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I festival culturali hanno una linea culturale? Analisi del caso Suoni di Marca Festival

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Academic year: 2021

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INDICE

Premessa pag. 5

PARTE I

I FESTIVAL CULTURALI TERRITORIALI E L’ECONOMIA DELL’ESPERIENZA

1. Postmodernità: prodotti culturali e marketing pag. 11

1.1. Un nuovo consumatore: il mercato fisico e il mercato virtuale » 11

1.2. I prodotti culturali: una nuova frontiera economica » 16

1.3. Le industrie culturali: arte, comunicazione e media » 20

2. L’economia e il marketing esperienziale pag. 26 2.1. Esperienza: cos’è? » 26

2.2. Il Marketing Esperienziale » 29

2.3. Fattori che influenzano la strategia di Marketing Esperienziale » 32

2.4. Consumer-to-Consumer Interactions » 38

3. I Festival Culturali e la promozione del territorio pag. 41 3.1. Nuovi format: i festival culturali » 41

3.2. Il turismo culturale territoriale nell’era del postmodernismo » 47

3.3. Il territorio: un sistema multiforme » 55

3.4. I festival culturali come strumento di sviluppo della competitività territoriale tra dimensione locale e globale » 57

4. Festival culturali italiani: una panoramica nazionale pag. 64

PARTE II

IL CASO: SUONI DI MARCA FESTIVAL 5. Premessa Metodologica pag. 75 5.1. Approcci per l’analisi dei festival culturali territoriali » 75

5.2. La metodologia adottata » 80

6. Suoni di Marca Festival: una realtà culturale locale ed il suo sviluppo pag. 83 6.1. Il contesto: la Marca Trevigiana » 83

6.2. La nascita dell’idea » 86

6.3. Lo sviluppo della location » 91

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7. Fase attuale: la gestione del successo pag. 99

8. Conclusioni pag. 110

9. Appendice pag. 114

10. Sitografia pag. 126

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PREMESSA

Nell’epoca postmoderna il format dei festival culturali ha vissuto un’ampia diffusione, in risposta all’incremento della domanda di attività culturali ed esperienziali da parte del pubblico.

Come effetto di questo aumento, è cresciuta esponenzialmente l’offerta di eventi che potessero rispondere a queste nuove e manifeste esigenze, sotto la spinta di diverse forze contrastanti: da un lato l’immersione in una nuova dimensione – rappresentata dal marketing esperienziale – come conseguenza di una rivelata volontà di attiva partecipazione da parte degli spettatori, dall’altro la valorizzazione di un patrimonio artistico e culturale territoriale che possa fungere da elemento di differenziazione tra festival culturali concorrenziali, e – non di minore importanza – il mantenimento di un difficile equilibrio tra obiettivi economico-manageriali e aspettative dei consumatori.

Questa premessa getta quelle che sono le fondamenta dell’indagine posta in atto in questo elaborato: i festival culturali presenti oggigiorno sul mercato seguono una ben identificata linea culturale? C’è in altre parole la volontà di trasmissione di un messaggio culturale originale ed educativo nell’organizzazione di eventi di questo genere, oppure restano soltanto ormai i caratteri di esperienzialità ed economicità nell’offerta di festival culturali?

Purtroppo in letteratura questa questione non è stata ancora molto affrontata.

Per fornire una risposta il più efficace ed esaustiva possibile a queste domande si è dunque fatto anzitutto riferimento alla letteratura in termini di postmodernità, economia dell’esperienza e turismo culturale territoriale, nel tentativo di disegnare un quadro generale completo dell’oggetto di studio. Scopo principale della prima parte di questo elaborato è definire dunque il contesto entro il quale l’offerta di festival culturali vive e si è evoluta, fornendo informazioni e considerazioni fondamentali per

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la corretta analisi del caso Suoni di Marca Festival, esaminato nella seconda parte dello studio.

Questo lavoro è stato a tal fine strutturato in sette capitoli. Nel primo si presenta l’evoluzione avvenuta in campo culturale con l’avvento dell’epoca postmoderna, frutto di una rottura rispetto alla modernità e dell’irrompere di un nuovo modo di pensare e agire. Sulla scia di questo profondo mutamento i prodotti culturali diventano così un mezzo di rappresentazione dell’individuo, di alienazione dalla realtà, sulle ceneri della società chiusa di stampo preindustriale.

Arte, svago e cultura si ibridano così sotto il comune denominatore dell’industria culturale, emblema di quello che Jameson (1989) definirà pastiche. Se nel passato l’arte è sempre stata un modo per gestire ed entrare consapevolmente nella realtà – come nel caso dell’arte sacra – nell’epoca postmoderna diventa soprattutto momento di evasione. La necessità di affermazione sociale e di vivere un’esperienza culturale che si manifestano in quest’epoca rispondono così allo stesso bisogno del consumatore postmoderno: fuggire dalle ansie della quotidianità per elevarsi ad uno stato di esperienza superiore.

Il secondo capitolo prosegue entrando nel merito dell’esperienza. A tal proposito Featherstone (1994) sottolinea come una delle innovazioni più impattanti per i sistemi sociali occidentali sia stato proprio lo sviluppo di un’estetica della sensazione, che spinge il soggetto ad una partecipazione attiva che non aveva mai avuto in precedenza. Si passa così ad una concezione estetica ed esperienziale del marketing: il bisogno percepito dal consumatore risiede non più soltanto nella necessità di prodotti o servizi, ma piuttosto in un’emozionante esperienza da vivere, creata non più solo per ma anche con il cliente, assumendo dunque un valore del tutto personale. Il capitolo prende in analisi tutti i fattori in grado di influenzare la strategia di marketing esperienziale attuata dall’organizzazione, nondimeno le potenzialità della consumer-to-consumer interaction nell’influire sul grado di soddisfazione del pubblico.

Lo slancio del consumatore postmoderno nell’intessere nuove relazioni, nel sentirsi parte di un sistema, si rivela anche nel capitolo terzo, che prende in esame il turismo culturale e la relativa domanda da parte dei fruitori di un’interazione sempre più attiva tra turista e territorio. Il format dei festival culturali contribuisce in questo

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senso alla creazione di vantaggio competitivo per lo sviluppo regionale, rivelandosi efficacemente adattabile e strumentale alle politiche di sviluppo territoriale. L’originalità di questi eventi si traduce però nella difficoltà riscontrata dalla letteratura nell’individuazione di una definizione univoca per rappresentarli.

A tal proposito si propongono nel capitolo alcuni caratteri identificativi, individuati dopo un attento studio circa lo stato dell’arte in materia, volti a solleticare il ragionamento critico dei lettori per una valutazione più articolata di questa categoria di eventi. Logicamente non si pretende, in questa circostanza, la stipulazione di caratteri imprescindibili alla corretta definizione di festival culturale, si intende piuttosto esplicitare alcuni segni distintivi che affianchino il lettore nella giusta separazione tra festival culturali e festival non definibili tali.

Così come l’evoluzione subìta da cultura ed attività esperienziali nell’epoca postmoderna, anche il turismo culturale ha vissuto profonde mutazioni negli ultimi anni, cessando di essere la richiesta inusuale di un ridotto numero di viaggiatori curiosi e diventando un fondamentale prodotto dell’offerta turistica, sotto l’effetto espansivo del mercato del turismo.

Il capitolo terzo, a tal proposito, sottolinea come cresca sempre più l’interesse per piccole località di minore frequentazione turistica, garanti di quell’autenticità e tipicità alle quali il turista culturale postmoderno anela. I festival culturali si pongono così come prodotto vincente nel ventaglio di offerte del sistema turistico culturale territoriale, rispondendo alla necessità di sviluppare vantaggio competitivo per la diversificazione di una località rispetto all’altra e proponendo un’attività esperienziale unica ed irripetibile.

