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SIRT1 E MORBO DI PARKINSON: ATTIVATORI DEL SIGNALING DI SIRT1 E LORO POTENZIALE APPLICAZIONE FARMACOLOGICA IN MODELLI IN VITRO (SH-SY5Y)

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PISA

Facoltà di Scienze Matematiche, Fisiche e Naturali

Corso di Laurea Magistrale in

Biologia Applicata alla Biomedicina

Curriculum Fisiopatologico

Tesi di Laurea

“SIRT1 E MORBO DI PARKINSON: ATTIVATORI DEL

SIGNALING DI SIRT1 E LORO POTENZIALE

APPLICAZIONE FARMACOLOGICA IN MODELLI IN

VITRO (SH-SY5Y).”

Relatore:

Candidata:

Prof. Luca Giovannini

Anella Monte

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Indice

INDICE ... 2

RIASSUNTO ... 6

1. INTRODUZIONE ... 9

1.1 Malattie Neurodegenerative ... 9

2. MORBO DI PARKINSON: DEFINIZIONE E CENNI STORICI ... 12

2.1 Epidemiologia ... 13

2.2 Patogenesi ... 14

2.2.1 Ruolo della Dopamina ... 14

2.2.2 Ruolo dell’ α-sinucleina ... 18

2.3 Aspetti Clinici ... 23

2.3.1 Disturbi motori ... 23

2.3.2 Disturbi cognitiv ... 24

2.3.3 Disturbi Psichiatrici ... 24

2.4 Farmaci per il trattamento del Parkinson ... 25

2.4.1 Levodopa ... 25

2.4.2 Agonisti dopaminergici ... 27

2.4.3 Inibitori delle catecol-o-metil-transferasi ... 29

2.4.4 Inibitori delle monoaminossidasi ... 30

2.4.5 Anticolinergici ... 30

2.4.6 Amantadina ... 30

2.5 Modelli sperimentali nello studio del Parkinson ... 31

2.5.1 Modelli in vitro ... 31

(3)

2.5.3 Modelli farmacologici ... 32

2.5.3.1 6-idrossidopamina (6-OHDA) ... 32

2.5.3.2 Rotenone ... 33

2.5.3.3 MPTP (1-metil 4-fenil 1,2,3,6-tetraidro-piridina) ... 34

3. SIRTUINE ... 34 3.1 Storia ... 34 3.2 Proprietà biochimiche ... 35 3.3 Funzioni ... 36 4. LA SIRTUINA 1 (SIRT1) ... 38 4.1 Regolazione di SIRT1 ... 38

4.2 Ruolo di SIRT1 nel Parkinson ... 41

5. AMPK ... 43

5.1 Struttura e attivazione ... 43

5.2 Regolazione di AMPK... 45

5.3 SIRT1 e AMPK: reciproca attivazione ... 46

5.4 AMPK e Parkinson ... 46

6. mTOR ... 47

6.1 Struttura e attivazione ... 47

6.2 Regolazione di mTOR ... 48

6.3 SIRT1 e mTOR: reciproca inibizione ... 50

6.4 mTOR e Parkinson ... 51

7. POLIFENOLI ... 52

7.1 Polifenoli e malattie neurodegenerative: ruolo nel Parkinson ... 53

(4)

7.3 Tirosolo ... 55

8. SCOPO DELLA TESI ... 56

9. MATERIALI E METODI ... 58 9.1 Colture cellulari ... 58 9.1.1 Condizioni di coltura ... 59 9.2 Western Blot ... 60 9.3 Test di citotossicità ... 64 9.4 ELISA ... 64 9.5 Analisi Statistica ... 66 10.RISULTATI ... 67

10.1 ( I FASE ) Test di Vitalità Cellulare CellTiter-Blue (Promega)... 67

10.2 ( II FASE ) Valutazione dell’espressione di SIRT1 e dell’attivazione/inibizione di AMPK e mTOR da parte di Acido Ferulico e Tirosolo ... 73

10.2.1 Valutazione dell’espressione di SIRT1 in seguito a somministrazione singola ... 73

10.2.2 Valutazione dell’espressione di SIRT1 in seguito a somministrazione associata e di un’eventuale effetto sinergico ... 75

10.2.3 Valutazione dell’attivazione di AMPK in seguito a somministrazione singola e associata ... 77

10.2.4 Valutazione dell’inibizione di mTOR in seguito a somministrazione singola e associata ... 81

10.3 ( III FASE ) Valutazione dell’effetto di Acido Ferulico e Tirosolo su cellule trattate con Rotenone ... 86

10.3.1 Valutazione dell’effetto dell’Acido Ferulico sull’espressione di SIRT1, attivazione di AMPK e inibizione di mTOR in cellule trattate con Rotenone ... 86

10.3.2 Valutazione dell’effetto del Tirosolo sull’espressione di SIRT1, attivazione di AMPK e inibizione di mTOR in cellule trattate con Rotenone ... 89

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10.3.3 Valutazione dell’effetto dell’associazione Acido Ferulico + Tirosolo

sull’espressione di SIRT1 ... 92

10.4 ( IV FASE ) Valutazione dei livelli di α-sinucleina ... 95

11.DISCUSSIONE ... 100

12.CONCLUSIONE ... 103

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RIASSUNTO

INTRODUZIONE: Il Morbo di Parkinson (PD) è il secondo disordine degenerativo più comune nei paesi industrializzati, affligge l’1% della popolazione dopo i 60 anni. I sintomi relativi al Parkinson sono dovuti principalmente ad una drastica diminuzione della dopamina (DA) a livello di alcune strutture del sistema extrapiramidale (sostanza nera, striato) e all’accumulo dei corpi intracitoplasmatici di Lewy, inclusioni che contengono α-sinenucleina e ubiquitina. La sostituzione della dopamina rappresenta quindi la miglior strategia terapeutica per alleviare la disabilità motoria parkinsoniana. La dopamina però non può essere somministrata come tale in quanto, a causa dell'elevata basicità non supera la barriera ematoencefalica. Al momento il precursore metabolico della dopamina, la L-Dopa (L-3,4- didroxifenil-ammina) rappresenta il principale farmaco antiparkinson. Tale farmaco non porta a guarigione ma allevia solo i sintomi caratteristici del Parkinson e per questo deve essere somministrata in modo continuo per tutta la vita del paziente. Tuttavia, questo produce severi effetti avversi che limitano il potere terapeutico del farmaco. Anche altre tipologie di farmaci, utilizzabili in questo contesto da soli o in associazione con L-Dopa, causano molti effetti avversi che ne limitano l’uso terapeutico o addirittura mostrano una inadeguata efficacia nelle disabilità motorie su parkinsoniani, specie negli stadi avanzati della malattia. Date tutte queste problematiche, tutt’oggi continua la ricerca di nuove terapie che limitino le complicazioni mantenendo la qualità terapeutica. A questo proposito, negli ultimi anni molti ricercatori hanno focalizzato il loro interesse sul possibile ruolo di SIRT1 nel Parkinson, evidenziando come non solo SIRT1, ma anche AMPK e mTOR (due proteine strettamente correlate a SIRT1) potrebbero avere ruolo protettivo verso la patologia, diminuendo la formazione di aggregati proteici anormali. In aggiunta, la relazione tra SIRT1 e Parkinson è stata confermata da molti studi su colture cellulari e modelli murini che hanno soprattutto mostrato un ruolo di SIRT1 nell’attivazione dell’heat shock factor 1 (HSF1), fattore coinvolto nella trascrizione degli chaperon molecolari, compreso HSP70, che regola l’omeostasi delle proteine cellulari, confermando la sua azione neuroprotettiva.

SCOPO: Nonostante la presenza di molti studi che ipotizzano un ruolo importante di SIRT1 nel Parkinson, sono necessari altri studi volti a confermare questi dati o a chiarire i target specifici con cui SIRT1 interagisce in questo contesto. Sulla base di queste premesse, questo progetto sperimentale si pone come scopo generale la valutazione dell’effetto di sostanze attivatrici di SIRT1 su modelli in vitro della suddetta patologia. In particolare, verrà valutato l’effetto di modulatori nutraceutici di SIRT1, in seguito a

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somministrazione singola o sinergica, sul pathway di SIRT1, AMPK e mTOR e sui livelli di α-sinucleina .

