• Non ci sono risultati.

Un regionalismo degenerato a cui è ora di dire basta

N/A
N/A
Protected

Academic year: 2021

Condividi "Un regionalismo degenerato a cui è ora di dire basta"

Copied!
7
0
0

Testo completo

(1)

Autonomia

perché

?

Autonomia

da

cosa

?

Fascicolo allegato al numero di Gennaio 2021 di Professione docente GILDA DEGLI INSEGNANTI

Via Aniene, 14 00198 Roma Tel. 068845005 - Fax 0684082071

UNAMS - Viale delle Provincie, 184 - 00162 Roma Sito internet: www.gildaprofessionedocente.it E-mail: pdgildains@gmail.com

In questo numero

Massimo Villone

Francesco Pallante

Gianluigi Dotti

Ester Trevisan

Antonio Antonazzo

Fabrizio Reberschegg

Riepilogo ragionato dei no alle

autonomie confuse e pericolose

(2)

Uno Stato debolissimo. Un Presidente della Repubblica inascoltato. Un governo intimidito. Un Parlamento inconsistente. Venti Regioni contro,a prescindere. Tra le vittime del Covid, impossibile non annoverare l’insieme delle isti-tuzioni costituzionali.

La tragicommedia che ha accompagnato l’ap-provazione del DPCM del 3 novembre 2020– l’ennesimo nel volgere di pochissimi giorni, ma in effetti il primo che ha preso finalmente atto della seconda ondata della pandemia – ha reso ineludibile interrogarsi sulla natura degenerata del regionalismo italiano. Difficile immaginare una situazione peggiore. Uno scenario lose-lo-se, in cui, in piena tempesta pandemica, a perdere in credibilità e capacità d’azione sono contestualmente tutti gli attori in campo: per-sino la Presidenza della Repubblica, inusual-mente coinvolta nel vano tentativo di mitigare le bizze regionali e costretta a tornare, due volte nel volgere di pochi giorni (prima con le regio-ni, poi con i comuni), ad appellarsi al senso di responsabilità che dovrebbe essere proprio di tutte le istituzioni.

Non c’è dubbio che il momento sia delicatissi-mo: la pandemia è di nuovo galoppante, la ri-presa economica compromessa, la crisi sociale in atto. Persino la tenuta psicologica dei cittadi-ni è considerata a rischio. È in momenti come questi che la saldezza delle istituzioni si rivela una risorsa decisiva. Una risorsa sulla quale, tuttavia, in questo momento l’Italia non può far conto. E non soltanto per il ridicolo balletto che ha portato le regioni prima a rivendicare auto-nomia decisionale, poi a pretendere l’interven-to dello Stal’interven-to, quindi a lamentarsi delle misure adottate. Il problema è che tanta irresponsabi-lità politica non ha trovato argine nel governo, debole al punto da prestarsi ai giochetti – per-sino alle provocazioni – dei presidenti regionali. Che cosa, se non la propria debolezza (isti-tuzionale, ancor prima che politica), ha sinora impedito all’esecutivo statale di mettere in riga le regioni ricorrendo ai poteri sostitutivi che gli sono attribuiti dall’articolo 120, secondo com-ma, della Costituzione? La norma è chiarissi-ma – «il governo può sostituirsi a organi delle regioni … nel caso di … pericolo grave per

l’in-columità e la sicurezza pubblica, ovvero quan-do lo richiede la tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali» –, così come chiarissimo è il pericolo derivante dall’emergenza sanitaria in atto. E, invece, la soluzione è stata costruire una griglia di para-metri, alimentati da dati di provenienza regio-nale, attraverso cui misurare «oggettivamente» – non sia mai che qualcuno possa pensare che il governo intenda assumersi la responsabilità della scelta – la gravità della situazione in cia-scuna regione. Insomma: la situazione sanita-ria nelle regioni sarà considerata più o meno grave in base ai dati forniti dalle regioni stesse. Un caso da manuale di cattiva regolazione, in cui il controllato è il controllore di se stesso. Per quanto strabiliante, è un fatto che le regio-ni possano oggi far affidamento su un surplus di credibilità istituzionale di fronte al quale lo Stato è in soggezione. Lo dimostra, emblema-ticamente, la circostanza che siano riuscite a imporre un regionalismo a senso unico, che opera solo quando va a loro vantaggio. Così come la grande industria ha, in passato, pie-gato lo Stato al gioco della privatizzazione dei profitti e della socializzazione delle perdite, allo stesso modo oggi le regioni piegano lo Stato al gioco della regionalizzazione degli onori e della statalizzazione degli oneri. E ciò, nonostante i tanti fallimenti nella gestione dell’unico vero compito cui devono assolvere: il governo del sistema sanitario. L’impreparazione con cui le regioni si sono fatte sorprendere dalla seconda ondata è imperdonabile. Come se il dramma di primavera si fosse svolto su un altro pianeta, le criticità di oggi sono le stesse di allora: dif-ficoltà nell’effettuare e processare i tamponi, sistema di tracciamento saltato, assistenza ter-ritoriale deficitaria al limite della carenza, Rsa infettate, decimazione degli anziani. Nemmeno la campagna di vaccinazione antinfluenzale sono state capaci di organizzare. Ancor prima, imperdonabile è l’aver attivamente contribuito – Lombardia in testa – a ridurre la sanità a un mero problema di costi, subordinando la tutela del più fondamentale dei diritti costituzionali a una logica aziendalista incapace di prendersi realmente cura delle fragilità derivanti dalle

cale alla necessità di contenere una pandemia che tutti sapevano avrebbe ripreso vigore con l’autunno?

Per anni abbiamo voluto credere che il raffor-zamento delle regioni a discapito dello Stato avrebbe avuto la virtuosa conseguenza di av-vicinare le istituzioni ai cittadini. Le avrebbe rese più attente ai loro bisogni e più control-labili. Avrebbe innescato una competizione vir-tuosa, da cui sarebbe scaturita l’efficienza che da sempre manca alle istituzioni statali. Anche quando la realtà diceva il contrario, abbiamo voltato la testa dall’altra parte. Abbiamo rifiuta-to di riconoscere che il regionalismo si basava – e si basa – su una competizione tra diseguali, a tutto vantaggio dei più forti, e abbiamo rapi-damente dimenticato le (frequenti) occasioni in cui la vicinanza ai cittadini si è tradotta, com’era prevedibile, in permeabilità alle pratiche della peggiore mala politica, sino alla certificata cor-ruzione dei vertici di alcune delle più importanti regioni italiane. Come se niente fosse, e come già accaduto con la riforma del Titolo V nel 2001, il Pd si è lanciato all’inseguimento della destra, facendosi fautore del pericoloso proget-to dell’auproget-tonomia differenziata, volproget-to a ulterior-mente rafforzare il regionalismo e a legittimare la falsa e perniciosa retorica del residuo fiscale. Incredibile che il progetto sia ancora sul tavolo del ministro per gli Affari regionali e che nem-meno la pandemia abbia indotto a metterlo da parte.

È ora di dire basta. Spinto al limite del fede-ralismo, il regionalismo ha peggiorato lo Sta-to senza migliorare le regioni. E, attraverso l’intreccio delle competenze, ha complicato e indebolito il sistema costituzionale oltre ogni ragionevolezza. Invertire la rotta è diventato ineludibile.

tipo tecnico-operative. Le

politi-che nazionali, quelle politi-che rivesto-no i diritti di tutti, per capirci, sorivesto-no state le prime vittime.Questo ora si riversa, e si rende evidente, nei conflitti che nascono per la spin-ta derivante dall’emergenza vi-rus, che sono assolutamente non condivisibili per alcuni, soprattut-to per la scuola.

La spinta della crisi determinata dal Covid ha messo in evidenza il livello inadeguato del funzio-namento di sistema e questo mi sembra che sia subito arrivato alla consapevolezza di tutti. Al-cune voci politicamente autore-voli hanno auspicato il riaccentra-mento della sanità, perché questa è stata la cosa che più ha toccato immediatamente la coscienza di tutti.