È così che, accanto al fenomeno postmoderno della globalizzazione, si fa largo l’importanza della dimensione locale come luogo di sviluppo degli elementi che caratterizzano la cultura e la civiltà tipiche di una città, come simbolo di un individualismo locale che va preservato. Si discuterà dunque anche del celebre motto «think global, act local», nonché del potenziale dell’aspetto culturale come strumento strategico di sviluppo della competitività territoriale e di diversificazione rispetto ad un’offerta standardizzata tipica della globalizzazione.

Come si può dunque intendere, nella prima parte di questo elaborato è stato attentamente tracciato un percorso di studio per analisi aggregata, il cui culmine si ha

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nel quarto capitolo in cui si fornisce una completa panoramica nazionale dei festival culturali italiani.

Nello specifico, questa elaborazione si è rivelata molto utile ed efficace durante la stesura della tesi, avendo riscontrato l’assoluta mancanza di una lista aggiornata ed esaustiva dei festival culturali attivi sulla penisola. In particolare i dati, raccolti per l’anno solare 2016, sono stati estratti facendo riferimento ai siti istituzionali di ogni Regione ed alle loro proposte territoriali e culturali. Sono stati in questo modo individuati in tutto 387 manifestazioni (si veda a tal proposito l’Appendice A per l’elenco completo), categorizzate secondo tre principali fattori: ambito culturale di riferimento, regione di appartenenza e durata.

Obiettivo principale è stato quello di fornire un contributo originale ed attendibile all’analisi dell’offerta nazionale di festival culturali, ambito tutt’ora ancora poco dibattuto.

Al termine di questa prima parte si è infine cercato di rispondere all’indagine tramite l’analisi di un caso particolare di festival territoriale che presentasse un manifesto tema culturale ed una storia ben strutturata, in modo da poter verificare se – durante tutti i suoi anni di attività – fosse stata seguita una ben specifica linea culturale, o se questa fosse andata scemando di anno in anno.

Si passa dunque dall’analisi aggregata, dominante nella prima parte di questo elaborato, all’analisi di un caso specifico nella seconda. Questo percorso metodologico è stato attentamente discusso e ben strutturato prima di essere messo in atto, ed è stato predisposto in modo tale da essere il più coerente possibile con la domanda di ricerca: ci si interroga infatti in questa tesi non sulla gestione di un festival dal punto di vista economico-manageriale – che avrebbe richiesto un processo di indagine completamente differente – ma del governo di questi eventi sulla base di una linea culturale ben precisa e specifica.

La realtà selezionata come caso di studio è Suoni di Marca, festival musicale attivo da ventisei anni nel territorio trevigiano, nato nel 1990 con la volontà di sensibilizzare la città alla musica in forma sperimentale ed alternativa, attraverso la creazione di una micro-città musicale, una città nella città, che permetta a un qualsiasi potenziale pubblico di familiarizzare ed appassionarsi al mondo musicale semplicemente passeggiando, fosse anche non principalmente un fruitore di musica.

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Si aggiunge che Suoni di Marca è una realtà fortemente legata alla propria dimensione locale e territoriale: questo ha permesso di analizzare da vicino anche l’aspetto relativo allo sviluppo della competitività territoriale attraverso un festival culturale ben strutturato e conosciuto, in modo da implementare la letteratura a riguardo, affrontata nel terzo capitolo.

Grazie alla partecipazione attiva nell’organizzazione di Suoni di Marca Festival, si è potuto accedere ad un vasto archivio di materiale specifico, rivelatosi ovviamente molto utile ai fini della ricerca e della considerazione di tutte le variabili necessarie durante l’indagine.

Nello specifico, per l’analisi sono stati individuati quattro principali momenti temporali del festival, corrispondenti ai principali path di cambiamento che il festival ha vissuto, dal 1990 (data di inaugurazione dell’evento culturale) al 2016 (ultimo anno di rilevazione delle informazioni per l’analisi). Ognuno di questi differenti momenti ha le sue specificità e le sue peculiarità, analizzate secondo alcuni principali elementi caratterizzanti: contenuto, pubblico e network di relazioni, location e durata. Il settimo capitolo sarà infine dedicato alla quarta (ed ultima) fase temporale di Suoni di Marca Festival ed alle strategie di gestione del successo intraprese dall’organizzazione.

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PARTE I

I FESTIVAL CULTURALI TERRITORIALI

E L’ECONOMIA DELL’ESPERIENZA

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CAPITOLO 1

Postmodernità: prodotti culturali e marketing

«Nell’era moderna, la gente era alla ricerca di uno scopo;

nell’epoca postmoderna è interessata alla giocosità [..] Non ci si preoccupa di fare la storia, bensì di elaborare storie interessanti da vivere»

(Rifkin 2000)

1.1 Un nuovo consumatore: il mercato fisico e il mercato virtuale

Di postmodernismo si iniziò a parlare tra gli ultimi anni Cinquanta e i primi anni Sessanta del Novecento, come suggerimento ad una rottura rispetto alla modernità (Jameson 1989), frutto dell’irrompere di un nuovo modo di pensare ed agire, di una nuova cultura. Una discontinuità quindi, che si manifesta quando quell’insieme di assunti comunemente condivisi crolla, ed a seguito di cui ci si deve spostare in una nuova dimensione nella quale siamo in grado di capire questo nuovo schema (Fabris 2008).

Per riuscire a cogliere questo cambiamento e capirlo in tutte le sue forme bisogna però crearsi un bagaglio culturale sufficiente, spostare lo sguardo dal vecchio al nuovo. Trasferirsi da una linearità (o meglio, a ciò che era diventato lineare) ad una discontinuità (Fabris 2008).

È in questo modo che si sviluppa una nuova totalità sociale, nella quale il consumatore ricettivo e disponibile dell’epoca moderna, a cui l’azienda poteva permettersi di rivolgere un’offerta standardizzata, diventa un semplice ricordo del passato. A tal proposito, si devono considerare alcuni passaggi.

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Figura 1.1: processo decisionale d’acquisto del consumatore

(rielaborazione da Kerin et al. 2010). Kerin, Hartley, Rudelius e Pellegrini (2010) propongono una rappresentazione del processo decisionale d’acquisto del consumatore composta da cinque fasi, raffigurate graficamente nello schema seguente (Figura 1.1):

Come possiamo notare, la seconda fase del processo d’acquisto consiste nella ricerca delle informazioni necessarie ad individuare il prodotto o servizio più idoneo alla soddisfazione del bisogno percepito. Ed è proprio qui che è necessario soffermarsi per un momento: solitamente, nella fase di ricerca delle informazioni, il consumatore tende a non mettere a confronto tutte le alternative possibili, ma piuttosto a rivolgersi sempre alle stesse. Le scelte sono soddisfacenti, lo scambio influenzato da tutti quelli precedentemente avuti.

È ovvio però che non tutti i processi decisionali d’acquisto vengono affrontati con lo stesso coinvolgimento, che può dipendere dal tipo di prodotto o servizio che si va acquistando, dalla situazione, o ancora dalle caratteristiche del consumatore (Kerin et al. 2010). Il coinvolgimento è dunque strettamente influenzato dal significato sociale, personale ed economico che il consumatore attribuisce ad un particolare acquisto e quindi dal rischio che egli associa ad una scelta errata: più elevata è la percezione del rischio, più saranno numerose le informazioni ricercate dal consumatore. Ed ecco il secondo punto su cui è necessario soffermarsi. Bisogna considerare infatti che imprese e consumatori al giorno d’oggi interagiscono in due differenti tipologie di mercato: uno fisico, costituito prevalentemente da relazioni dirette, ed uno virtuale caratterizzato da relazioni a distanza in un ambiente digitale.

L’esistenza di questi due differenti mercati costituisce sicuramente un’opportunità per il consumatore, che ha un canale aggiuntivo a cui rivolgersi per raccogliere maggiori informazioni e concludere i propri acquisti con successo: Internet infatti

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estende significativamente la portata di prodotti, servizi e dati informativi, senza vincoli di tempo e spazio. Ma a che prezzo?