MATERIALI E METODI: Le linee cellulari utilizzate sono state i neuroni umani di neuroblastoma, SH-SY5Y. Le cellule sono state trattate con due polifenoli ed il rotenone, noto modello farmacologico della patologia. In dettaglio, l’ Acido Ferulico (25µM; 50µM) e il Tirosolo (10µM; 20µM) sono stati utilizzati sia singolarmente che in associazione, per un tempo di incubazione di 3,6 e 24 h; il Rotenone (20µM) è stato utilizzato per un tempo di incubazione di 12h in cellule SH-SY5Y opportunamente pre-trattate nelle 12 ore precedenti con i due polifenoli in esame. Nella prima fase dell’esperimento, le sostanze sono state testate per valutare la loro eventuale citotossicità a diverse concentrazioni e a diversi tempi di stimolazione, utilizzando il metodo fluorimetrico Cell Titer-Blue Viability Assay (Promega). I livelli di espressione di SIRT1 e l’attivazione/inibizione di AMPK e mTOR sono stati successivamente valutati mediante la tecnica del Western Blot, mentre i livelli di α-sinucleina sono stati quantificati mediante test Elisa.

RISULTATI: L’analisi dei dati ottenuti dai test di citotossicità, nel caso di Acido Ferulico e Tirosolo, ha messo in evidenza come non vi sia nessuna variazione significativa del numero di cellule vitali dei campioni trattati rispetto al controllo, ovvero rispetto alle cellule senza trattamento, dimostrando in questo modo la non tossicità delle sostanze. Al contrario, per quanto concerne il Rotenone, si osserva una diminuzione statisticamente significativa del numero di cellule vitali, evidenziando una tossicità della sostanze direttamente proporzionale alla concentrazione e al tempo di incubazione. Inoltre, i risultati dei nostri esperimenti evidenziano come l’espressione di SIRT1 sia significativamente aumentata in tutti i gruppi sperimentali rispetto al gruppo controllo, sia quando le cellule sono state trattate con sostanze singole sia in associazione (***p<0.001) In dettaglio, l’analisi dei risultati delle associazioni tra le sostanze (Acido Ferulico+Tirosolo) ha messo in evidenza come la loro somministrazione associata comporti un aumento dell’espressione di SIRT1 maggiore e statisticamente significativo rispetto a quello ottenuto sommando gli effetti delle singole somministrazioni, evidenziando quindi la presenza di un effetto sinergico tra le sostanze sull’espressione di SIRT1. In aggiunta, tutte e due le sostanze determinano un’attivazione di AMPK e un’inibizione di mTOR quando somministrate singolarmente. L’analisi dei campioni trattati con Rotenone e opportunamente pretrattati con i due polifenoli in esame, ha evidenziato come sia l’Acido Ferulico che il Tirosolo siano in grado di contrastare il danno dovuto al Rotenone. Infine, la valutazione dei livelli di α-sinucleina mediante test Elisa e, soprattutto la diminuzione dei livelli di questa

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proteina nei campioni trattati o pretrattati con Acido Ferulico e Tirosolo ha confermato l’importanza dei due polifenoli in questa patologia.

CONCLUSIONI: I risultati del presente lavoro di tesi evidenziano come i due polifenoli testati, Acido Ferulico e Tirosolo, non solo sono in grado di attivare SIRT1, ma sono in grado anche di attivare AMPK ed inibire mTOR. In aggiunta, la loro azione risulta fortemente positiva anche su campioni trattati con Rotenone e sulla determinazione dei livelli di α-sinucleina, che risulta, infatti, fortemente inibita da queste due sostanze. L’importanza di questi dati è avvalorata dal ruolo di tutte queste proteine nella malattia di Parkinson, confermando, infine, il potenziale ruolo neuroprotettivo di SIRT1 e l’importanza di un incremento dell’attività di SIRT1 come promettente strategia terapeutica coadiuvante all’L-Dopa.

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1. INTRODUZIONE

La malattia di Parkinson è la seconda patologia neurodegenerativa più diffusa in tutto il mondo [1], comporta disabilità [2] e conseguente riduzione della qualità della vita [3] in modo particolare nel suo stadio più avanzato. La terapia farmacologica sintomatologica sviluppa con gli anni una riduzione della sua efficacia rendendo necessario l’aumento del dosaggio farmacologico assunto che però non risulta alle volte efficace contro i sintomi e causa lo sviluppo di effetti collaterali [4-7]. Date tutte queste problematiche, tutt’oggi continua la ricerca di nuove terapie che limitino le complicazioni mantenendo la qualità terapeutica. A questo proposito, negli ultimi anni molti ricercatori hanno focalizzato il loro interesse sul possibile ruolo di SIRT1 nel Parkinson, evidenziando come non solo SIRT1, ma anche AMPK e mTOR (due proteine strettamente correlate a SIRT1) potrebbero avere ruolo protettivo verso la patologia, diminuendo la formazione di aggregati proteici anormali. In aggiunta, la relazione tra SIRT1 e Parkinson è stata confermata da molti studi su colture cellulari e modelli murini che hanno soprattutto mostrato un ruolo di SIRT1 nell’attivazione dell’heat shock factor 1 (HSF1), fattore coinvolto nella trascrizione degli chaperon molecolari, compreso HSP70, che regola l’omeostasi delle proteine cellulari, confermando la sua azione neuroprotettiva.

1.1 MALATTIE NEURODEGENERATIVE

Le malattie neurodegenerative sono un insieme di patologie a carico del Sistema Nervoso Centrale caratterizzate da un processo cronico e selettivo di morte cellulare neuronale. Nel corso degli ultimi anni molti studi hanno dimostrato che la patogenesi delle malattie neurodegenerative comprende molti cambiamenti e il reclutamento di molte vie biochimiche. Questi processi cellulari e biochimici comprendono: misfolding proteico, oligomerizzazione e aggregazione, proteolisi, disfunzioni mitocondriali, infiammazione, risposta apoptotica e molti altri.

La morte neuronale è una condizione irreversibile, ciò causa danno delle funzioni cerebrali, che si manifestano a seconda del tipo di malattia, con deficit cognitivi, demenza, alterazioni motorie e disturbi comportamentali più o meno gravi.

Le malattie neurodegenerative possono manifestarsi in diverse modalità, a seconda dell'area del cervello interessata dalla perdita neuronale e a seconda del tipo di neuroni che vengono colpiti. Tuttavia, generalmente, tutte queste patologie presentano tre punti in comune:

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• esordio subdolo e insidioso, poiché nella maggior parte dei casi l'inizio della malattia è asintomatico e i sintomi si manifestano solo in seguito, quando il danno neuronale è piuttosto esteso;

• progressione irreversibile, poiché, purtroppo, ancora oggi non esistono cure in grado di arrestare definitivamente le malattie neurodegenerative;

• trattamento puramente sintomatico.

La definizione e classificazione di questo tipo di malattie, a causa della sovrapposizione della sintomatologia, continuano ad essere argomento di dibattito medico-scientifico. Tuttavia, vengono raggruppate diverse entità cliniche e le più note sono: malattia di Alzheimer, morbo di Parkinson, Corea di Huntington, sclerosi laterale amiotrofica (SLA). Si calcola che nel Morbo di Alzheimer, nel Morbo di Parkinson, così come nella maggioranza delle altre malattie neurodegenerative tra cui la Sclerosi Laterale Amiotrofica (SLA), al momento della diagnosi definitiva, il paziente abbia già perduto fino al 70% dei motoneuroni, cioè di quei neuroni che conducono gli impulsi elettrici che fanno muovere i nostri arti. Tutto questo rende veramente difficile la possibilità di intervenire in modo efficace sul processo degenerativo già in atto. Un modo per risolvere il problema alla radice è impedire l’insorgenza stessa di queste patologie: attraverso una diagnosi precoce, il processo neurodegenerativo può essere tamponato nella sua fase iniziale, cioè quando è ancora controllabile. D’altra parte, le terapie attualmente in uso sono essenzialmente sintomatiche, con efficacia variabile in funzione della patologia e dello stato del singolo paziente.

In questo contesto, con l’obiettivo di intervenire dunque sia a livello preventivo che terapeutico, molti gruppi di ricerca stanno focalizzando la loro attenzione sui seguenti aspetti:

• studio dei meccanismi molecolari e cellulari che causano la neuro-degenerazione dei neuroni;

• implementazione delle tecniche di diagnostica per immagini per identificare i meccanismi patologici e per sviluppare nuovi marcatori di malattia che possano migliorare le performance diagnostiche e prognostiche nei malati;

• approntamento di nuovi test sperimentali per studiare più a fondo gli eventi cellulari e molecolari di neuro-degenerazione;

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• messa a punto di nuove terapie basate sull’uso di cellule staminali e su approcci di terapia genica e di terapie farmacologiche.

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2. IL MORBO DI PARKINSON: DEFINIZIONE E CENNI STORICI

Il morbo di Parkinson ( “Parkinson Disease”, PD) è un disturbo neurodegenerativo associato alla riduzione dei livelli di dopamina dovuta alla distruzione dei neuroni pigmentati a livello della subtantia nigra (o sostanza nera), uno dei nuclei che costituiscono i gangli della base del cervello (Figura 1). È una malattia lenta, progressiva con compromissione del movimento che porta a disabilità [2]. Il PD è classificato tra le Malattie del sistema Nervoso Centrale e, a tal proposito, fa parte di un gruppo di patologie definite “disordini del movimento”, di cui fanno parte anche la Paralisi Sopranucleare Progressiva , la SLA e la Corea di Huntington.

