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Madri e padri di bambini con Anafilassi: valutazione delle differenze di genere nei sintomi dello stress post-traumatico

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Academic year: 2021

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1 Scuola di Medicina

Dipartimento di Medicina Clinica e Sperimentale

Dipartimento di Patologia Chirurgica, Medica, Molecolare e dell'Area Critica Dipartimento di Ricerca Traslazionale e delle Nuove Tecnologie in Medicina e Chirurgia

Corso di Laurea Magistrale in Medicina e Chirurgia

Tesi di Laurea

“MADRI E PADRI DI BAMBINI CON ANAFILASSI:

VALUTAZIONE DELLE DIFFERENZE DI GENERE NEI

SINTOMI DELLO STRESS POST-TRAUMATICO”

RELATORE CHIAR.MO PROF.

Diego Peroni

CANDIDATA

Annachiara Summa

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2

Alle mie nonne

E al dono più grande

da loro offerto,

la nostra famiglia.

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Indice

1. RIASSUNTO... 5

2. INTRODUZIONE ... 9

2.1 L’ ALLERGIA ALIMENTARE ... 9

2.1a Fenotipi dell’Allergia Alimentare ... 10

2.1b Diagnosi di Allergia Alimentare ... 11

2.1c Trattamento e gestione dell’Allergia Alimentare ... 19

2.2 L’ANAFILASSI ... 26

2. 2a Clinica e Diagnosi ... 27

2.2b Trattamento ... 31

2. 2c Gestione a lungo termine dell’anafilassi ... 35

2.3 IL DISTURBO POST TRAUMATICO DA STRESS ... 38

2.3a Definizione ed Epidemiologia ... 38

2.3b Clinica e Diagnosi ... 42

2.3c Fattori di Rischio ... 45

2.4 IL PTSD NEI CAREGIVERS ... 48

2.5 Il possibile disturbo da stress nei genitori di bambini con Anafilassi ... 59

3. OBIETTIVI DELLO STUDIO ... 66

4. MATERIALI E METODO ... 67

4.1 SELEZIONE DEL CAMPIONE ... 67

4.2 STRUMENTI E METODI DI VALUTAZIONE ... 68

4.2a Lo Spectrum-Project e i questionari di Spettro... 69

4.2b Il TALS-SR ... 72

4.2c La WSAS ... 74

4.3 ANALISI STATISTICHE ... 76

5. RISULTATI ... 77

5.1 DIAGNOSI DI PTSD COMPLETO O PARZIALE ... 78

5.2 CONFRONTO PTSD CON VARIABILI DEMOGRAFICHE ... 79

5.2a Correlazione PTSD e Fattore Età ... 79

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5.2c Correlazione PTSD e Professione ... 80

5.2d Correlazione PTSD e Clinica di Malattia Filiale ... 81

5.3 CONFRONTO DOMINI TALS-SR CON VARIABILI DEMOGRAFICHE ... 82

5.4 DIFFERENZA DI GENERE NEI DOMINI TALS-SR ... 82

5.5 CORRELAZIONE TALS-SR E WSAS ... 83

5.6 CORRELAZIONE GRAVITÀ DELLA MALATTIA E WSAS ... 86

5.7 DIFFERENZA DI GENERE NELLA SCALA WSAS ... 86

6. DISCUSSIONI ... 87

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1. RIASSUNTO

L’Allergia Alimentare (Food Allergy, FA) rappresenta un gruppo di reazioni avverse derivanti da una risposta immunitaria specifica - sia IgE che non IgE mediata - che si verifica in seguito all'esposizione ad un determinato alimento. Essa rappresenta la principale causa di anafilassi in età pediatrica (Duse et al., 2015). Sebbene l'anafilassi sia una condizione auto-limitante nella maggior parte dei casi, dopo il momento della gestione in acuto è difficile prevedere la gravità delle reazioni future, essenziale è pertanto la prevenzione delle recidive. È fondamentale fornire ai bambini e ai caregivers informazioni complete sulla gestione di tale disordine. La capacità dei genitori di valutare il rischio e gestire le condizioni del loro bambino dipende in gran parte dalle proprie conoscenze, attitudini e convinzioni sulla FA (Bidat, 2006).

Analogamente ad altre patologie pediatriche croniche, una diagnosi di FA nel bambino comporta una serie di cambiamenti comportamentali all’interno dell’intero nucleo familiare: essendo generalmente il bambino molto piccolo sarà il genitore ad attuare in un primo momento tutte quelle strategie di evitamento per prevenire contatti con l’allergene sensibilizzato. Indubbiamente questo comporta uno stato di ansia e/o stress nei caregivers.

Attraverso questa tesi si è voluto meglio delineare l’impatto della diagnosi di malattia allergica filiale nei caregivers, sulla scia di recenti lavori nella letteratura che hanno evidenziato tassi di prevalenza del Disturbo Post-Traumatico da Stress (PTSD) nel particolare pool di popolazione rappresentato da genitori di bambini con malattia cronica, sottolineando la natura traumatica per un genitore della malattia filiale.

Il PTSD è una condizione psicopatologica conseguente all’esposizione del soggetto a un evento traumatico di rilevante gravità oggettiva che mette (o minaccia di mettere) in pericolo di vita o di gravi lesioni il soggetto stesso o terze persone. In accordo alla recente definizione del Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM-5, APA 2013), circa le modalità di esposizione al trauma, l’evento può essere vissuto dal soggetto in prima persona, come testimone diretto di un evento riguardante altri od indirettamente, venendo a conoscenza del pericolo corso da un parente o da un amico stretto; può esser infine l’esito di ripetute esposizioni (ad esempio per motivi professionali) alle conseguenze del trauma. Dal punto di vista clinico, il PTSD è contraddistinto da un andamento tendenzialmente cronico, scarsa risposta alla terapia farmacologica e ripercussioni significative sull’adattamento lavorativo, sociale, nonché

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familiare e su altre aree del funzionamento che sfociano globalmente in un peggioramento della qualità della vita ed in un aumentato rischio di suicidio.

Fino agli anni ’90 il subire una diagnosi di malattia filiale non veniva considerato un evento traumatico, eppure pochi sono gli eventi teoricamente traumatizzanti quanto una diagnosi di malattia potenzialmente fatale del proprio/a figlio/a (Pelcovitz et al., 1996). Nonostante le crescenti prove sull’influenza delle condizioni mediche sul rischio di sviluppo del PTSD, solo a metà degli anni ’90 si iniziò a studiare sistematicamente questo rischio nei genitori di bambini con malattie croniche, e grazie a queste la Task Force del DSM-V che ha lavorato alla stesura del capitolo “Disturbi correlati a traumi e stress”, svincolando il PTSD dai disturbi d’ansia, ha aggiunto la malattia filiale nella definizione di trauma. Nelle diverse revisioni del Manuale, fino all’ultima edizione, hanno progressivamente accolto le istanze di inclusione della malattia filiale tra gli eventi annoverati come traumatici. In particolare, per quanto riguarda gli eventi vissuti da altri, mentre il DSM-IV riportava all’interno del criterio A, tra gli eventi vissuti da altri il venire a conoscenza di una malattia minacciosa per la vita del proprio bambino, il DSM-V modifica ulteriormente la classificazione di questo particolare tipo di evento e specifica nel criterio A2 e nel criterio A3, che l’evento non esperito direttamente sia una catastrofe medica

riguardante il proprio figlio, portando come esempio una condizione piuttosto peculiare, cioè un’emorragia che ne metta a rischio la vita. Appare quindi evidente come tale criterio sia stato

riformulato nel passaggio tra il vecchio e il nuovo Manuale, dove malattia minacciosa viene sostituita con catastrofe medica; il primo caso evidenzia prevalentemente il carattere di gravità oggettiva della malattia per la salute del figlio, mentre l’attuale dicitura pone l’evento in una condizione più ascrivibile all’urgenza medica che alla gravità, rimandando maggiormente ad un concetto di subitaneità della minaccia percepita. Nessuno dei due specificatori, nonostante l’evoluzione subita, fa riferimento ad un carattere di cronicità della malattia filiale come evento potenzialmente traumatico.

Per cercare di meglio definire la malattia filiale e le sue caratteristiche come evento traumatico, sono tanti gli studi condotti in merito. Notevoli sono le evidenze che un disturbo di ansia o da stress potrebbe essere presente nei genitori di bambini allergici (Akeson, Worth, & Sheikh, 2007; Manassis, 2012) in linea con la letteratura sul PTSD nei genitori di bambini che avevano effettuato un ricovero in un reparto di terapia intensiva pediatrica, o che si erano sottoposti a importanti interventi chirurgici, o che erano affetti da patologie croniche quali neoplasie, diabete e epilessia (Carmassi et al., 2017; Kazak, Boeving, Alderfer, Hwang, & Reilly, 2005; Landolt, Vollrath, Laimbacher, Gnehm, & Sennhauser, 2005; S. Manne et al., 2002).