Però già sono emerse a questo punto difficoltà immediate, perché c’è stata un’alzata di scudi senza nessuna eccezione tra i gover-natori che ovviamente trovano nella sanità un punto forte del proprio potere politico e gestiona-le. Quindi a questo punto la que-stione sembrava tornata un po’ sotto silenzio per poi riemergere quando si è cominciato a parlare delle riforme necessarie per cor-reggere il taglio dei parlamentari, che intanto era andato avanti, ma dubito che esse siano veramente utili.

Tutto parte con la riforma dell’ar-ticolo V della Costituzione, poiché quella modifica ha causato l’inde-bolimento della capacità dello sta-to di fare delle politiche nazionali. Questo è accaduto anche con la giurisprudenza della corte costi-tuzionale che ha investito molto sul progetto di “leale Collabora-zione” tra Stato e Regioni (questo è il termine che la Corte Costitu-zionale usa) perché ha cercato in questo modo di mettere in moto un meccanismo che si stava in-garbugliando a causa dei difficili confini del rapporto di competenze tra Stato centrale e Regioni. Que-sta collaborazione si è collocata essenzialmente nella Conferenza Stato-Regioni, dove si trova una concentrazione tra esecutivi : da una parte c’è il governo naziona-le e dall’altra ci sono i governi re-gionali e qui si è creata una sorta di corto circuito. Nella Conferenza Stato-Regioni c’è una sostanzia-le opacità nello svolgimento dei

processi politici e decisionali, per cui ci siamo trovati con un si-stema che ha progressivamente emarginato il parlamento e quindi la visibilità del dibattito pubblico. Il dibattito è stato ristretto quindi in una sede non rappresentati-va e molto poco trasparente e visibile, e in questo modo il si-stema paese si è ulteriormente opacizzato e ridotto a scelte di

UN REGIONALISMO DEGENERATO

A CUI E’ ORA DI DIRE BASTA

Spinto al limite del federalismo, il regionalismo ha peggiorato lo Stato senza migliorare le regioni.

E, attraverso l’intreccio delle competenze, ha complicato e indebolito

il sistema costituzionale oltre ogni ragionevolezza

di Francesco Pallante

malattie.

Altrettanto stupefacente è l’attrazione in ambito regionale delle delicatissime questioni inerenti all’apertura o alla chiusura delle scuole durante la pandemia. Non si ripeterà mai troppe volte che l’istruzione, pubblica e uguale per tutti, è il fondamento stesso della cittadinanza. Con buona pace di coloro che, da destra e da si-nistra, hanno governato negli ultimi decenni, compito della scuola non è produrre lavoratori ben disciplinati, ma formare cittadini pensanti. Pensanti e dunque realmente capaci, perché liberi dall’ignoranza, di occuparsi, oltre che delle loro cose private, della cosa pubblica:e, per questa via, di essere attivi protagonisti della vita collettiva, non passivi strumenti a disposi-zione del demagogo di turno. Ebbene, come sia possibile conciliare questa vera e propria esigenza costituzionale con la rimessione del potere decisionale sull’apertura delle scuole alle singole regioni è davvero incomprensibile. Naturalmente, potrebbe aver senso differenzia-re le decisioni a seconda dell’andamento della pandemia nei diversi territori: a condizione, però, che sia, anzitutto, predefinito un criterio univoco attraverso cui prendere le decisioni, in modo tale che queste siano sempre e comun-que assunte nell’interesse delle persone che, nei diversi ruoli, vivono e fanno vivere la scuo-la. Agire diversamente, rimettendosi, come di fatto avviene oggi, alle valutazioni soggettive dei singoli esecutivi regionali, significa esporre le esigenze della scuola al rischio di venire as-soggettate a logiche altrimenti motivate,se non alle pressioni di gruppi di interesse per i quali l’istruzione è tutt’altro che una priorità. Sono almeno dieci, al momento, le regioni italiane intervenute con misure restrittive: Abruzzo, Ba-silicata, Calabria, Campania, Emilia Romagna, Liguria, Lombardia, Marche, Piemonte, Puglia, Sicilia.Naturalmente – a detta dei presidenti delle regioni in parola – a giustificarle è stato l’intento di muovere a protezione degli studen-ti e del mondo della scuola. Ammetstuden-tiamo che sia così. Ma perché, allora, nulla è stato fatto preventivamente, durante l’estate, quando set-timane cruciali sono state sprecate senza pre-occuparsi di adeguare il trasporto pubblico

lo-Francesco Pallante è professore associa-to di Diritassocia-to costituzionale nell’Università di Torino. Si interessa di fondamento di vali-dità delle Costituzioni, processi costituenti, interpretazione del diritto, diritto non scritto, rapporto tra diritti socialie vincoli finanziari, diritto regionale. Oltre ad articoli scientifici su questi temi, ha pubblicato: Francesco Pallante, Il neoistituzionalismo nel pensie-ro giuridico contemporaneo (Jovene 2008); Gustavo Zagrebelsky, Valeria Marcenò, Francesco Pallante, Lineamenti di Diritto costituzionale (Le Monnier2014); Gustavo Zagrebelsky e Francesco Pallante, Loro diranno, noi diciamo. Vademecum sulle ri-forme istituzionali (Laterza 2016), France-sco Pallante, Contro la democrazia diretta, (Einaudi, 2020) Scrive per il Manifesto, per Micromega, per Volere la luna.

IL CONFLITTO

ATTUALE

STATO-REGIONI

di Massimo Villone

(testo raccolto da Fabrizio Reberschegg)

(3)

E’stata riaperta la discussione di una riforma generale, perché quando si comincia a parlare di modificare la Costituzione, ognuno vuole dirottare gli eventi per il proprio interesse e questa è una cosa già vista in passato. E’ una discussione ripartita e portata avanti da elementi del partito democratico, da Renzi e da Italia Viva, che sostiene una rivisitazione di più ampia porta-ta, e che riesuma alcune vecchi glorie: per esempio la sfiducia costruttiva e l’ampliamento delle possibilità di sedute con congiunte di Camera e Senato.

Lo sforzo nazionale di questo Paese sembra quello di giocare sulle modifiche della Costi-tuzione per non affron-tare le reali difficoltà del sistema politico. Di fronte

a questa fragilità ognuno vuole giocare questa obiettiva fragi-lità in termini di modifica della Costituzione nella direzione di maggiore convenienza di que-sta o quella fazione politica. Questo è il modo peggiore di arrivare ad una possibile rifor-ma costituzionale, che dal 2001 in questo Paese si propone a colpi di maggioranza, perché queste sono le tipiche riforme che interessano ad una parte di politici, e sono osteggiate con la massima durezza possibile dalla controparte. Si pensi che la riforma con titolo V del 2001 passò la seconda deliberazio-ne con 3 voti di margideliberazio-ne Quasi non passò. Sta succedendo nuovamente .Sta ripartendo lo stesso circolo vizioso della

ri-forma della costituzione, in cui ognuno ci mette il suo, senza nessuna considerazione del sistema generale, senza nes-sun concetto di Paese, senza una visione della Costituzione come un concetto di sintesi del Paese. Ora il concetto di Paese condiviso non c’è e quindi le ri-forme si fanno in ordine sparso, senza esiti positivi per il Paese. A questo punto non so se io mi possa augurare che ci sia una riforma; non so bene quale tipo di riforma, e soprattutto a quale livello di qualità, qualora venis-se proposta e approvata. Vero è che c’ è la proposta di Leg-ge Quadro del Ministro Boccia che si prevedeva collegata alla Legge del Bilancio. Si tratta di un progetto quasi “personale” di Boccia, sul quale ha molto investito. Non a caso il 30 set-tembre ultimo scorso è andato in audizione nella commissione bicamerale per gli affari regio-nali, e ha fortemente sostenuto questo suo progetto di Legge Quadro. Ha richiamato il tema dei LEP, i Livelli Essenziali del-le Prestazioni per i diritti civili associati, previsti dall’articolo 117 e addirittura si è spinto a dire che questa crisi Covid ha evidenziato la nascita di un nuovo regionalismo, fonda-to sulla concentrazione degli esecutivi, nel quale vede il fu-turo di questo Paese. Io non lo vedo affatto. Però l’ ultima novità - una novità di cui io mi compiaccio molto- è che hanno

attaccato duramente il Ministro Boccia proprio per la Legge Quadro che non serve tecnica-mente a nulla, perché non

potrebbe irreggimenta-re le spinte all’autono-mia differenziata sepa-ratista come lui invece pensa.