Figura 1: Rappresentazione schematica delle vie cerebrali che interessano il Morbo di Parkinson

Nel 1817 il medico James Parkinson notò per le strade di Londra un piccolo gruppo di soggetti che si muovevano in modo lento. Quando essi erano fermi mostravano tremori regolari delle mani e della testa, al contrario quando camminavano avevano un portamento rigido. La descrizione del disturbo motorio che ora porta il suo nome è così accurata e sintetica da essere tuttora attuale: “… moto tremolante involontario, con forza muscolare

ridotta, di parti non in azione, anche quando vengono sorrette; con propensione a piegare il tronco in avanti e a passare da un’andatura al passo alla corsa; assenza di alterazioni sensitive e dell’intelletto ”. Come si può notare, nella sua descrizione originale, Parkinson

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affermando l’assenza di alterazioni dello stato mentale (“the senses and the intellect remain uninjured”-1817). Il quadro patologico descritto da Parkinson nel suo trattato “Essay on the Shaking Palsy” ( Saggio sulla paralisi da agitazione) rappresenta la forma più frequente e meglio definita di disordine del movimento, causato da alterazioni a carico del circuito motorio dei nuclei della base.

Per quanto riguarda la presenza di disturbi cognitivi, si attribuisce a Trousseau ed a Charcot il merito di averli notati per primi, verso la metà del novecento. Ball, psichiatra a Sainte Anne, fu probabilmente il primo negli anni a registrare la frequenza delle manifestazioni psichiatriche. Notevoli progressi nella conoscenza della malattia dei nuclei della base sono stati conseguiti a partire dalla fine degli anni ’50, quando Arviol Carisson dimostrò che l’80% della dopamina cerebrale si trova nei nuclei della base. In seguito, Oleh Hornykiewicz osservò che i cervelli dei soggetti che avevano sofferto di morbo di Parkinson presentavano bassi livelli di dopamina, norepinefrina e serotonina; ma che la dopamina era quella ridotta in modo drastico. Il PD è divenuto il primo esempio di malattia neurologica associata alla carenza di un particolare neurotrasmettitore.

2.1 EPIDEMIOLOGIA

Il PD colpisce 5 milioni di persone in tutto il mondo [8]: alla fine degli anni ‘90 era la quarta più comune malattia neurodegenerativa [9] mentre attualmente è la seconda più comune in tutto il mondo [1]. Secondo recenti stime da parte dell’Organizzazione mondiale della sanità (OMS), l’incidenza dei malati di Parkinson in Europa è dello 0,5%, per un totale di circa 1 milione di persone. In Italia, secondo uno studio del Centro Nazionale di Epidemiologia, Sorveglianza e Promozione della Salute (2011), i casi di Parkinson sono circa 220.000. La malattia colpisce a un’età media di 55 anni. È più comune sopra i 60 anni, ma molti casi sono diagnosticati intorno ai 40 anni o anche al di sotto. Tuttavia, il tasso di incidenza aumenta notevolmente con l’età: dai 20 casi su 100.000 nella popolazione totale si passa ai 120 casi su 100.000 nella popolazione oltre i 70 anni. Per quanto riguarda le differenze di genere, studi epidemiologici europei e statunitensi riportano un tasso d’incidenza da 1.5 a 2 volte maggiore negli uomini rispetto alla donne. In Giappone, diversamente, si riscontra una maggiore incidenza tra donne (Centro Nazionale di Epidemiologia, Sorveglianza e Promozione della Salute 2011).

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Uno studio retrospettivo statunitense [10] afferma che il rischio di morte a causa della PD è inferiore nelle donne (Rischio Relativo, RR 0.74), nei pazienti di razza ispanica (RR 0.72) o asiatica (RR 0.86) rispetto ai pazienti caucasici. Le persone con PD che sviluppano demenza presentano un rischio di morte più elevato (RR 1.72) rispetto a quelle che non sviluppano demenza. Il rischio di morte è, inoltre, superiore nei pazienti con

PD che vivono in zone urbane altamente industrializzate con emissioni di metalli per un RR di 1.19. Una meta-analisi recente [11] indica che i fumatori hanno un rischio inferiore di sviluppare il PD. Da uno studio retrospettivo statunitense [12] è emerso che l’esposizione ad alcuni idrocarburi solventi aumentava il rischio di malattia: in particolare, l’esposizione al tricloroetilene, al percloroetilene e al tetetracloruro sono rispettivamente associati ad un rischio di 6, 10.5 e 2.3 volte maggiore rispetto alla non esposizione. Queste sostanze sono presenti in molti prodotti utilizzati nelle normali attività di vita quotidiana come benzina, colle, vernici e prodotti per la pulizia.

2.2 PATOGENESI

2.2.1 Ruolo della Dopamina (DA)

Come precedentemente accennato, il PD è la seconda più comune malattia neurodegenerativa caratterizzata da una progressiva perdita di neuroni dopaminergici ( o neuroni pigmentati) della via nigrostriale. La causa per cui i neuroni pigmentati sono soggetti a distruzione non è ad oggi stata ancora identificata. Sono state però formulate delle ipotesi che sostengono che la perdita di tali neuroni sia da attribuire a fattori genetici ed ambientali (Centro Nazionale di Epidemiologia, Sorveglianza e Promozione della Salute 2011). D’altra parte, ben conosciuta è, invece, la fisiopatologia riguardante i sintomi: la sintomatologia clinica non appare fino a che il 60% dei neuroni pigmentati sono persi e i livelli di dopamina striata diminuiscono all’80% [2].

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Figura 2: Rilascio di Dopamina in condizioni normali e nel PD.

La DA è il neurotrasmettitore che nel sistema nervoso centrale (SNC) dei mammiferi ha un ruolo importante in numerose funzioni tra cui l’attività motoria, l’apprendimento, l’emozioni, la gratificazione, la motivazione e la secrezione di alcuni ormoni come la prolattina. Inoltre, possiamo ipotizzare anche una funzione endogena della dopamina nel sistema nervoso periferico (SNP) per la presenza di recettori dopaminergici a livello della muscolatura liscia vascolare a livello renale, a livello del sistema gastroenterico ed infine a livello delle fibre gangliari del sistema simpatico. L’importanza del sistema dopaminergico centrale nel controllo dell’attività motoria è chiaramente dimostrata nella malattia di Parkinson dove, come già precedentemente accennato, la degenerazione di neuroni dopaminergici presenti nell’area A9 del mesencefalo (nigra pars compacta ) è la causa principale della malattia (Figura 2).

I neuroni dopaminergici originano dalla substantia nigra e fanno parte di un complesso circuito neuronale che insieme alla corteccia, talamo e gangli della base partecipano al controllo del movimento volontario. In condizioni normali i gangli della base ricevono informazioni dalla corteccia e dopo averle elaborate le trasformano in movimento e in memoria motoria per essere così ritrasmesse alla corteccia.

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Figura 3: Schematizzazione del circuito neuronale del movimento volontario.

I gangli della base sono costituiti da 4 formazioni principali: striato, globus pallidus, substantia nigra (costituita a sua volta da una pars compacta e una pars reticolata) e il nucleo subtalamico. Il centro operativo dei gangli della base è il corpo striato che riceve afferenze glutammatergiche (Glu) dalla corteccia cerebrale e afferenze dopaminergiche dalla sostanza nera pars compacta (SNC).

Per quanto riguarda i neuroni efferenti dello striato si tratta di neuroni inibitori GABAergici, distinti in due sottopopolazioni che a loro volta danno origine a due principali vie attraverso cui lo striato regola gli input eccitatori talamo-corticali: via diretta

e via indiretta (Figura 3).

I neuroni GABAergici striatali della via diretta sono indirizzati al globo pallido interno/pars reticolata (Gpi/SNr) della sostanza nera che a sua volta invia afferenze GABAergiche al talamo. Questa situazione determina la disinibizione del talamo provocando un aumento dell'attività eccitatoria attraverso il rilascio del

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glutammato (Glu) a livello della corteccia cerebrale, tale condizione determina l'attuazione motoria.

I neuroni GABAergici striatali della via indiretta si connettono al globo pallido interno/pars reticolata (Gpi/SNr) della sostanza nera attraverso una serie di sinapsi: 1) Neuroni GABAergici dello striato fanno sinapsi con il globo pallido esterno (Gpe);

2) neuroni GABAergici del globo pallido esterno (Gpe) fanno a loro volta sinapsi con il nucleo subtalamco (STN);

3) in fine, i neuroni glutammatergici del nucleo subtalamico (STN) fanno sinapsi con il Gpi/SNr.