È infatti vero che il potenziale di dati e comunicazioni generati dalla rete rappresenta una medaglia a due facce. Da un lato, diminuiscono notevolmente costi e tempi di ricerca, acquisizione e scambio di informazioni, aumentando in efficacia ed efficienza la fase di valutazione delle alternative (Kerin et al. 2010). Dall’altro lato, la comunicazione via Internet rischia di generare un sovraccarico di informazioni spesso errate o superflue. Questo meccanismo, ovviamente facilitato in virtù della velocità e del basso costo che le infrastrutture di rete presentano, può risultare molto pericoloso sia per l’azienda che per il consumatore. L’impresa infatti può facilmente cadere in balia di quello che viene definito viral marketing.

Come nel mondo reale, il passaparola facilita l’efficacia della comunicazione perché proviene direttamente da un altro consumatore e non dall’azienda stessa; questo riduce notevolmente lo scetticismo all’accettazione del messaggio e del suo contenuto. È stato osservato che questo fenomeno, detto buzz, su Internet ha una diffusione esponenzialmente maggiore al mondo fisico, al punto che si parla di effetti virali: da qui, appunto, deriva il termine viral marketing (Kerin et al. 2010). Come accennato, questa strategia promozionale si basa su una diffusione del contenuto relativo ad un marchio non attivata dall’impresa, bensì dai consumatori stessi. È utile a tal fine sapere che sono stati identificati tre approcci in merito, adottabili dall’azienda per la generazione di passaparola tra i consumatori (Kerin et al. 2010):

− Incorporare un messaggio promozionale nel prodotto o servizio, determinandone così la diffusione inconsapevole fra gli utenti;

− Stimolare la diffusione di contenuti con tecniche di condivisione (si pensi ad esempio ai Social Network), esponendo altri fruitori alla visione del marchio; − Offrire incentivi promozionali per i consumatori che diffondono un certo

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È ovvio che questo sistema è per l’azienda un’arma a doppio taglio: può migliorare l’immagine e la brand loyalty aziendale in un ridottissimo lasso di tempo, o al contrario rovinarla pericolosamente.

Il passaparola si muove infatti attorno a feedback positivi o negativi che un consumatore può adottare e diffondere riguardo a caratteristiche quali affidabilità, rispetto dei tempi e delle scadenze di consegna, qualità del prodotto o servizi, assistenza post-vendita e via dicendo. Ma quello che rende alto il rischio di questa strategia promozionale è il fatto che l’azienda non ha nessun controllo e nessun potere di manipolazione sul passaparola una volta innescato.

Per il consumatore invece, risulta abbastanza chiaro che questo sovraccarico di informazioni a cui si può accedere sulla rete può ampiamente risultare fuorviante per quella che dovrebbe essere la migliore scelta possibile nel paniere di alternative da valutare. Infatti l’inesperienza, una poca conoscenza del prodotto o servizio che si va acquistando, o addirittura l’imperizia nella navigazione in rete e nella discriminazione delle informazioni a riguardo, possono portare ad una decisione d’acquisto totalmente errata.

Alla luce di queste considerazioni, resta comunque il fatto che oggi i mercati siano un vero e proprio luogo di conversazione: si riduce sensibilmente quell’asimmetria informativa che poneva l’impresa nel suo ruolo privilegiato di pilota della grande macchina del commercio. L’avvento di quell’enorme mondo parallelo chiamato Internet e la computerizzazione della società (Lyotard 1984) diventano per il consumatore un’inarrestabile fonte di conoscenze ed informazioni, di socializzazione e di condivisione del sapere, con i suoi punti negativi e positivi sia per il consumatore quanto per l’azienda.

È così che la fase di ricerca delle informazioni, individuata precedentemente nello schema relativo al processo decisionale d’acquisto del consumatore, diventa molto più semplice ora: l’utente è sommerso da un mare di nozioni, commenti, recensioni che – con i giusti accorgimenti – ne possono fare un vero esperto in materia. Cosicché il fruitore non è più prepotentemente attaccato dalle ricerche di mercato ma ci si siede accanto, pronto ad intessere un dialogo ad armi pari (Fabris 2008).

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Internet poi in questo senso ha consentito la nascita di nuove forme di socialità, influenzandone i consumi. Diventa fonte di informazione, socializzazione ed apprendimento al consumo, stimolando (Fabris 2008):

− Relazioni sociali − Interattività

− Competenze del consumatore − Marketing virale

A questo proposito ci viene incontro anche McLuhan (1967), quando sostiene che la rete abbia ridotto il mondo a poco più della grandezza di un villaggio, accentuando nell’individuo la consapevolezza della responsabilità umana.

Il filosofo continua nel suo saggio affermando che questa nuova realtà rimarrà stabile soltanto se si riuscirà a mantenere un equilibrio tra le nuove tecniche di comunicazione e le capacità di reazione dell’individuo.

È dunque una nuova dimensione quella che si affaccia in quest’epoca, che impone impegno e partecipazione attiva da parte del consumatore postmoderno. Si aspira alla totalità, alla conoscenza in profondità. E non si può parlare di marketing ed epoca postmoderna se non si riflette prima su questi aspetti.

Internet non ha però centralizzato il globo, ma ha piuttosto enormemente contribuito alla sua decentralizzazione: ogni luogo ed ogni soggetto possono costituire un nuovo centro, collegato a tutti gli altri centri decentrati sparsi nel mondo (McLuhan 1967). L’individuo nella postmodernità viene visto come un nomade (Fabris 2008), un cittadino del mondo. E questo suo nomadismo è da intendere sia in senso fisico che virtuale: è un essere indipendente e mobile che non vuole più farsi influenzare e che non si lascia manipolare, ma si informa e si documenta.

Sono le aziende stesse ora che vogliono e devono andare incontro alle persone. Si torna così alle prime righe di questo capitolo: alla luce di ciò detto finora si può infatti affermare che il consumatore ricettivo e disponibile dell’epoca moderna viene gradualmente soppiantato dal ruolo dell’eroico consumATTORE (Fabris 2008) postmoderno, più selettivo e competente, più attento ed esigente, possessore di una discrezionalità impensabile nell’era moderna.

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Questo nuovo soggetto è destinato a ricoprire sempre più la parte di protagonista, accantonando il suo ruolo passivo e rivendicando quotidianamente la sua proattività nei confronti del mercato.

Come individua Fabris, si inverte così il senso del marketing: da un modo di agire verso il mercato, nel quale il consumatore viene individuato ed attaccato, ad un modo di agire con il mercato, in cui si ha una vera e propria collaborazione tra fornitore e consumatore.

Conseguenza diretta è la scomparsa sempre più evidente della differenza tra consumo e produzione: il consumatore, diventando esperto e pieno di nuovi saperi, può diventare addirittura partecipe della progettazione–produzione ed essere utile all’impresa per migliorare sempre più.

Nasce così la figura del prosumer1, che non si limita al ruolo passivo di consumatore,

ma partecipa attivamente alle diverse fasi del processo produttivo. Il termine nasce infatti proprio per descrivere il ruolo di protagonista che l’utente assume in un’epoca che esce dalla produzione di massa per spostarsi verso la molteplicità delle tendenze, verso una riaffermazione dell’individuo come singolo nella società. Il termine è molto adatto dunque a rappresentare l’intervento del cliente consumatore su Internet, come mezzo di collaborazione e comunicazione con il produttore. Quello appena descritto è dunque un soggetto ora ben consapevole che il consumo è anche una forma di linguaggio (Fabris 2008), un simbolo sociale della propria identità; il consumatore manifesta infatti un rapporto spesso ludico con i prodotti che gli vengono offerti, e si interessa in modo critico alle proposte di mercato. Non cerca più solo prodotti e servizi utili ai fini della vita quotidiana ma anche entertainment, esperienze di cui essere sia spettatore che protagonista, che affermino il proprio status sociale e supportino la sua crescita personale come individuo.