Non è in grado, essendo legge ordinaria, di vincolare qualsiasi cosa alla propria osservanza; cioè la Legge Quadro che lui vuole, non può impedire in un futuro a una legge ordinaria di stabilire un contenuto di forme dalla Legge Quadro, perché, come legge ordinaria, non ha la capacità di resistenza passi-va, come dicono i costituziona-listi, per bloccare questo tipo di modifica che possa essere poi approvata secondo il procedi-mento previsto dall’articolo 116 terzo comma.

Quindi è del tutto inutile, ed anche i LEP non impediscono la frammentazione del Paese.

Prendiamo per esempio la scuola: può avere i LEP migliori del mondo, cioè tutti gli studenti ita-liani possono avere gli stessi servizi, gli stessi metri quadri, le stesse strutture a disposizione ma questo non impedi-rebbe la frammentazio-ne in chiave regionale

Aumentano le diseguaglianze e aumentano le tensioni, ma questo succede anche tra le varie aree metropolitane, non solo tra Nord e Sud ma anche tra Nord e Nord, cioè tra le aree metropolitane e quelle più esterne alla metropoli.

Stessa cosa nel Sud, basta mettere a confronto Napoli ed Avellino.

Quindi questo dimostra che noi abbiamo bisogno di una revisione della governance dal sindaco al complesso del Paese. Tra le tante cose che si sono messe in campo, una soltanto mi sembra una buona proposta, invece con un paio di quelle non sono molto favorevole. Quella che appoggio è la proposta di introdurre una clausola di supremazia, che è già presente nel disegno di costituzionalizzazione delle conferenze. Di fatto è riprendere ciò che è previsto nella Costituzione della Repubblica Federale Tedesca mentre noi purtroppo abbiamo soltanto il potere sostitutivo previsto nel II comma dell’articolo 120 della Costituzione. Il potere sostitutivo è un potere che interviene a valle di una rottura già prodottasi, mentre invece dovrebbe essere un limite generico con il quale si restituisce allo Stato il potere di fare politiche nazionali laddove siano necessarie.

La scuola sarebbe in assoluto il primo dei campi in cui riaffermare la necessità di una politica nazio-nale, che invece non c’è, e quindi questa è una riforma che io apprezzerei se ci fosse, e se ci fosse la forza politica di portarla avanti; come anche favorirei di molto la possibilità di togliere per queste questioni le alleanze e le collaborazioni che vengono poste in essere in luoghi oscuri, che in questo momento investono la gestione della crisi e che si traducono in ordinanze del Presidente del Consiglio e dei Ministri.

Quindi bisognerebbe arrivare ad una revisione del titolo V, perché se non ci arriviamo non si rimette in sesto la governance del Paese, ma non possiamo arrivarci con le proposte attualmente in campo.

della scuola, perché i LEP definiscono il li-vello del servizio ma non

precisano chi e come si va ad erogare quel servizio. Noi do-vremmo avere sistemi regionali scolastici con l’individuazione, la più equa possibile, dei LEP sul piano complessivo del Pa-ese, ma la Legge Quadro ed i LEP non sono strumenti che possono impedire che questo Paese diventi composto da “Repubblichette”, fatto di sta-terelli semindipendenti. È una cosa da evitare.

In questo dibattito in corso, cer-tamente, vi è un punto positivo il collegato a questa proposta di

Boccia, nella Legge di Bilancio non c’è e non ci sarà.

Ciò significa che si vuole ripar-tire da capo e si deve comin-ciare a dire che su certe cose non si fanno passi avanti; per esempio proprio sulla scuola.

Bisogna avere il corag-gio di dire che la scuo-la non è un qualunque servizio pubblico, non è come il servizio di trasporto pubblico. La scuola è un’altra cosa, serve a tutti noi, donne e uomini di questo Pa-ese, per insegnarci chi siamo.

SI VA VERSO ALTRE RIFORME

COSTITUZIONALI?

DISUGUAGLIANZE

L’AUMENTO DELLE

SOCIALI

Massimo Villone è professore emerito di Diritto costituzionale presso la Facoltà di Giurisprudenza

dell’Università degli Studi di Napoli “Federico II”. È stato componente del consiglio di amministrazione e direttore del dipartimento di diritto costituzionaleitaliano e comparato. È autore di saggi e monografie. Villone è mebro della direzione di Costituzionalismo.it e del comitato scientifico di Astrid, oltre che socio fondatore di Mezzogiorno Europa. È stato il presidente del Comitato per l’abrogazione dell’Italicum. Si é schierato a favore del no alla riforma costituzionale del governo Renzi. È attualmente presidente del Coordinamento per la Democrazia costituzionale. Editorialista del quotidiano comunista “il manifesto”, pubblica periodicamente articoli nei quali, attraverso la lente del diritto costituzionale italiano e comparato, analizza i temi politici di più grande attualità del panorama italiano. Scrive su Repubblica Napoli sui temi della politica regionale e locale.

IN PRINCIPIO FU L’AUTONOMIA

NELLA SCUOLA

LA LUNGA MARCIA DALL’AUTONOMIA SCOLASTICA

ALL’ANARCHIA SCOLASTICA.

di Fabrizio Reberschegg

25 ANNI DI FALLIMENTI.

Per capire come si è arrivati al concetto di autonomia scolastica così come lo conosciamo oggi bisogna ricostruire un percorso accidentato che parte dalla decostruzione dell’originario dettato costituzionale.

L’assemblea costituente pose molta attenzione al problema della libertà di insegnamento dopo il disastro del fascismo, ma non conces-se pressoché nulla al tema del decentramento e della possibile regionalizzazione del sistema di istruzione anche per la ferma oppo-sizione delle forze tradizionali della sinistra (PSI e PCI) che temevano il pericolo di forti sperequazioni nell’offerta formativa tra regioni Esse si ponevano come base la difesa delle garanzie dello stato giuridico dei docenti e dell’intervento statale nella scuola pubblica statale con limiti stringenti al finanziamento a favore della scuola privata (art.33 Cost.). Il sistema di istruzione scaturito da

tale scelta fu fortemente centralizzato con una struttura gerarchica tradizionale con a capo il Ministro e le strutture

del ministero con le sue dirette emanazioni territoriali basate sulla rete dei Provveditorati agli Studi. Negli anni dal 1948 al 1974 quasi nessuno si è avventurato a descrivere un sistema più aperto e decentrato con il riconoscimento di spazi di autonomia alle scuole. Il preside assumeva in tale contesto una legittimazione di rappresentanza della scuola dipendente dagli organi sovraordinati con un ruolo di trasmissione degli input provenienti dall’alto e di garante dell’applicazione delle norme e circolari ministeriali. I decreti delegati

del 1974 ruppero l’autoreferenzialità burocratica delle scuole introducendo il principio della partecipazione attraverso organismi

colle-giali aperti anche a componenti esterne (Consigli di Circolo e di Istituto, Consigli di Classe) e funzionali alla partecipazione sul territorio

(4)

