farmaco o la dose di anestetici concomitanti, o può essere contrastato con l'utilizzo di agenti vasopressori o anticolinergici.  Fentanyl

Il fentanyl è un oppioide sintetico cento volte più potente della morfina. Ha un onset d’azione rapido dovuto alla sua liposolubilità. La sua emivita è circa 30-90 min. Questo farmaco induce una minore instabilità emodinamica, in parte perché non produce il rilascio di istamina come la morfina. Questo aspetto, insieme alla sua breve durata d’azione, rende il fentanyl il farmaco preferito nei pazienti con shock circolatorio.

Effetti dei farmaci sulla qualità del sonno nel paziente critico

Nonostante i numerosi studi condotti su modelli animali o su individui sani abbiano ormai chiarito in larga parte meccanismi d’azione e possibili effetti dei farmaci sedativi ed analgesici impiegati in UTI, non è ancora chiaro in che misura queste conoscenze siano applicabili nel caso di pazienti in condizioni critiche. I pazienti ricoverati in UTI presentano infatti condizioni cliniche complesse, su cui influiscono numerosi fattori, ed è dunque plausibile che questo condizioni in misura più o meno evidente l’effetto dei farmaci sul sonno. Sfortunatamente, pochi studi sono stati finora condotti in maniera controllata con l’obiettivo di valutare l’effetto di sedativi e analgesici sulle proprietà del sonno e sulla percezione della sua qualità da parte del paziente ricoverato in Terapia Intensiva. Ciò è in parte dovuto, indubbiamente, alla difficoltà di valutare l’azione di singoli farmaci o protocolli terapeutici in soggetti che spesso presentano condizioni cliniche complesse, le quali possono a loro volta richiedere trattamenti specifici. Le differenze nella storia clinica e nella gravità della malattia dei diversi pazienti rappresenta un altro possibile fattore di confondimento.

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22 E’ pur vero, comunque, che solo in tempi relativamente recenti si è iniziato a comprendere appieno che il problema del sonno per il paziente ricoverato in UTI è, in verità, ben più complesso di quanto possa apparire, e che numerosi aspetti meritano nuove indagini ed ulteriori verifiche.

Un primo studio che ha cercato di valutare gli effetti del trattamento farmacologico sulla qualità del sonno nei pazienti in Terapia Intensiva è quello condotto da Treggiari-Venzi e colleghi . In tale studio è stato comparato l’impatto di una sedazione notturna con midazolam o propofol sui livelli di ansia e depressione e sulla qualità del sonno percepita in pazienti non intubati ricoverati in Terapia Intensiva. Sono stati inclusi 32 soggetti ricoverati in Terapia Intensiva per almeno 5 giorni, ammessi in seguito a trauma o chirurgia elettiva. Sia l’ansia (valutata con l’Hospital Anxiety and Depression Scale) che la qualità del sonno (valutato su una scala da 0 a 10) sono stati misurati in maniera soggettiva mediante questionari somministrati al primo, terzo e quinto giorno di ricovero. I dati dello studio hanno evidenziato che metà dei pazienti in Terapia Intensiva mostravano alti livelli di ansia e depressione nei cinque giorni di ricovero. Inoltre è stato osservato un trend di miglioramento nella qualità del sonno rispetto alla condizione basale, senza differenze significative tra i pazienti sedati con Midazolam o Propofol.

In un recentissimo studio condotto da Kondili e collaboratori sono stati analizzati gli effetti del propofol sulla qualità del sonno in 12 pazienti ventilati meccanicamente ricorrendo invece a registrazioni polisonnografiche. In soggetti sani, il propofol induce una perdita di coscienza che si accompagna alla comparsa all'EEG di onde lente che assomigliano alle onde proprie del sonno NREM, quando venga impiegato a dosi elevate . Dati indiretti in letteratura indicano invece che dosi più basse di propofol possono invece avere effetti negativi sul sonno. Nello studio in questione è stato somministrato propofol ad una dose tale da mantenere un livello di sedazione 3 di Ramsay Sedation Scale (RSS) .