La via indiretta serve a mantenere il controllo dell'attività motoria, inducendo un

aumento del controllo inibitorio esercitato da Gpi/SNr sul talamo, con il risultato della riduzione degli input eccitatori talamo-corticali.

La DA gioca un ruolo fondamentale per la regolazione della via diretta e indiretta, svolgendo una azione modulatrice opposta sull’attività delle due vie “gangli della base- talamo- corticali”. Infatti, la DA ha azione eccitatoria sui neuroni GABAergici della via diretta che esprimono i recettori D1, mentre ha azione inibitoria sui neuroni GABAergici della via indiretta che esprimono i recettori D2. In conseguenza, in un individuo sano il rilascio di DA nello striato indurrà l'attivazione della via diretta, facilitante il movimento, ed un'inibizione delle via indiretta, inibente il movimento con conseguente facilitazione motoria. D’altra parte, in un paziente affetto da mordo di Parkinson si osserverà una riduzione della DA, la mancata attivazione della via diretta e una mancata riduzione dell'attività della via indiretta. Tale condizione provoca una riduzione della trasmissione talamo-corticale con perdita dell'attivazione delle aree corticali coinvolte nella programmazione e nella regolazione del movimento, quindi difficoltà motoria (Figura 4).

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Figura 4: Differenza tra condizione normale e Parkinson nella circuiteria del movimento volontario

I pazienti affetti dal morbo di Parkinson, oltre alla riduzione di DA, mostrano una degenerazione progressiva delle cellule nervose a livello della substantia nigra e il locus coeruleus.

2.2.2 Ruolo dell’α-sinucleina

Le sinucleine sono una famiglia di proteine solubili comuni nei vertebrati, espresse principalmente nel tessuto nervoso e in certi tumori. Negli esseri umani sono note almeno tre forme di sinucleine, denominate α-, β- e γ- sinucleine, espresse da tre differenti geni [13]. L’interesse verso queste proteine è emerso quando nel 1993 si scoprì che la sinucleina rappresentava il precursore di uno dei costituenti delle placche senili nella malattia di Alzheimer [14]. L’α-sinucleina (α-sin) è una proteina di 140 aminoacidi, rappresenta il maggiore componente dei corpi di Lewy [13] ed è una proteina abbondantemente rappresentata nei terminali nervosi presinaptici del cervello dei

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mammiferi, in particolare a livello della corteccia, dell’ippocampo, dello striato, della substantia nigra, del tratto e del bulbo olfattorio e dell’ipotalamo. Si è dimostrato che l’α-sinucleina è in grado di legarsi con proteine e lipidi di membrana, ma il significato di tali interazioni ancora non è ben noto [15]. Essendo la sua localizzazione perinucleare e presinaptica, si è ipotizzato un suo ruolo nella modulazione del turnover delle vescicole sinaptiche e della plasticità neuronale [13]. Sebbene la sua funzione non sia bene compresa, diversi studi suggeriscono che giochi un ruolo importante nel mantenimento di una scorta di vescicole nei terminali presinaptici, aiutando così anche la regolazione del rilascio di dopamina. A tal proposito, in topi knockout per il gene dell’α-sinucleina è stato dimostrato un aumento del rilascio di dopamina in seguito ad opportuno stimolo ed una riduzione delle risposte motorie dopamino-dipendenti all’anfetamina, suggerendo un preminente ruolo della sinucleina come regolatore presinaptico negativo della neurotrasmisssione dopaminergica [16]. In aggiunta, un ulteriore studio basato su una variante di topi transgenici, esprimenti sia la variante wild-type che la variante mutata di α-sinucleina, ha provato che le mutazioni Ala53Thr ed Glu46Lys, localizzate in una regione della proteina costituita da α-elica circondata da β-sheets, determinano un incremento ed un’estensione delle strutture β-plated sheets. Queste ultime sarebbero responsabili dell’abnorme accumulo di autoaggregati insolubili fibrillari dell’ α-sinucleina, non più suscettibili del processo di proteolisi normalmente operato dai proteosomi. L’effetto tossico delle protofibrille sarebbe da attribuire alla loro capacità di aumentare la permeabilità di membrana attraverso la formazione di strutture simili a tubuli ed a pori [17]. Inoltre, la mutazione Ala53Thr favorirebbe la depolarizzazione mitocondriale e l’attivazione dell’apoptosi, alterando il potenziale di membrana mitocondriale [18-22]. La mutazione puntiforme Ala30Pro sembrerebbe interferire con la funzione della regione N-terminale dell’ α-sinucleina, impedendone la normale interazione con le vescicole sinaptiche ed inducendone probabilmente l’autoaggregazione [23]. Le duplicazioni e triplicazioni di SNCA determinerebbero un’eccessiva espressione dell’ α-sinucleina, conducendo ad un incremento nella formazione di protofibrille.

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Figura 5: Struttura dell’α-sinucleina

Dal punto di vista strutturale, α-sin contiene tre domini principali: un dominio N-terminale che contiene strutture a α-elica, un dominio centrale idrofobico probabilmente responsabile della formazione di aggregati (amiloidogenico) e un dominio C-terminale, caratterizzato dalla presenza di residui acidi e residui di serina e tirosina e che si pensa possa avere un ruolo nella interazione con altre proteine (Figura 5). I primi due domini contengono un dominio di legame alle membrane probabilmente responsabile dell’associazione di α-sin con le membrane cellulari [24, 25]. La proteina prodotta per via ricombinante e purificata non presenta una struttura secondaria o terziaria ordinata, tuttavia in seguito al legame con vescicole 14 contenenti fosfolipidi, può assumere una conformazione ad α-elica nel suo dominio N-terminale [26]. Fino ad oggi sono state identificate tre mutazioni: A53T, A30P e E46K, tutte localizzate nella porzione N-terminale della proteina [27, 28]. Sono stati riscontrati alcuni casi di MP familiare sono associati alla duplicazione e triplicazione del gene (PARK4) piuttosto che alla presenza di mutazioni [29].

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Figura 6: Oligomerizzazione dell’α-sinucleina e formazione dei Corpi di Lewy

Come descritto in precedenza, α-sin è la componente principale dei corpi di Lewy, cioè degli aggregati proteici riscontrati all'interno dei neuroni dopaminergici dei malati di PD (Figura 6 e 7). Tuttavia è presente anche in altri tipi di aggregati, come ad esempio i neuriti di Lewy o nelle inclusioni oligodendrogliali, che caratterizzano altre malattie neurodegenerative che per questo motivo vengono raggruppate sotto la definizione comune di “sinucleinopatie” e che condividono alcune caratteristiche con le malattie da prioni, non da ultimo la trasmissibilità per diffusione da una cellula all’altra delle proteine responsabili [30, 31]. I meccanismi molecolari che collegano α-sin alla patogenesi di queste malattie tuttavia non sono ancora noti, come in realtà non lo sono nemmeno quelli responsabili dell’insorgenza del PD. L’ipotesi originaria sulla quale si sono concentrati la maggior parte degli studi sosteneva che la presenza di α-sin mutata o la sua sovraespressione favorisse la formazione di aggregati proteici, la cui presenza all’interno della cellula a lungo andare portasse ad un effetto tossico e quindi alla conseguente morte cellulare. Recentemente tuttavia, una nuova idea ha iniziato a emergere: diversi lavori hanno dimostrato come α-sin sia indispensabile per alcune funzioni cellulari, e addirittura in alcune situazioni risulti essere protettiva per le cellule che subiscono particolari insulti. L’ipotesi prevalente al momento è quindi rappresentata dal fatto che l’effetto protettivo e l’effetto tossico di α-sin

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siano strettamente dipendenti dai suoi livelli di espressione nella cellula. Sembra, infatti, che l’accumulo di α-sin e la conseguente formazione di particolari stati di aggregazione, come ad esempio gli oligomeri o le fibrille [26], possano essere dannosi per la cellula, mentre la normale presenza della proteina sia fisiologicamente utile e protettiva. La propensità di α-sin ad oligomerizzare è la conseguenza di un meccanismo di “folding” non corretto, che porta alla formazione di strutture ricche in foglietti beta definite come fibrille. Una quantità elevata di proteina o le presenza di mutazioni nella sua sequenza primaria [32- 36] potrebbero quindi ostacolarne il corretto ripiegamento durante il processo di maturazione e favorirne l’aggregazione. Diversi studi in vivo hanno dimostrato come interferendo con la capacità di α-sin di creare aggregati, mediante la coespressione, ad esempio, di β-sinucleina (un altro membro della famglia delle sinucleine, di per se non amiloidogenico) o sovraesprimendo una forma di α-sin deleta del dominio centrale amiloidogenico, gli effetti tossici 15 neurodegenerativi risultino estremamente blandi o addirittura nulli [37, 38]. Risulta ancora dibattuto però, quali specie di aggregati di α-sin siano tossici. Alcuni lavori, infatti, identificano gli stati protofibrillari di α-sin come dannosi, mentre altri affermano che le fibrille vere e proprie medino gli effetti tossici [39].