GILDA

DEGLI INSEGNANTI

GILDA

DEGLI INSEGNANTI

GILDA

DEGLI INSEGNANTI

(Consiglio Scolastico Provinciale, Consigli Distrettuali). I Decreti Delegati furono la risposta al ciclo di mobilitazioni e lotte studentesche che contraddistinsero la fine degli anni sessanta e i primi anni Settanta del secolo scorso. In attuazione del principio di apertura della scuola al territorio si cominciò, in quel momento, a parlare di aumento degli ambiti di autonomia delle scuole soprattutto dal punto di vista amministrativo. Ancor prima della entrata in vigore del decreto del Presidente della Repubblica 416/74, alcuni tipi di istituti di istru-zione erano infatti già dotati di autonomia amministrativa e di personalità giuridica: tali erano quelli di istruistru-zione tecnica e professionale, di istruzione artistica, dei convitti nazionali e degli educandati femminili. La richiesta di applicare tali principi a tutta l’organizzazione scolastica diventò negli anni settanta e ottanta sempre più forte, soprattutto perché i controlli formali su bilanci e spese delle singole scuole operati dai Provveditorati limitavano oggettivamente l’efficacia e l’efficienza dell’attività didattica anche ordinaria. Si pensi che bisognava addirittura aspettare il vaglio del provveditore per organizzare una gita scolastica. Le ingessature derivate da un sistema di istruzione essenzialmente burocratico furono oggetto di aspre critiche dei movimenti studenteschi negli anni Settanta e Ottanta (si vedano ad es. i documenti della c.d. Pantera) e del movimento degli insegnanti della fine degli anni Ottanta con la nascita dei Cobas e della Gilda degli Insegnanti. Il segno di questi movimenti non era certamente funzionale alle richieste di una autonomia scolastica di natura aziendalista, ma era caratterizzato dalla richieste di valorizzazione della funzione docente anche

dal punto di vista stipendiale e di un rinnovato protagonismo partecipativo e democratico dei docenti e degli organi collegiali nella prospettiva di riforme degli ordinamenti che superassero la tradizionale struttura gentiliana della scuola italiana.

Solo con l’approvazione del Testo Unico n.297/94 si arrivò tardivamente ad un quadro normativo omogeneo. Ma il testo

unico era solo un tassello di un processo in atto che portò nel giro di pochi anni alla vera rivoluzione negli assetti dell’istruzione pub-blica in Italia. Per capire perché si arrivò in breve tempo alla Riforma Bassanini del 1997 bisogna contestualizzare la riforme nel quadro politico e sociale dei primi anni novanta. Il fenomeno di Tangentopoli e la nascita di forze politiche con connotati fortemente autonomistici e federalisti (si veda la Lega –Nord ed alcune posizioni iniziali di Forza Italia) fu il detonatore per la nascita di un quadro politico e ideologico che molti hanno denominato “Seconda Repubblica”. In questi anni si fa largo il prevalere di un pensiero unico libe-rista basato sulla razionalizzazione della spesa pubblica e degli assetti statali mediante le progressive privatizzazioni delle produzioni e dei servizi pubblici che avevano caratterizzato l’Italia come economia mista negli anni Sessanta e Settanta. Lo slogan gridato da alcuni e pensato da molti fu: meno Stato e più mercato. Nel mondo dell’istruzione si propone una riorganizzazione di natura privatistica-azien-dale delle scuole basata sul principio di una sorta di libera concorrenza delle istituzioni scolastiche nel mercato dell’offerta formativa con il contestuale indebolimento della centralità del Ministero. Paradossalmente chi operò per creare le condizioni delle riforme furono governi di centro-sinistra impauriti dal crescente consenso del centro destra (si veda la vittoria di Berlusconi nel 1994 e la crescita della Lega Nord nelle sue regioni di riferimento). Le riforme Bassanini inserirono modifiche strutturali alla macchina

amministrativa statuale introducendo l’autonomia scolastica e il ruolo della dirigenza scolastica. Con

la riforma Bassanini del 1997 si rompe il monopolio del ministero dell’istruzione con l’ introduzione un sistema basato sul pluralismo, il policentrismo nel quale operano in rete stato, scuole autonome, regioni, enti locali, scuole paritarie ed enti di supporto. Scompaiono i Consigli Scolastici Provinciali, i Distretti, si rafforza il ruolo degli Uffici Regionali.

L’apoteosi dell’autonomia scolastica, così come la conosciamo, divenne legge (legge 59/97) con un altro esponente della “sinistra”: Luigi Berlinguer con il primo governo Prodi. Non possiamo qui soffermarci su tutti

gli aspetti della grande riforma della scuola di Berlinguer che fu sostenuta e ampliata anche dai successivi governi di centro-destra (Moratti, Gelmini), ma i caposaldi rimangono ancora tre: valorizzazione delle scuole dell’autonomia con a capo un dirigente scolastico e con una struttura essenzialmente aziendalista, la devoluzione in nome di una presunta sussidiarietà dei metodi e contenuti degli apprendimenti dallo Stato (scompare il concetto di programma di studio) alle scuole alla cui base vi era il concetto di competenza deli-neato mediante linee guida o indicazioni nazionali e l’inserimento a pieno titolo delle scuole paritarie nel sistema pubblico di istruzione. Sempre alla ricerca di intercettare il consenso del centro-destra liberista e federalista, la sinistra (governo Amato 2) complicò ulte-riormente il quadro, già abbastanza confuso, con l’approvazione della riforma del Titolo V della Costituzione del 2001. Nel nuovo

testo si inserisce formalmente l’autonomia scolastica e si apre la possibilità di cooperazione nella governance delle

scuole tra uno Stato, sempre più debole, e le Regioni sempre più invasive. La riforma definisce una competenza concorrente delle regioni in materia di istruzione ed una competenza esclusiva in materia di istruzione e formazione professionale. Un più ampio ambito di potestà legislativa regionale è poi reso possibile dall’art. 116, comma 2 che prevede che le regioni possano concordare con lo Stato quote ulteriori di autonomia legislativa in materia di norme generali sull’istruzione. Da quel momento si è aperta la strada alla cosiddetta autonomia differenziata richiesta a gran voce da Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna con una riorganizzazione del si-stema di istruzione su base regionale.

L’emergenza Covid ha messo a nudo la spinta anarchica dell’organizzazione scolastica. Regioni e Sindaci che aprono e chiudono le scuole, dirigenti scolastici che interpretano le interpretazioni fatte dagli Uffici Scolastici Regionali in accordo con le Regioni sulle indica-zioni, spesso ambigue e contraddittorie, date dal Ministero dell’Istruzione Un disastro assoluto. Dopo 23 anni dalla nascita dell’autono-mia scolastica e dalle mitiche Riforme Bassanini siamo proprio sicuri di aver imboccato la strada giusta?

L’insieme delle norme che introducono l’Autonomia scolastica hanno origine nel clima di rinnovamento che negli anni Ottanta del Novecento anima il mondo della scuola e della politica. La politica e la pedagogia di sinistra individuano

nell’Au-tonomia la risposta ai nuovi bisogni dell’istruzione di massa che la scuola gentiliana non poteva più soddisfare.

Dopo l’introduzione della Scuola Media obbligatoria e unica(Legge 1859 del 31 dicembre 1962), del tempo pieno nella Scuola ele-mentare (Legge 820 del 24 settembre 1971) e, soprattutto, l’approvazione della Legge delega 477 del 30 luglio 1973 a cui seguirono iDecreti Delegati (DPR 416, 417, 418, 419, 420 del 1974), poi confluiti nel Decreto Legislativo 297 del 16 aprile 1994 (Testo Unico), l’Autonomia scolastica, nell’intenzione dei riformatori,doveva essereil grimaldello con il quale far saltare il “classismo” dell’impianto gentiliano della scuola italiana.

Infatti, durante il primo governo Prodi, il ministro della Funzione pubblica e Affari regionali, il sena-tore Franco Bassanini (Partito Democratico della Sinistra), propone e fa approvare dal Parlamento la Legge 15 marzo 1997, n. 59 (in G.U. n. 63 del 17 marzo 1997- Suppl. ord.)“Delega al Governo per il conferimento di funzioni

e compiti alle regioni ed enti locali, per la riforma della Pubblica Amministrazione e per la semplificazione amministrativa”. Con l’arti-colo 21 la Legge Bassanini,che oltre ad essere un politico e accademico è stato anche dirigente d’azienda, presidente della Cassa Depositi e Prestiti e membro del Comitato scientifico del Centro studi di Confindustria,attribuendo le funzioni dell’Amministrazione centrale e periferica della pubblica istruzione alle istituzioni scolastiche, introduce l’istituto dell’Autonomia scolastica,imponendo an-che all’organizzazione scolastica il principio delle autonomie funzionali an-che stravolgel’intero sistema dell’istruzione.