I pazienti non ricevevano alcun altro sedativo od oppioide, in quanto farmaci intrinsecamente capaci di alterare l'architettura del sonno. Ciascun paziente veniva dunque osservato e l’EEG veniva registrato per due notti consecutive con o senza somministrazione di propofol, in ordine casuale. Nella notte in cui veniva impiegato il propofol, veniva usato un bolo di 0.01-0.05 mg/kg alle ore 22 seguito da infusione continua, che veniva poi interrotta alle 7 della mattina successiva. In tutti i pazienti, e in entrambe le condizioni sperimentali, si è potuta osservare un'alterata architettura del

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23 sonno con l'assenza della normale e sequenziale progressione attraverso i classici stadi. La somministrazione di propofol risultava associata ad una soppressione del sonno REM, in alcuni casi con la sua totale scomparsa. Di fatto, nonostante l’alterata qualità globale, il 50% dei pazienti a cui non era stato somministrato propofol presentavano invece questo stadio del sonno. Curiosamente, il sonno ad onde lente è stato osservato infrequentemente, e l’efficienza del sonno non è sembrata essere influenzata in maniera consistente dalla somministrazione di propofol.

L'infusione di propofol a dosi titolate per ottenere la profondità di sedazione raccomandata, non solo ha fallito nell'intento di migliorare l'architettura del sonno, ma ne ha anche peggiorato la qualità, a causa dell'eliminazione della fase REM. Di fatto, anche se la funzione specifica del REM e le conseguenze della sua assenza non sono ancora chiare, è noto che questa condizione può predisporre al delirium e al PTSD. L'incapacità del propofol di migliorare la qualità del sonno sembra contraddire i risultati sui modelli animali, che associavano il propofol ad un pattern di sonno simile a quello fisiologico e ristoratore. Questa osservazione potrebbe avere diverse spiegazioni. Oltre naturalmente alla non sempre attendibile corrispondenza tra i modelli animali e l’uomo, infatti, va considerato che i pazienti della Terapia Intensiva presentano caratteristiche cliniche peculiari, e che l’effetto del farmaco potrebbe essere dose-dipendente. In questo senso, ulteriori studi che chiariscano il rapporto tra dose di propofol, livello di sedazione e qualità del sonno del paziente critico saranno necessari per determinare la strategia di trattamento migliore.

Gli effetti sulla qualità del sonno indotti dal Propofol sono stati confrontati con quelli provocati da DEX in uno studio realizzato da Corbett e collaboratori , i quali hanno impiegato questionari relativi alla percezione soggettiva della qualità del sonno in 89 pazienti in Ventilazione meccanica ricoverati in Terapia Intensiva dopo bypass coronarico. Il DEX ha proprietà sedative e analgesiche che inibisce il rilascio di noreprinefina nel locus ceruleus e incrementa il sonno ad onde lente mimando il normale meccanismo endogeno del sonno NREM, ed è per questo considerato particolarmente promettente per il trattamento di pazienti critici. Ai soggetti inclusi nello studio veniva chiesto di valutare il numero dei risvegli, i ricordi, il comfort generale, il livello di dolore, la capacità di interagire con i familiari e i sanitari, la capacità di addormentarsi, il livello di agitazione e ansia e il livello generale di soddisfazione nell’esperienza in Terapia Intensiva. E’ stato dunque osservato che i pazienti trattati con

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24 Propofol riportavano un sonno migliore e più ristoratore, mentre quelli a cui era stato somministrato DEX dichiaravano maggior discomfort e difficoltà di addormentamento. Il livello di sedazione ottenuto è risultato significativamente maggiore per il Propofol rispetto al DEX, e questo può in parte spiegare il diverso effetto sulla qualità del sonno. D’altro canto i pazienti trattati con DEX hanno avuto un tempo di intubazione più breve.