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2.3 ASPETTI CLINICI

2.3.1 Disturbi motori

All’esordio della malattia il sintomo predominante è il tremore (70%), ha la caratteristica di manifestarsi in condizioni di riposo e si riduce o scompare quando si esegue un movimento finalizzato. Altri sintomi che fanno parte della malattia sono: bradicinesia ( il rallentamento nell’esecuzione dei movimenti), ipocinesia (povertà di movimenti automatici) e acinesia (assenza di movimenti automatici). La rigidità, che si osserva nei pazienti affetti da PD, è causato dall’aumento del tono muscolare e può verificarsi agli arti, al collo e al tronco. Nelle fasi più tardive della malattia si verifica l’instabilità posturale, i pazienti perdono il riflesso del raddrizzamento; quindi la postura eretta è compromessa per cui il paziente progressivamente si flette con il busto. La condizione di rigidità degli arti, bradicinesia e instabilità posturale provocano difficoltà nella deambulazione (Figura 8).

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2.3.2 Disturbi cognitivi

Il PD presenta spesso un’associazione con deficit cognitivi specifici e con quadri di demenza. L’insorgenza della demenza è, conseguenza fisiologica della malattia stessa, caratterizzata da rallentamento cognitivo e motorio, da compromissione delle funzioni esecutive e da deficit della memoria di recupero. Precisamente, il 10-15% dei pazienti che sviluppano la demenza è dovuta all’età avanzata, dalla presenza di un disturbo depressivo e dal grado più elevato di disabilità motoria. La bradifrenia o acinesia psichica, nei pazienti affetti da PD, indica molteplici difficoltà, intellettuali e psicologiche; che si evidenziano come perdita di concentrazione, incapacità a creare nessi logici e rallentamento dei processi di pensiero. Nei pazienti affetti da PD i deficit che riguardano la memoria sono rilevati nell’incapacità di accedere ai dati memorizzati; la memoria a lungo termine appare compromessa. [40, 41]

2.3.3 Disturbi psichiatrici

Nel PD il più comune disturbo psichiatrico è la depressione. I sintomi depressivi si manifestano nel 25-40% dei casi e possono essere preceduti o concomitanti al quadro patologico. La depressione nel PD è stata attribuita da alcuni ricercatori alle conseguenze della diminuzione del movimento e al generale stato di stress conseguente a tale inabilità; altri studiosi, invece, suggeriscono la presenza della depressione alla diminuzione del quadro serotoninergico. Sono abbastanza comuni dei pazienti Parkinsoniani i disturbi ansiosi, come: disturbi fobici, paure irrazionali e attacchi di panico. Frequenti sono i disturbi psicotici quali allucinazioni e disturbi del pensiero, attribuiti alla terapia farmacologica. [42]

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2.4 FARMACI PER IL TRATTAMENTO DEL PARKINSON

Lo scopo del trattamento per il PD mira principalmente a ripristinare una normale attività dopaminergica striatale mediante diverse strategie: rimpiazzando la dopamina, stimolando i recettori dopaminergici striatali o ritardando il metabolismo della dopamina endogena. I farmaci maggiormente utilizzati nella terapia del morbo di Parkinson sono: la Levodopa, gli agonisti dei recettori della dopamina, gli inibitori della catecol-o-metil-transferasi, gli inibitori delle monoaminossidasi, gli antagonisti dei recettori muscarinici dell'acetilcolina e l'amantadina.[43]

2.4.1 Levodopa

Aumentare il contenuto di dopamina a livello dello striato è alla base dell'importanza del trattamento terapeutico per il PD. Ma la DA come tale non può essere somministrata poichè non oltrepassa la barriera ematoencefalica, quindi non riuscirebbe a raggiungere la sede d'azione e provocherebbe numerose reazioni avverse a livello del SNP. Per rimediare a ciò, si utilizza la levodopa che rappresenta il precursore fisiologico della DA, dove viene trasportato al cervello tramite amminoacidi aromatici, dove viene poi convertita in DA dalle decarbossilasi presenti nelle terminazioni presinaptiche dei neuroni dopaminergici dello striato. La levodopa attraverso il sistema di trasporto mediato dagli amminoacidi aromatici viene rapidamente assorbito a livello del tratto grastrointestinale, in gran parte a livello del piccolo intestino. La quantità di levodopa disponibile per l'assorbimento dipende dalla velocità di svuotamento gastrico e dal PH del contenuto gastrico. La levodopa a livello dell'intestino, del fegato e dei reni viene rapidamente decarbossilato dalla L-aminoacido-decarbossilasi a dopamina, la quale a sua volta è metabolizzata ad acido diidrossifenilacetico (DOPAC) e acido omovanillinico (HVA). L'emivita plasmatica del farmaco è breve, dall'1 a 3 ore. Come detto in precedenza, la levodopa riesce a passare attraverso la barriera ematoencefalica, ma solo circa l'1% o poco meno riesce realmente a raggiungere il sistema nervoso centrale. Per tale motivo la levodopa si associa quasi sempre ad un inibitore periferico della L-aminoacido-decarbossilasi, come la carbidopa o la benserazide. Questa interazione riduce il metabolismo della levodopa prolungandone così l'emivita e il raggiungimento a livello del SNC. Questa associazione permette di ridurre il dosaggio della levodopa con riduzione delle reazioni avverse che si verificano a livello periferico come: nausea, vomito e aritmie

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cardiache. L'escrezione della levodopa avviene per via urinaria e fecale. Circa 24 ore dopo l'assunzione della levodopa per via orale, la maggior parte di essi si trova nelle urine come acido DOPAC e HVA, solo una piccola parte viene eliminata con le feci strutturalmente non modificata. La levodopa è considerata il farmaco principale per la terapia del morbo di Parkinson, al tal proposito ci sono opinioni contrastanti sul tempo più opportuno per introdurla nella terapia. Numerosi pazienti rispondono molto bene alla terapia, ma con il suo prolungamento nel tempo l'effetto terapeutico tende a diminuire ed iniziano a comparire reazioni avverse. I primi sintomi che si verificano durante la malattia sono ben controllati dal farmaco. La terapia, in soggetti affetti da PD, dovrebbe iniziare con basse concentrazioni di dose e aumentare gradualmente nel tempo, fino ad arrivare ad una dose capace di controllare la mobilità in assenza di reazioni avverse. La dose iniziale di levodopa/carbidopa (rapporto 1:4) è 25mg di carbidopa e 100mg di levodopa tre volte al giorno per via orale, la stessa terapia può essere attuata con la combinazione di levodopa/benserazide (rapporto 1:4). Sono state introdotte delle formulazioni farmaceutiche che permettono il lento rilascio delle molecole, in modo tale da ridurre la frequenza di somministrazione. La levodopa nella terapia a lungo termine presenta delle reazioni avverse, le più importanti sono le fluttuazioni motorie, le discinesie (eccessivi ed abnormi movimenti involontari) e i disturbi neuropsichiatrici. Si è visto che dopo 10 anni di trattamento, circa il 90% dei pazienti presenta fluttuazioni motorie "fenomeno on/off"; lo stato motorio del paziente passa velocemente da una risposta terapeutica positiva, "periodo on", ad una assenza o peggioramento dello stato motorio "periodo off". Le fluttuazioni motorie possono essere correlate alla durata d'azione del farmaco o fenomeno di fine dose. La causa delle reazioni avverse non è nota, ma probabilmente si pensa siano dovute alle variazioni ematiche e cerebrali dei livelli di levodopa. I disturbi neuropsichiatrici comprendono: confusione, agitazione, allucinazioni, depressione mentale. Queste reazioni avverse possono essere correlate ad un'attivazione dei recettori dopaminergici non striatali [43].