1.2 I prodotti culturali: una nuova frontiera economica

Nell’epoca postmoderna si ha un’enorme attenzione per la vita quotidiana, alla quale si attribuisce una centralità del tutto particolare, ed il consumo – che è forse la sua

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componente più rilevante – è destinato ad avere un ruolo incomparabile a quello che aveva in passato. La spontaneità è all’ordine del giorno: ciò che è importante è vivere il momento, godersi l’immediato (Rifkin 2000).

Alla luce di questo profondo cambiamento, la disciplina aziendalistica del marketing dovrà sempre più fare i conti con le conseguenze sociali del proprio operato: per l’impresa – infatti – sottovalutare queste nuove condizioni significa combattere la sua battaglia in una posizione svantaggiata (Fabris 2008).

Questa importante rilevanza che la vita quotidiana ottiene nella postmodernità ci porta proprio a parlare di prodotti culturali, che diventano a tutti gli effetti il mezzo di rappresentazione dell’individuo, di alienazione dalla realtà.

Qui abbiamo infatti il distacco più evidente tra il postmodernismo e l’epoca industriale: mentre nell’era industriale il possesso di beni materiali era fondamentale per la sopravvivenza ed il successo personale, nell’epoca postmoderna la produzione culturale si pone come forma principale di attività economica (Rifkin 2000). Nell’era industriale le parole d’ordine erano forza, materia e macchine; un’epoca in cui l’uomo creava giganteschi macchinari allo scopo di trasformare la materia ed i risultati umani venivano misurati in termini di produzioni di beni materiali. Nel postmodernismo invece si ha una sensibile predominanza di immagini, idee, concetti, di connessione universale (Rifkin 2000).

È il materiale contro l’immateriale, la forza contro l’intellettuale. Questo passaggio si è manifestato in particolar modo nel ventesimo secolo (Rifkin 2000) spostando l’interesse dal servizio all’esperienza, dal capitalismo industriale al capitalismo culturale. La partecipazione alle attività culturali e la conoscenza di arte e cultura elevano l’individuo e lo estraniano da quelli che sono i suoi problemi ed i suoi stress quotidiani.

Tutto ciò è ben rappresentato e dimostrato dalla mappa socioculturale generata dal postmodernismo, che Fabris riporta nel suo Societing (Figura 1.2). La mappa dimostra infatti in maniera ben evidente che – con l’avvento del postmodernismo – cambiano radicalmente le carte in tavola: si inizia a parlare di amore sociale per l’arte e la cultura2.

2 I dati riportati fanno riferimento al sistema di indagini sociali che GPF ha attivato dal 1977 riguardo al cambiamento socioculturale nella società italiana.

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Figura 1.2: mappa socioculturale generata dal postmodernismo. Le quarantasette correnti socioculturali rappresentate in figura ci attestano anche che ciò che davvero è da considerare come il mainstream del cambiamento sociale, registrato con l’avvento del postmoderno, è la tendenza verso l’individualismo: ci si sposta verso la popolarità dell’edonismo e dell’estetica, richiamo della superficialità e dell’apparenza.

Il crollo della società chiusa di stampo preindustriale – diffidente e austera nei confronti delle novità – porta il fulcro della questione alla tensione che si manifesta continuamente in una società aperta, che deve essere in grado di gestire la complessità sociale e che si vuole rendere protagonista del cambiamento nel quale si trova. Nasce quindi una visione positiva dell’individualismo, che si scontra con il concetto moderno di socialità, frutto del marxismo e della cultura cattolica (Fabris 2008). L’individuo punta ora all’autoaffermazione, all’autorealizzazione ed alla crescita personale del suo status sociale.

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Ciò che viene definito come individualismo competitivo (McLuhan 1962) si manifesta dunque con l’avvento del postmodernismo, mettendo in forte crisi la società precedente – basata su valori collettivi – con il passaggio da un mondo inclusivo ad uno esclusivo. Si ha così la sfida tra cambiamento ed inerzia di chi non vuole accettare questo cambiamento.

L’arrivo di ogni nuova tecnologia di grande impatto – come può essere considerata quella di Internet – genera sempre due principali fasi (McLuhan 1962): una prima di shock iniziale generalmente molto positivo, che risponde calorosamente alla novità, ed una seconda caratterizzata da crisi di adattamento di tutto ciò che è la propria vita individuale e sociale. Una vera rivoluzione, insomma, che si manifesta maggiormente nella seconda fase di assestamento.

Questi cambiamenti modificano in modo indelebile quella che era la vita dell’uomo prima del loro arrivo. Ogni innovazione infatti può essere una estensione o amputazione del nostro corpo, che impone la formulazione di nuovi equilibri (McLuhan 1967). Una tecnologia, un’invenzione creativa, produce e contemporaneamente distrugge; allo stesso modo Platone faceva criticamente notare come, con l’arrivo della scrittura, l’uomo avrebbe cessato di esercitare la sua memoria affidandosi solamente alla cultura scritta, richiamando alla mente le cose dall’esterno.

Insomma, la ruota distrugge le gambe. È con questo stesso meccanismo che il marketing postmoderno dei prodotti culturali entra in scena: la concentrazione di fenomeni diversi, la convergenza di nuove problematiche ed opportunità prima non considerate, la coesistenza imprevedibile di ambiti molto distanti tra loro. Ed è così che, nella difficile rappresentazione del sé nella vita quotidiana, il consumo dei prodotti culturali assume tutt’ad un tratto una simbologia ed un significato nuovi e di primaria importanza a cui il soggetto fa ricorso come strumento di identificazione. Diventa cioè una nuova formula di sapere, di esperienza e di ricerca che va ben oltre all’accumulazione tipica del consumismo dell’era moderna precedente. Quello però che un po’ preoccupa è la mercificazione dei valori culturali che sta in questo modo prendendo piede: arte e cultura cessano di essere un bene cosiddetto common – alla portata di tutti – e si instaura un regime di proprietà dei beni culturali.

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1.3 Le industrie culturali: arte, comunicazione e media

Esiste, nell’era postmoderna, una stretta relazione tra cultura e comunicazione (Rifkin 2000). Quello che però sta accadendo oggigiorno è che la cultura e le esperienze condivise che forniscono significato alla quotidianità dell’uomo vengono inesorabilmente spinte nel mercato dei media, dove vengono rielaborate in termini commerciali, con lo scopo di venderli a chi può permettersi di comprarle. La prova lampante di tutto ciò è proprio nelle industrie culturali, il settore in maggiore crescita (Rifkin 2000).

È ormai chiaro che le industrie culturali abbiano subìto – a partire dagli anni Ottanta – rilevanti modificazioni (Hesmondhalgh 2008). Questi cambiamenti sono ravvisabili, ad esempio, nell’avvicinamento delle industrie culturali alla scena economica. Le società che operano in questa industria non sono più da considerare secondarie all’economia reale, di produzione di beni considerati utili (Benjamin 1966), ma sono diventate vere e proprie protagoniste. Le merci sono prodotte con la sola finalità di venderle ai consumatori e non più solamente perché utili: acquistano valore perché possono essere scambiate, e dunque le si riempie di valori aggiuntivi simbolici ed immaginari. L’economia diventa così qualcosa di sempre più interiorizzato, attraverso le porte della cultura e dell’interpretazione estetica dell’arte come esempio di originalità e creatività. Conseguenza diretta è che, mentre la circolazione dei prodotti culturali è sensibilmente in crescita, le riproduzioni sono all’ordine del giorno: questo è sicuramente un campanello d’allarme per la salvaguardia del valore dell’autenticità culturale, ovvero quell’hic et nunc che rappresenta l’aura dell’opera d’arte (Benjamin 1966) e che è – purtroppo – sempre più difficile da trovare. È così che l’industria culturale, spesso maldestramente, traspone l’arte nella sfera del consumo (Adorno 1966). Si ibridano arte, svago e cultura sotto il comune denominatore, appunto, dell’industria culturale.