Altri due recenti studi clinici che hanno indagato gli effetti del DEX sul sonno dei pazienti in Terapia Intensiva hanno dimostrato che la sedazione con questo farmaco è associata ad una minore incidenza di delirium rispetto al trattamento con Benzodiazepine .

Uno studio ancor più recente ha valutato l’effetto del DEX anche su parametri oggettivi come quelli garantiti dalla registrazione PSG. Oto e colleghi hanno effettuato una registrazione polisonnografica nell’arco delle 24 ore su pazienti in ventilazione meccanica durante infusione con DEX (0.2-0.7μg/kg/h) mirata a mantenere uno stadio fra 1 e 4 della Richmond Agitation Sedation Scale (RASS) durante le ore notturne. Durante il giorno venivano sospesi trattamento sedativo ed analgesico, a meno che il paziente non mostrasse segni di malessere. I risultati delle studio hanno evidenziato che questo tipo di approccio permetteva di osservare un numero di risvegli/arousal notturni nei limiti della norma, e una percentuale del tempo totale di sonno concentrata per l’80% durante le ore notturne (diversamente dal 50% circa riportato in letteratura per i pazienti critici). L’interruzione nella somministrazione di sedativi durante le ore diurne potrebbe aver contribuito alla normalizzazione del ritmo circadiano (non alterando, a differenza della sedazione continua, la secrezione di melatonina) ed evitato un eccessivo spostamento del sonno durante le ore diurne. Nonostante questo, il sonno è risultato profondamente alterato, con una prevalenza di stadio N2 e la quasi totale assenza di sonno a onde lente e REM. Come abbiamo avuto modo di accennare, nonostante il DEX presenti svariati vantaggi teorici, questi studi evidenziano come questi potrebbero essere in verità assenti, o comunque sfumati, nel paziente ricoverato in Terapia Intensiva.

Ancora Oto e colleghi hanno messo a confronto le caratteristiche del sonno in pazienti in ventilazione meccanica sottoposti ad un protocollo di sedazione continua (Continuos Sedation, CS) o intermittente (Daily Sedative Interruption, DSI), entrambi praticati con l'utilizzo di Midazolam (unica Benzodiazepina approvata per l'infusione continua e comunemente utilizzata per la sedazione a lungo termine). Lo scopo dello studio era

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25 quello di valutare se il DSI potesse ridurre la quantità di sedativo da somministrare e quindi evitare alcuni degli effetti collaterali sull'architettura del sonno. I 22 pazienti inclusi nello studio sono stati assegnati in maniera randomizzata al gruppo DSI o a quello CS, e sono stati sottoposti a registrazione PSG continua nell’arco delle 24 ore. Nel gruppo DSI (n=11) la sedazione veniva sospesa alle 6 del mattino fino al completo risveglio del paziente; se il paziente lamentava malessere o diveniva agitato, veniva somministrato Midazolam. Alle ore 21 veniva ripresa l'infusione, mantenendo un indice della RSS tra 4 e 5. I pazienti assegnati al gruppo CS ricevevano invece Midazolam in infusione continua per tutto l'arco delle 24 ore, mantenendo anch'essi un RSS compreso tra 4 e 5.

I risultati ottenuti hanno permesso di dimostrare che mentre nel gruppo DSI si osservano sonno ad onde lente e sonno REM durante le ore notturne, nel gruppo CS il sonno è distribuito durante tutto l'arco delle 24 ore con predominanza degli stadi 1 e 2 del sonno NREM (sonno a onde lente e REM sono risultati estremamente ridotti o non osservabili). Nel gruppo DSI, il sonno a onde lente e REM sono stati osservati nella maggioranza dei pazienti ed hanno mostrato una durata maggiore rispetto a quelli osservati nel gruppo CS. Va comunque considerato che in quest’ultimo gruppo si è reso necessario un maggior ricorso all'uso di morfina o fentanil, che possono aver causato la riduzione delle fasi associate al sonno profondo. Il tempo totale di sonno è risultato maggiore nel gruppo CS, ma di questo, il 57% veniva speso durante le ore diurne, mentre nel caso del DSI questo costituiva solo il 40%. Nel gruppo DSI è stata osservata una maggior incidenza di risvegli notturni rispetto al gruppo CS. I pazienti assegnati al gruppo DSI hanno ricevuto quantità minori di midazolam, pur mantenendo lo stesso target di sedazione RSS, e questo potrebbe aver contribuito all'aumento del sonno a onde lente e del REM rispetto al gruppo CS. La necessità di minori quantità di Midazolam potrebbe essere legata ad un minor tasso di tolleranza al farmaco resa possibile dalla somministrazione intermittente.