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Figura 9: Meccanismo della Levodopa nel Parkinson

2.4.2 Agonisti dopaminergici

I pazienti affetti dal morbo di Parkinson presentano una inabilità degli enzimi responsabili della sintesi della DA, infatti i farmaci che agiscono direttamente sui recettori dopaminergici possono esplicare un effetto terapeutico che si somma a quello della levodopa. Gli agonisti dopaminergici, rispetto alla levodopa, non richiedono nessuna trasformazione enzimatica per la formazione di metaboliti attivi e non competono con altre sostanze per l'assorbimento o per l'attraversamento della barriera ematoencefalica. Alcuni farmaci attivi su recettori dopaminergici sembrano causare minori effetti collaterali rispetto al levodopa. Ad oggi sono disponibili diversi agonisti dopaminergici con attività antiparkinsoniana, sono: bromocriptina e pergolide entrambe derivate dalla segale cornuta, pramipexolo e ropinirolo entrambi più recenti ed approvati dalla FDA (Food and Drug Administaration). Quindi in soggetti affetti da morbo di Parkinson può essere introdotta una terapia con bassa dose di levodopa in associazione con carbidopa e successivamente aggiungere alla terapia un antagonista dopaminergico. La dose dell'agonista dopaminergico va aumentata gradualmente in base alla risposta terapeutica. Gli agonisti dopaminergici possono essere somministrati anche a pazienti in cui si verifica la resistenza alla levodopa. Bromocriptina e pergolide, come sopra citato, sono derivati semisintetici della segale cornuta e sono stati i primi agonisti dopaminergici ad essere utilizzati per la terapia del

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morbo di Parkinson. La bromocriptina è un agonista dei recettori dopaminergici di tipo D2 ed è un parziale agonista dei recettori D1. Viene assorbito a livello gastrointestinale e raggiunge il picco nel plasma in un’ora dalla sua somministrazione; viene metabolizzata totalmente nel fegato e solo una minima parte immodificata viene escreta con le urine. Il suo tempo di emivita è di circa 6-8 ore e l’inizio del trattamento dovrebbe iniziare con un dosaggio basso (1,25mg due volte al giorno con i pasti). In seguito il dosaggio può essere aumentato in base alle condizioni del paziente fino al raggiungimento di un buon controllo motorio. Gli effetti collaterali significativi sono: nausea, disturbi a carico del sistema nervoso centrale, disturbi neuropsichiatrici come illusioni e allucinazioni, aritmie. La pergolide è un agonista di entrambi i recettori D1 e D2, anche questo farmaco è rapidamente assorbito a livello gastrointestinale ed ha un elevato legame con le proteine plasmatiche. La sua metabolizzazione avviene a livello epatico e l’eleminazione si ha con le urine e le feci. Le dosi utilizzate nella terapia del morbo di Parkinson sono 2-3 mg al giorno suddivise in tre somministrazioni. Gli effetti collaterali sono uguali a quelli che si verificano nella bromocriptina.

Il pramipexolo è un agonista con alta affinità per il recettore D3. È efficace come monoterapia nel morbo di Parkinson di grado lieve ed è efficace anche con i pazienti con Parkinson grave. La somministrazione è per via orale ed è ben assorbito; invece è scarsamente metabolizzato ed è quasi totalmente eliminato con forma immodificata con le urine. La sua emivita è di 8-14 ore. Per quanto riguarda le reazioni avverse sono tipiche desta classe di farmaci, il pramipexolo può essere responsabile anche del disturbo del sonno. Per quanto riguarda il ropinirolo è un agonista selettivo del recettore D2, questo farmaco è completamente metabolizzatoa livello epatico. La sua emivita è di circa 6 ore, la dose iniziale è di 0,25 mg da somministrare tre volte al giorno e in base alla risposta terapeutica si può aumentare gradualmente la dose. L’indicazione terapeutica e le reazioni avvere sono uguali a quelle del pramipexolo.

I farmaci agonisti dopaminergici sono controindicati nei pazienti che hanno o che sono stati soggetti a malattie mentali, con recente infarto del miocardio o con ulcera peptica attiva. Nei pazienti con malattie vascolari periferiche, la somministrazione di agonisti dopaminergici derivati dalla segale cornuta dovrebbe essere evitata [43]

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2.4.3 Inibitori delle catecol-o-metil-transferasi

Nella categoria dei farmaci utilizzati per il morbo di Parkinson ne sono stati introdotti due: tolcapone ed entacapone, in grado di inibire la catecol-o-metil-transferasi (COMT) nel circolo periferico. Come citato precedentemente, la levodopa somministrata per via orale vi9ene rapidamente decarbossilata dalla L-amino-acido-decarbossilasi ad dopamina, responsabile della ipotensione e della nausea. Per questo motivo la levodopa è associata ad un inibitore periferico della L-aminoacido-decarbossilasi; quindi se da un lato c’è il blocco per la formazione della dopamina, dall’altro invece aumenta la quantità di levodopa che può essere metilata a 3-O-metildopa ad opera della COMT. Il tolcapone ed entacapone bloccano l’attività della COMT nella circolazione periferica riducendo la trasformazione del levodopa in 3-O-metildopa, questo induce l’aumento dell’emivita della levodopa che può così raggiungere il cervello. Il tolcapone è somministrato per via orale, è assorbito rapidamente a livello del tratto gastrointestinale ed ha un legame con le proteine plasmatiche altissimo (99%). A livello epatico è glucuronoconiugato ed eliminato in gran parte con le urine e in minor quantità con le feci. Anche se ha un emivita bassa, circa 2 ore, il suo effetto è molto prolungato nel tempo. La dose terapeutica consigliata è di 100 mg tre volte al giorno per via orale. Somministrando il tolcapone con associazione a levodopa/carbidopa, il tolcapone aumenta biodisponibilità della levodopa di circa 2 volte. Per quanto riguaqrda le reazioni avverse sono simili a quelle osservate nella somministrazione di levodopa/carbidopa; si hanno nausea, dolori addominali, discinesie e allucinazioni. La controindicazione più grave è il rischio di una insufficienza epatica acuta potenzialmente letale, per questo il farmaco è attualmente ritirato dal commercio. Il farmaco entacapone è metabolizzato completamente a livello epatico, la maggior parte di esso è eliminato con la bile e una piccola parte con le urine; la sua emivita è di circa 2 ore. Il farmaco è sempre somministrato in associazione con levodopa/carbidopa nella terapia del morbo di Parkinson. La dose consigliata è di 200 mg da somministrare contemporaneamente all levodopa/carbidopa e le reazioni avvere sono simili a quelle osservate per i due farmaci in associazione, se compare diarrea è consigliabile sospendere il farmaco [43].

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2.4.4 Inibitori delle monoaminossidasi

Sono presenti due tipi di monoaminossidasi (MAO): le monoaminossidasi A (MAO-A) che metabolizzano la noradrenalina e la serotonina e la monoaminossidasi B (MAO-B) che metabolizza la dopamina. La selegilina,a basse dosi, è un inibitore specifico della MAO-B; invece a dosi molto più alte può inibire anche MAO-A. Nei pazienti affetti da morbo di Parkinson il farmaco viene somministrato per via orale con dosaggio di 5 mg due volte al giorno. L’effetto terapeutico è visibile dopo 1 ora dalla somministrazione, ma la sua durata è di 1-3 giorni. Il farmaco viene metabolizzato dal fegato a n-desmetilselegilina, amfetamina e metamfetamina; per la presenza di tali metaboliti può indurre disturbi del sonno e ansia. Solitamente è somministrato in associazione con levodopa/carbidopa o lovedopa/benserazide negli stadi avanzati della patologia e in pazienti con fluttuazioni motorie. La selegilina è generalmente ben tollerata dai pazienti. Si è ipotizzato che questo farmaco possa indurre una condizione neuroprotettiva ritardando il metabolismo della levodopa nello striato, potrebbbe ridurre lo stress ossidativo [43].

2.4.5 Anticolinergici

Nel morbo di Parkinson sono utilizzati gli antagonisti dei recettori muscarinici dell’acetilcolina, anche se gli effetti sulla sintomologia sono modesti. I farmaci utilizzati che rientrano in questa categoria sono: benzatropina,orfenadrina, prociclidina, biperidene e triesifenidile. Di solito sono utilizzati nelle prime fasi del morbo di Parkinson quando il tremore è il sintomo predominante; questi antagonisti infatti possono migliorare la scialorrea (ipersalivazione) che spesso accompagna la malattia, mentre hanno scarso effetto sulla bradicinesia. Provocano numerose controindicazioni a causa delle loro proprietà anticolinergiche: sedazione, confusione mentale, allucinazioni e i disturbi dell’umore sono tra le più frequenti [43].

2.4.6 Amantadina

L’amantadina è un farmaco antivirale utilizzato nei pazienti affetti dal morbo di Parkinson. Il suo meccanismo d’azione non è ancora ben chiaro, ma sembra abbia un ruolo

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nell’attività antimuscarinica e nella capacità del rilascio e captazione della dopamina. Comunque questo farmaco sembra possedere una scarsa efficacia nel ridurre i sintomi del morbo di Parkinson. L’amantadina è consigliata con un dosaggio di 100 mg due volte al giorno, di solito è ben tollerata; le reazioni avverse che si verificano sono irritabilità, insonnia, allucinazioni, confusione mentale [43, 44].

2.5 MODELLI SPERIMENTALI NELLO STUDIO DEL PARKINSON

Nonostante siano trascorsi quasi 50 anni da quando il deficit nigrostriatale di dopamina venne identificato come l’alterazione neurochimica peculiare del PD, l’eziologia di questa malattia presenta ancora degli aspetti da chiarire e risulta difficile lo sviluppo di un modello sperimentale per studiare la patologia.