Tutto questo viene ancora più amplificato tramite le nuove tecnologie comunicative, grazie alle quali le aziende operanti nel settore delle industrie culturali si sono orientate alla messa a punto di alcune strategie comunicative, quali: sviluppo nella ricerca sull’audience, implementazione dell’area marketing e studio delle migliori tecniche di conquista dei pubblici di nicchia (Hesmondhalgh 2008).

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Dall’altro lato, le abitudini ed i gusti culturali degli utenti sono sempre più complessi ed articolati; il consumatore diventa attento ed esigente e dunque sempre più difficile da interpretare.

Il risultato che ne emerge è quello di una multi-identità dei soggetti postmoderni (Fabris 2008), di una coesistenza di diversi consumatori all’interno dello stesso individuo: la condizione umana diventa perciò quella di trasferimento da una identificazione all’altra, da un punto di riferimento all’altro, senza mai lasciarsi ingabbiare in un sistema chiuso e specifico.

È, in definitiva, l’emblema di quello che Jameson definirà pastiche (Jameson 1989). La definizione di postmoderno infatti, nonostante tutte queste considerazioni, rimane comunque tutt’ora molto ambigua e ben riflette uno scenario ancora in fieri, scivoloso ed indeterminato.

Questo però è ben coerente con quello che il postmoderno certamente è: un mood, uno stato d’animo e non di certo una visione compiuta della vita e del mondo. In questo senso l’epoca postmoderna rappresenta l’anarchia contrapposta alla modernità, simbolo di autorità e gerarchia. Ma è proprio l’approvazione di un sistema caratterizzato da complessità e pluralità il fondamento del pensiero postmoderno: ciò che prima era standardizzazione ora è totalmente rifiutato, l’individuo è multiforme e non accetta di essere in nessun modo omologato. A livello artistico dunque, con l’avvento del postmodernismo, scompare la profonda distinzione posta fino ad allora tra arte colta ed arte popolare (Fabris 2008), tra produzione industriale e produzione artistica.

Ci si addentra in una forma d’arte che non è più quella “alta” di un tempo, ma il frutto di una cultura pop di vita quotidiana, che deve ora dialogare con il pubblico di massa e non più solo con una ristretta élite. La creatività non è più prerogativa solo di artisti a cui offrire rispettosa riverenza, ma aspirazione diffusa nei molti. Storicamente infatti, si sostiene che le basi della produzione culturale di massa furono gettate con l’avvento della cromolitografia (Rifkin 2000): nella seconda metà dell’Ottocento negli Stati Uniti i tipografi iniziarono a produrre cromolitografie di ottima qualità ad un prezzo accessibile, creando un mercato di massa di riproduzioni in serie. Le opere d’arte, che un tempo si trovavano esposte soltanto nelle dimore delle persone più facoltose della città, divennero improvvisamente accessibili alle masse.

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L’arte e il piacere per l’estetica, un tempo rappresentanti la cultura alta e riservati solamente ai benestanti, entrarono a far parte di un grande mercato culturale popolare.

Successivamente, l’avvento del cinema elevò l’intrattenimento al vertice della vita sociale: la cultura alta e la cultura popolare si fusero nella cosiddetta cultura del consumatore (Rifkin 2000). Il cinema divenne così componente fondamentale del processo di acculturazione. Le statistiche, a tal proposito, parlano chiaro: nella metà degli anni Novanta del Novecento infatti l’intrattenimento – in tutte le sue forme – rappresentava negli Stati Uniti il settore di maggiore crescita: assorbiva più dollari di quanto venisse speso per l’educazione (Rifkin 2000).

Se nel passato, dunque, l’arte è sempre stata un modo per gestire ed entrare consapevolmente nella realtà – come ad esempio nel caso dell’arte sacra – ora viene usata soprattutto come momento di evasione, per godere del proprio gusto (Rifkin 2000).

Emerge la profonda esigenza delle masse di rendere l’arte più vicina a loro (Benjamin 1966): le opere non sono più dunque al servizio di un rituale – come accadeva invece nel passato – ma di arte per l’arte, predisposta alla riproducibilità. È infatti vero, se ci si pensa, che al giorno d’oggi, quando meno ce ne si accorge, ci si ritrova circondati dai prodotti culturali. Si pensi alla musica, ad esempio. Dal momento in cui ci si alza la mattina con il suono della sveglia, la musica accompagna la quotidianità degli individui fino alla fine della giornata: come metodo di isolamento con l’uso dell’iPod – prodotto tecnologico che ha registrato fin da subito un boom di vendite –, nei grandi magazzini e negli shopping center, nei locali pubblici, nelle suonerie dei telefonini, durante le feste e le festività, in televisione, in radio.

Ma si pensi anche solo al mondo delle pubblicità: sono le imprese stesse che, utilizzando una musica identificativa nei messaggi promozionali sui media, fanno sì che nella mente del consumatore un determinato bene/servizio venga associato positivamente al prodotto culturale musicale. È ovvio che in questo modo il ricordo di quel determinato oggetto è molto più lampante.

Tutto questo è un esempio diretto di quanto i prodotti culturali stiano assumendo importanza sempre maggiore nella vita quotidiana.

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A livello sociale, le differenti esperienze culturali che il soggetto vive ed assorbe quotidianamente creano un sistema di multiculturalità, considerabile una delle realtà di maggiore rilievo e che meglio rappresenta la società postmoderna(Fabris 2008). È così che il pensiero postmoderno, invece che esorcizzare la divergenza tra diverse culture – così come teorizzato dal pensiero moderno –, ne esalta piuttosto le differenze, considerandole non come fonte di disordine ed instabilità ma come occasione di arricchimento sociale.

Si mette l’accento sul pluralismo che compone l’esperienza umana, lontano dai costrutti razziali che il modernismo aveva generato (Rifkin 2000). Si rifletta sulle diverse generazioni (Fabris 2008) dell’epoca postmoderna: le esperienze culturali vissute giorno per giorno segnano gli individui indelebilmente, ed ogni generazione si ritrova ad essere contraddistinta da un bagaglio culturale diverso ed unico. Ognuno agisce come una lastra fotografica che, esposta ai prodotti culturali, li cattura permanentemente.

Il discorso è ragionevolmente palese se si pensa alla musica: questa ha influenzato, aggregato ed allo stesso tempo diviso tantissime generazioni tra loro. Nel campo del marketing si parla in questo senso di subcultura (Kerin et al. 2010), per intendere un gruppo di persone che condividono sistemi di valori basati su situazioni ed esperienze di vita comuni.

Ma il consumo dell’arte è qualcosa che avviene anche per ragioni sociali, come radice di una certa credibilità: l’epoca postmoderna ben dimostra come una persona con un buon capitale culturale abbia accesso ad un maggiore rispetto sociale. A tal proposito, c’è un’altra dimensione molto importante da considerare in questa nuova era esperienziale postmoderna: la presenza di prodotti culturali nella vita quotidiana facilita anche la formazione di community tra gli individui. Nonostante il forte senso di individualismo e di desiderio di accrescimento personale infatti, resta comunque la necessità umana di sentirsi parte di qualcosa. Ed è così che si assiste alla formazione di nuovi gruppi di aggregazione che si sviluppano attorno a differenti prodotti ed attività culturali, che superano inglobandolo l’individualismo tipico dell’era postmoderna (Fabris 2008). Questa solitudine del cittadino globale (Bauman 2000) viene quindi in qualche modo esorcizzata dalla formazione dei tanti microgruppi della società postmoderna, aggregati da interessi interpersonali.

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L’aggregazione dà la sicurezza che manca al soggetto, immerso com’è in questa nuova complessa discontinuità sociale in cui si trova.

Che cosa accade, in definitiva, al marketing nell’epoca postmoderna?