Gli ultimi due studi qui riportati sembrano suggerire che la sedazione intermittente possa portare benefici importanti ai pazienti in ventilazione meccanica, promuovendo un sonno ristoratore, aiutando a mantenere i normali ritmi circadiani, e favorendo una riduzione del dosaggio complessivo dei sedativi utilizzati. Risultati in parte contrastanti sono stati però ottenuti da uno studio condotto da Hardin e colleghi che metteva a

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26 confronto sedazione intermittente e sedazione continua con e senza bloccanti neuromuscolari. In questo caso venivano impiegati Lorazepam, titolato per ottenere un livello di sedazione compreso tra 3 e 4 della RSS, e Morfina somministrata in maniera intermittente o in infusione continua, per analgesia. Questo studio ha mancato di riconoscere particolari benefici per la sedazione intermittente, ed ha viceversa riportato un incremento del sonno a onde lente in tutti i gruppi di intervento. I pazienti in sedazione intermittente hanno mostrato un minor tempo totale di sonno, con una maggior percentuale di stadio N2, e una riduzione di quello N1. Va comunque notato che, seppur notevolmente ridotto, il sonno REM è stato osservato nella maggior parte dei pazienti in questo gruppo, ma in meno del 50% dei soggetti inclusi negli altri due gruppi. Il protocollo di studio non specifica comunque le modalità di interruzione e ripresa del trattamento in caso di sedazione intermittente, non chiarendo se tale interruzione avvenisse durante il giorno o con diversi intervalli. Tenendo in considerazione i risultati spesso discordanti e le numerose limitazioni di questi studi, tra cui l’assenza di controlli interni ottimali, appare evidente la necessità di ulteriori ricerche per valutare gli effettivi benefici di una sedazione intermittente rispetto a quella continua, oltre che i farmaci da impiegare a questo scopo.

Affrontiamo in questa sede, infine, i promettenti risultati recentemente ottenuti riguardo al possibile impiego della melatonina esogena per ridurre i disturbi del ciclo sonno-veglia nei pazienti ricoverati in Terapia Intensiva. Nell’uomo la melatonina viene prodotta durante i periodi di oscurità (la secrezione è inibita durante il giorno) a livello dell’epifisi, localizzata alla base del cervello, e va a favorire il normale processo di addormentamento. La somministrazione di melatonina esogena è stata proposta per migliorare la qualità del sonno nei pazienti ricoverati in Terapia Intensiva . Studi recenti hanno dimostrato che la melatonina potrebbe portare un aumento della quantità totale di ore di sonno e della sua efficienza, anche se valutazioni soggettive da parte dei pazienti hanno mancato di identificare sostanziali differenze rispetto al placebo . Studi futuri potrebbero chiarire l’effettiva efficacia di questo approccio, da solo o in combinazione con altri protocolli di sedazione e analgesia, nel migliorare la qualità del sonno dei pazienti critici.

Gli studi riportati in questo capitolo pongono in risalto le attuali lacune nelle conoscenze degli effetti dei farmaci sedativi e analgesici, pur largamente usati in Terapia Intensiva, sul sonno dei pazienti critici.