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Lo studio riportato in questa tesi rappresenta la prima ricerca sistematica del Disturbo Post-Traumatico da Stress in genitori di bambini con anafilassi, sia nella forma completa che in quella parziale. Fine secondario dello studio è stato quello di valutare le eventuali differenze di genere, fra madre e padre, in riferimento alla malattia filiale e al PTSD ad essa connesso. Tale ricerca è stata condotta somministrando un questionario di autovalutazione ai genitori di bambini selezionati e seguiti presso l’ambulatorio di Allergologia Pediatrica della U.O. di Pediatria di Pisa, Garbagnate (MI) e Verona. Il campione dello studio si compone di 33 genitori, di cui 16 madri e 17 padri, di bambini in cui si è presentato un episodio di allergia tale da richiedere l’utilizzo di adrenalina sistemica o di franca anafilassi. La maggior parte dei bambini ha sviluppato almeno un episodio franco di anafilassi, 9 (27,3%) un solo episodio, 11 (33,3%) due o più episodi, 13 (39,4%) un episodio di allergia grave. In 13 casi è stata pertanto ritenuta opportuna la prescrizione di Adrenalina Auto Iniettante.

Previa apposizione delle risposte inerenti allo studio, tramite il questionario sono state raccolte le seguenti informazioni: data di nascita (età), sesso, livello di istruzione, occupazione, malattie associate e terapie concomitanti, altri figli e malattie associate. Successivamente il questionario presentava un pool di domande a risposta dicotomica, un esempio di questionario di spettro, il TALS-SR (Trauma and Loss Spectrum-Self Report), mediante il quale è stato possibile diagnosticare il disturbo da stress post-traumatico, completo o sottosoglia. Infine, per la valutazione dell’impatto del disturbo sulle capacità socio-lavorative del soggetto, è stata utilizzata la scala WSAS (The Work and Social Adjustment Scale).

I risultati hanno evidenziato importanti differenze di genere nelle risposte al trauma tra madri e padri, in accordo con la prevalenza del PTSD nel sesso femminile. Il PTSD è stato, infatti, ritrovato nel 25% delle madri, e prendendo in considerazione sia la diagnosi di PTSD completo che quella parziale la percentuale di madri colpite sale al 43,8%. Al contrario il disturbo non si è evidenziato in nessuno dei padri considerati. I punteggi nei diversi domini TALS-SR sono stati poi confrontati con le variabili demografiche, trovando correlazione significativa per il livello di istruzione del genitore e un alto punteggio nel dominio IV (reazione ad eventi

potenzialmente traumatici) e per la professione e alto punteggio nel dominio V (rievocazione):

elevati punteggi nei domini TALS-SR sono correlati a bassi livelli di istruzione e gradi di professione. Le differenze di genere si sono poi ritrovate in molti altri confronti. Confrontano i punteggi ottenuti nei singoli domini della scala TALS-SR tra madri e padri si denota come nelle madri siano maggiori i sintomi di rievocazione (dominio V), evitamento (dominio VI) e

comportamenti disadattativi (dominio VII) rispetto ai padri. Nella scala WSAS, la patologia

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particolare nelle attività sociali e nei rapporti con la famiglia. Infine sono stati posti in relazione i punteggi dei singoli domini TALS-SR con le varie categorie della scala WSAS: molteplici sono le correlazioni riscontrate, nel sottogruppo delle madri in numero maggiore rispetto a quello dei padri; interessante dato sul sottogruppo dei padri è la correlazione fra alti punteggi nei domini TALS-SR e la capacità lavorativa, correlazione venuta statisticamente significativa solo in questo caso.

Da questo lavoro emergono, quindi, dei risultati interessanti sia sulla natura traumatica di diagnosi di malattia allergica filiale, che sulle differenze di genere tra madri e padri in rapporto ad essa. Questo lavoro rappresenta un preliminary report, che può fungere da base a studi futuri per confermare i dati qui ottenuti, in modo da definire meglio l’impatto potenzialmente negativo di un disturbo da stress nel genitore, non solo sulla sua salute psichica, ma anche sulle sue capacità di supportare in modo ottimale come caregiver il figlio nel lungo e articolato percorso di cura che lo interessa. Essendo l’allergia alimentare diagnosticata, nella maggioranza dei casi, nei primi anni di vita è essenziale un ruolo attivo ed efficiente del genitore nelle strategie di evitamento dell’allergene e nella gestione del rischio di anafilassi del bambino. Inoltre, come confermato dal nostro lavoro e in linea con altri studi in merito, essendo la madre il caregiver primario e risentendo quindi maggiormente della natura traumatica della malattia filiale, dovrebbero esserle garantiti maggiori supporto e sostegno, durante questo percorso.

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2. INTRODUZIONE

2.1 L’ ALLERGIA ALIMENTARE

Con il termine di Allergia Alimentare (Food Allergy, FA) ci si riferisce ad un gruppo di reazioni avverse derivanti da una risposta immunitaria specifica – sia IgE che non IgE mediata – che si verifica in seguito all’esposizione ad un determinato alimento. Questa definizione non comprende, quindi, le reazioni avverse non immunomediate, come i disturbi secondari a deficit enzimatici, metabolici e intossicazioni, che vengono propriamente classificate come intolleranze alimentari (Duse et al., 2015). La FA, in particolare alle arachidi, alle noci, all’uovo e al latte, rappresenta la causa più comune di anafilassi nella comunità, per tanto rappresenta un problema clinico di significativa importanza (Muraro, Werfel, et al., 2014).

La frequenza di FA è più alta tra i bambini, stimata tra il 5 e l’8% rispetto agli adulti, tra i quali si aggira tra l’1 e il 2%; ed è più alta nell'Europa nordoccidentale rispetto ad altre regioni, l'Europa meridionale sembra avere la prevalenza più bassa. In Europa, almeno il 25% dei bambini in età scolare convive con malattie allergiche e in particolare la FA colpisce fino al 4-7% dei bambini delle scuole primarie (Muraro, Agache, et al., 2014).

Mentre l'incidenza di FA è apparsa stabile nel tempo, alcune prove suggeriscono che, invece, la prevalenza potrebbe essere in aumento. Le stime sull'incidenza effettiva e sulla prevalenza sono incerte, in quanto quando si parla di prevalenza e frequenza di FA è necessaria molta cautela a causa dell'eterogeneità tra gli studi che suggeriscono importanti differenze metodologiche e diagnostiche all'interno e tra le regioni geografiche dell'Europa.

Gli studi futuri devono essere rigorosamente progettati utilizzando una metodologia standardizzata che includa come test diagnostici l’Oral Food Challenge blinded “a doppio cieco”, ritenuto il gold standard nella diagnosi di FA, per limitare potenziali fonti di errori che potrebbero indebolire le stime di FA.

In definitiva l'incidenza di FA sembra stabile nel tempo, la prevalenza potrebbe aumentare, riflettendo probabilmente cambiamenti nelle pratiche diagnostiche, di crescente perfezionamento (Bright I. Nwaru et al., 2013).

La FA è da considerarsi prevalentemente una malattia del mondo sviluppato: il numero maggiore dei pazienti allergici si registra soprattutto nei Paesi più ricchi, nella fetta di popolazione più colta e nelle famiglie con meno figli. Tra le cause del boom di allergia in questa aliquota di popolazione devono essere considerate cause lo stile di vita, il tipo di alimentazione,

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il grado di igiene e la modalità di svezzamento. Una teoria ancora molto seguita suggerisce che gli alimenti troppo raffinati, l’eccessiva cura della pulizia, il minor contatto con ambienti naturali fa sì che il sistema immunitario dei bambini sia meno stimolato a produrre gli anticorpi in grado di proteggere loro dalle allergie. Secondo un recente studio pubblicato sul Journal of Allergy and Clinical Immunology esiste un ultimo fattore in grado di influenzare l’andamento delle malattie allergiche: la disuguaglianza (Dello Iacono, Martelli, & Miniello, 2015).

2.1a Fenotipi dell’Allergia Alimentare

Secondo la definizione di Allergia Alimentare sopra data, in questa categoria rientrano dunque le seguenti sindromi:

- Reazioni IgE-mediate, con esordio acuto dei sintomi;

- Reazioni non IgE-mediate, con esordio ritardato dei sintomi; - Reazioni miste, con esordio immediato o ritardato dei sintomi.

Alla base di questo polimorfismo clinico vi sono diversi meccanismi immunomediati innescati dalla reazione allergica.

I sintomi della FA sono classicamente distinti in:

- Sintomi immediati: insorgono da pochi minuti a poche ore (in genere massimo dopo due ore) dall’ingestione dell’alimento;

- Sintomi ritardati: insorgono dopo almeno due ore dall’ingestione dell’alimento.

L’espressione clinica può variare sensibilmente da grado lieve fino a forme severe (anafilassi) e coinvolgere più organi.

I fenotipi del bambino allergico possono tra loro essere distinti non solo attraverso le manifestazioni cliniche espresse, ma anche in relazione alla varietà degli alimenti contenenti gli allergeni.

1. Fenotipi clinici di reazione allergica IgE-mediata: Orticaria-angioedema Acuto; Orticaria da contatto; Anafilassi; Anafilassi cibo-dipendete esercizio-indotta; Sindrome Orale Allergica; Ipersensibilità Immediata Gastrointestinale.