A questo proposito è utile parlare di una trasformazione di questa disciplina, una sorta di stratificazione, di evoluzione e adattamento verso quelle che vengono definite le subjective experiences che il consumATTORE vive nel mercato: emozioni, esperienze, sentimenti che fanno strettamente parte del consumo nell’era postmoderna.

Parlando di marketing e prodotti culturali è necessario dunque entrare più specificamente in quello che è il marketing esperienziale, e che verrà presentato in maniera dettagliata nel prossimo capitolo.

È proprio in questo senso che infatti troviamo finalmente la concezione di impresa che non solo deve imparare sul consumatore, ma soprattutto dal consumatore, discostandosi sempre di più dalla tipica bulimia del consumismo per entrare più approfonditamente nel consumo esperienziale. Si instaurano in questo modo due dimensioni che interessano al prosumer postmoderno (Fabris 2008):

− L’estetica del bello, ovvero tutto ciò che in arte e cultura contribuisce a colorare e migliorare il mondo degli oggetti della nostra quotidianità (da qui si manifesta ad esempio il design come prova schiacciante della fusione con i prodotti culturali);

− Il coinvolgimento di tutti i sensi nell’esperienza di consumo.

In conclusione, si pensi ad un festival musicale: migliaia di persone che si riuniscono nello stesso posto, in un determinato periodo dell’anno, richiamati sì da quella voglia di esorcizzazione della quotidianità attraverso il godimento di una attività culturale, ma anche da quella necessità di sentirsi parte di un unico grande gruppo di persone che condivide lo stesso amore per la musica, che rassicura e fa sentire confortati, energici.

Nella quotidianità, nel nostro vivere sociale, si è sempre in tensione, sempre sotto stress.

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Durante la partecipazione ad un’esperienza culturale invece l’individuo può rilassarsi, abbassare la guardia, trovare quella comfort-zone di cui ha bisogno per riordinare il caos esterno.

Questa necessità di partecipazione ad una comunità e di vivere un’esperienza culturale edificante rispondono dunque allo stesso bisogno – o meglio, desiderio – dell’uomo postmoderno: fuggire dall’ansia della quotidianità elevandosi a uno stato di esperienza superiore.

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CAPITOLO 2

L’economia e il marketing esperienziale

«Verso un nuovo mondo in cui l’acquisto di esperienze da vivere diventa il principale bene di consumo»

(Rifkin 2000)

2.1 Esperienza: cos’è?

Secondo Mike Featherstone (1990) una delle innovazioni che più ha colpito i sistemi sociali occidentali negli ultimi anni è lo sviluppo di una estetica della sensazione, che – mediante l’uso di immagini e musica – spinge il soggetto ad una partecipazione attiva che non aveva mai avuto in precedenza, standosene piuttosto distaccato nella figura di mero spettatore.

Per fare un passo indietro, questi momenti di attiva presenza del soggetto si possono riscontrare storicamente in quei lampi di eccitazione incontrollata ed adesione diretta che prendevano luogo nei carnevali e nelle feste popolari tipiche Medioevali; si trattava però di momenti strettamente limitati e riservati soltanto alle classi popolari.

Proseguendo negli anni, soprattutto con i nuovi luoghi di consumo del Novecento, il privilegio di godere di eventi ludici e culturali spettò soltanto alle classi medie. Questi contesti esigevano però un contegno fisico ed un controllo emozionale ben diversi da ciò che si manifestava nel Medioevo, si parla infatti a tal proposito di un disordine ordinato(Ferraresi & Parmiggiani 2007).

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Oggigiorno ciò che il consumatore vuole acquistare non è più soltanto un prodotto o un sevizio, ma piuttosto un’esperienza: si passa ad una concezione estetica ed esperienziale del marketing.

Come visto nel precedente capitolo, la maggiore disponibilità di informazioni e tecnologie comunicative ha portato, nell’epoca postmoderna, maggiori opportunità per il consumatore di intervenire ed avere un dialogo aperto con le aziende ed i loro prodotti, determinando direttamente anche il proprio consumo di esperienze: sono i consumatori stessi che ora dichiarano all’azienda di quale tipo di contenuto vogliono vivere un’esperienza, sono i bisogni dei consumatori che vengono realizzati. Vivere queste esperienze migliora la vita del consumatore, lo accrescono personalmente, lo aiutano a fuggire dalla routine della quotidianità. Si generano così emozioni positive che portano piacere, empatia e cura alle ansie quotidiane. Possiamo definire il dominio dell’esperienza (Baron, Conway & Warnaby 2010) come un campo di conoscenze, attività e dibattiti che stimolano il consumatore ad impegnarsi in interazioni propositive con un network di organizzazioni e community di fruitori – nel corso della partecipazione all’attività – che sono collettivamente capite ed intese da tutti.

Queste esperienze richiedono la partecipazione attiva del consumatore, che diventa un tutt’uno con la performance alla quale sta partecipando. È dunque l’individuo stesso che si inserisce fisicamente o virtualmente all’interno dell’evento al quale sta aderendo: si parla infatti, a tal proposito, di consumer immersion(Pine & Gilmore 1999).

È importante in questo senso tener presente che una buona offerta esperienziale offre alle aziende la possibilità di distinguersi e differenziarsi dagli altri brands concorrenti.

Per avere una buona performance aziendale le organizzazioni devono essere in grado di pianificare un’offerta efficace durante l’intero ciclo di vita del consumatore. Per riuscire nell’intento, l’impresa dovrà mantenere un alto livello di risposta agli espliciti ed impliciti bisogni dei consumatori, identificare i migliori momenti per lanciare un programma di diversificazione dagli altri brand ed identificare gli eventuali fallimenti avvenuti precedentemente nell’interpretazione dei bisogni (Baron et al. 2010).

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Ma quali attività forniscono esperienza?

Come ha indicato Holbrook (2009) si hanno categorie esperienziali che vanno dall’enogastronomia al turismo, dagli eventi educativi alle attività culturali. A seconda del tipo di esperienza offerta, gli eventi vengono categorizzati in base alla loro funzione, che può essere (Baron et al. 2010):

− Educativa

− Di intrattenimento

Il consumatore può sviluppare infatti due tipi di bisogni nell’ambito dell’esperienza: la necessità di una stimolazione cognitiva, tipica degli eventi finalizzati ad una funzione educativa, o di una stimolazione sensoriale, che risponde invece agli eventi con funzione di intrattenimento. Chi risiede nella sfera sensoriale cerca esperienze nuove, eccitanti, divertenti ed avventurose. Viceversa, per la sfera cognitiva ci si rivolge ad esperienze che rispondono ad interesse, curiosità e volontà di acquisizione di conoscenze in una particolare area di interesse.

È ben evidente dunque che è il consumatore a mettersi alla ricerca dell’evento più adatto a lui: sta all’organizzazione l’abilità di rispondere in modo costruttivo e positivo a questi bisogni, attuando una comunicazione che sia il più strumentale e funzionale possibile all’esperienza che si vuole offrire.

C’è però anche un’altra funzione, altrettanto importante, tra le attività culturali a scopo esperienziale che non è assolutamente da dimenticare: l’edutainment. Il termine è stato coniato da Bob Heyman ed è nato dalla fusione delle parole educational (educativo) ed entertainment (divertimento).

Viene dunque tradotto con l’espressione divertimento educativo, per indicare le forme di comunicazione giocosa finalizzate alla didattica. Il concetto si è con il tempo esteso a tutto ciò che può essere comunicato in modo divertente e produttivo: obiettivo dell’edutainment è infatti quello di educare e stimolare la socializzazione dei soggetti tramite momenti inseriti all’interno di altre forme di intrattenimento.

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2.2 Il Marketing Esperienziale

Con l’avvento del marketing esperienziale, il focus passa da un’economia di prodotto ad un’economia basata sull’esperienza: in quest’ottica le aziende diventano “fornitori” di emozioni ed esperienze al consumatore.