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27 Queste indagini sembrano indicare che gli effetti osservati in modelli animali o in pazienti sani non siano esattamente gli stessi riscontrabili nei pazienti ricoverati in UTI, e ciò probabilmente a causa di numerosi fattori concomitanti, che includono le altre terapie eventualmente in atto e la malattia stessa. E’ importante inoltre considerare che i pazienti ricoverati in UTI presentano frequentemente alterazioni del ciclo sonno veglia pre-esistenti e che, pertanto, l’intervento farmacologico ottimale non dovrebbe limitarsi a non alterare il sonno, ma dovrebbe, piuttosto, contribuire a ripristinarne almeno in parte la struttura e l’efficienza. Da quanto abbiamo visto, nessuno dei farmaci attualmente usati sembra poter rispondere a questo criterio, ma alcune indicazioni importanti emergono comunque dalle ricerche svolte in questo campo. Sembra evidente, ad esempio, che la soppressione completa del sonno REM possa avere notevoli ripercussioni negative sulla qualità della vita del paziente, potendo indurre un effetto rebound accompagnato da incubi, ansia e paura. In questo senso, farmaci che alterano questa fase del sonno, come Benzodiazepine ed Oppioidi, dovrebbero essere probabilmente impiegati con maggiore cautela. Protocolli basati sull’interruzione della sedazione e analgesia durante le ore diurne sembrano essere associati a una minor compromissione del sonno REM e di quello a onde lente, e potrebbero favorire il ripristino del naturale ciclo sonno-veglia. Gli studi che hanno confrontato propofol e DEX indicano inoltre che, almeno a livello soggettivo, i pazienti hanno maggiori vantaggi con il primo di questi farmaci. D’altro canto, i riscontri EEG suggeriscono che il dosaggio e, dunque il livello di sedazione, debbano essere valutati per evitare sovra o sotto dosaggi, magari proprio con l’aiuto di registrazioni polisonnografiche.

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Capitolo IV

Proposta di protocollo di sedazione SCOPO

Scopo del presente protocollo è descrivere le modalità di effettuazione dell’analgo-sedazione in Terapia Intensiva (ICU).

Sedazione ed adeguata analgesia rappresentano infatti un aspetto cruciale della gestione del malato critico in ICU. Scopo dell’analgo-sedazione è il raggiungimento di: adeguato comfort, controllo del dolore, adeguata ansiolisi ed amnesia, con stabilità emodinamica, ridurre il consumo di ossigeno, facilitare le manovre di nursing ed adattare il paziente alla ventilazione meccanica. Esistono molti fattori che rendono difficile definire un trattamento standard della sedazione in ICU: la varietà delle patologie con diverso grado di compromissione d’organo, l’instabilità emodinamica, le alterazione di farmacocinetica e farmacodinamica del paziente critico ed infine le difficoltà di monitoraggio e rilevazione del livello di sedazione. Ansia ed agitazione sono eventi frequenti nel paziente critico, spesso scatenate da cause multifattoriali: organiche quali ipossiemia, ipoglicemia, dolore, astinenza da farmaci o alcool oppure scatenate da frequenti ed improvvise stimolazioni, procedure invasive, deprivazione del sonno, posizione supina obbligata, continua presenza di rumori e di luce ambientale nonché l’impossibilità di comunicare con il personale.

Una volta affrontate e, per quanto possibile, risolte le cause organiche, in particolar modo la presenza di dolore, e ridotti al minimo i fattori ambientali, le linee guida internazionali pongono l’indicazione alla terapia farmacologica.

Adeguati livelli di sedazione rappresentano quindi un obiettivo primario nel trattamento del paziente di Terapia Intensiva poiché consentono l’esecuzione di manovre diagnostiche e terapeutiche invasive, assicurano un adeguato comfort al paziente e riducono il rischio di autorimozione di presidi invasivi.

Negli ultimi anni si è assistito ad un progressivo incremento di pubblicazioni scientifiche sull’argomento della sedazione, finalizzate alla ricerca del farmaco più adeguato, al miglior schema di somministrazione o al sistema ottimale di monitoraggio del livello di sedazione raggiunto.