2. Fenotipi clinici di reazione allergica non IgE-mediata: Proctite/Proctocolite Allergica indotta da proteine alimentari; Enterocolite Allergica indotta da proteine Alimentari; Sindrome Enteropatica Indotta da Proteine Alimentari; Dermatite Allergica da contatto; Sindrome di Heiner.

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3. Fenotipi clinici di reazione allergica mista: Esofagite/Gastroenterite Eosinofila; Dermatite Atopica.

Esistono poi, numerose reazioni avverse ad alimenti che non coinvolgono una risposta immune e che, pertanto, non rientrano nel capitolo della FA. Esse includono i disordini metabolici (es. intolleranza al lattosio), risposte a componenti alimentari farmacologicamente attivi (es. alla caffeina), reazioni a tossine prodotte per contaminazione microbica (es. sindrome sgombroide). Infine, alcune risposte su base psicologica o neurologica, come la “food aversion” o la rinorrea causata da spezie, possono mimare una FA ma non devono essere considerate tali. Tutte queste reazioni rientrano nel capitolo delle intolleranze alimentari (Dello Iacono et al., 2015).

2.1b Diagnosi di Allergia Alimentare

La letteratura sulla diagnosi di allergia alimentare manca attualmente di un chiaro consenso unanime in merito all'accuratezza e alla sicurezza dei diversi approcci diagnostici. Oggi sono in uso le linee guida elaborate dalla European Academy of Allergy and Clinical Immunology (EAACI) per la diagnosi di Allergia Alimentare e Anafilassi.

Figura 1: Algoritmo diagnostico dell'allergia alimentare (Muraro et. al 2014)

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La presentazione clinica delle allergie alimentari coinvolge un ampio spettro di sintomi che vanno da reazioni cutanee (orticaria, angioedema, eczema, dermatite atopica), gastrointestinali (vomito, coliche, dolori addominali, diarrea, stitichezza), respiratorie (rinorrea, starnuti, tosse, dispnea), cardio-circolatorie (collasso cardiovascolare, ipotensione). Inoltre la conoscenza di età, etnia e abitudini alimentari del paziente è di fondamentale importanza così da evitare l'identificazione di allergie alimentari lì dove si descrive una sensibilizzazione senza però alcuna rilevanza clinica ad essa correlata (Muraro, Werfel, et al., 2014).

Bisogna poi descrivere la relazione temporale tra la comparsa delle reazioni e il contatto con il presunto agente allergenico, che può avvenire non soltanto tramite l’ingestione, ma anche attraverso inalazione o contatto cutaneo. Da qui un’attenta scelta dietetica, con l’esclusione degli agenti potenzialmente coinvolti, è fondamentale per stabilire la probabilità della diagnosi e suggerire se è coinvolto un meccanismo IgE-mediato o non IgE-mediato (Muraro, Werfel, et al., 2014).

In una modesta quantità di letteratura viene indicato, infatti, che il valore predittivo della storia clinica per i sintomi immediati, da solo o in combinazione con test cutanei (Skin Prick Test, SPT) o IgE sierici specifici (SIgE), varia dal 50% al 100% (Breuer et al., 2004; Niggemann, Sielaff, Beyer, Binder, & Wahn, 1999; Sampson, 2005)

Gli SPT e i SIgE in vivo per gli allergeni alimentari sono i test di prima linea per valutare la sensibilizzazione delle IgE. Entrambi sono test scientificamente validi, ma la cui standardizzazione è ancora in corso. In alcuni Paesi europei sono disponibili per SPT Profilina Naturale Purificata e Pru-P 3, ma non sono attualmente ancora approvate dall’Unione Europea (Muraro, Werfel, et al., 2014).

Gli SPT rappresentano il test diagnostico più comunemente utilizzato. Dovrebbero essere eseguiti utilizzando gli estratti allergenici commerciali standardizzati, preferendo quelli per cui sia dimostrata l’efficacia clinica e la presenza degli allergeni maggiori per i più comuni alimenti o inalanti. Qualora questi non siano disponibili o quando si presuma la perdita di allergeni rilevanti a causa delle tecniche di preparazione e/o conservazione dell’estratto (in particolare per frutta e vegetali) è possibile eseguire gli SPT con alimenti freschi, ovvero i Prick by Prick (PbP). Rispetto agli SPT, il PbP hanno una sensibilità e un valore predittivo negativo maggiore. È noto, infatti, che frutta e verdura contengono degli allergeni labili che possono perdersi durante l’allestimento degli estratti commerciali o durante la loro conservazione. Non esiste un reale limite di età per l’esecuzione degli SPT, già a partire dai primi mesi di vita è infatti

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possibile osservare la presenza di reazioni cutanee significativamente rilevanti. Anche se nei primi due anni di vita, l’esecuzione degli SPT cutanea può essere ridotta rispetto alle età successive, l’esecuzione degli SPT insieme al controllo positivo permette di interpretare correttamente l’intensità delle cutipositività (Calvani & Asero, 2015).

Gli SPT vanno eseguiti su aree di cute sana: pazienti con orticaria o dermatite atopica non devono essere testati in aree di cute affetta. Si esegue mettendo una goccia dell’estratto allergenico dell’alimento/i sulla faccia volare dell’avambraccio ad una distanza di almeno 5 cm dal polso e 3 cm dalla piega cubitale. Vi deve essere una distanza minima tra ciascuna goccia di almeno 2 cm. Oltrepassando la goccia, si punge la cute perpendicolarmente utilizzando una lancetta sterile monouso, preferibilmente metallica o plastica, con punta di 1 mm. Laddove si utilizzano aghi o lancette con punta più lunga, questi vanno inclinati di 45 gradi per poi sollevare la cute. In entrambi i casi è necessario evitare la fuoriuscita di sangue. Una sede alternativa può essere la schiena (Calvani & Asero, 2015).

La lettura dei risultati viene comunemente effettuata a 15 minuti dall’esecuzione del test, tenuto conto che una risposta positiva al test produce un pomfo da 10 a 20 minuti dall’introduzione dell’allergene. Se il test viene lasciati per più di 20 minuti la risposta all’istamina o all’allergene può diminuire o essere persa. La lettura deve poi tener conto dei controlli positivi (con istamina) e negativi (salina 0,9%). Il risultato viene espresso dal diametro medio del pomfo in mm (somma dei due diametri perpendicolari maggiore e minore/2), senza includere gli eventuali pseudopodi. Un pomfo di 3 mm di diametro più grande del controllo negativo o con area <7 mm2 è considerato positivo (Calvani & Asero, 2015). Nei lattanti e negli anziani sono considerati positivi anche diametri/aree inferiore, a causa della fisiologica minor reattività. Da considerare poi le numerose variabili quando si eseguono e interpretano SPT come il tipo di lancetta, la registrazione del diametro del pomfo, il tempo, l'età, il sesso e il sito di test. I parametri europei possono differire da quelli nordamericani (Muraro, Werfel, et al., 2014).

L’esecuzione degli SPT è controindicata in caso di mancata integrità della cute nel luogo in cui vengono eseguiti; dermografismo importante; recente assunzione di farmaci che possono interferire con la reazione, come gli antistamici anti-H1 per via orale che hanno effetto inibitorio da 2 ai 7 giorni. Gli antistamicini anti-H1 assunti per via nasale o gli antistaminici anti-H2 non sembrano avere invece un effetto inibitorio significativo, ma si consiglia in genere di non assumerli prima dell’esecuzione del test. I cortisonici assunti per via orale e per un breve periodo non interferiscono con la risposta cutanea, viceversa per i trattamenti prolungati; quelli applicati localmente, a prescindere dalla durata del trattamento, possono significativamente

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alterare il test pertanto è necessaria l’interruzione del trattamento almeno 7 giorni prima dell’esecuzione del test. Stesse raccomandazioni valgono anche per gli immunosoppressori. Non ci sono interferenze segnalate per gli anti-leucotrienici, i 2-stimolanti e la teofillina. Altri farmaci meno utilizzati in pediatria possono portare ad alterazioni delle risposte cutanee (Calvani & Asero, 2015).

Chiaramente i pazienti allergici, soprattutto se con storia di asma o anafilassi, hanno un rischio di reazione sistemica non trascurabile durante l’esecuzione degli SPT. Per questo motivo, questi devono essere sempre effettuati in ambiente medico con pronta disponibilità di personale competente a trattare reazioni allergiche sistematiche ed attrezzature adeguate. I pazienti risultati positivi al test dovrebbero rimanere nel centro per almeno 20 minuti dopo il completamento degli SPT (Calvani & Asero, 2015).

Per questi ultimi motivi solo gli operatori sanitari qualificati, in grado di interpretare i risultati e gestire le possibili reazioni avverse, dovrebbero eseguire gli SPT.