Il DPR 275 dell’8 marzo 1999“Regolamento recante norme in materia di autonomia delle istituzioni scolastiche, ai sensi

dell’art. 21 della legge 15 marzo 1997, n. 59” (in G.U. Serie Generale n.186 del 10-08-1999 - Suppl. Ordinario n. 152)rende operativa e definisce i contorni di questa autonomia.

Le norme citate, organizzano l’Autonomia scolastica intorno a tre cardini: l’autonomia didattica, l’autonomia

organizzativa e l’autonomia finanziaria. Al di là delle intenzioni di quell’area progressista che ha pensato l’Autonomia scolastica era però già evidente che il dettato della Legge 59/1997 destrutturava il sistema scuola-istituzione della Repubblica per avviarsi sulla strada della scuola-quasi servizio. Infatti nella parte che declina l’autonomia organizzativa con un linguaggio mutuato dal lessico aziendale si dice sia:“finalizzata alla realizzazione della flessibilità, della diversificazione, dell’efficienza e dell’efficacia del servizio scolastico, alla integrazione e al miglior utilizzo delle risorse e delle strutture, all’introduzione di tecnologie innovative e al coordina-mento con il contesto territoriale. Essa si esplica liberamente, anche mediante superacoordina-mento dei vincoli in materia di unità oraria della lezione, dell’unitarietà del gruppo classe e delle modalità di organizzazione e impiego dei docenti, secondo finalità di ottimizzazione delle risorse umane, finanziarie, tecnologiche, materiali e temporali”.

Il periodo nel quale queste norme vengono approvate, la fine degli anni Novanta, è quello dell’attacco al

modello di welfare e del trionfo del mercato, così l’Autonomia finanziaria diventa un pretesto per ridurre i finanziamenti dello Stato (anche il fondo di funzionamento) e mettere le scuole in competizione tra loro sia per reperire i fondi necessari alle attività sia per aumentare il numero degli iscritti. In questo modo le scuole si sono trasformate in simil-aziende strutturate gerarchicamente con l’introduzione della nuova figura del dirigente-manager, con docenti in competizione tra loro e con le scuole concorrenti e con l’intera scuola impegnata ad accontentare i clienti: studenti e famiglie. Per nemesi si può dire che la scuola del Novecento era sicuramente più autonoma dell’attuale, che è più povera e dominata dalle leggi del mercato e dell’ideologia del consumo.

Si deve al DPR 275/1999, art. 4, c. 1, se l’autonomia didattica introduce surrettiziamente il principio del “diritto al successo formativo” utilizzato dalla burocrazia ministeriale nei 20 anni successivi e che è sicuramente responsabile dell’abbassamento della qualità del sistema di istruzione italiano.

L’aziendalizzazione della scuola, con la figura del dirigente-manager, coniugata al “diritto al successo formativo”

ha prodotto l’erosione dello spazio professionale degli insegnanti, mutando la professione docente e imponendo l’ingerenza nella didattica dei clienti: studenti e famiglie. Negli ultimi 20 anni, caratterizzati dal regime di Autonomia scolastica,

il carico burocratico per insegnanti e studenti è significativamente aumentato, invadendo il quotidiano di

tutti coloro che frequentano gli istituti scolastici. Infatti, il ruolo degli Organi collegiali è stato costantemente sotto attacco da parte del modello gerarchico imposto dall’Autonomia e pedissequamente seguito dal ministero. Provvedimenti sempre più prescrittivi, simil protocolli, hanno provato a normare nel dettaglio perfino la didattica, esautorando il docente del suo ruolo di organizzatore delle me-todologie di insegnamento in libertà e autonomia, regolando in modo puntiglioso i comportamenti da tenere nelle singole situazioni. Provvedimenti che spesso hanno seguito le “mode didattiche” e l’innovazione fine a se stessa nel più bieco disprezzo della profes-sione docente, dei contenuti e delle conoscenze necessari alla formazione dello spirito critico delle nuove generazioni.

Le criticità del regime di Autonomia scolastica sono ancora più evidenti nel contesto attuale della pandemia, come ci racconta l’arti-colo di Ester Trevisan.

Questo è ancora più evidente Concludendo, l’analisi dell’attuazione dell’Autonomia scolastica, contrariamente a quanto pensato dall’area politica progressista che l’ha proposta e normata, ha contribuito in modo decisivo alla destrutturazione del sistema scuola-i-stituzione e favorito l’affermazione del sistema scuola-quasi servizio, modificando la professione docente e peggiorando la qualità dell’insegnamento. Da questa realtà bisogna ripartire per una riflessione franca sulla necessità di cancellare l’Autonomia della Legge 59/1997 e del DPR 275/1999 e ridare alla scuola il ruolo che le compete quale istituzione.

AUTONOMIA SCOLASTICA PASSO DOPO PASSO

di Gianluigi Dotti

Da questa realtà bisogna ripartire per una riflessione franca sulla necessità di cancellare

l’Auto-nomia della Legge 59/1997 e del DPR 275/1999 e ridare alla scuola il ruolo che le compete quale

istituzione

(5)

LE PROPOSTE DI AUTONOMIA

DIFFERENZIATA DEL VENETO, DELLA LOMBARDIA

E DELL’EMILIA: SPINGONO A

UN’ORGANIZZAZIONE DELLA SCUOLA DI TIPO

REGIONALISTICO, CON L’ORGANIZZAZIONE

SCOLASTICA DELLA REGIONE, ADDIRITTURA CON

GLI ORGANICI SCELTI DALLA REGIONE.

di

Massimo Villone (testo raccolto da Fabrizio Reberschegg)

In Veneto, ed un po’ meno in Emilia Romagna, si sono spinti avanti su questo terreno, in modo molto forte. E’stata ipotizzata,anche in modo minaccioso, da qualche governatore aspirante separatista la volontà di arrangiarsi e di crearsi da soli l’autonomia regionale. Dopo la sanità, vediamo governatori che spingono molto sulla scuola e qui bisogna essere chiari in un punto: l’interesse

della politica regionale è nella possibilità di ge-stire i docenti, perché i docenti sono un esercito che entra nelle case delle famiglie. Chi amministra le

regioni gestisce i medici, e se ci aggiungessimo anche i docenti, noi avremmo delle regioni che gestiscono le due categorie, che entrerebbero direttamente nelle case delle famiglie. Questo uno strumento potentissimo di gestione.

Questa è la vera ragione di una spinta così forte sulla scuola, la vera ragione di chi fa politica sul campo : la scuola è uno strumen-to di estrema utilità per chi fa politica.

Per esempio, si punta ad orientamenti della scuola per territori, progetti che vengono dall’impostazione di stampo aziendalistico della scuola, verso la quale io sono molto contrario.

Penso che la scuola debba essere innanzitut-to uno strumeninnanzitut-to di formazione culturale civile, poi all’ultimo posto debba venire l’impostazione aziendalistica.

Purtroppo quest’ultima è stata molto esaltata da strumenti come la Buona Scuola, per esempio, dall’impostazione dei dirigenti scolastici, per cui si si determina questo processo: dal potere regionale si arriva al dirigente scolastico che gestisce poi in con-creto, secondo criteri di efficienza e di rapporti costi/benefici, che oltretutto con la scuola non so come si possano applicare. Nella crisi Covid specificamente, è mancata la percezione di una mera priorità della scuola.

Mi sconvolgo nell’ assistere al conflitto che nasce sull’apertura delle piste di sci, che magari sono importanti, però non c’ è stato lo stesso tipo di conflitto sulla scuola,

Di conseguenza, adesso stiamo arrivando a quello che per me è una condizione inaccettabile : di due studenti che vivono in due comuni, diversi ma vicini, uno va a scuola e l’altro no; uno parte-cipa alla didattica in presenza e l’altro no.