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29 In particolare, l’indirizzo prevalente che sta emergendo dalla letteratura internazionale indica l’opportunità di porre obiettivi di sedazione molto più superficiale rispetto al passato in quanto la terapia sedativa ha numerosi potenziali effetti negativi sull’emodinamica, sul processo di weaning respiratorio e sulla durata della degenza in Terapia Intensiva. Non ultimo è il problema economico, determinato dall’alto costo dei farmaci comunemente più usati nella sedazione di questi pazienti.

Recenti studi osservazionali condotti in Terapia Intensiva su scala nazionale, hanno contribuito a descrivere il quadro dell’attuale gestione della terapia sedativa; per quanto riguarda la scelta degli agenti sedativi, le linee guida pubblicate dall’American College of Critical Care Medicine raccomandano l’uso di fentanyl o morfina per l’analgesia, midazolam o propofol per la sedazione a breve termine e lorazepam per quella a lungo termine.

I farmaci più utilizzati nella realtà sono morfina e midazolam anche per le sedazioni più lunghe a discapito del lorazepam: queste indagini dimostrano come il fattore critico nella scelta del farmaco endovenoso sia la brevità dell’azione rispetto al costo.

Tra il 60 e l’80% delle ICU utilizza uno specifico score per valutare il livello di sedazione dei pazienti ed adattare la terapia ai bisogni individuali; le moderne tecniche di ventilazione artificiale rendono infatti possibile l’utilizzo di livelli di sedazione più superficiali.

Lo score più utilizzato è risultato il Ramsay Sedation Scale (66,5%) seguito dal Richmond Agitation Sedation Scale (RASS) (5,4%); quest’ultimo ha mostrato ottima affidabilità e poca variabilità inter-individuale.

Diversi studi hanno poi dimostrato che l’utilizzo di un protocollo di sedazione all’interno dell’Unità Intensiva riduce i giorni di ventilazione meccanica, la durata della degenza ed i costi. I protocolli prevedono l’utilizzo di scale validate per la valutazione, da parte del personale medico/infermieristico, della presenza di dolore (Behavioral Pain Scale, BPS), del livello di sedazione (es. RASS) e del delirium (es. Confusion Assessment Method for the Intensive Care Unit, CAM-ICU).

L’alleggerimento del piano sedativo ha determinato miglior efficacia terapeutica: la sospensione giornaliera della somministrazione di sedativi riduce la durata della ventilazione meccanica e le complicanze in Terapia Intensiva, ma questa procedura non è ancora universalmente utilizzata a causa del potenziale aumento di rischio di rimozione dei presidi invasivi e la preoccupazione per il possibile aumento dello stress e del disagio per il

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30 paziente. L’interruzione giornaliera di sedativi associata a test di respiro spontaneo permette di diminuire il numero di giorni di ventilazione meccanica ed anche la prevalenza di delirium è diminuita in pazienti tenuti a livello di sedazione più superficiale. Infine la minore necessità di eseguire esami radiologici per escludere possibili cause organiche di risveglio rallentato o insufficiente ha comportato una riduzione dei costi. Le più recenti linee sulla sedazione e l’analgesia indicano come obiettivo preferenziale un livello di sedazione superficiale che permetta di mantenere il paziente sveglio, tranquillo e collaborante.

Ad oggi la via più utilizzata per la somministrazione dei sedativi è quella endovenosa, con indicazioni sulla possibilità di utilizzo della sedazione per via enterale che rimangono marginali. Recenti studi hanno dimostrato come il tratto gastroenterico sia funzionale ed utilizzabile, per farmaci a scopo nutrizionale, nella stragrande maggioranza dei casi, anche in situazioni cliniche estremamente complesse e nelle fasi molto precoci della degenza in Terapia Intensiva.