Il dosaggio delle IgE specifico (SIgE) è attualmente molto utilizzato, quelli presenti in commercio rispettano le più recenti direttive dell’OMS sugli standard delle IgE, grazie all’automazione, danno risultati molto precisi e con un ottimo coefficiente di riproducibilità. Essi permettono il dosaggio quantitativo delle IgE specifiche, con un cut-off di 0.1 KU/L. Tuttavia, per motivi ancora poco conosciuti, questi test non sempre danno risultati sovrapponibili, per cui le risposte ottenute con un test non sempre sono paragonabili a quelle ottenute con un altro test (Calvani & Asero, 2015).

La sensibilità e la specificità dei test sierici delle IgE e degli SPT variavano a seconda del cibo testato e dell'eterogeneità degli studi rispetto ai criteri di inclusione per i pazienti, al background geografico, all'età e all'etnia, nonché ai processi di reclutamento. Oggi sensibilità e specificità di alta qualità sono offerte da test per allergeni come arachidi, uova, latte, nocciola, pesce e gamberi, ma meno per soia e grano, viceversa per allergeni di altri vegetali (carota, sedano, kiwi, lupino, mais e melone) o di alimenti di derivazione animale (pollo e maiale) (Muraro, Werfel, et al., 2014).

Nelle forme di allergia non IgE-mediate, i precedenti test potrebbero però risultare negativi; infatti nella Food Related Enteropathy, sono necessari l'endoscopia e la biopsia per stabilirne la diagnosi (Dellon et al., 2013).

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La determinazione della sensibilizzazione a sospetti allergeni alimentari include anche la valutazione della reattività crociata tra allergeni alimentari o aeroallergeni. Importante è anche la determinazione dei livelli di IgE totali, utile nell'interpretazione dei risultati, poiché livelli di IgE totali molto alti possono essere associati a SPT positivi multipli o a risultati SIgE che non sono clinicamente rilevanti (Muraro, Werfel, et al., 2014).

Per l'allergia alimentare il Prick Test non è sempre raccomandato a causa della sua bassa specificità (spesso non sono in grado di distinguere tra allergia e tolleranza clinicamente rilevante), alto potenziale di reazioni irritanti e rischio di reazioni sistemiche, tranne in particolari situazioni, ad esempio il caso dell’allergia -gal (l’-gal è uno zucchero sintetizzato dall’enzima galattosil-alpha- 1,3- galattosil sintetasi, presente nei mammiferi, ma non attivo nell’uomo, la sua assenza quindi comporta un riconoscimento come non-self e la produzione di anticorpi; sensibilizzazione alla proteine -gal porta alla FA alla carne rossa).

Le linee guida EEACI non raccomandano l’utilizzo dell’Atopy Patch Test (APT), a causa della mancanza di studi randomizzati che ne mostrino i vantaggi; la recente edizione del Practice

Parameters (2014) invece afferma che sebbene l’APT non sia raccomandato nella routine della

diagnosi della FA, il suo impiego si è dimostrato utile nell’individuare i possibili alimenti responsabili nell’esofagite eosinofila (Mehl et al., 2006; Turjanmaa et al., 2006).

Lo step successivo nell’iter diagnostico generalmente consiste nella dieta per eliminazione, cioè evitare il cibo o gli alimenti sospettati di scatenare reazioni allergiche sulla base della storia clinica e dei test di allergia supplementari (SPT e SIgE) (Muraro, Werfel, et al., 2014).

La durata della dieta che esclude i cibi contenenti gli allergeni non deve superare le 2-4 settimane nel caso di sospetta malattia allergica IgE mediata, può essere più lunga per le forme non IgE-mediate (ad es. fino a 6 settimane per esofagite eosinofila). La dieta deve essere attentamente monitorata e i risultati devono essere valutati per stabilire o escludere la diagnosi, evitando così restrizioni alimentari superflue. Quando una dieta di eliminazione correttamente eseguita non migliora i sintomi, l'allergia alimentare agli alimenti eliminati è altamente improbabile (Muraro, Werfel, et al., 2014).

Alla fase di evitamento seguirà una reintroduzione pianificata degli alimenti eliminati e qualora non ci sia il rischio di una reazione grave, questa può avvenire anche a casa (Muraro, Werfel, et al., 2014).

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Quando la storia clinica è suggestiva, il quadro clinico appare grava (anafilassi) o certamente correlato all’ingestione dell’alimento e la dieta di eliminazione porta alla regressione del quadro, il riscontro di una sensibilizzazione allergica verso quell’alimento viene ritenuto sufficiente alla diagnosi. In tutti gli altri casi, dato che la sensibilità e la specificità dei test allergologici non è assoluta, è necessario per avere una maggiore certezza ricorrere al Test di Provocazione Orale (Oral Food Challange, OFC) sotto controllo medico. Questi test vengono proposti non solo nel momento della diagnosi, ma anche successivamente nel monitoraggio e nella possibile induzione di tolleranza orale all’alimento allergenico (Muraro, Werfel, et al., 2014).

Esiste la forma di OFC detta “open”, dove una reazione obiettivabile è sufficiente per porre diagnosi di allergia alimentare, e la forma “blinded”, singola o a doppio cieco. La forma “blinded” a doppio cieco (DBPCFC) è considerata il test diagnostico gold standard per la FA, è però un esame dispendioso sia in termini di risorse economiche che di tempo, in quanto richiede anche un controllo con placebo, quindi non sempre viene effettuato. Trova sicuramente utilizzo nei pazienti con eczema atopico associati a sintomi psicologici soggettivi o sospetti, in quanto ha validità superiore rispetto le altre forme di OFC (Muraro, Werfel, et al., 2014). Nell’esame il cibo deve essere nascosto per gusto, odore, consistenza e aspetto, il placebo e il cibo attivo (cioè contenente i potenziali allergeni) dovrebbero quindi essere indistinguibili l'uno dall'altro da un punto di vista sensoriale. Al fine di evitare reazioni gravi, i pazienti ricevono il cibo in dosi titolate, spesso con incrementi della dose mezzo-logaritmica, a intervalli prestabiliti. Per molti alimenti come latte vaccino, uova di gallina, arachidi o noci, la dose varia da 3 mg a 3 g di proteine alimentari che sembrano sufficienti nella pratica clinica (Muraro, Werfel, et al., 2014). Sicuramente un OFC negativo può essere utile come primo passo per escludere la FA (Sampson et al., 2012).

La prova di solito viene interrotta se vengono osservate reazioni cliniche obiettive o se l'ultima dose viene assunta senza sintomi clinici. Chiaramente importante è la valutazione del timing di comparsa delle varie possibili reazioni cliniche: si parla di reazioni immediate quando queste compaiono entro 2 ore dall'ultima assunzione di cibo, sono considerate ritardate, come l'eczema atopico, quelle che invece si presentano anche parecchie ore o giorni dopo. Fra le reazioni più comuni annoveriamo l’orticaria e l’angioedema, ma anche il coinvolgimento del sistema gastrointestinale, respiratorio o cardiovascolare è comune. Qualora vi sia un rischio consistente di reazione allergica grave l’OFC dovrebbe essere effettuato lì dove è disponibile una terapia intensiva (Muraro, Werfel, et al., 2014).

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Diverso è invece l’iter diagnostico nelle forme di allergia non IgE – mediate con coinvolgimento gastro-intestinale. Fra le più comuni di queste forme si ricordano l’enterocolite indotta da proteine alimentari (FPIES), la proctocolite e l'enteropatia presenti nei neonati. In queste forme i test cutanei e il dosaggio sierico delle IgE sono negativi e la diagnosi si basa sulla raccolta anamnestica e la clinica, dieta per l'eliminazione fino a 3 settimane e OFC appositamente studiati. L'endoscopia con biopsie potrebbe essere utile per confermare l'infiammazione intestinale.

Un’altra forma non IgE-mediata molto comune in tutte le fasce di età è l'esofagite eosinofila (EoE), definita come una malattia esofagea cronica, immune/antigene-mediata, caratterizzata clinicamente da sintomi correlati alla disfunzione esofagea e istologicamente dall'infiammazione predominante eosinofila. I pazienti adulti presentano per lo più disfagia, meno frequentemente associata a dolore retrosternale e sensazione di permanenza del bolo alimentare; la presentazione sintomatica nei bambini è invece molto più variabile e include incapacità di crescita, vomito, rigurgito, dolore toracico e addominale. L'esofagite eosinofila viene diagnosticata mediante endoscopia e biopsie superiori. Le biopsie devono essere eseguite quando il paziente è stato trattato per almeno 6 settimane con inibitore di pompa protonica a dose standard per escludere la malattia da reflusso gastroesofageo (GERD). Devono essere esclusi altri disordini associati a eosinofilia esofagea come il Morbo di Crohn, la Malattia Celiaca, l'Acalasia o la Gastroenterite Eosinofila. Una stretta collaborazione tra gastroenterologi e allergologi è essenziale per la gestione di questi pazienti (Muraro, Werfel, et al., 2014; Straumann et al., 2012)

Nuovi promettenti approcci diagnostici sono offerti dalla biologia molecolare.