La disciplina del marketing esperienziale si basa dunque più sulle esperienze di consumo che sul valore d’uso dei prodotti. Oramai a creare valore non concorre solo il prodotto in sé, ma anche l’esperienza, che permette all’utente di vivere emozioni e sensazioni che i meri prodotti possono suscitare.

L’azienda diventa una vera e propria “regista di esperienze” (Pine & Gilmore 1999), non vende più solamente beni o servizi, ma anche l’esperienza che ne deriva. Per di più, questa esperienza ricca di sensazioni viene creata da e con il cliente, ed assume perciò un valore strettamente personale. Diventa quindi sempre più importante, con l’avvento del marketing esperienziale, la personalizzazione dell’offerta e l’instaurazione di una relazione con il cliente.

La strategia aziendale si deve dunque basare sull’offerta di esperienze che possano stimolare nel consumatore il desiderio di usare un proprio prodotto piuttosto che quello di un competitor, facendo leva su meccanismi emozionali (Altschwager, Goodman, Conduit & Habel 2015). Lo scopo è quello di creare coinvolgimento, suscitare sentimenti positivi associati al brand e mettere in relazione l’individuo con altri consumatori, affinché egli condivida le sue esperienze positive con il passaparola o attraverso mezzi come Internet ed i Social Network. L’idea sostanziale sta nel fatto che l’emozione e la condivisione che i fruitori vivono attivamente durante un evento portino ad una fedeltà al brand maggiore da parte del consumatore.

Negli ultimi anni si è così assistito all’implementazione di tecniche e strategie orientate agli eventi da parte delle aziende, con l’intento specifico di influenzare direttamente l’attitudine del consumatore al proprio brand (Altschwager et al. 2015). La creazione di un’esperienza diventa dunque un potente metodo di comunicazione con i consumatori, che diventa più efficace tanto più l’attività esperienziale si dimostra coinvolgente, interessante, memorabile e significativa; questo tipo di strategia aziendale è infatti diventata un noto approccio aziendale di costruzione della marca, ed è stata vastamente studiata in letteratura.

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Questa tipologia di eventi esperienziali offerti dalle aziende sono noti in economia come Branded Marketing Events, e vengono organizzati con l’esplicito scopo di comunicare un particolare messaggio di marketing ai consumatori; si pensi alle inaugurazioni di attività aziendali, o agli eventi di lancio di nuovi prodotti. Al giorno d’oggi questi metodi hanno più efficacia di quelli considerati appartenenti al marketing tradizionale: l’alto livello di intensità e partecipazione che queste attività stimolano sono particolarmente efficaci a livello di interattività con la marca e permettono al consumatore di creare la propria esperienza personale. Se questi eventi sono creati e pensati per facilitare messaggi cognitivi ed emozionali, l’effettiva riuscita nell’intento dipende anche però dall’abilità dell’azienda ad interagire con il consumatore.

Dove il marketing tradizionale nella maggior parte dei casi fallisce o ha poco successo, nella costruzione di una connessione intima tra marca e consumatore, i BME riescono: un messaggio comunicativo lanciato durante un evento ha più influenza e più attrazione per il consumatore rispetto allo stesso messaggio lanciato su un tradizionale canale di comunicazione (Baron et al. 2010). Questa forma di marketing esperienziale è un noto esempio di come i consumatori siano al giorno d’oggi guidati ed influenzati per il consumo sia da indicatori razionali quanto emozionali. La diffusione di un messaggio al consumatore durante un evento o una attività culturale permette all’azienda di veicolare e mantenere il controllo diretto sul contenuto comunicato.

Viceversa, se si considera l’uso intensivo che si fa oggigiorno di Internet per la comunicazione (ad esempio tramite i Social Network), si può facilmente pensare a quanto questo supporto esponga a rischi molto più elevati l’organizzazione. In questo caso infatti – come già individuato nel primo capitolo – non è possibile avere un controllo diretto su ciò che dalla comunicazione potrebbe scaturire nei consumatori, ed il pericolo che il contenuto venga trasformato o mal interpretato è sempre dietro l’angolo.

Dunque la creazione di esperienze positivamente memorabili crea un’immagine molto più forte e potente dell’azienda negli occhi del consumatore e soprattutto ne aumenta la brand loyalty, come se vedrà poco più avanti.

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Si deve tenere ben conto che, per avere un considerevole impatto esperienziale sui consumatori, un evento deve soddisfare un particolare bisogno che essi hanno. Per raggiungere questo obiettivo l’evento deve avere un’importanza rilevante e attribuire la giusta attenzione ad una comunicazione mirata e ben studiata dall’organizzazione al consumatore e viceversa (Baron et al. 2010). Una comunicazione mal pianificata infatti rischia di influenzare negativamente anche la riuscita dell’evento stesso.

Se dunque il coinvolgimento del consumatore ad un evento o attività culturale è determinato da quanto i propri bisogni esperienziali, estetici e sociali sono stati capiti e soddisfatti, saranno proprio questi bisogni a dettare il tipo di attrattiva che è più funzionale alla comunicazione con quel consumatore, al fine di intervenire sulle sue scelte e modificare le sue attitudini.

È ovvio che ogni consumatore percepirà un grado di coinvolgimento differente da uno stesso evento, in relazione alle proprie esperienze personali, al proprio bagaglio culturale e alla percezione delle proprie necessità.

Il coinvolgimento esperienziale (Baron et al. 2010) può essere infatti definito come il trasporto che un consumatore ha nei confronti di una categoria di prodotti o servizi, basato sui suoi particolari bisogni esperienziali, determinati in base al livello di efficacia della stimolazione cognitiva o sensoriale che l’azienda ha strutturato. Un piano di eventi ed attività ben studiato e strutturato deve quindi fare in modo di attivare un buon interesse in differenti tipologie di consumatori, soddisfacendo tutti i loro diversi bisogni.

Un alto o basso coinvolgimento detta anche il modo in cui le informazioni e la comunicazione dall’azienda al consumatore viene recepita: con un alto coinvolgimento, il consumatore è persuaso direttamente, con argomentazioni ed informazioni ben strutturate; al contrario un basso coinvolgimento porta ad una comunicazione più emozionale ed indiretta.

Alla luce di ciò detto finora, possiamo dunque affermare che la creazione di una esperienza positiva e memorabile per il consumatore porta alla riconoscibilità del marchio, all’aumento dei suoi profitti ed alla fedeltà del consumatore. Possiamo trovare riscontro di questa ultima affermazione in differenti saggi. Pine e Gilmore, ad esempio, hanno infatti individuato nel marketing dell’esperienza la nuova offerta economica del mercato, un fenomeno che è diventato ingrediente

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essenziale nell’economia del giorno d’oggi (Pine & Gilmore 1999). Holbrook e Hirschman (1982) hanno a loro volta descritto l’esperienza come l’individuale consumo di una interazione con i prodotti o i servizi offerti, che comporta un notevole attaccamento alla marca.

2.3 Fattori che influenzano la strategia di Marketing Esperienziale

Si hanno molti fattori (Ismail 2011) che fanno sì che l’esperienza offerta sia percepita positivamente dal consumatore, la cui analisi è molto utile in termini di una esaustiva panoramica circa la strategia di marketing esperienziale:

− Passate esperienze di chi partecipa − Percezione della marca

− Percezione della qualità dei servizi offerti − Comunicazione/promozione dell’evento − Prezzo

− Performance del personale − Gestione degli spazi

Iniziamo dunque dalle passate esperienze del consumatore: è verosimile che questa serie di antecedenti personali abbia una profonda influenza sul grado di coinvolgimento che egli avrà nei confronti dell’evento che sta vivendo. Grazie alle esperienze acquisite in passato infatti, il consumatore è più cosciente e preparato ad analizzare l’offerta esperienziale e trarne conclusioni personali.