Alcuni studi hanno dimostrato che la sedazione enterale pura è fattibile ed efficace quando l’obiettivo della sedazione è avere un paziente tranquillo, sveglio e cooperante comprendendo i periodi di sonno fisiologico. L’83% dei pazienti ad alto rischio ha mantenuto con successo questo livello di sedazione, inoltre questa strategia sedativa permette di ottenere notevoli vantaggi in termini di stabilità emodinamica, ridotta interferenza con lo svezzamento ventilatorio e riduzione dei costi rispetto all’approccio endovenoso totale.

CAMPO DI APPLICAZIONE

Il presente protocollo deve essere applicato a tutti i pazienti ricoverati in ICU, siano essi in respiro spontaneo o in ventilazione meccanica.

Ovviamente la scelta dei farmaci, con riferimento ai protocolli di seguito presentati, verrà effettuata sul singolo paziente da parte del personale Medico di Reparto. Non esiste il farmaco ideale e pertanto la scelta terapeutica deve essere eseguita dopo attenta valutazione dell’anamnesi, del quadro clinico attuale e valutazione del rapporto rischiobeneficio. Particolare attenzione andrà posta al paziente anziano, cardiopatico, insufficiente renale, BPCO, obeso o comunque in tutte quelle condizioni di instabilità cardiocircolatoria.

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DESTINATARI

Destinatari di questo protocollo sono tutti i Medici Anestesisti-Rianimatori e gli Infermieri dell’U.O. Anestesia, Rianimazione e Terapia Antalgica. MODALITA’ DI SVOLGIMENTO DELL’ATTIVITA’

Analgo-sedazione

Per raggiungere precocemente e mantenere un livello di sedazione cosciente

(RASS = 0) si effettuerà la titolazione dei sedativi al minimo necessario. La qualità della sedazione verrà considerata adeguata in base alla percentuale di ore nelle quali il malato mantiene il livello di sedazione adeguato in accordo con il metodo di controllo utilizzato. Tutto ciò può essere rappresentato con la seguente formula:

h di adeguata sedazione

Qualità sedazione = --- x 100 totale h di sedazione

Un valore maggiore dell’85% rappresenta un target accettabile di adeguatezza della sedazione. Ad ogni turno verrà rinnovata la decisione relativa alla sedazione da praticare: se i medici curanti indicano un obiettivo di sedazione profonda (RASS < -3) tale scelta dovrà essere motivata e registrata. Se si riscontra dolore (VNR > 3 oppure BPS > 6) verrà praticata analgesia secondo protocollo con durata minima possibile. Manovre e procedure invasive

Il trattamento del dolore procedurale verrà effettuato mediante l’utilizzo di farmaci,

somministrati in boli ev, a rapido onset e prevedibile offset:  Propofol: 1-2 mg/kg

 Midazolam: 5 mg (maggiore utilizzo nel paziente cardiopatico)  Fentanyl: 1-2 mcg/kg

Particolare attenzione andrà posta alla valutazione del dolore per i pazienti incapaci di parlare ricercando segni clinici specifici:

- variazione di parametri fisiologici (FC, PA, frequenza respiratoria) - presenza di agitazione, lacrimazione, dilatazione pupillare, sudorazione - variazione dell’espressione facciale

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Protocolli di trattamento

La scelta del tipo di farmaco è ovviamente subordinata alla tipologia di paziente.

1) Analgesia ev

- Morfina: dose carico 0.05 mg/kg poi infusione continua di 4-6 mg/h - Fentanyl (Fentanest®): dose carico 1-2 mcg/kg poi infusione di 1-3 mcg/kg/h

- Remifentanyl (Ultiva®): nessun bolo starter, infusione continua di 0.02 mcg/kg/min con aumenti o decrementi di 0.01 mcg/kg/min sino al raggiungimento

dell’obiettivo.