Tutto questo ha un impatto che va ben oltre l’edificio della scuola nel quale si svolge la prestazione del servizio. Vi sono famiglie che non sanno più come gestire i figli che rimangono o meno a casa; genitori non sanno se hanno ancora un posto di lavoro o come rapportarsi con il datore di lavoro perché non sanno se

devono stare a casa o no,mentre alcuni dirigenti pensano che il “loro” edificio scolastico non offra le dovute garanzie. Il sistema Paese non può funzionare in questo modo. Il sistema scuola non può funzionare in questo modo. Questa è stata una palese de-bolezza, probabilmente anche della ministra anche se non voglio fare critiche particolari. Mi sembra che dall’inizio non ci sia stata chiara una vera percezione dei problemi: per esempio hanno ci-tato quello del trasporto, ma questo problema era già presente da prima, si sapeva della sua esistenza, non c’era bisogno di risolle-varlo adesso, ugualmente per il problema di rapporto con le ASL. Credo che si sarebbe potuto, avendo una percezione chiara della priorità scuola nel suo complesso, avere dall’inizio un approccio più efficace, però questo è un’opinione probabilmente politica. Credo anche che sulla scuola e sulla sanità, con la crisi Covid abbiamo visto quanto i due servizi siano veramente fondamentali, perché interessano a tutti, dal primo fino all’ultimo, attraverso i figli o attraverso la nostra condizione di salute.

Questi servizi sono ridotti in una condizione nella quale l’egua-glianza dei diritti, che dovrebbe essere parametro assolutamente primario di ogni politica e di qualsiasi governo, è sostanzialmente svanita, è diventata un miraggio in questo Paese.

Per non parlare del divario tra Nord e Sud, che è aumentato a dismisura. La scuola lo dimostra in maniera chiarissima, dove la grande disponibilità di strumenti in certe famiglie si contrappone alle tante che non dispongono di un tablet che hanno difficoltà di avere il collegamento Internet, perché non c’è la rete a banda larga.

Queste sono cose che dividono il Paese, i territori, e le aree me-tropolitane.

I FRUTTI BACATI DELL’ ISTRUZIONE IN ORDINE

SPARSO

La babele istituzionale che il Covid ha scoperchiato

di Ester Trevisan

In principio fu l’autonomia sco-lastica. Poi venne la riforma del Titolo V della Costituzione. Fino a giungere al tempo, funestato da forti perturbazioni provenien-ti da Nord, da Sud e dal Centro, della Babele istituzionale. E così i

semi piantati nel 1997, poi nel 2001 diven-tati alberi dalle fragili radici, nell’era del Co-vid-19 hanno generato i frutti bacati di un sistema dell’istruzione che procede in ordi-ne sparso, in virtù (sic!) dell’indipendenza decisionale conferita a livello periferico e che ogni presidente di Regione e ciascun dirigente scolastico interpreta e declina senza curarsi eccessivamente delle dispo-sizioni impartite a livello centrale. Una so-vrapposizione di poteri che in qualche caso provoca una battaglia a colpi di ricorsi alla giustizia amministrativa tra Governo ed Enti locali. Oggetto del contendere: prose-guire o sospendere le lezioni in presenza, per quali ordini di scuola attivare la didatti-ca a distanza e per quanto tempo.

Con la nota n. 1990 del 5 novem-bre, il Ministero dell’Istruzione fornisce alle scuole le indica-zioni applicative del DPCM del 3 novembre, fissando la Didattica Digitale Integrata al 100% in tutte le

scuole secondarie di secondo grado, fatta salva la possibilità di svolgere in presenza le attività di laboratorio, purché contem-plate nei piani di studio e nei quadri orari degli specifici ordinamenti. Nelle cosiddet-te zone rosse, il provvedimento emanato da viale Trastevere stabilisce lo stop alle lezioni in classe anche per gli studenti del secondo e terzo anno delle secondarie di primo grado. Se sussistono condizioni critiche e motivi urgenti, però, le Regioni possono derogare alle disposizioni del Mi, intervenendo con misure più restrittive. Lo stesso vale per i Comuni dopo l’abolizione a luglio del decreto legge con cui all’inizio della pandemia a marzo si era stabilito che i sindaci non avrebbero potuto assumere decisioni in contrasto con quelle dello Sta-to.

A fare da apripista nello scompa-ginare le carte in tavola, e anzi a giocare di anticipo rispetto alle decisioni assunte a Roma, ci pensa Vincenzo De Luca che

in Campania, con un’ordinanza emanata a metà ottobre, dispone la chiusura delle aule scolastiche per tutti i gradi di istruzio-ne dal 5 al 14 novembre. Periodo proroga-to, poi, fino al 23 novembre. La decisione di tenere a casa tutta la popolazione stu-dentesca, presa dallo “sceriffo” di Santa Lucia quando la Campania è ancora in zona gialla, scatena la protesta di un’am-pia frangia di genitori che si rivolge al Tar per ottenere la ripresa totale delle lezioni in presenza. Ma i giudici amministrativi re-spingono il ricorso e decretano la legittimi-tà dell’ordinanza firmata da De Luca. Fino al 7 dicembre, dunque, restano sospese le attività didattiche in presenza delle classi della scuola primaria diverse dalla prima, quelle della prima classe della scuola se-condaria di primo grado nonché quelle concernenti i laboratori. Sono consentite le attività in presenza dei servizi educativi e della scuola dell’infanzia ma anche delle pluriclassi della scuola primaria che com-prendano la prima.

L’esempio della Campania viene seguito a fine ottobre dalla Pu-glia, dove però la decisione del presidente Emiliano di chiudere tutte le scuole incontra maggiori

osta-coli. Anche in questo caso, l’ordinanza vie-ne impugnata dai genitori che presentano ricorso al Tar di Bari e a quello di Lecce. E qui la questione si ingarbuglia ulteriormen-te, perché il tribunale del capoluogo bare-se annulla il provvedimento mentre quello salentino lo conferma. A questo punto la Regione emana un’altra ordinanza con cui autorizza la riapertura delle scuole ma la-scia alla discrezionalità delle famiglie e dei dirigenti scolastici la decisione ultima sulla ripresa delle lezioni in presenza.

In Calabria, colorata di rosso il 6 novembre, intervengono i singo-li Comuni: scuole off-singo-limits a Catanzaro,

Crotone, Vibo Valentia e Paola. Singolare la situazione di quest’ultima città, dove la decisione del sindaco, come lui stesso ammette, non è supportata da dati speci-fici. Scatta il ricorso al Tar da parte delle famiglie che vincono e ottengono la riaper-tura. Ma non finisce qui: Antonino Spirlì, presidente della Regione facente funzione, emana l’ennesima ordinanza e chiude tutte le scuole sull’intero territorio regionale. Le

stesse famiglie non ci stanno e si appel-lano ancora una volta al Tar che dà loro ragione nuovamente. Ciononostante, gli studenti restano a casa perché i primi citta-dini non vogliono saperne di ripristinare le attività didattiche in presenza. Un braccio di ferro che vede ancora il sindaco di Paola in prima linea con un’altra ordinanza che imponela chiusura degli istituti. Lo stesso copione va in scena in molti altri comuni calabresi.

In Basilicata, arancione dall’11 novembre,un’ordinanza regionale

ema-nata il 15 novembre dispone la chiusura anche della scuola primaria e di tutto il ci-clo della secondaria di primo grado. Pronta la replica dei genitori che fanno ricorso al Tar.Conclusione: i banchi si ripopolano fino alla terza media, come previsto dal Dpcm-del 3 novembre scorso.

Le scuole piemontesi seconda-rie di primo grado, nonostante la

pro-mozione della Regione dalla fascia rossa a quella arancione, resteranno chiuse a docenti e studenti fino al 23 dicembre. A deciderlo, il presidente Alberto Cirio con un’ordinanza del 28 novembre motivata da ragioni prudenziali e dettata dal princi-pio precauzionale “in considerazione di un possibile maggiore rischio epidemiologico relativo alle festività natalizie”.

(6)

GILDA

DEGLI INSEGNANTI

GILDA

DEGLI INSEGNANTI

GILDA

DEGLI INSEGNANTI

Io non sarei affatto favorevole al procedere su questa strada perché la premessa è che siamo in un Paese che già è in tensione per una possibile frammentazione, quindi introdurre elementi ulteriori che vanno in quella direzione sarebbe esattamente un errore, dal mio punto di vista.