Nei test molecolari (Component-Resolved Diagnostic Tests, CRD), vengono quantificate le IgE misurate contro singole molecole allergeniche di alimenti, viene così migliorata la specificità del test delle IgE sieriche. Questo può essere eseguito sia in formati di test singoli o in un Microarray, testando contemporaneamente una gamma di allergeni purificati. La piena utilità dei test molecolari la si coglie pienamente tenendo in considerazione che la stragrande maggioranza degli alimenti contiene diversi allergeni, alcuni allergeni sono specifici mentre altri sono omologhi ad allergeni di fonti diverse e quindi potenzialmente cross-reagenti, gli allergeni presenti in un certo alimento possono poi presentare caratteristiche chimico-fisiche diverse con ripercussioni cliniche e prognostiche diverse ( ad es. allergeni gastro/termolabili provocheranno sintomi locali orali e solo se consumati crudi mentre quelli

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gastro/termoresistenti possono essere causa di sintomi sistemici in quando raggiungono l’intestino in forma immodificata). Ad oggi i CRD sono disponibili solo per alcuni allergeni:

- per l'allergia alle arachidi, la determinazione del fattore per l'allergene maggiore, Ara h 2, ha mostrato una sensibilità del 100% e una specificità del 70-80% in due studi recenti (Eller & Bindslev-Jensen, 2013; Glaumann et al., 2012);

- l’estremamente complessa sensibilizzazione alle proteine del frumento (omega-5-gliadina) viene, con questi test, in parte chiarita, mostrando grande rilevanza diagnostica e predicendo la possibile evoluzione dell’allergia al frumento dell’infanzia in anafilassi da sforzo fisico nell’adulto (Morita et al., 2009);

- nella determinazione di rGly m 4 per l'allergia al latte di soia in pazienti sensibilizzati alla betulla (Berneder, Bublin, Hoffmann-Sommergruber, Hawranek, & Lang, 2013); - per alcuni frutti (ad esempio, mela, pesca, kiwi e melone), verdure (ad es. Carote e

sedano), noci e arachidi, soia, pesce e gamberetti, sono disponibili anche CRD e offrono una visione migliore dei modelli di sensibilizzazione (Eller & Bindslev-Jensen, 2013); - nell’allergia al latice di gomma, per la quale sono stati descritti ben 50 allergeni diversi

e i CRD si sono rivelati utili nell’individuare i pazienti monosensibili alla profilina, che non necessitano del percorso latex-free data l’assenza di questa proteina nei prodotti finiti di latice;

- per allergie all’uovo o al latte (Calvani & Asero, 2015).

Nella diagnosi di allergia al latte vaccino, alle uova e alle arachidi (Glaumann et al., 2012; Rubio et al., 2011; Sato et al., 2010)e nella diagnosi delle sindromi alimentari polliniche sono stati applicati i test di attivazione dei basofili (BAT) (Ebo et al., 2005; Erdmann, Heussen, Moll-Slodowy, Merk, & Sachs, 2003).

Il BAT ha mostrato specificità e valore predittivo negativo maggiori rispetto a SPT e SIgE. Tuttavia, il BAT richiede un'impostazione di laboratorio specializzata e mancano ampi studi clinici sulle sue prestazioni diagnostiche. Pertanto, l'uso di questo promettente test è ancora limitato agli scopi di ricerca sull'allergia alimentare (Muraro, Werfel, et al., 2014).

Esiste poi un certo numero di costosi approcci diagnostici alternativi che vengono utilizzati come test complementari nei casi di sospetta FA. Esempi sono la biorisonanza, la chinesiologia, l'iridologia, l'analisi dei capelli, il test citotossico e la determinazione di IgG e IgG4. Questi test non sono attualmente validati e non possono essere raccomandati nella diagnosi di FA (Benson

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& Arkins, 1976; Sethi et al., 1987): le misurazioni di IgG non possono essere correlate a nessun sintomo o malattia clinica, sicuramente però livelli di IgG4 specifici per il cibo indicano che l'individuo atopico è stato ripetutamente esposto a dosi elevate di componenti alimentari, che vengono riconosciute come proteine estranee dal sistema immunitario. Tuttora EAACI raccomanda di non utilizzare questi test (Stapel et al., 2008).

2.1c Trattamento e gestione dell’Allergia Alimentare

▪ La formazione

Essendo la FA l'innesco più comune di anafilassi nella comunità è essenziale fornire ai bambini e ai caregivers informazioni complete sulla gestione di tale disordine (Muraro, Agache, et al., 2014). La capacità dei genitori di valutare il rischio e gestire le condizioni del loro bambino dipende in gran parte dalle proprie conoscenze, attitudini e convinzioni sulla FA (Bidat, 2006).

I pazienti a rischio di anafilassi pongono problemi di gestione anche all’interno della comunità, dalla necessità di interagire con i terzi che forniscono il cibo (ad es. insegnanti scolastici e personale del ristorante), all'educazione degli individui a rischio e delle loro famiglie, i loro coetanei, il personale scolastico e gli insegnanti (Novembre et al., 1998). Le informazioni riguarderanno l'eliminazione degli allergeni alimentari e il tempestivo riconoscimento e gestione delle reazioni allergiche.

L'anafilassi si presenta spesso tra le mura domestiche, per questo oggi l’educazione è principalmente mirata alla gestione dell’evento in questi luoghi, trascurando invece la prevenzione all’esposizione nella comunità, nonostante esista anche in questo contesto un rischio significativo (Eigenmann & Zamora, 2002). La sede più comune di anafilassi nella comunità è la scuola materna, dove si verificano circa il 16-22% delle reazioni (Novembre et al., 1998; Young, Munoz-Furlong, & Sicherer, 2009). In un sondaggio condotto nel Regno Unito, il 61% delle scuole aveva almeno un bambino a rischio di anafilassi (Allen, Hill, & Heine, 2006). Si dovrebbe per tanto dare pari importanza alla protezione dei bambini contro le reazioni nella comunità e nella casa.

Quando i bambini raggiungono l'adolescenza, iniziano a fare scelte alimentari in autonomia e fuori casa assumendosi la responsabilità di portare i loro farmaci d'emergenza. Questo coincide

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con il tempo della vita in cui le reazioni gravi e le morti dovute all'anafilassi diventano più comuni (Muraro, Agache, et al., 2014).

Il primo principio della formazione è sicuramente la corretta diagnosi dell'allergia da anamnesi clinica, IgE siero-specifiche e prick test con l’individuazione dei principali alimenti innescanti che dovranno essere quindi evitati (de Silva et al., 2014; Soares-Weiser et al., 2014).

Di fondamentale importanza è poi la presentazione di un piano di gestione personalizzato (Personalized Emergency Management Plan, PEMP), incluso quello per i casi di emergenza,

che dovrebbe essere rilasciato come parte del pacchetto educativo globale offerto ai pazienti e ai caregivers (familiari e assistenti sanitari), comprendendo anche un preciso programma di follow-up. La personalizzazione del piano è essenziale poiché si tiene in conto delle numerose variabili che possono influenzare l'identificazione e il trattamento delle reazioni allergiche: età del paziente, alfabetizzazione del paziente e della famiglia, tipo di allergia alimentare, malattia concomitante, posizione geografica e accesso al supporto medico. L’uso di piani di gestione delle emergenze personalizzati completi è associato a una diminuzione della frequenza di gravi reazioni a seguito della loro attuazione (Clark & Ewan, 2008; Kapoor et al., 2004; Knibb & Semper, 2013).

La fornitura di dispositivi di Adrenalina Auto Iniettabile (AAI) a pazienti a rischio di anafilassi è una parte essenziale della PEMP completa. Vi sono però alcuni rapporti allarmisti sull'uso effettivo di AAI, rispetto alla loro prescrizione: nel Regno Unito, in uno studio condotto su bambini provenienti da 14 cliniche solo il 16,7% ha utilizzato l'AAI prescritto durante l'anafilassi 40 Inoltre si registra un calo delle prescrizioni negli adolescenti: sebbene l'autoiniettore fosse indicato nel 3,0%, solo lo 0,09% degli adolescenti possedeva effettivamente un dispositivo (Flokstra-de Blok et al., 2011)

Questi dati sottolineano l'importanza della formazione ripetuta e della valutazione delle conoscenze su come e quando utilizzare i dispositivi AAI (Dhami et al., 2014). L’educazione svolge, quindi anche per questo aspetto un ruolo fondamentale: la dimostrazione pratica preliminare, la consultazione con un allergologo e un medico generale, l’acquisizione di un empowerment da parte dei professionisti sanitari per gestire una grave reazione allergica, sono tuti fattori che aumentano la fiducia nell’utilizzo dei dispositivi AAI (Arkwright & Farragher, 2006; Kim, Sinacore, & Pongracic, 2005)

Esistono diverse strategie di utilizzo anche per gli Antistaminici Anti-H1, ma la prova di una loro efficacia è molto limitata in questo contesto (de Silva et al., 2014). I dati sul trattamento farmacologico sono limitati agli Antistaminici utilizzati per alleviare sintomi acuti che non

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pongono pericolo di vita. Inoltre uno dei freni nell’utilizzo degli antistaminici soprattutto a scopo profilattico è la possibilità che essi mascherino i primi sintomi di anafilassi, portando quindi ad una ritardata somministrazione di adrenalina (Muraro, Werfel, et al., 2014).