2.5.1 Modelli in vitro

I modelli sperimentali in vitro di PD hanno permesso la caratterizzazione dei probabili meccanismi cellulari coinvolti nella sviluppo della patologia. La maggior parte degli studi in vitro sfrutta neurotossine specifiche come l’ 1-metil-4-fenilpiridinio (MPP+) e la 6- idrossidopamina (6-OHDA). Tali composti non possono essere somministrati per via sistemica in modelli animali, data l’impossibilità di oltrepassare la barriera emato-encefalica, ma risultano molto utili negli studi condotti su colture neuronali. Colture primarie di neuroni mesencefalici ottenuti da feti di ratto e linee cellulari derivanti da neuroni dopaminergici (SH-SY5Y umane e PC12 murine) sono le cellule maggiormente utilizzate per lo studio dei meccanismi coinvolti nella degenerazione dei neuroni dopaminergici e per lo screening di nuovi agenti farmacologici. È possibile, inoltre, modificare geneticamente le cellule mediante la transfezione di specifici geni di interesse ed in questo modo si possono analizzare conseguenze strutturali, biochimiche e funzionali dell’espressione di geni a livello delle singole cellule. Nello studio del PD sono stati sviluppati diversi sistemi cellulari per valutare le conseguenze dell’espressione in vitro dell’ α-sinucleina e della parkina. I modelli di PD che utilizzano le colture cellulari offrono il vantaggio di una semplice reperibilità, una elevata riproducibilità e la possibilità

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di studiare meccanismi a livello cellulare e molecolare; i tempi sperimentali sono notevolmente ridotti e ciò permette lo screening di un gran numero di potenziali agenti neuroprotettivi. Tuttavia nei modelli in vitro è difficile mimare le complesse interazioni che avvengono in vivo tra le diverse tipologie cellulari [45].

2.5.2 Modelli in vivo

Per definizione un modello animale dovrebbe riuscire a riprodurre le diverse caratteristiche della patologia umana, nel caso particolare del PD sono diverse le peculiarità richieste per una diretta corrispondenza con ciò che accade nell’uomo. È necessario, ad esempio, che i neuroni dopaminergici siano normali alla nascita e subiscano una selettiva e graduale perdita nel corso dell’invecchiamento dell’animale. Il modello animale dovrebbe possedere i deficit motori che rappresentano i sintomi tipici del PD, quali bradicinesia, rigidità e tremore a riposo. Inoltre, esso dovrebbe mostrare lo sviluppo intracellulare dei caratteristici corpi di Lewy. Se si dovesse trattare di un modello genetico, dovrebbe essere basato su una singola mutazione in modo tale da facilitare la trasmissione. In ultimo, il modello dovrebbe svilupparsi in breve tempo, in generale pochi mesi, dimostrandosi così un rapido ed economico screening per agenti terapeutici [46]. Sulla base delle tecniche impiegate per riprodurre le alterazioni anatomo-patologiche tipiche della malattia, i modelli animali di PD si possono dividere fondamentalmente in due categorie: farmacologici e transgenici. I modelli farmacologici sono di gran lunga quelli più utilizzati, essi cercano di riprodurre la lesione tipica del PD, la degenerazione dei neuroni dopaminergici della SNpc, indotta dalla somministrazione di neurotossine specifiche per via sistemica o locale. La maggior parte di questi modelli impiega roditori, fondamentalmente per ragioni di costi.

2.5.3 Modelli farmacologici

2.5.3.1 6-idrossidopamina (6-OHDA)

La 6-idrossidopamina (6-OHDA) è il primo agente impiegato in un modello di PD ed è in assoluto il più utilizzato. La 6-OHDA è una neurotossina specifica per i neuroni

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dopaminergici che si accumula selettivamente in essi e ne causa la morte attraverso l’induzione di stress ossidativo ed apoptosi [47]. La 6-OHDA viene infusa per via stereotassica nella SNpc o nel fascicolo che contiene le proiezioni nigro-striatali, causando un rapido e quasi completo depauperamento dei neuroni dopaminergici. Per ottenere una lesione di entità minore e con un tempo maggiore per istaurarsi, la tossina può essere infusa nel corpo striato, cioè a livello delle terminazioni nigro-striatali. Il danno in questo modo avviene per via retrograda e l’evoluzione graduale della lesione permette di valutare l’efficacia di trattamenti volti a contrastare il danno ossidativo. Il modello della 6-OHDA non consente di osservare nella SN i caratteristici corpi di Lewy e spesso si creano lesioni aspecifiche in altre popolazioni neuronali, tuttavia gli animali mostrano interessanti deficit motori facilmente quantificabili.

2.5.3.2 Rotenone

Il Rotenone è un pesticida usato in agricoltura che inibisce il complesso I mitocondriale. Questo pesticida permette di riprodurre le caratteristiche della PD in animali trattati che sviluppano una lesione dopaminergica nigrostriatale e presentano una riduzione del movimento, una postura flessa e in alcuni casi rigidità; inoltre si osserva a livello citoplasmatico dei neuroni nigrostriatali la presenza di inclusioni contenenti α-sinucleina [48]. Tuttavia il Rotenone può determinare un'azione tossica anche sui neuroni GABAergici, infatti, la concentrazione di Rotenone e il grado di inibizione del complesso I risultano uniformi in tutte le aree cerebrali. Vi sono dati che indicano come la maggiore degenerazione del sistema dopaminergico sia dovuta alla particolare sensibilità di questi neuroni al blocco del complesso I mitocondriale [49]. Nel modello del Rotenone si ha inoltre un’ aumentata espressione di α-sinucleina che può diventare insolubile e dar luogo ad inclusi citoplasmatici. Tramite inibizione della catena respiratoria mitocondriale, il Rotenone produce un'inibizione del sistema UP [50]. Il modello del Rotenone è stato il primo modello sperimentale basato sull’ esposizione ad un agente ambientale in grado di determinare la formazione di inclusioni in associazione con la comparsa di danno a livello dei neuroni dopaminergici nigrostriatali. Questo modello trova attualmente un impiego diffuso nello studio delle basi molecolari della formazione di inclusi e del loro legame con i processi di morte cellulare.

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2.5.3.3 MPTP ( 1-metil 4-fenil 1,2,3,6-tetraidro-piridina)

Uno dei modelli maggiormente caratterizzati utilizza una neurotossina, l’MPTP, scoperta casualmente negli anni ’80 quando diversi tossicodipendenti californiani hanno iniziato a manifestare una severa forma di PD. L’MPTP è un potente e irreversibile inibitore del complesso I mitocondriale. Esso è una protossina e viene trasformato nel suo metabolita attivo l’MPP+ (1-metil-4-fenilpiridinio) ad opera delle MAO-B. L’MPTP viene somministrato per via sistemica nel topo e nei primati, mentre i ratti non risultano sensibili alla tossina, probabilmente per una ridotta attività cerebrale delle MAO-B. La tossicità dell’MPTP nei primati rispecchia tutte le caratteristiche cliniche del PD: tremore, rigidità, acinesia ed instabilità posturale. L’unica differenza con la patologia umana è la mancata formazione dei corpi di Lewy.

3. LE SIRTUINE

3.1 STORIA

Le Sirtuine (SIRTs) sono proteine deacetilasiche NAD+ dipendenti, rimuovono il gruppo acetilico da residui di lisina presenti su substrati proteici o su istoni mediante la presenza del cofattore NAD+ (nicotinammide adenin dinucleotide). I prodotti di questa reazione sono la nicotinammide (NAM), il substrato proteico o istonico deacetilato sui residui di lisina e la molecola 2’- O-acetil-ADP-ribosio in grado di acetilare diverse proteine istoniche e diversi fattori trascrizionali. Le SIRTs hanno ricevuto una grande attenzione sin dalla loro scoperta, quando venne loro riconosciuto un importante ruolo biochimico e molecolare nel lievito Saccharomyces cerevisae, da cui derivò il nome di Sir2 (Silent Information Regulator 2) [51]. Sir2 venne descritto come un regolatore del silenziamento genico, in grado di reprimere l’espressione di alcuni geni mediante deacetilazione, coinvolto anche nell’ allungamento della durata della vita nel lievito. Furono Gottlieb ed Esposito [52] a dimostrare che Sir2 è in grado di reprimere l’espressione di alcuni geni mediante la deacetilazione del gruppo ε-amino di residui di lisina N-terminale degli istoni. Nel 1995, due ricercatori, Brachman et al e Derbyshire et al. [53, 54] individuarono nel lievito S. cerevisae la presenza di altri quattro geni omologhi a Sir2 che chiamarono HST 1-4 (homologues of Sir2). La scoperta degli omologhi di Sir2 nel lievito e poco dopo anche

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nei batteri, nelle piante e nei mammiferi, dimostrò che Sir2 è un membro di una grande ed antica famiglia di geni che oggi noi chiamiamo “Sirtuine”.