2) Sedazione ev

- Midazolam (Ipnovel®): dose in bolo 0.03 mg/kg poi infusione di 0.03 mg/kg/h

- Propofol (Diprivan®): dose iniziale 0.5 mg/kg/h aumentabile ogni 5-10 min di

0.5 mg/kg; dose di mantenimento 0.5-3 mg/kg/h (dose massima 5 mg/kg/h per 5 giorni)

Farmaci additivi:

- Clonidina: in dosi bolo o in infusione

- Dexmedetomidine (DEX): prevede un carico di 1 μg/kg somministrato in un periodo di 10 minuti, seguito da un'infusione continua di 0.2-0.7 μg/kg/h (< 24 h).

- Sodium Oxybate (Alcover®) (alcoolisti): 50 mg/kg/die in tre dosi giornaliere

ogni 4 h (dose massima 100 mg/die)

3) Analgesia enterale

- Tramadolo (Contramal®): considerare un dosaggio di 4-5 mg/kg, dose massima

400 mg/die

- Ossicodone (Oxycontin®): 15 mg ogni 2-4 h - Metadone (Metadone cloridrato®): 50-90 mg/die

4) Sedazione enterale

- Lorazepam (Tavor®): 2-3 mg/die in cp oppure 20-40 gtt 2-3 volte/die - Quetiapina fumarato (Seroquel®): 2v/di per 4 giorni con incremento progressivo giornaliero (50-100-200-300 mg) poi 300 mg/die

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33 In merito alla terapia endovenosa, la somministrazione dei farmaci può avvenire in bolo oppure mediante infusione continua. Entrambe le tecniche presentano vantaggi e svantaggi ma, a tutt’oggi, l’infusione continua è la via maggiormente utilizzata.

L’infusione continua garantisce un livello di sedazione costante ottimizzando il comfort del paziente ma, allo stesso tempo, espone al rischio di maggior consumo di farmaco, rischio di sedazione eccessiva e tempi di recupero più lunghi.

L’utilizzo di boli ev determina una concentrazione plasmatica di farmaco fluttuante associata a livelli incostanti di sedazione ed un minor consumo di farmaci ma, espone al rischio di una sedazione insufficiente.

Raccomandazione SIAARTI

Indipendentemente dalla tecnica scelta si raccomanda l’utilizzo di una via venosa dedicata alla sedazione per evitare il rischio di boli occulti. Sarebbe auspicabile evitare la sospensione brusca della terapia nei casi di spostamento del paziente esami diagnostici e/o trasferimenti. Si raccomanda infine che la scelta dei farmaci, tenendo conto della presumibile durata d’azione (emivita contesto-sensibile), si adatti alla durata programmata del regime di analgo-sedazione.

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Protocollo per l’interruzione giornaliera della sedazione e lo svezzamento dal respiratore

Una buona percentuale di pazienti ammessi in terapia intensiva necessita di ventilazione meccanica e quindi di sedazione farmacologica continuativa.

L’utilizzo di farmaci sedativi in T.I. si rende indispensabile per aumentare la tolleranza del paziente al discomfort generato dalle metodiche invasive, per ridurre il dolore e l’ansia provocati dalle condizioni critiche, per facilitare le cure infermieristiche e per garantire la sicurezza del paziente. Tuttavia questi farmaci non sono esenti da effetti collaterali, molti dei quali possono derivare da un eccessivo effetto sedativo, con prolungamento della durata della ventilazione meccanica e conseguente aumento del rischio di complicanze, tra cui l’insorgenza di VAP.

Recenti studi clinici hanno focalizzato la loro attenzione sulla modalità di gestione della sedazione che possono consentire un’estubazione precoce, dimostrando che una strategia di sedazione intermittente associata all’applicazione giornaliera di un test di respiro spontaneo può ridurre la durata della ventilazione meccanica senza compromettere il comfort e la sicurezza del paziente.

OBIETTIVO

L’obiettivo principale di questo protocollo è quello di implementare la strategia di interruzione giornaliera della sedazione associata a trial di respiro spontanei quotidiani, poiché è stato dimostrato che tali pratiche sono efficaci nel ridurre la durata della ventilazione meccanica e le complicanze ad essa associate, determinando quindi un miglioramento dell’outcome dei pazienti.

DESTINATARI

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