In conclusione si può affermare che la capacità dei genitori di bambini con allergie alimentari di valutare il rischio e gestire le condizioni del loro bambino dipende in gran parte dalle loro conoscenze, dagli atteggiamenti, dal sostegno di familiari / amici / altri, comprese le organizzazioni di supporto. Gli infermieri e gli insegnanti delle scuole svolgono un ruolo chiave nella gestione dei giovani studenti con allergie alimentari. Per gli studenti più grandi, l'auto-gestione dovrebbe essere incoraggiata (Muraro, Agache, et al., 2014).

▪ La gestione

La gestione clinica delle allergie alimentari comprende interventi a breve termine per gestire le reazioni acute e le strategie a lungo termine per minimizzare il rischio di ulteriori reazioni. Quest'ultimo scopo viene raggiunto principalmente attraverso la modifica dietetica, l'educazione e gli approcci comportamentali per evitare gli allergeni, e le strategie di gestione farmacologica (Muraro, Werfel, et al., 2014).

La maggior parte degli alimenti contiene proteine che possono essere allergeniche e causare FA e, in alcuni casi, anafilassi. La valutazione del rischio di reazioni gravi è cruciale nella gestione efficace dei pazienti con FA. I rischi variano in diversi sottogruppi di pazienti, per esempio vengono considerati pazienti ad alto rischio di anafilassi coloro con episodio di anafilassi precedente o asma grave (Muraro, Werfel, et al., 2014).

Quando si affronta l’argomento delle restrizioni dietetiche si deve tenere presente l’adattamento della dieta priva degli alimenti allergenici alle specifiche esigenze allergiche e nutrizionali dell'individuo, soprattutto nel paziente pediatrico. Per questo motivo un'elusione estesa a lungo termine deve essere attentamente monitorata poiché può comportare compromessi nutrizionali e impatti negativi sulla qualità della vita del bambino in crescita (Muraro, Werfel, et al., 2014). Per i bambini allattati al seno che soffrono di sintomi dovuti all'assunzione di allergeni alimentari da parte della madre, la madre deve eliminare gli alimenti in questione, la dieta così condotta deve essere revisionata da un dietista e, nel caso in cui siano stati eliminati latte vaccino e suoi derivati, ricevere un supplemento di calcio (Muraro, Werfel, et al., 2014).

Benché la dieta di eliminazione sia attualmente ancora considerata il gold-standard nel trattamento della FA, negli anni più recenti si è andata affermando l’ipotesi che la

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somministrazione continua di un alimento piuttosto che il suo completo evitamento, possa facilitare l’acquisizione ed il mantenimento della tolleranza (Terracciano & Martelli, 2015). Viene, pertanto definita come desensibilizzazione orale per alimenti (DOPA) la regolare somministrazione di piccole dosi di allergene attraverso la via orale in quantità progressivamente in incremento, in bambini affetti da FA IgE-mediata, allo scopo di indurre desensibilizzazione e poi, nel tempo, favorire la tolleranza verso l’alimento.

Tale forma di Immunoterapia Orale può essere effettuata in due modalità differenti: - via orale propriamente detta (DOPA);

- via sublinguale (SLIT) (Terracciano & Martelli, 2015).

Parlando della DOPA, questa trova indicazione in tutti i pazienti che hanno effettuato un OFC con esito positivo. Gli alimenti nei cui confronti sono stati condotti gli studi di immunoterapia orale sono, prevalentemente latte, uova e, negli USA, le arachidi. Vista la storia naturale di queste allergie, viene posto come limite inferiore di età per avviare la DOPA i 5-6 anni. Nei pazienti con uno o più episodi di anafilassi l’obiettivo della terapia è quello di liberarsi dalla schiavitù dell’AAI e della lettura costante delle etichette degli alimenti onde evitare di incorrere in gravi reazioni sistemiche. In questi soggetti ci si potrebbe accontentare del raggiungimento di dosi, che comunque, pur non consentendo la liberalizzazione della dieta, rassicurano il paziente sui rischi di anafilassi. Nei soggetti meno reattivi, con una parziale tolleranza a piccole dosi, si auspica il raggiungimento della completa liberalizzazione della dieta (Terracciano & Martelli, 2015).

Prima di procedere con l’immunoterapia orale deve essere intrapreso un colloquio con il bambino e i genitori, nel quale sono precisati tutti i possibili effetti collaterali. Devo inoltre essere sottoscritto un Consenso Informato da cui si evinca in maniera chiara, che tutt’oggi, la DOPA è considerata una pratica sperimentale. Esistono due diversi tipi di protocolli di somministrazione: uno rush (veloce), per il quale si necessita un ricovero protratto per alcuni giorni del bambino, e un secondo che prevede che le prime dosi siano somministrate in ospedale in regime di Day Hospital e che si continui poi con incrementi lenti domiciliari. Poiché la pratica risulta particolarmente rischiosa in ogni caso, si consiglia il posizionamento di una ago-cannula e l’allestimento di un carrello di emergenza. Per tutti i pazienti che si sottopongono alla DOPA deve essere stilato un Action Plan da cui si evinca in maniera chiara il comportamento da adottare in caso di reazioni lievi, moderate o gravi, lo specialista deve assicurare la sua costante reperibilità, indipendentemente dal rischio di anafilassi deve essere fornita AAI, deve essere evitato qualsiasi tipo di sforzo fisico nelle 4 ore successive all’ingestione dell’alimento ed

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evitati gli altri cofattori di rischio (digiuno protratto, malattie intercorrenti, assunzione di FANS). La dose iniziale dipende dai differenti protocolli, generalmente si inizia con una dose minima per poi raggiungere una dose finale, concordata con i genitori. La dose finale viene poi mantenuta nella dieta del paziente con una frequenza almeno bi-trisettimanale. I bambini sottoposti a DOPA sono inseriti in un follow-up con visite semestrali per almeno tre anni. Per quanto riguarda l’efficacia della DOPA, le più recenti revisioni sistematiche indicano un rischio di reazione all’alimento da 5 a 10 volte inferiore rispetto ai gruppi controllo. Gli studi sul profilo di sicurezza mostrano un aumento del rischio solo per le reazioni avverse locali, oro-faringee e/o grastrointestinali, non per quelle sistemiche. Tuttavia una percentuale variabile dal 10 al 30% dei soggetti sottoposti a DOPA non è in grado di portare a termine il protocollo a causa degli effetti collaterali (Terracciano & Martelli, 2015).

Benché sia stata dimostrata la capacità della DOPA di indurre desensibilizzazione, sono ancora pochi gli studi che chiariscono la sua possibilità di portare tolleranza a lungo termine, pertanto l'istruzione ad una dieta di eliminazione rimane il pilastro fondamentale nella gestione a lungo termine della FA (Terracciano & Martelli, 2015).

Per il trattamento farmacologico e la profilassi dell'allergia alimentare, sono incorso diversi studi.

Ad esempio, studi riguardano gli stabilizzatori di mastociti che hanno portato a risultati clinici diversi. Quattro studi randomizzati e due confronti non randomizzati hanno scoperto che gli stabilizzatori mastociti riducevano i sintomi di allergia alimentare, ma tre studi randomizzati non hanno riscontrato alcun beneficio. Nel complesso, l'evidenza non è sufficiente per raccomandare stabilizzatori dei mastociti per il trattamento profilattico dell'allergia alimentare (de Silva et al., 2014).

L’Omalizumab è, invece, un anticorpo monoclonale anti-IgE umanizzato, il cui utilizzo è oggi autorizzato per il trattamento dell'asma allergico. È stato studiato l'impatto di Omalizumab e di un altro anticorpo anti-IgE (TNX-901) sulla FA; la loro efficacia è stata dimostrata in un sottogruppo di partecipanti. Gli studi suggeriscono che i benefici clinici di Omalizumab si ottengono anche dopo poche dosi (de Silva et al., 2014).

Poiché la tolleranza può essere acquisita spontaneamente per alcuni allergeni alimentari, in particolare nei bambini, o può svilupparsi con sensibilizzazione ai pollini, vi è la stretta necessità di rivalutare regolarmente i pazienti per prevenire eliminazioni dietetiche

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inappropriate o inutilmente lunghe che possono compromettere la qualità della vita, influire sulla normale crescita e incorrere in costi sanitari non necessari. Attualmente, gli OFC sono gli unici test in grado di prevedere con sufficiente certezza il raggiungimento della tolleranza, sebbene sia stato dimostrato che bassi livelli di SIgE ad allergeni alimentari alla diagnosi e una loro diminuzione nel tempo siano correlati alla tolleranza clinica. Si raccomanda pertanto di eseguire l'OFC a intervalli regolari al fine di evitare inutili restrizioni dietetiche (Bousquet et al., 2012; Muraro, Werfel, et al., 2014).