Però va capito che ci sono forze molto potenti che spingono nell’altra direzione, di questo bisogna essere con-sapevoli perché la politica è fatta così.

Un’idea che non avevo considerato è che si può studiare. Si tratterebbe di operare una modifica sulla forma delle norme generali dell’articolo 117 comma II, che già adesso sono di competenza esclusiva dello stato, salvo la sciagurata apertura fatta dall’articolo 116 terzo comma sull’autonomia differenziata.

Quindi il pericolo viene soprattutto da lì perché altrimenti ci sarebbe già lo strumento nel concetto di norme generali, però, per evitare forzature legittimate dall’articolo 116 III comma, forse si potrebbe valutare di inserire un elemento di precisazione per sottrarre almeno alcuni profili che si ritengono essenziali, come per esempio, il profilo del programma e dei contenuti della didattica, che giustamente si citava, per evitare il pericolo di una ulteriore territorializzazione.

PROPOSTE VARIE PER RIORGANIZZARE

COMPLETAMENTE I CONTENUTI DELLA

DIDATTICA E PER AFFIDARE ALLE AUTONOMIE

LOCALI LA NOMINA DEI DIRIGENTI SCOLASTICI

di Massimo Villone (testo raccolto da Fabrizio Reberschegg)

RECLUTAMENTO ARLECCHINO

Perdura l’ idea dell’ assunzione diretta dei docenti da parte dei dirigenti, una

sorta di “ preside sceriffo”, buona per una scuola supermercato.

di Antonio Antonazzo

L’immagine che più di tutte mostra in maniera pla-stica le conseguenze legate all’emergenza sanita-ria derivante dalla pandemia del virus COVID- 19

è sicuramente quella in cui la nostra Italia compare in tutto il suo splendore a chiazze colorate di giallo, arancione e rosso.

Ci hanno spiegato che i colori delle nostre regioni derivano auto-maticamente da un algoritmo basato su 21 indicatori, la maggior parte dei quali legati alla gestione della sanità di ogni singola re-gione con il risultato che, a parità di numero complessivo di con-tagi, il colore assegnato dall’algoritmo risulta essere molto diverso a seconda delle disponibilità e della qualità del sistema sanitario regionale; il che ha scatenato le polemiche, le discussioni e le accuse di comportamento di favore verso una regione piuttosto che un’altra.

Tutto nasce agli inizi del nuovo secolo quando, sull’onda delle proteste contro uno Stato centralizzato inefficiente e dalle mani bucate – tutti ricordiamo lo slogan ROMA LADRONA – , per ve-nire incontro a quella parte del paese che invocava la “ DEVO-LUTION” come panacea di tutti i mali italici, il Governo di centro sinistra fece approvare la riforma del titolo V della Costituzione. Con questa riforma della Costituzione vengono ridisegnate le competenze dello Stato e delle regioni lasciando, per quanto ri-guarda la sanità, allo Stato centrale il compito di determinare i livelli essenziali delle prestazioni sanitarie da garantire a tutti i cit-tadini e assegna alle regioni il compito di organizzare e assicurare i servizi di assistenza sanitaria e ospedaliera.

Oggi, 20 anni dopo, vediamo i risultati che deri-vano dalle scelte e dagli investimenti diversifica-ti che ogni regione ha fatto in quesdiversifica-ti 4 lustri e ci siamo resi conto di non essere preparati a gestire

una situazione di emergenza sanitaria che avrebbe

bisogno di un’organizzazione capillare e centralizzata per poter fare fronte comune contro la pandemia in atto.

Non è un caso infatti che il mondo politico stia pensando di far marcia indietro proponendo la riforma della riforma del Titolo V.

Eppure solo un paio di anni fa il clima politico era di tutt’altro tenore. Non si parlava più di “ Devolution”

ma di autonomia differenziata e diversi governi regionali aveva-no già predisposto un piaaveva-no per ottenere maggiore autoaveva-nomia nella gestione della formazione e dell’istruzione. Il cambio della maggioranza del Governo aveva rallentato in parte queste spinte centrifughe, ma la discussione è ancora aperta al punto che altre giunte regionali hanno già cominciato a discutere di autonomia differenziata e di gestione del personale scolastico.

La pandemia ha fermato il dibattito in essere e ha, probabilmente, bloccato sul nascere l’evolversi di queste riforme che decentra-no alle regioni il potere decisionale sulla gestione dell’istruzione. Speriamo quindi che, tra 20 anni, non saremo costretti a discute-re davanti ad una cartina multicolodiscute-re dei disastri derivanti da 20 sistemi scolastici diversi e delle problematiche che ne derivereb-bero.

Attenzione però, non siamo al riparo di questa deriva anche per-ché, la storia ci insegna, che la nostra memoria è corta e che non sempre impariamo dagli errori del passato.

D’altra parte, nelle pieghe dei progetti di legge giacenti in Parlamento - e in alcune bozze di progetti regionali- periodicamente, spuntano dei testi che, in termini di reclutamento, vanno ben al di là del progetto regionale di autonomia differenziale.

Si tratta infatti di proposte che intendono mo-dificare radicalmente il sistema di reclutamen-to prevedendo che le modalità di espletamenreclutamen-to dei bandi di concorso per assumere il personale docente vengano concordate a livello nazionale, ma che i concorsi veri e propri vengano gestiti e condotti a livello di singole scuole o, al più, di reti di

scuole. In pratica, un sistema simile a quello della sanità dove i concorsi sono gestiti a livello di ASL.

Alla base di tali proposte, vengono spesso men-zionati i sistemi di reclutamento anglo-sassoni dove, effettivamente, le assunzioni avvengono direttamente a livello di singole scuole con un

preside manager che gestisce direttamente le attività economi-co-finanziarie del suo istituto e che stipula contratti individuali con i docenti che assume.

Ma è questo il modello cui aspiriamo? Siamo

cer-ti che funzioni bene? Vogliamo davvero trasformare le nostre scuole in un’azienda o in una piccola ASL?

Negli Stati Uniti abbiamo decine di esempi di scuole dove la libertà di insegnamento viene calpestata al punto che se non si seguono gli orientamenti ( qui diremmo il PTOF ) dell’Istituto si può essere licenziati in tronco. Il caso più lampante è costituito da quelle scuole in cui è vietato parlare di evoluzionismo, ma presto ci saranno anche scuole che introdurranno il terrapiatti-smo tra le materie di studio.

La nostra scuola, malgrado tutti i difetti, i tagli e le carenze organizzative, è ancor oggi in grado di formare dei giovani, a prescindere dalla regione di

pro-venienza, in grado di dimostrare le loro competenze e le loro capacità intellettive in qualunque parte del mondo e ben pochi di loro affermerebbero che la terra è piatta.

Eppure l’idea di decentrare il potere decisionale a livello di sin-gola scuola è strisciante e diffuso all’interno di molte forze poli-tiche anche tra quelle di fazioni avverse.

E’ ancora legge dello Stato la così detta “ buona scuola” dove si è cercato di potenziare la figura di un “preside sceriffo” anche attraverso l’istituzione della “chiamata diretta” che, sulla carta, consente ai singoli dirigenti scolastici di scegliersi direttamente i docenti da inserire nei loro organici sulla base di criteri colle-gati al PTOF di istituto.

È stato un flop totale che, per fortuna, è stato neutralizzato da norme contrattuali successive. Estendere ulteriormente questo potere decisionale nelle mani di una singola persona, non sa-rebbe solo un flop, ma una tragedia dalle conseguenze incon-trollabili.

La scuola e la sanità devono essere un patrimonio pubblico di tutti e non può essere lasciato alla mercé di singole decisioni sulla base della convenienza politica o personale del momento. Abbiamo spesso scritto che il sistema di reclutamento attuale dei docenti non funziona e che deve essere riformato in modo da rendere le procedure concorsuali più snelle e adeguate ai numeri reali contemplando anche un processo di formazione di qualità in modo da inserire nel mondo della scuola insegnanti preparati e capaci.