Buona considerazione si deve anche portare all’immagine aziendale: questo fattore influenza fortemente le aspettative che l’individuo avrà sull’esperienza offerta. L’azienda deve essere in grado di dotare la sua marca di una forte identità (componente identificativa) al fine di sviluppare nei consumatori una percezione coerente di sé (componente percettiva) contribuita da attributi, benefici e attitudini di marca (Baron et al. 2010).

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Sulla base dell’identità infatti il consumatore sviluppa una conoscenza – brand knowledge – ed una consapevolezza di marca – brand awarness –. Identità (componente identificativa), immagine (componente percettiva) e fedeltà (componente fiduciaria) sono parti inscindibili della struttura della marca, che alimentano i rapporti di lungo periodo con il mercato (Baron et al. 2010). Maggiore è la fiducia nella marca, minore sarà la necessità di produrre nuove informazioni per attrarre il consumatore (Kerin et al. 2010).

Una buona percezione della marca farà sì che il consumatore parta già con un’idea positiva e con buone aspettative rispetto al servizio offerto, ancor prima di aver vissuto quell’esperienza. La vera sfida per l’organizzazione è – in questo caso – quella di essere in grado di soddisfare tali aspettative: la riuscita di questa operazione porterebbe ad un incremento della brand loyalty nel consumatore, una fedeltà che si dimostra molto più redditizia per l’azienda di quanto possa essere la conquista di un nuovo consumatore.

Un loyal customer infatti è meno sensibile al prezzo ed è più propenso a spendere di più. A tal fine, è da tenere ben a mente che un buon servizio è definibile tale se (Kerin et al. 2010):

− Affidabile, per un costante mantenimento di alti standard qualitativi;

− Innovativo, capace cioè di anticipare le tendenze della domanda e di soddisfare bisogni emergenti:

− Compatibile con gli usi e le aspettative dei consumatori, allo scopo di non generare insoddisfazione;

− Rispettoso dei tempi e delle scadenze previste; − Dotato di un efficace personale a disposizione.

Discorso simile si può fare per quanto riguarda la percezione della qualità dei servizi offerti: allo stesso modo dell’immagine aziendale infatti, un consumatore che percepisce una buona qualità dei servizi offerti sarà sicuramente propenso a rivivere quell’esperienza. Questo ci porta ad un incremento della brand loyalty, anche in questo caso specifico.

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Prezzo e promozione meritano invece un discorso a parte.

L’advertising ha infatti una funzione molto importante quando si parla di marketing esperienziale: aumenta le aspettative del consumatore facendo promesse sul servizio offerto. È ovvio che, nel caso in cui queste promesse non fossero mantenute, l’esperienza vissuta dall’individuo sarebbe totalmente negativa.

È quindi necessario creare un forte ed equilibrato legame tra la comunicazione e l’attività esperienziale che si vuole promuovere: se questi due elementi non venissero sviluppati parallelamente si rischierebbe il totale fallimento dell’attività offerta. Per assicurarsi il buon esito della promozione bisogna prima di tutto considerare le diverse forme di pubblicità adottabili da un’azienda e decidere in modo ben accurato quale di queste applicare. In particolare, abbiamo due macro-forme di pubblicità, suddivise a loro volta in alcune tipologie (Kerin et al. 2010):

 Pubblicità di prodotto

forma di comunicazione incentrata sulla vendita di un particolare prodotto o servizio. Assume tre forme differenti:

− Pioneristica: utilizzata nello stadio introduttivo del ciclo di vita del prodotto/servizio, fornisce informazioni ai potenziali consumatori circa le sue caratteristiche

− Competitiva: promuove le caratteristiche ed i vantaggi specifici dell’offerta di una particolare marca, sollecitando il mercato di riferimento a sceglierla in contrapposizione a quelle concorrenti (la più comune è infatti la pubblicità comparativa)

− Promemoria: utilizzata per rafforzare la consapevolezza rispetto ad un determinato prodotto; è una tipologia pubblicitaria indicata per quei prodotti/servizi che hanno già conquistato una posizione di primo piano ed il cui ciclo di vita è alla fase di maturità.

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 Pubblicità istituzionale

forma di comunicazione i cui contenuti sono orientati alla promozione di un’azienda nel suo complesso, più che per specifici prodotti o servizi offerti. Ha l’obiettivo di costruire identità all’impresa, ammette quattro sotto categorie:

− Advocacy advertising: dichiara la posizione dell’impresa riguardo ad uno specifico tema e ha l’obiettivo di stimolare l’adesione ad una causa socialmente rilevante

− Pioneristica: informa il target di riferimento riguardo le attività dell’azienda e la sua localizzazione

− Competitiva: promuove i vantaggi di una determinata categoria di prodotti/servizi e la superiorità dell’azienda rispetto ad un competitor − Promemoria: promuove la marca nel suo complesso

Per quanto riguarda il prezzo invece, bisogna considerare che la percezione che il consumatore ha del prezzo è più importante del prezzo stesso.

Dal punto di vista del consumatore questo fattore viene rappresentato come un indicatore del valore del servizio, in relazione ai suoi benefici. Vi è però una situazione limite nella quale il prezzo viene rappresentato come indicatore di qualità: in questo caso un prezzo basso riduce la percezione di qualità e quindi anche quella del suo beneficio offerto.

A tal fine, gli orientamenti tipici che l’organizzazione può adottare per individuare la corretta strategia di prezzo iniziale sono principalmente due (Kerin et al. 2010):

− Prezzo di scrematura (skimming price): si introduce un nuovo prodotto sul mercato facendo riferimento alla componente della domanda che esprime forte desidero per il servizio, e che è quindi disposta a pagare un prezzo elevato per averlo. Successivamente lo si abbassa in modo graduale, man mano che vengono saturate le componenti di domanda disposte a sacrificare più risorse per acquistare il prodotto.

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− Prezzo di penetrazione (penetration price): si fissa un prezzo di domanda basso, per raggiungere rapidamente quote di mercato elevate incrementando sensibilmente e velocemente le vendite. Solo nel momento in cui le quantità vendute siano ritenute adeguate l’impresa potrebbe procedere ad un incremento di prezzo. Per la riuscita di questa strategia devono esserci competitor attaccabili, che non ingaggino guerre di prezzo; alla crescita dei volumi deve corrispondere un aumento dei rendimenti di scala.

Il prezzo è quindi uno strumento utile per l’azienda nella selezione della clientela che si vuole attirare – determinando così le aspettative aziendali –, ed anche un modo che ha il consumatore per valutare fin da subito la qualità del servizio offerto, creandosi personalmente un ventaglio di aspettative da soddisfare.

Anche la gestione degli spazi e la performance del personale sono strettamente correlati al coinvolgimento esperienziale del consumatore (Ismail 2011).

Durante il consumo di un’attività culturale si rivela di fondamentale importanza la prestazione di chi lavora a stretto contatto con il pubblico: rappresenta il volto dell’azienda, il carattere che il consumatore attribuisce all’organizzazione, l’unico contatto umano visivo che l’individuo ha con l’evento. È quindi una grande responsabilità che il personale deve sempre tenere bene a mente, in funzione del fatto che questa performance è strettamente collegata alla percezione che il consumatore avrà dell’esperienza vissuta.

Stessa rilevanza è assunta dalla logistica del luogo (Ismail 2011), che deve essere appositamente studiata per suggerire particolari stati emozionali ed indurre reazioni comportamentali specifiche da parte del consumatore.

Anche questo fattore può ovviamente indurre effetti positivi o negativi su quella che sarà l’esperienza soggettiva dell’individuo. Un buono studio degli spazi ed un ambiente accogliente stimolano una permanenza più lunga del consumatore, e dunque una sua maggiore propensione alla spesa.

Immaginiamoci ad esempio un festival musicale: una buona divisione degli ambienti – ad esempio la creazione di aree diverse e ben divise per concerti, esposizioni e gastronomia, ognuna delle quali avente il giusto spazio – farà sì che il consumatore, a

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