Nei bambini con allergia al latte vaccino sono disponibili diversi sostituti, particolarmente necessari nei neonati e nei bambini piccoli per garantire un'alimentazione adeguata alla crescita e allo sviluppo. Nei bambini di età inferiore ai 6 mesi, tali formule devono soddisfare i requisiti generali per l'alimentazione completa fino all'introduzione di alimenti complementari. Questi sostituti risultano, inoltre, essere adeguati anche per le richieste dei bambini più grandi garantendo un apporto calorico soddisfacente. Recenti sono alcuni studi su alternative al latte vaccino, ma la ricerca non ha ottenuto ancora risultati soddisfacenti. Esistono prove che suggeriscono che la formula ampiamente idrolizzata (di prima scelta come alternativa al latte vaccino), la formula a base di amminoacidi e la formula a base di soia possono essere tutte utili strategie di gestione a lungo termine. Tuttavia, le formule a base di amminoacidi sono l'unica formula essere efficace nei pazienti che non rispondono a formule ampiamente idrolizzate e in sottogruppi di bambini. Questi includono neonati con importanti problemi di crescita, la cui FA potrebbe evolvere in forme di allergie con sintomi gravi o non IgE mediati come l’enterocolite (o enteropatia) da proteine alimentari o gastrite eosinofila (Koletzko et al., 2012; Niggemann et al., 1999; Niggemann et al., 2008). Le formule di soia possono essere utili a condizione che venga presa in considerazione la valutazione nutrizionale del contenuto di fitati e fitoestrogeni, e non possono essere raccomandate prima dei 6 mesi di età. Le formule idrolizzate di riso sono state recentemente introdotte sul mercato in alcuni Paesi europei e sono necessarie ulteriori ricerche per confrontare queste formule con altre derivanti dalla soia o ampiamente idrolizzate (Muraro, Werfel, et al., 2014).

Come anticipato i sostituti del latte vaccino devono soddisfare i criteri di ipoallergenicità documentata e adeguatezza nutrizionale, e per raggiungere questi requisiti, la formula dovrebbe essere studiata in pazienti con allergia sia IgE che non-IgE-mediata (Muraro et al., 2004). Dovrebbero poi essere valutati palatabilità e costi del prodotto (Muraro, Werfel, et al., 2014).

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Le formule a base di latte vaccino parzialmente idrolizzate non sono considerate sicure per i pazienti con tale allergia. Pochi studi sono ancora stati condotti sull’utilizzo di latte di altri mammiferi: il latte di capra e il latte di pecora sono molto simili alle proteine del latte vaccino e pertanto non dovrebbero essere raccomandati per i pazienti con allergia al latte vaccino; si è dimostrato che il cammello, l'asino o il latte di cavalla hanno una minore cross-reactive rispetto al latte di capra, ma non vi sono ancora prove a sufficienza che lo raccomandino nei pazienti allergici. In sintesi, si raccomanda di valutare attentamente la scelta di un sostituto del latte vaccino appropriato, equilibrando i seguenti fattori: età, tipo di allergia alimentare (IgE / non-IgE), coesistenza di sintomi gastrointestinali, storia di reazioni potenzialmente letali, esigenze nutrizionali e costi-efficacia (Muraro, Werfel, et al., 2014).

I probiotici sono stati studiati come un'altra opzione per la gestione di pazienti con allergia alimentare, in particolare nell’allergia alle proteine del latte vaccino, aggiunti alle formule o forniti come supplementi. La prova che questi abbiano un'attività preventiva o terapeutica per l'allergia alimentare è carente, e sono necessarie ulteriori ricerche (Muraro, Werfel, et al., 2014).

Nella gestione della malattia allergica non deve mancare la conoscenza di quei fattori in grado di aumentare la gravità di alcune reazioni allergiche agli alimenti. Tra i fattori maggiormente coinvolti vi sono l'esercizio fisico e i FANS, altri di rilevanza inferiore sono l'alcol, la febbre, infezione in atto (Muraro, Werfel, et al., 2014).

La gestione della FA diventa, un onere e una necessità crescenti per l’intera comunità e il sistema sanitario; pertanto dovrebbe essere adeguatamente affrontata. Ottimale sarebbe un approccio pluridisciplinare, che comprende il trattamento di episodi acuti della malattia, l'identificazione di pazienti a rischio di reazioni gravi e strategie di gestione a lungo termine al fine di ridurre al minimo le recidive di reazioni e migliorare la qualità della vita dei pazienti (Muraro, Werfel, et al., 2014).

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2.2 L’ANAFILASSI

L’anafilassi rappresenta la manifestazione più severa dell’Allergia Alimentare IgE-mediata. Essa viene definita come una reazione acuta, a rischio di vita, che si manifesta con vari meccanismi, con diverse presentazioni cliniche di differente gravità e che deriva dall’improvviso rilascio di mediatori dai mastociti e dai basofili. Più è rapido il suo sviluppo e più è alta la gravità e il pericolo di vita del paziente. È cruciale, quindi riconoscere segni e sintomi prima possibile (Dello Iacono et al., 2015).

L'esatta incidenza e prevalenza dell'anafilassi in Europa è difficile da stabilire a causa di una serie di fattori: l'attuale definizione di anafilassi è difficile da utilizzare negli studi epidemiologici, inoltre i codici internazionali di classificazione delle malattie dell'Organizzazione Mondiale della Sanità (ICD-9 e ICD-10 attuali) si concentrano sullo shock anafilattico non coprendendo l'intera gamma di situazioni cliniche scatenanti lo shock anafilattico (Simons et al., 2011). L'anafilassi ha poi un esordio acuto e inaspettato, che può variare in gravità o risolversi spontaneamente (Simons, Clark, & Camargo, 2009; Tanno, Ganem, Demoly, Toscano, & Bierrenbach, 2012). Per tutti questi motivi, è probabile che l’anafilassi sia sotto-diagnostica e sotto-segnalata, di conseguenza, è probabile che le misure epidemiologiche sottostimino il vero carico di malattia (Muraro, Roberts, et al., 2014).

I risultati di 10 studi europei suggeriscono un'incidenza di 1,5-7,9 su 100.000 individui l’anno e studi dal Regno Unito suggeriscono un aumento dei casi negli ultimi due decenni. Sulla base di tre studi europei, la prevalenza è stimata allo 0,3%, con un tasso di mortalità basso, inferiore allo 0,001% (Panesar et al., 2013).

Gli allergeni maggiormente coinvolti nella genesi dell’anafilassi sono estremamente comuni nell’ambiente, con differenze legate all'età. Gli alimenti sono principalmente coinvolti nei bambini, soprattutto lì dove è già diagnosticato asma allergico o presenti altri fattori di rischio. I farmaci e il veleno da imenotteri si ritrovano alla base del disturbo principalmente negli adulti; i farmaci, soprattutto i miorilassanti utilizzati in anestesia, sono anche la prima causa di anafilassi nei pazienti ospedalizzati. Rispetto ai maschi, le femmine adulte sono maggiormente colpite (Muraro, Roberts, et al., 2014; Panesar et al., 2013).

L'insorgenza di anafilassi può avere un profondo effetto sulla qualità della vita del malato e anche della sua famiglia, alcuni episodi infatti possono rivelarsi fatali nonostante un pronto

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intervento sul posto con l’adrenalina e il rischio di recidiva può essere elevato. Pertanto, sicuramente identificare i pazienti a maggior rischio di sviluppo di anafilassi o sue ricadute potrebbe ridurre drasticamente la morbilità; questo si è però rivelato difficile nella pratica con l’utilizzo dei marcatori demografici e clinici (Muraro, Roberts, et al., 2014).

2. 2a Clinica e Diagnosi

L’anafilassi clinicamente si manifesta con una rapida insorgenza di sintomi e segni multipli, da coinvolgimento multiorgano. È importante sottolineare nella descrizione clinica della sindrome sia il timing, rapida insorgenza, che la multidistrettualità di sintomi e segni.

I criteri di diagnosi riportati nel riquadrohanno migliorato significativamente l’identificazione dell’anafilassi, dimostrando un’eccellente sensibilità (96,7%) e una buona specificità (82,4%) per la diagnosi (Campbell et al., 2012; Harduar-Morano, Simon, Watkins, & Blackmore, 2010).

È stato stabilito che la diagnosi di anafilassi è possibile quando è soddisfatto 1 dei seguenti 3 criteri:

➢ Criterio 1. Insorgenza acuta di una sintomatologia (minuti o alcune ore), con coinvolgimento della cute, delle mucose o entrambe, più almeno 1 dei seguenti:

a. Compromissione respiratoria; b. Compromissione cardiovascolare.

➢ Criterio 2. 2 o più dei seguenti sintomi, che insorgono rapidamente dopo l’esposizione ad un allergene probabile o ad altri trigger (attivazione immunologica non IgE-mediata o non immunologica, diretta, dei mastociti):

a. Coinvolgimento cute/mucose; b. Compromissione respiratoria; c. Compromissione cardiovascolare; d. Sintomi gastrointestinali persistenti.

➢ Criterio 3. Ipotensione che insorge dopo esposizione ad allergene certo. Questi criteri, basati essenzialmente su 2 parametri, la rapida insorgenza e l’esposizione all’allergene, trovano un’eccezione nelle due forme di anafilassi esercizio indotte, quelle correlate e quelle non correlate agli alimenti (Exercise-Induced Anaphylaxis -EIA e Food-related, Exercise-Induced Anaphylaxis – FREIA). In queste forme il fattore scatenante è

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costituito dall’esercizio fisico e la reazione può avvenire sia in assenza sia a distanza di ore dall’esposizione all’allergene (Dello Iacono et al., 2015).