Questo però non significa stravolgere la nostra Costituzione e trasformare le nostre scuole in supermercati della conoscenza dove i docenti vengono assunti sulla base di come sanno ven-dere i prodotti di un determinato marchio.

Già me la vedo la cartina d’Italia se passasse questo tipo di riforma: un vestito da Arlecchino strappato qua e là.

Autonomia differenziata:

un tuffo nella storia

IL PAESE CHE SI CREDE

FEDERALE, MA NON LO

È MAI STATO

“Credo che sia abbastanza chiaro a tutti che, alla

tragica luce dell’apocalisse sanitaria in corso, la

regionalizzazione della sanità è stato un terribile

errore. La gestione del Servizio sanitario è nelle

mani di amministratori regionali non solo incapaci

di opporre alcun valido contrasto alla diffusione

del virus, come è avvenuto con le aperture delle

discoteche in Sardegna, ma, ora, devono

conti-nuamente ricorrere allo Stato per cavarsi

d’im-paccio è[…].Questa tragica débâcle dovrebbe

dare modo di ripensare in maniera radicale, non

solo alla regionalizzazione della Sanità, ma

an-che alla utilità

delle Regioni che potrebbero essere sostituite, come Ente intermedio, dalle ben più sto-ricamente radicate Province.

La prima e, fino al 1948, ultima idea di dividere l’Italia in regioni, del resto, fu di Augusto che, nel 7 d.C., suddivise il territorio della Penisola in un-dici aree, indicate con i numeri, prima ancora che con i nomi. Le regiones augustee, peraltro, assomi-gliavano pochissimo a quelle attuali tanto che, per esempio, a nord del Po ne esistevano solo due, la IX a ovest e la X a est, con l’attuale Lombardia di-visa a metà, mentre l’estremo lembo della Penisola era accorpato in un’unica regione, la III, ‘Lucania et Bruttii’.

I criteri augustei per la ripartizione del territorio della Penisola inregiones erano di ordine etnico e politi-co. Volti a valorizzare le antiche e differenti tradi-zioni storiche e culturali, ma con il precipuo com-pito, ideologico, di conferire unitarietà, nell’ambito dell’impero, allo spazio italiano.

Dopo la fine del mondo antico ed il disfacimen-to dell’ordinamendisfacimen-to romano, abbiamo notizia del-le regioni solo a partire dalla Costituzione di Mel-fi (1231) di Federico II, nel Sud d’Italia, passando per le regioni linguistiche-culturali di Dante Alighieri fino ai vari disegni regionali del Biondo e dell’Alber-ti; per arrivare, infine, ai disegni del XVIII secolo e ai “dipartimenti” introdotti negli Stati “napoleonici” in Italia. Solo con l’Unità d’Italia Cesare Correnti e Pietro Maestri disegnarono, nel 1864, la suddivi-sione in 14 ‘compartimenti’ che avrebbero voluto far diventare Enti governativi intermedi, ma che furono usati, invece, solo per meri fini statistici.

L’Assemblea Costituente, nel secondo dopoguer-ra, riprese l’idea regionalista, soprattutto sturziana, che fu portata avanti, riassumendo e semplificando, soprattutto dalla Democrazia Cristiana, in funzione di garanzia rispetto ad una eventuale vittoria delle sinistre alle elezioni nazionali.

(7)

regionali-GILDA

DEGLI INSEGNANTI

GILDA

DEGLI INSEGNANTI

GILDA

DEGLI INSEGNANTI

“L’Italia non è uno stato federale come la Svizze-ra o la Germania, come gli Stati Uniti d’America o il Canada, ma durante tutta la gestione della pan-demia ci si ècomportati come se lo fosse, affidan-do alle regioni funzioni mai assegnate nel passa-to. Nel nostro paese è in vigore soloun regionalismo “rafforzato”, con alcuni poteri delegati che non confi-gurano però “stati autonomi”. Le regioni-stato sono un’invenzione dei loro presidenti, non della no-stra Costituzione. Il conflitto tra potere centrale e poteri regionali a cui assistiamo è la conseguenza di una frammentazione della catena decisionale, ideata per coinvolgere nella gestione della crisi sanitaria (e delle sue conseguenze economiche e sociali) le for-ze politiche di opposizione che guidano le regioni più ricche del nord, piuttosto che di obblighi costituzio-nali. Poiché le forze politiche di opposizione non si lasciavano coinvolgere in parlamento o a Roma, si è pensato di coinvolgere nelle regioni, aumentandone i poteri. Il risultato non è stato brillante, anzi. La pan-demia ha spinto verso la “poliarchia”, e la poliarchia stava perdegenerare in anarchia, con una interpre-tazione del tutto originale dell’autonomia diffe-renziata: scaricare sul governo centrale le colpe delle misure drastiche prese per i singoli territori, attribuirsi i meriti qualora dovessero funzionare. Alcuni presidenti di regione si stanno segnalando più per una furbizia gretta che per una corresponsabilità istituzionale. Chiedersi come si è arrivati a questa situazione, vuol dire anche fare un rapido tuffo nella mostra storia. La tradizione italiana è una tradizio-ne municipalista non regionalista né tanto meno federalista. L’Italia non ha conosciuto differenze religiose, etniche, linguistiche o di altro tipo tali da giustificare un’organizzazione federale dello stato. L’unica storica differenziazione è quellatra nord e sud, un divario economico non etnico, non religioso, non istituzionale. La scelta federalista fu scartata nel 1861: l’accentramento era suggerito dalle profonde differenze economiche e sociali esistenti tra gli stati preunitari che avrebbero nuociuto, se non governate dal centro, alla nascita di una nazione forte, unita e autorevole anche nel confronto.

(Isaia Sales, Dare potere alle regioni

è stato un errore che ora va corretto,

Il Domani, 9 novembre 2020)

smo le sinistre e anche le forze laiche e liberali, mentre c’era un partito, il Movimento per l’Indipen-denza della Sicilia che, dopo aver fomentato disor-dini e rivolte armate nell’isola, ottenne una forma molto larga di autonomia nella Carta costituzionale. La situazione mutò quando, dopo il 1948, le sinistre furono escluse dal governo del Paese trovandosi all’opposizione, esse si spostarono su posizioni re-gionaliste al fine di garantirsi spazi politici pratica-bili.[…]

È, ormai, del tutto evidente a chicchessia che l’Italia dei venti ‘governatorati’ non è, per nulla, preferibile all’Italia unita soprattutto per quel che riguarda la Sanità che oggi mostra, con mortale crudezza, tutta la sua inadeguatezza ed insufficienza, pur avendo assorbito quasi l’80% delle risorse economiche de-stinate alle Regioni”.

(Alle regioni l’80% delle risorse. Il Covid misura il fallimento.- di Battista Sangineto. Il Manifesto, 19 novembre

Riferimenti

Documenti correlati

Questa invenzione è uno dei “pezzi” pregiati di Aumann, in cui si saldano acutezza di analisi e rigore formale, senza però invocare tecniche ma- tematiche sofisticate (esattamente

In una lettera inviata ai ministri dell’Interno e della Salute, al Presidente della Giunta della Regione Sardegna e all’Assessore Regionale all’Igiene e Sanità

L’unico elemento di sintesi e di equilibrio tra le due entità sono le attivi- tà di medicina preventiva destinate alla tutela della salute umana e animale e alla salubrità

Si associano nella protesta studenti, ricercatori, professori, precari della ricerca e della didattica ed il personale tecnico amministrativo, sia interno sia

Poi venne il codice del 1942, e comparve, come motivo di ricorso per cassazione, l’“omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione

L’Associazione Internazionale dei Lions Club è la più vasta organizzazione di club di assistenza al mondo, con 1,4 milioni di persone in oltre 200 Paesi che dedicano il loro tempo

Esempio emblematico (unica Regione in Italia): la possibilità, espressa nel recente Piano Socio- Sanitario Regionale di affidare la direzione dei servizi sanitari clinici,

Di particolare importanza per i Luoghi della cura sono i temi legati alla riforma della rete delle RSA e dei sistemi di pagamento delle prestazioni all’interno