3.2 PROPRIETA’ BIOCHIMICHE

I mammiferi possiedono sette SIRTs (SIRT 1-7), tra queste quella su cui si sono concentrati la maggior parte degli studi è la SIRT 1, il gene omologo a Sir2 ( Sir2 homolog 1). Le SIRTs sono classificate innanzitutto in base alla sequenza aminoacidica: quattro classi per gli Eurocarioti ( I-IV), più la classe U dei Procarioti. Negli Eucarioti la famiglia delle SIRTs è formata da sette proteine (SIRT 1,2,3,4,5,6 e 7), a loro volta classificate in base alla localizzazione intracellulare o in base alla loro attività. Le SIRT1 e 2 sono localizzate, con un diversa prevalenza, sia nel nucleo che nel citoplasma. Le SIRT3, 4 e 5 si trovano nei mitocondri, mentre le SIRT6 e 7 si trovano solo nel nucleo. Le SIRTs hanno tutte attività deacetilasica tranne la 4. La SIRT4 ha una attività monoribosiltransferasica, mentre la SIRT6 può avere entrambe le attività, sia monoribosiltransferasica che deacetilasica. La caratterizzazione dei meccanismi molecolari, biochimici e fisiologici coinvolti negli effetti delle SIRTs è importante non solo per meglio definire il loro ruolo fisiologico e/o fisiopatologico ma anche per l’identificazione di nuovi potenziali target farmacologici nei disordini metabolici, nel diabete, nelle patologie cardiovascolari ed in quelle neurologiche (Figura 10).

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3.3 FUNZIONI

Le SIRTs accoppiano la deacetilazione di un residuo di lisina alla idrolisi di una molecola di NAD+ tramite il trasferimento del gruppo acetile all’ADP ribosio per formare 2’-O-acetil-ADP-ribosio e nicotinamide (NAM) (Figura 11). Dal momento che questa reazione è NAD+ dipendente e il rapporto NAD+/NADH è determinato dallo stato nutrizionale della cellula, le SIRTs collegano direttamente il signaling metabolico cellulare allo stato di modificazioni post-traduzionali delle proteine. Oltre a influenzare il rapporto NAD+/NADH, questa reazione è anche regolata da uno dei suo prodotti, la nicotinamide, che è un inibitore non competitivo delle SIRTs. L’altro prodotto della reazione, il 2’-O-acetil-ADP-ribosio, sembra invece facilitare la formazione e il silenziamento dell’eterocromatina, regolare i canali ionici e modulare lo stato cellulare redox [55]. Alcune SIRTs non esibiscono una attività deacetilasica, ma agiscono come mono-ADP-ribosiltransferasi, catalizzando il trasferimento del gruppo ADP-ribosio dal NAD+ a proteine accettrici in una modificazione post-traduzionale chiamata ADP-ribosilazione. Questa reazione produce proteine mono-ADP-ribosilate e, similmente alle reazioni di deacetilazione, viene rilasciata anche la nicotinamide [56].

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Figura 11: Schematizzazione dell’azione delle SIRTs

La capacità delle SIRTs di deacetilare altre proteine bersaglio come p53, FOXO, PPARγ, HSF1, Ku70, PGC-1α e NF-KB; fattori di trascrizione con conseguenze di attivazione e inibizione sull’espressione genica [57, 58]. É stato anche dimostrato che le SIRTs regolano la biogenesi mitocondriale, oltre ad avere un ruolo indispensabile nella plasticità sinaptica, nell’apprendimento e nella memoria [59]. Sono dei potenziali bersagli terapeutici, secondo diversi studi, in varie patologie tra cui quelle neurodegenerative. La modulazione dell’attività delle sirtuine ha dimostrato di avere un impatto sulla formazione di aggregati coinvolti in disturbi neurodegenerativi tra cui: la malattia di Alzheimer, il morbo di Parkinson, la corea di Huntington, la sclerosi laterale amiotrofica e atrofia muscolare spinale e bulbare. Le sirtuine possono influenzare la progressione dei disturbi neurodegenerativi, modulando l’attività dei fattori di trascrizione e la deacetilazione delle proteine alterate dovute al misfolding proteico [60].

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4. LA SIRTUINA 1 (SIRT1)

La Sirtuina che ha avuto un maggior interesse e su cui si sono focalizzate la maggior parte delle ricerche è SIRT1. SIRT1 oltre ad essere localizzata nel nucleo, in risposta a particolari stimoli può traslocare nel citoplasma grazie ad un segnale di esportazione nucleare (NES) e ritornare nuovamente nel nucleo attraverso un segnale di localizzazione nucleare (NLS).

Dal punto di vista strutturale, la SIRT1 umana contiene il dominio catalitico altamente conservato delle SIRTs e entrambe le estensioni N- e C- terminali che si estendono per circa 240 amminoacidi. Queste estensioni fungono da piattaforme per l’interazione con proteine regolatorie e vari substrati. In totale, la SIRT1 umana è costituita da 747 amminoacidi [61].

Una delle prime funzioni di SIRT1 ad essere scoperto fu l’azione di deacetilazione istonica, da regolatori epigenetici sull’attività genetica e proteica [62] (Figura 12).

Figura 12: Struttura di SIRT1.I principali domini della SIRT1 umana. La figura schematizza l’estensione

del dominio di omologia e i vari segnali di localizzazione nucleare (NLS) e di esportazione nucleare (NES).

4.1 REGOLAZIONE DI SIRT1

La regolazione dell’ attività delle SIRTs avviene a vari livelli. Sebbene la localizzazione subcellulare ne determini in parte l’attività, è richiesta un’ulteriore regolazione: infatti, alcune mostrano il solito compartimento ma devono essere destinate a diversi substrati. Un primo livello di regolazione è quello che viene definito “regolazione attraverso l’espressione”.

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L‘espressione di SIRT1, infatti, cambia sotto diverse condizioni fisiologiche, ed è così indotta durante un basso stato energetico e repressa quando si ha un eccesso energetico. Per questo, in una situazione di restrizione calorica, si ha un aumento dell’espressione di SIRT1, mentre una dieta ricca di grassi la riduce.

L’ analisi dei promotori di SIRT1 ha rilevato siti di legame per molti fattori di trascrizione tra cui FOXO, CREB (elemento di legame in risposta all’ cAMP), CHREBP (proteina di legame in risposta ai carboidrati) e PPARs (recettore attivato coinvolto nella proliferazione dei perossisomi), suggerendo una possibile stimolazione positiva di SIRT1 da parte di questi fattori, sotto diversi stimoli.

Un secondo tipo di regolazione è quella che riguarda le modifiche post-traduzionali.

A tale proposito sono stati identificati alcuni siti di fosforilazione su SIRT1. La fosforilazione di SIRT 1, che può avvenire da parte del complesso ciclina B-CDK1, dalla proteina chinasi JunK in tre residui, e soprattutto in caso di stress ossidativo dalle chinasi DYRK1 e DYRK3, potenzia l’ attività di SIRT1, dirigendola solo su specifici target. Quindi, da ciò si deduce che possibili mutazioni in questi siti possono provocare dei disturbi alla normale progressione del ciclo cellulare.

Oltre a ciò, le SIRTs sono regolate anche attraverso la formazione di complessi con altre proteine o attraverso l’interazione con regolatori negativi o positivi.

A questo proposito, due elementi chiave nella loro regolazione sono il NAD+ e il NAM. Il NAM, è un inibitore delle SIRTs ed è prodotto da esse stesse durante la reazione di deacetilazione, mentre il NAD+ è il cofattore essenziale per la reazione enzimatica da esse catalizzata. In questo contesto, un altro elemento chiave per la loro regolazione è la Nicotinammide Monoribosiltransferasi (NAMPT), enzima che ha il compito di convertire il NAM in NAD: quindi, aumentando i livelli di NAD+ regola positivamente le SIRTs. Il NAMPT, a sua volta, è regolato positivamente dalla deplezione nutrizionale e dall’esercizio fisico, entrambe condizioni che stimolano anche la sintesi delle SIRTs. A questo proposito, sono molti gli studi che evidenziano come la restrizione calorica possa essere coinvolta nella sintesi delle SIRTs e nei processi anti-aging [63-76].

Per quanto riguarda l’esercizio fisico, invece, è importante ricordare che, quando si ha una diminuzione dello stato energetico conseguente ad uno sforzo fisico, si ha un aumento dei livelli di AMP e un abbassamento dei livelli di ATP. L’ aumento di questo rapporto AMP/ATP viene percepito dall’ enzima AMPK ( proteina chinasi attivata da AMP), sensore metabolico, coinvolto anche nella regolazione delle SIRTs. In queste condizioni metaboliche l’AMPK va ad inibire i processi anabolici e a aumentare quelli catabolici con lo scopo di ripristinare la riserva di ATP [77].

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