Figura 2: Criteri clinici di diagnosi dell'anafilassi (Muraro et al. 2014)

Più precisamente, quando si parla di coinvolgimento cutaneo ci si riferisce all’insorgenza di prurito, orticaria diffusa, angioedema o rossore (Dello Iacono et al., 2015); questa è di gran lunga la manifestazione più frequente: in una coorte di pazienti pediatrici e adulti, è emerso che nell’84% dei casi di anafilassi si descrive il coinvolgimento cutaneo (Bohlke et al., 2004; Brown, 2004), seguito da sintomi cardiovascolari nel 72% e respiratori nel 68% (Worm et al., 2012). La compromissione respiratoria viene identificata in caso di comparsa di dispnea, broncospasmo o wheezing, diminuito picco di flusso respiratorio, stridore fino a ipossiemia e arresto respiratorio (Dello Iacono et al., 2015). La comparsa di ipotensione (definita in caso di valore di Pressione Sistolica <70 mmHg da 1 mese ad 1 anno; <70mmHg + (età x 2) mmHg da 1 a 10 anni; <90 mmHg da 11 a 17 anni; decremento >30% rispetto alla pressione base per quel soggetto) in associazione a disfunzione d’organo è definita dalle linee guida come compromissione cardiovascolare (Dello Iacono et al., 2015). I sintomi respiratori si verificano più frequentemente nei bambini, mentre quelli cardiovascolari predominano negli adulti, questi chiaramente sono i sintomi che devono destare maggiormente attenzione in quanto potenzialmente letali (Dello Iacono et al., 2015). Per sintomi gastrointestinali persistenti si intende dolore addominale, vomito e diarrea (Dello Iacono et al., 2015).

Dei segni rilevabili all’esame obiettivo ve ne sono alcuni facilmente correlabili all’anafilassi, altri di più di difficile interpretazione. Fra i segni ovvi si annoverano: rapida insorgenza di rush cutaneo, angioedema, tosse, stridore, difficoltà respiratoria e cianosi; vomito profuso e

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improvviso; polso debole, aritmia, collasso o perdita di coscienza, sudorazione e pallore cutaneo; improvvisa mancanza di reattività, letargia, ipotonia e convulsioni. La presenza di altri segni rende invece più difficile l’inquadramento diagnostico: turbe comportamentali aspecifiche; torpore o sonnolenza; tachicardia; perdita del controllo degli sfinteri con perdita delle feci; aumento delle secrezioni gastrointestinali con scialorrea e rigurgito (Dello Iacono et al., 2015).

Sintomi e segni di anafilassi di solito si manifestano entro un massimo di 2 ore dall'esposizione all'allergene, con un timing specifico per ciascun allergene: generalmente dopo 30 minuti per l’allergene alimentare, 15 minuti per il veleno di insetti e 5 minuti per farmaci ad uso parenterale (Campbell et al., 2012). Nel 20% dei casi l’anafilassi si presenta come reazione bifasica, dove la seconda fase si sviluppa entro 4-12 ore dai primi sintomi (Brown, 2004; Douglas, Sukenick, Andrade, & Brown, 1994; Ellis & Day, 2007). Sebbene gli studi epidemiologi in merito non siano ancora molti, si può però affermare che nella maggioranza dei casi la seconda fase di reazione è caratterizzata da sintomi più gravi rispetto a quelli della prima e che un ritardo nella somministrazione di adrenalina può aumentare il rischio della loro comparsa (Ellis & Day, 2007; Mehr, Liew, Tey, & Tang, 2009).

Nello studio retrospettivo dell’episodio di anafilassi può essere utile il test della Triptasi Sierica

(la triptasi è un enzima rilasciato dai mastociti, insieme all’istamina e ad altre sostanze chimiche

durante una risposta allergica), la quale è elevata rispetto ai valori fisiologici (<5 g/ ml) già

entro poche ore dall’inizio della reazione anafilattica, però potrebbero esserci dei falsi negativi soprattutto nelle reazioni innescate da allergeni alimentari nei bambini. Anche evidenziare positività al Prick Test o al dosaggio sierico di IgE aspecifiche è di aiuto nella conferma della diagnosi (Heinzerling et al., 2013; Sala-Cunill et al., 2013).

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Deve poi seguire la diagnosi differenziale con tutte quelle patologie che hanno il medesimo coinvolgimento d’organo dell’anafilassi. Come precedentemente accennato segni e sintomi di anafilassi per quanto nel loro complesso suggestivi della malattia, sono però estremamente aspecifici.

La medesima sintomatologia respiratoria la si descrive anche in altri disordini come malattie infettive o sindromi ostruttive, inoltre la sola presenza di asma allergico e compromissione respiratoria senza il coinvolgimento di altri organi non si può identificare come anafilassi. Varie sono poi le patologie cardiovascolari in diagnosi differenziale: embolia polmonare, sincope vaso-vagale, infarto del miocardio, aritmia cardiaca, crisi ipertensiva e shock cardiogeno. Per i disordini endocrinologici l’età può essere utile nella distinzione con l’anafilassi, in quanto, a parte l’ipoglicemia, il resto dei quadri è più tipico dell’adulto (tireotossicosi, sindrome da carcinoide, VIPoma, feocromocitoma).

Reazioni avverse sistemiche ad alcuni farmaci o altre sostanze (oppioidi o alcol) possono mimare il quadro di anafilassi. Infine numerose sono le sindromi neuropsichiatriche che devono essere differenziate ed escluse nell’iter diagnostico: Sindrome da Iperventilazione, disturbi d’ansia, psicosi, crisi epilettica, attacco cerebro-vascolare, coma metabolico o traumatico (Muraro, Roberts, et al., 2014).

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31 2.2b Trattamento

Figura 4: Trattamento dell'anafilassi (Muraro et al. 2014)

Il trattamento prevede indubbiamente come primo approccio, l’utilizzo di adrenalina, la quale deve essere somministrata non solo a tutti i pazienti che manifestano anafilassi ma anche a chi presenta manifestazioni cliniche che potrebbero evolvere in anafilassi. Nel tentativo di incentivare l'uso dell'adrenalina, le linee guida della EAACI la collocano come primo intervento per l'anafilassi (Muraro, Roberts, et al., 2014).

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L'adrenalina esercita diversi effetti, tutti benefici: attraverso l’azione sui recettori 1 media vasocostrizione periferica e attraverso quella sui 1, con effetto inotropo e cronotropo positivo a livello cardiaco, inverte l'ipotensione e l'edema delle mucose; con l’azione sui recettori 2 impedisce la broncocostrizione e riduce il rilascio di mediatori dell'infiammazione da parte della mucosa bronchiale (Muraro, Roberts, et al., 2014). Non ci sono controindicazioni assolute al trattamento con adrenalina in un paziente con anafilassi in quanto i benefici superano di gran lunga i rischi sia nei pazienti anziani che nei pazienti con malattie cardiovascolari preesistenti (Simons et al., 2011).

L'adrenalina viene somministrata per iniezione intramuscolare nella parte esterna della coscia. Il profilo di sicurezza è eccellente, fra le reazioni avverse più comuni se ne citano alcune di tipo A (secondo la classificazione di Rawlins e Thompson sono quelle dose-dipendente, seguono il

meccanismo d’azione del farmaco, sono prevedibili quindi evitabili), come pallore, palpitazioni e cefalea transitori.

Per quanto riguarda i dosaggi viene somministrata a una dose di 0,01 ml/kg di peso corporeo fino a una dose totale massima di 0,5 ml quindi ad esempio nei pazienti pediatrici per quelli di peso compreso tra 7,5 e 25 kg sono sufficienti 0,15 mg, mentre per i pazienti di peso tra 25-30kg sono necessari 0,3 mg (Muraro et al., 2007; Muraro, Roberts, et al., 2014; Simons, Gu, Silver, & Simons, 2002). Qualora siano richieste dosi ripetute, le successive somministrazioni possono avvenire dopo almeno un intervallo di 5 minuti oppure si può trarre beneficio anche dall’infusione (Soreide, Buxrud, & Harboe, 1988). L'infusione di adrenalina deve essere somministrata solo da personale con esperienza nell'uso di vasopressori nella loro pratica clinica quotidiana, come gli anestesisti, medici specialisti e medici di terapia intensiva. I pazienti a cui viene somministrata adrenalina per via endovenosa devono essere attentamente monitorati con ECG, pulsossimetria e frequenti misurazioni non invasive di pressione arteriosa, in quanto in pazienti cardiopatici potrebbe causare ipertensione potenzialmente letale, ischemia miocardica e aritmie (Muraro, Roberts, et al., 2014). Viceversa, l'uso di adrenalina per via sottocutanea o per via inalatoria nel trattamento dell'anafilassi non è raccomandato (Simons, Gu, Johnston, & Simons, 2000; Simons & Sheikh, 2013).

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